"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

99 | luglio/agosto 2012

9788898260447

Ludovico Rebaudo
Il tema di ‘Niobe in lutto’

>>english abstract

1. Introduzione
2. Il mito
3. ‘Niobe in lutto’ nella tradizione figurata
4. Niobe in lutto: la tragedia di Eschilo e le scene vascolari
5. Conclusioni
Appendice

1. Introduzione
Fra le scene a contenuto mitico dipinte dai ceramografi suditalici del IV secolo a.C. poche hanno suscitato tanto interesse quanto le rappresentazioni di Niobe sopraffatta dal dolore dopo la morte violenta dei figli. La scelta di occuparmi ancora del tema nonostante la già abbondante bibliografia (raccolta in Todisco 2003; Sisto 2009) dipende dalla sua assoluta esemplarità. La sostanza del problema può essere riassunta così: l’iconografia di Niobe sui vasi suditalici segna una svolta rispetto alla tradizione del VI e del V secolo a.C. Le scene pongono al centro dell’attenzione non la strage dei Niobidi ad opera di Apollo e Artemide bensì il dolore di Niobe dopo la morte dei figli. Il numero delle attestazioni è relativamente alto, undici sicure e una incerta, e la situazione rappresentata è singolarmente prossima alla situazione scenica della perduta Niobe di Eschilo (o, almeno, all’idea che della tragedia si ricava dai frammenti sopravvissuti e dalle testimonianze letterarie). Di conseguenza le pitture vascolari sono state a più riprese lette come illustrazioni più o meno fedeli della tragedia (Trendall 1972; Keuls 1978; Kossatz Deissmann 1978, pp. 75-88; Fracchia 1984; Fracchia 1987; Gualtieri 2003; Taplin 2007, pp. 74-79) e persino utilizzate come fonti per ricostruirne la trama. Il caso pone questioni di carattere generale, che riguardano tutti i presunti soggetti tragici della ceramografia magnogreca, non solo Niobe:

1. Perché in presenza di una consolidata e autorevole tradizione i pittori italioti scelgono – o i loro committenti chiedono – di rappresentare il mito secondo uno schema nuovo?
2. È casuale che tale schema presenti affinità più o meno strette con un testo drammatico?
3. Se non lo è, qual è la natura di tali affinità?

Queste e altre simili domande conducono al cuore del problema dei rapporti fra pittura vascolare e teatro, un tema sul quale il dibattito dura da decenni. Poiché è impossibile riassumerne qui i termini anche per sommi capi, mi limito a ribadire che fra i due orientamenti critici prevalenti, da una parte quello ‘ottimista’, secondo il quale l’interesse dei ceramografi per per le performances drammatiche è fuori discussione e il problema è solo misurare il grado di fedeltà delle scene ai loro modelli (Trendall, Webster 1971; Taplin 1977; Taplin 1978; Taplin 2007), dall’altra quello ‘prudente’, che legge le immagini come rappresentazioni del mito nelle quali le influenze esterne si riflettono in forme comunque mediate dalle consuetudini della pittura vascolare (Giuliani 1996; Giuliani 1999; Giuliani 2003; per una messa a punto generale: Small 2003, Small 2005), la mia posizione è senz’altro più vicina al secondo.

Lo scopo di questo contributo è mostrare che le scene con ‘Niobe in lutto’ sono costruite e si modificano seguendo logiche interne alla tèchne ceramografica. Ciò non significa escludere che il dramma eschileo abbia avuto un ruolo nella formazione e nella fortuna dell’iconografia, ad esempio influenzando il modo di immaginare il mito a livello popolare. Significa invece richiamare alla prudenza nella lettura delle scene e dei loro particolari, la cui apparente natura drammatica trova in molti casi spiegazioni efficaci nel rapporto fra iconografia e forme vascolari, e nelle consuetudini delle botteghe.

2. Il mito
Secondo la versione tebana Niobe è una principessa lidia, figlia del re Tantalo e di Dione o Euryanassa (Hyg. Fab. 9; schol. Eur. Or. 4), introdotta nella saga dei Cadmei dal matrimonio con Anfione, il costruttore delle mura di Tebe. Universalmente nota come mater fecunda cui tocca l’atroce destino di vedere la prole morire di morte violenta, Niobe è accreditata di un numero di figli che varia considerevolmente, per lo più dodici (Hom. Iliad. XXIV, 610-12; Pher. FGrH 3, F 126; Stat. Theb. VI, 124 s.; cett.) o quattordici (schol. Eur. Phoen. 159; Ovid. Met. VI, 182 s.; Hyg. Fab. 9; Myth. Vat. I, 3, 1, 45 s.; II, 8), ripartiti in egual numero fra maschi e femmine. Il nucleo fondamentale della storia è già in Omero: i Niobidi sono sono sterminati da Apollo e Artemide perché Niobe si era paragonata a Latona, giudicando i suoi figli non inferiori ai gemelli divini (Il. XXIV, 596-620). La tradizione successiva rende più esplicita l’offesa, attribuendole la vanteria di essere madre migliore della dea, di cui pure secondo Saffo era stata hetaìra, cioè amante (fr. 42 Voigt). La strage ha luogo a Tebe, anche se abbiamo generica notizia che taluni autori l’avrebero ambientata in Lidia (Apollod. III, 45; Schol. b Hom. Iliad. XXIV, 602). Sofocle (per primo?) distingue l’eccidio dei figli, avvenuto sul Citerone per mano di Apollo, da quello delle fanciulle, opera di Artemide nel palazzo di Anfione (TrGF, Soph. Niobe, fr. 441, 4 ss.; Eusth. 1367, 28). Una variante argiva attestata per la prima volta da Telesilla verso la metà del V secolo a.C. introduce dei superstiti: un fanciullo e una fanciulla (Telesill. fr. 5 Page), oppure la sola fanciulla, di nome Chlorìs (Apollod. III, 45), di cui si ammirava la statua nel Letoon di Argo (Paus. II, 22, 5).

Dopo la morte dei figli Niobe torna in patria presso il padre Tantalo e viene trasformata in roccia sul monte Sipilo in Lidia. La metamorfosi è in Omero (Iliad. XXIV, 614-17), ma ma molti esegeti antichi e moderni espungono i versi (Pearce 2008 con bibliografia; inoltre Ahern 2001; Schmitz 2001; Assunção 2004-2005). In seguito la pietrificazione assurge a topos (e.g. Ach. Tat. III, 15, 6; AP VII, 549; XVI, 129, 133; cett.) e viene attribuita ora alla preghiera di Niobe stessa (Pher. FGrH 3, F 38; Apollod. III, 45), ora all’iniziativa di Zeus, mosso a pietà (Bacch. fr. 20D, vv. 4-11 Maehler). Autori di età imperiale come Pausania (I, 21, 3) e Quinto Smirneo (I, 294 ss.) credono di riconoscere l’eroina in una roccia del Sipilo, forse la stessa che ancora si mostra  nei pressi della città turca di Manisa.

3. ‘Niobe in lutto’ nella tradizione figurata
La Niobe letteraria è un esempio di superbia punita o un paradigma di sventura e di dolore, dunque la sua figura prevale su quella dei figli, il cui ruolo è quasi strumentale dal punto di vista narrativo. Nella tradizione figurativa la situazione è opposta. Niobe ha per lungo tempo scarso peso e l’attenzione è concentrata sulla morte dei Niobidi (In generale: Cook 1964; Geominy 1992; Schmidt 1992).

Le prime attestazioni rappresentano il mito secondo uno schema che potremmo chiamare ‘dei Niobidi in fuga’. Si tratta di tre anfore del gruppo ‘tirrenico’, una produzione minore ateniese destinata al mercato etrusco. Per raccontare il mito alla loro clientela d’oltremare, particolarmente incline ai miti cruenti, gli artigiani attici scelgono il momento della strage, alla quale adattano la composizione di sei figure che usano abitualmente per la scena principale dei vasi di grandi dimensioni. L’anfora del Pittore Castellani ad Amburgo (Mus. f. Kunst und Gewerbe 1960.1: Geominy 1992, p. 916, nr. 1), la più antica, narra la storia secondo uno schema lineare: a sinistra e a destra Apollo e Artemide che scagliano i dardi mortali, al centro quattro fanciulli in corsa.


Pittore del Daino, anfora a collo distinto ‘tirrenica’: strage dei Niobidi in presenza di Niobe e Latona. ca 550 a.C., Tarquinia, M.A.N. 1043

Sull’anfora del Pittore del Daino (Tarquinia, M.A.N., RC 1043: Geominy 1992, p. 916, nr. 3), posteriore di circa un decennio, le sei figure della composizione sono usate per alludere anche agli antefatti e alle responsabilità. Apollo e Artemide si trovano a sinistra, i Niobidi  (ridotti a due) fuggono verso destra, al centro è comparsa una donna che si pone fra gli dei e i fanciulli, all’estrema sinistra è una seconda figura femminile che tende la mano in un gesto può essere inteso come un incitamento. Oltre ad Apollo, Artemide e ai Niobidi, protagonisti irrinunciabili, abbiamo qui probabilmente Niobe e Latona, la prima colta nel disperato tentativo di proteggere i figli, la seconda nel ruolo di mandante della strage. Se la lettura è giusta (non tutti gli esegeti concordano), siamo in presenza della più antica, e per molto tempo unica, immagine di Niobe nell’arte greca.

Dopo il breve momento di fortuna della produzione tirrenica il mito scompare dalla tradizione per un centinaio d’anni e solo intorno alla metà del V secolo guadagna nuovamente popolarità (per la situazione in Etruria: Niels 2004). Alla ripresa, l’iconografia resta centrata sulla strage ma lo schema dei ‘Niobidi in fuga’ cede il posto a quello dei ‘Niobidi morenti’. Risale a poco dopo il 460 a.C. il celebre cratere del Pittore dei Niobidi rinvenuto nella necropoli orvietana di Crocifisso del Tufo (Parigi, Mus. del Louvre, G343: Denoyelle 1997; Gaunt 2002).


Pittore dei Niobidi, cratere a calice: strage dei Niobidi. 450 a.C. ca., Parigi, Mus. du Louvre, G 343

Sul lato principale Apollo e Artemide colpiscono quattro Niobidi, due dei quali, morti, sono in parte nascosti dalle asperità del terreno. Le eclatanti novità, in particolare l’abbandono dell’isocefalia per una disposizione delle figure su piani diversi, ha fatto supporre che il pittore riproducesse un dipinto famoso. Si tratta però di un’ipotesi priva di concrete basi e in fondo non necessaria, dal momento che un abile artigiano poteva ben trarre profitto dalle esperienze della pittura contemporanea senza bisogno di riprodurre un modello preciso. Negli stessi anni appaiono i tipi di più ampia e duratura fortuna. Uno skyphos frammentario di Bonn (Akad. Kunstmus. 1377: Geominy 1992, p. 916, nr. 6) attesta per la prima volta il fanciullo in ginocchio di tre quarti che tenta di strappare la freccia che lo ha colpito fra le scapole, uno dei più popolari in assoluto. In un solo caso la ceramica a figure rosse adotta ancora il vecchio schema senza morti e morenti: una coppa di tipo A proveniente da Vulci, dipinta dal Pittore della Phiale intorno al 430 a.C. (Londra, BM E 81: Cook 1964, p. 43, nr. 5; Oakley 1990, pp. 33 e 91, nr. 150; Geominy 1992, p. 916, nr. 7). Peraltro fanciulli e fanciulle contintuano a essere perseguiti insieme, nonostante che nella tradizione letteraria contemporanea la separazione delle stragi fosse ormai divenuta topica.


Pittore della Phialè. Coppa tipo B: strage dei Niobidi. ca 430 a.C., Londra, British Mus. E 81 (recto e verso)

Nella plastica monumentale il mito è rappresentato mediante schemi molto simili a quelli usati dal pittori di vasi. Un gruppo di tre figure rinvenute alla fine del XIX secolo a Roma in corrispondenza degli antichi Horti Sallustiani (dubbi in Hartswick 2004, pp. 92-104) e oggi divise fra Roma (M.N.R., 72274) e Copenhagen (Glypt., 472 e 520) mostra che la strage dei Niobidi era utilizzata per la decorazione dei frontoni nella seconda metà del V secolo (Geominy 1991, p. 918, nr. 21-1c; La Rocca 1985, pp. 71-75). Le statue, di dimensioni poco inferiori al vero, rappresentano un fanciullo morto, una fanciulla ferita in ginocchio e una fanciulla in fuga. Allo stesso modo era concepito il fregio che ornava il trono dello Zeus di Fidia a Olimpia (Paus. V, 11, 2). La documentazione figurata, specie l’importante cratere frammentario da Baksy della fine del V secolo (San Pietroburgo, Mus. dell’Hermitage, Shefton 1982), suggerisce due rilievi gemelli collocati sulle bande laterali dei braccioli del trono in cui Apollo e Artemide saettavano sei Niobidi per lato nelle poese consuete (v. soprattutto Vogelpohl 1980; Geominy 1992, pp. 917 ss., nr. 15a-m; da ultimo: Lapatin 2001, pp. 79-86; Cullen Davidson 2009, pp. 334-338; 384-394, nrr. 57-65, 68-73).

La sostanziale unità della tradizione del VI e del V secolo a.C. rende sorprendente la svolta della pittura vascolare del IV secolo. Di colpo la strage dei Niobidi lascia il posto alla rappresentazione di Niobe in lutto sopra la tomba dei figli. In luogo delle composizioni affollate e drammatiche della ceramica attica troviamo scene statiche costruite intorno alla figura della madre disperata. le varianti sono due: 'Niobe alla tomba', con l’eroina sopra un podio attorno alla quale si affannano vari personaggi in atteggiamento supplice; la 'pietrificazione di Niobe', ovvero l’eroina entro un naiskos funerario nel momento in cui si muta da essere vivente in statua, con o senza personaggi di contorno. Questo tema gode di grande fortuna per un periodo relativamente breve – poco meno di un secolo – poi scompare altretrettanto repentinamente di come era comparso. Indizio dell’affievolirsi della popolarità sono due vasi dell’Apulo recente, dipinti fra il 320 e il 300 a.C. in cui per la prima volta troviamo rappresentata nuovamente la strage: un cratere a volute da Ruvo di Puglia attribuito al Pittore di Baltimora (Mus. Jatta 424: RVAp II, p. 865, nr. 24; Cook 1964, p. 46, nr. 13; Geominy 1992, pp. 916, nr. 10) e un’hydria proveniente da una ben nota tomba di Arpi (Foggia, Mus. Civ. 132276: RVAp II, p. 925, nr. 91; Geominy 1992, pp. 916, nr. 11; De Juliis 1992; Todisco 2008, p. 24, cat. I 13). I vasi policromi a decorazione plastica, i cosiddetti 'vasi canosini' che prendono il posto delle anfore e dei crateri a figure rosse nei corredi funerari, testimoniano che intorno al 300 a.C. l’iconografia tradizionale aveva ormai ripreso il sopravvento. Sono note diverse serie di appliques che con maggiore o minore probabilità rappresentano Niobidi morenti o in fuga, e almeno due esemplari del Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo sembrano sicuri (inv. 1917-448, 1917-976: Geominy 1992, p. 918, nr. 17, in generale Geominy 1992, p. 923, nr. 51a-h, con bibliografia). Tipi identici o simili si incontrano in produzioni artigianali contemporanee della Grecia continentale: la fanciulla morente sorretta da un personaggio di cui resta solo il braccio destro una lamina bronzea proveniente da Atalandi in Locride Opunzia, probabile decorazione di un oggetto ligneo, è anch’essa quasi certamente una Niobide (Atene, MN 7563: De Ridder 1894, p. 171, nr. 920; Geominy 1992, p. 918, nr. 20).

La tradizione ellenistica e romana è omogenea dal punto di vista iconografico. La strage dei Niobidi continua la forma pressoché esclusiva di rappresentazione del mito. Il gruppo dei Niobidi fiorentini, di gran lunga la più monumentale e popolare delle rapresentazioni che ci sono giunte, domina la tradizione sia per il numero delle repliche, che le scoperte recenti rendono sempre più significativo, sia per l’influenza che esercita fino alla tarda antichità.


Scultore ellenistico, Niobe e una niobide. Copia romana, II sec.d.C., Firenze, Gallerie degli Uffizi, 291 (a sinistra);
Officina romana urbana. Sarcofago: la strage dei Niobidi. II secolo d.C.,  Monaco, Glyptothek, 345 (a destra)


4. Niobe in lutto: la tragedia di Eschilo e le scene vascolari
L’isolamento delle scene con ‘Niobe in lutto’ è un dato di fatto che deve essere spiegato. La critica ‘ottimista’ chiama in causa direttamente la tragedia eschilea o altri testi drammatici. In Pots and Plays Taplin discute tre casi (cat. 3, 5, 7), etichettati con formule come "more than likely related to the Aeschylus’ Niobe" (cat. 3), "may be related to a tragedy about Niobe" (cat. 5), "may well be related to a tragedy about Niobe, but probably not that by Aeschylus" (cat. 7). Dietro queste formule opera la convinzione che le scene siano concepite dal ceramografo avendo presente un modello drammatico che ne guida l’invenzione con poche o nessuna interferenza. La situazione è in realtà più complessa. Niobe è una delle più note fra i drammi perduti di Eschilo e ha ispirato una bibliografia moderna di tutto rispetto (rimando solo a Seaford 2005 e Pennesi 2008, spec. pp. 5-11 per una dettagliata storia degli studi). Testimonianze e frammenti sono sufficienti a ricostruirne le linee generali. Gli elementi della drammatizzazione (scenografia, numero dei personaggi, composizione del coro, conclusione) restano inafferrabili, ma il poco che sappiamo è comunque sufficiente per un confronto con le iconografie.

Il dramma si apriva dopo la morte dei figli, Niobe era seduta sopra la loro tomba, aveva il capo velato e restava muta per una considerevole porzione del dramma, impermeabile alle preghiere di coloro che la supplicavano di recedere dal suo comportamento disperato. Quando infine si decideva a parlare pronunciava un breve discorso estremamente solenne che Aristofane (Vesp. 460) definisce perikallès rhesis. Tutto ciò emerge al di là di ogni dubbio da tre testimonianze che vale la pena di citare per esteso. L’autore della Vita Aeschyli riferisce molto chiaramente che "nella Niobe il personaggio siede per tre giorni con il capo velato sulla tomba dei figli e non parla" (5) e l’assunto trova piena conferma ai vv. 5-8 del frammento 154a Radt (Pennesi I): "vedete l’esito delle nozze:/ da tre giorni siede sulla tomba/ e cova, viva, i figli morti,/ piangendo[?] la loro bella e infelice natura". Aristofane (Ran. 911-926) descrive il modo in cui la scelta drammaturgica veniva percepita dal pubblico:

EUR. Per prima cosa [Eschilo] imbacuccava qualcuno e lo metteva a sedere senza mostrarne il volto, un Achille o una Niobe: era il pretesto della tragedia e loro non biascicavano parola […]. Il coro tirava quattro sequenze di canti in fila, e loro tacevano […].
DIO. Perché faceva così?
EUR. Per furbizia: lo spettatore stava lì seduto aspettando che Niobe dicesse qualcosa, e il dramma andava avanti […].
EUR. Poi, dopo queste ridicolaggini, quando il dramma era almeno a metà, lei diceva una dozzina di parole roboanti, con cresta e sopracciglia, qualcosa di tremendo e mostruoso, che gli spettatori non capivano.

Le tre testimonianza sono fra loro coerenti e dicono con quale potenza l’immagine di Niobe muta si fosse stampata nella memoria degli Ateniesi. Ovviamente per comprendere appieno lo sviluppo della trama sarebbe essenziale sapere quali personaggi si affannavano intorno all’eroina, ma una sola presenza è sicura: quella di Tantalo, annunciato ai vv. 10-11 del fr. 154a ("invano verrà qui il forte Tantalo/ per la salvezza di costei") e accreditato da Plutarco in sette versi in cui parla di sé stesso (Fr. 158 e 159 Radt = III e IV Pennesi). Tutti gli altri personaggi ipotizzati nei numerosi tentativi di ricostruzione (la nutrice di Niobe o quella dei Niobidi, Hermes, Anfione, Antiope, Euryanassa, un messaggero), così come la composizione del coro, quasi unanimente ritenuto femminile, sono congetture più o meno plausibili ma senza supporti obiettivi. Altrettanto ipotetico è il fatto che il dramma si concludesse con la metamorfosi di Niobe fra le rocce del Sipilo, secondo taluni rappresentata in scena, secondo altri descritta o profetizzata da uno dei personaggi.

Tuttavia in questa selva di elementi incerti resta il dato obiettivo e per noi molto importante che la tragedia era giocata sull’opposizione fra il silenzio e la parola, da una parte il dolore di Niobe, dall’altra lo sforzo vano degli altri personaggi che le si rivolgevano secondo la tecnica degli ‘approcci reiterati’ adottata da Eschilo anche nel Riscatto di Ettore. I versi di Aristofane mostrano che almeno ad Atene il dramma era ben presente al pubblico, poiché non si può creare effetto comico se non su cose di universale notorietà.


Pittore pestano o lucano, anfora a collo distinto: Niobe in lutto, da Roccagloriosa, necropoli in località La Scala, tomba 24, 370-360 a.C., Roccagloriosa, Museo Civico, s.n.

La più antica fra le scene figurate che sembrano riconducibili alla Niobe eschilea è in un’anfora a collo distinto rinvenuta in frammenti nel 1978 nella necropoli di Roccagloriosa (cat. 1), in un’area occupata nel IV secolo da popolazioni lucane. I repertori la attribuiscono al Gruppo della Furia Nera, un’officina tarantina dell’inizio del IV secolo alla quale l’aveva riferita A.D. Trendall sulla base di una foto scattata prima del restauro (cit. in Fracchia 1983, p. 291), ma allo stato attuale, dopo la ricomposizione e il restauro, la classificazione del vaso è probabilmente da rivedere. Lo stile mi sembra infatti più vicino a quello delle officine pestane dell’epoca di Asteas che non ai prodotti apuli dello stile ornato, e anche la forma vascolare è tanto comune a Paestum quanto rara in Apulia. È peraltro vero che certe anomalie come il motivo a foglie lanceolate sulle spalle o la mezza figura a metà fra il registro inferiore e quello superiore, e ancora il carattere estremamente calligrafico del disegno richiamano lo stile apulo. Tenuto conto di questi elementi sembra plausibile riferire l’anfora a un pittore pestano attivo nella Lucania occidentale, dove la pedominante cultura tirrenica presenta spesso tratti apulizzanti, conseguenza dall’ampia circolazione di importazioni tarantine (cfr. Gualtieri 1990, p. 171 e 192, n. 96; Gualtieri 2003, p. 151, n. 19). In ogni caso è indubbio che la cronologia deve essere abbassata di alcuni decenni rispetto alla proposta di Trendall, forse intorno al 370-360 a.C., forse anche un po’ più tardi, dal momento che la tomba 24 di Roccagloriosa non sembra anteriore al 350 (Gualtieri 1990, p. 171; Gualtieri 2003, pp. 151-153; Fracchia, Gualtieri 2004, p. 310 s.). Gli altri vasi del corredo riferibili ad artigiani noti sono due piccole hydrie frammentarie del Pittore di Roccanova, un lucano ‘apulizzante’ la cui attività è ora collocata dalla metà del secolo in poi (Denoyelle, Iozzo 2009, p. 160).

La scena è centrata sulla figura femminile in chitone e himation che si trova su un basamento modanato e decorato da tre figure mal leggibili, di cui si capisce solo che sono femminili. La donna guarda nel vuoto e compie il gesto del lutto, la mano destra appoggiata al capo. A sinistra un uomo anziano, vestito di abiti suontuosi, le si rivolge nell’atteggiamento del supplice, mentre un giovane con copricapo frigio lo sostiene per le spalle. A destra una donna canuta, il capo velato, la mano destra levata e la sinistra al petto, volge anch’essa lo sguardo e parla alla dolente. Nel registro superiore assistono alla scena Artemide e Apollo. Sopra l’anziano supplice, in posizione intermedia, una figura parzialmente nascosta da un rilievo del terreno cerca con lo sguardo la donna in lutto: dato il cattivo stato di conservazione è difficile determinare se si tratti di un uomo o di una donna.

La situazione è indiscutibilmente compatibile con la trama della Niobe eschilea. Riconosciamo Niobe sulla tomba dei figli che manifesta il suo dolore tacendo (le figure della base potrebbero a questo punto essere le Parche) e Tantalo giunto dalla Lidia per ricondurre la figlia alla ragione e alla vita. La donna canuta sulla destra, orante come i personaggi che si alternavano sulla scena, potrebbe essere la madre Euryanassa o la nutrice dei Niobidi, ma mancano elementi per un’identificazione definitiva. Ancora più incerta l’identità della mezza figura sopra Tantalo: si è pensato a un Niobide sopravvissuto (Gualtieri, Fracchia 2004, p. 313), che tuttavia sarebbe stato rappresentato nudo come nella tradizione attica o nei vasi del Pittore di Baltimora e del Pittore di Arpi, oppure più plausibilmente a una delle Erinni (Aellen 1994, pp. 42, 45, 69), che appaiono in tunica manicata e senza ali anche in una nota anfora di Asteas con scena dell’Orestea (RVP pp. 96-98, nr. 133).

Non stupisce che il parallelo con la Niobe teatrale sia stato richiamato più volte. Ma se dalla situazione generale scendiamo ai particolari scopriamo che molti dettagli non coincidono. Apollo, Artemide e le Erinni non giocano alcun ruolo nella tragedia, almeno a quanto sappiamo. In Eschilo Niobe siede sulla tomba ed è velata, di modo che gli spettatori non possono vederne il volto. Qui al contrario, l’eroina è in piedi, il volto scoperto, lo sguardo ostentatamente rivolto allo spettatore. Se pure la ‘storia’ è la stessa, la scena vascolare non presenta particolari affinità con ciò che il pubblico vedeva in teatro, e ciò dovrebbe metterci in guardia dal presupporre rapporti troppo stretti fra il testo e l’immagine. Il pittore non ha 'illustrato' la tragedia, ha semplicemente costruito una scena che racconta la medesima storia usando schemi e tipi del repertorio corrente. Il gruppo del vecchio re sostenuto da un giovane accompagnatore si incontra sia in scene generiche di culto al sepolcro, sia in rappresentazioni del mito, come nel cratere a volute del Museo Civico di Bari (inv. 1392: Lohmann 1979, p. 179, cat. A40) dove forse rappresenta Priamo presso la tomba di Ettore. Niobe sulla tomba è a sua volta ricavata dal tipo ‘statua del defunto eroizzato sopra la tomba’. Lo schema, di derivazione attica, compare per la prima volta su un’anfora della fine del V secolo da Gravina di Puglia (Taranto, M.A.N. s.n.: attr. al Pittore di Gravina: RVAp Suppl. 2.3, p. 33) in cui cinque offerenti rendono omaggio alla statua di un giovane guerriero con balteo, scudo ed elmo corinzio. Il podio è certamente la tomba vista di fronte (Lohmann 1979, p. 261, cat. Ap 721; Pontrandolfo, Prisco, Mugione 1988, p. 182) e la statua non si distingue dai viventi, se non per il fatto che ignora ciò che gli accade intorno, esattamente come Niobe. Per visualizzare la situazione insolita il pittore ha avuto bisogno di assimilarla alla scena più prossima di cui disponeva nel repertorio. Sarebbe dunque vano provare a cercare tracce dell’allestimento scenico.


Pittore della pelike di Mosca, cratere a volute: Priamo al sepolcro di Ettore (?). 410-400 a.C., Bari, Mus. Civ. 1392 (a sinistra);
Pittore di Gravina, anfora a collo distinto: scena di culto funerario, da Gravina, 410-400 a.C., Taranto, M.A.N., s.n. (a destra)

Un analogo procedimento si individua nell’hydria apula da Avella da tempo inclusa fra le rappresentazioni di Niobe (cat. 2). La scena è stata avvicinata da Trendall al Pittore di Boston 00.348, un ceramografo apulo attivo nella prima metà del IV secolo. La scena mostra una figura femminile in peplo nel più classico degli atteggiamenti del dolore sopra una tomba costituita da un crepidoma a tre gradini e da una colonnina ionica. Doni funebri (un’anfora e un’hydria ornate di nastri, una phialè e un kalathos con foglie di acanto) sono deposti sul basamento.


Pittore apulo vicino al Pittore di Boston 00.348, hydria: Niobe in lutto, da Avella, 360-350 a.C., Londra, B.M. F93

I personaggi accanto alla tomba sono due: un uomo con mantello e bastone che parla alla dolente, la quale lo ignora; una giovane donna che assiste alla scena in silenzio, in un atteggiamento di apparente ritrosia. Il vaso è stato messo in relazione con il mito di Niobe da Anneliese Kossazt Deissmann, che lo riteneva la più antica illustrazione della tragedia eschilea (Kossatz Deissmann 1978, p. 79, cat. K23), ma la situazione è ancora meno compatibile che nell’anfora di Roccagloriosa (cat. 1). Sono elementi ‘eschilei’ Niobe sulla tomba, il supplice, l’eroina che non risponde, ma di contro l’uomo non è anziano  e non indossa abiti regali, è anzi vestito poveramente alla maniera greca, per cui non sembra affatto Tantalo; la donna è giovane e non prende parte all’azione come la ‘nutrice’ dell’anfora lucana. L’intepretazione resta dubbia. Se si tratta del mito di Niobe, chiaramente il pittore non ha capito fino in fondo la storia che stava rappresentando; se non si tratta di Niobe è possibile che abbia usato lo schema per rappresentare una scena generica di culto al sepolcro, come pensava Trendall (RVAp I, p. 268, nr. 53). In un caso e nell’altro è naturale che anche questa volta la scena sia costruita con i ‘mattoni’ del repertorio vascolare.

A parte i due supplici, varianti di tipi molto comuni, la tomba con crepidoma e colonna è un tipo di lunga tradizione, già presente ai primordi della produzione tarantina e lucana (Ruvo, M.A.N. 1096, cratere a volute attribuito al Pittore di Sisifo, 430-320 a.C.: RVAp I, p. 16, nr. 52; Policoro, Mus. Naz. della Siritide 35302, pelike prossima al Pittore della Karneia, 400 a.C. circa: LCS p. 55, nr. 283; Taplin 2007, p. 126 s.) ed è utilizzata nella produzione apula della prima metà del IV secolo soprattutto nelle scene non eroiche (ad es. Napoli, M.A.N. 2347, hydria vicina al Pittore di Tarporley, 380-370 a.C.: Lohmann 1979, p. 233, cat. A491; Pontrandolfo, Prisco, Mugione 1988, pp. 184-186), particolare che potrebbe orientare anche l’interpretazione di questa scena.


Pittore di Tarporley (vicino a), hydria: scena di culto al sepolcro, 380-370 a.C., Napoli, M.A.N. 2347

Una svolta nella rappresentazione si verifica quando il tema approda nella bottega del Pittore di Varrese, una delle più importanti officine tarentine della metà del secolo, la cui attività segna, nella sistemazione di Trendall, il passaggio dall’Apulo medio all’Apulo recente (v. ora Denoyelle, Iozzo 2009, pp. 144-147). Per la prima volta il mito è utilizzato per decorare vasi di dimensioni monumentali, un’anfora pseudopanatenaica (cat. 3) e un’anfora a collo distinto (cat. 4), dipinti a breve distanza di tempo l’una dall’altra.


Pittore di Varrese, anfora pseudopanatenaica: Niobe in lutto, 350-340 a.C., Taranto, M.A.N. 8935 (a sinistra);
Pittore di Varrese, anfora a collo distinto: Niobe in lutto, 350-340 a.C., Bonn, Ak.K.M. 99 (a destra)

Nell’anfora tarantina, rinvenuta nel grande ipogeo in proprietà Varrese di Canosa (Principi imperatori 1992, p. 258 s.; Un ipogeo al confine 2001, pp. 23-29), una cornice a motivi vegetali divide il corpo del vaso in due registri, una soluzione utilizzata frequentemente dal Pittore di Dario e dal Pittore di Baltimora per duplicare i temi mitici. La scena con Niobe in lutto occupa il registro superiore. Ai lati della tomba Tantalo vestito con sfarzo regale e la ‘nutrice’ in abiti ordinari, entrambi anziani e infervorati nelle loro suppliche, si rivolgono a una Niobe la cui iconografia è completamente mutata. L’eroina è ora simile a come l’aveva immaginata Eschilo: seduta sulla tomba, il capo velato (anche se il volto resta scoperto), l’atteggiamento doloroso, tace ostinatamente di fronte agli interlocutori.

Il tipo non è nuovo: Elettra che veglia sul sepolcro di Agamennone o Teseo che piange la morte di Meleagro sono raffigurati in modo simile. Il pittore ha abilmente adattato alla storia di Niobe un tipo di dolente più adatto di quello della ‘statua del defunto’ di cui si erano serviti gli artigiani dei vasi più antichi (cat. 1, 2). Ma è soprattutto la tomba che attira la nostra attenzione. La base sulla quale Niobe siede è affiancata da due grandi anfore funerarie a corpo baccellato, e queste e quella sono collocate su un podio quadrangolare con fregio dorico e sima aggettante, che a sua volta poggia su colonnine ioniche sorgenti da un crepidoma a un solo gradino. Un grande kalathos, una phialè appesa e una cista lignea alludono ai doni funebri. Questa tomba dalla sorprendente struttura aerea è un hapax assoluto nella ceramografia suditalica. Non solo è impossibile trovare confronti, ma neppure esistono, a mia conoscenza, casi in cui un sepolcro di qualsiasi tipo sia sollevato in questo modo da terra. Nessun acquirente aveva certamente mai visto una simile tomba in un cimitero. Il podio dorico che ne costituisce l’elemento più vistoso compare per la prima volta nei vasi del Pittore dell’Ilioupersis circa una generazione prima, ma esso è normalmente utilizzato come base del naiskos (Londra, B.M. F283, cratere a volute, 360 a.C.: RVAp I, p. 193, nr. 7) oppure come sostegno della colonna nelle tombe a gradini (Milano, coll. priv., cratere a volute attr. al Pittore di Licurgo, 360-350 a.C.: Collezione Banca Intesa 2006, cat. 112).


Pittore di Licurgo, cratere a volute: scena di culto funerario, 360-350 a.C., Milano, Collezione Banca Intesa, 112

Perché il Pittore di Varrese ha inventato una struttura tanto inverosimile quanto estranea al suo repertorio? Forse per ‘sollevare’ Niobe e attrarre così l’attenzione dello spettatore sulla figura principale della scena, visto anche l’uso della sovradipintura bianca che fa ‘uscire’ la tomba dalla superficie del vaso. Forse, però, anche per suggerire un’ambientazione. Le colonnette, doriche o ioniche, sono l’artificio comunemente usato per rappresentare il palcoscenico nei vasi a soggetto comico, i soli in cui l’ambientazione teatrale è esplicitamente richiamata. Esemplare e spesso citato è il cratere della collezione Malaguzzi Valeri, di poco più antico della nostra anfora (Roma, Coll. Malaguzzi Valeri 52, cratere a calice attr. al Gruppo dell’Allattamento e di Salting, 360-350 a.C.: RVAp I, p. 440, nr. 28; Lo Porto 1979; Green 2002, p. 126, nr. 40; Hughes 2011, p. 122).


Gruppo dell’allattamento e di Salting, cratere a calice: scena comica, 360-350 a.C., Roma, Coll. Malaguzzi Valeri 52

Nella scena comica il palco sul quale gli attori (o il coro: Hughes 2006, p. 41) si muovono al suono degli auloì è un semplice impiantito ligneo poggiante su quattro colonnette ioniche e chiuso da cortine di tessuto. L’effetto grafico della sopraelevazione della tomba di Niobe, dove il pittore ha cercato di suggerire lo scorcio e soprattutto di far capire che lo spazio sotto il podio dorico è vuoto, è simile. Mi chiedo se il ricorso a un tale espediente non tradisca la volontà di richiamare alla lontana il teatro, di suggerire che quella rappresentata è, appunto, una Niobe “come la si vede in scena”. Il che non significa attribuire all’artigiano l’intento di rappresentare fedelmente un allestimento, ancor meno di 'illustrare' la tragedia di Eschilo come il miniatore di un codice trecentesco. Significa invece ammettere che un certo modo di  visualizzare il mito potesse essere associato nell’opinione corrente al teatro, e che i pittori potessero avere interesse a richianare tale associazione per allettare la clientela, speciela clientela colta.

In ogni caso, consapevole o meno dell’origine del tema, il Pittore di Varrese torna a rappresentare Niobe poco tempo dopo. Questa volta dipinge un’anfora a collo distinto e corpo ovoide che il museo dell’università di Bonn ha acquistato nel 1890 dalla collezione Fontana di Trieste senza dati di provenienza (cat. 4). L’apparato ornamentale suggerisce una data appena più tarda della precedente (cat. 3) per la presenza dei raggi bianchi e neri sul collo, un motivo attestato anche nella loutrophoros tarantina (cat. 5) e in altri vasi del sottogruppo di Vaticano X.6, strettamente collegato ma leggermente posteriore al Pittore di Varrese (RVAp p. 340; RVAp Suppl. 1, p. 42, nr. 22a; p. 43, nr. 22b; RVAp Suppl. 2,1, p. 88, nr. 30f).


Pittore di Varrese (vicino a), sottogruppo Vaticano X.6, loutrophoros da Ruvo di Puglia: Niobe in lutto, 350-340 a.C., Napoli, M.A.N. 82267 (H 3267)

La forma dell’anfora di Bonn è molto rara nella produzione apula. Una verifica condotta sulle liste di Trendall ha portato in luce, su un totale di 773 anfore, quasi tutte pseudopanatenaiche, appena sette esemplari di questo tipo (Sisto 2009, p. 90, nota 46). Forse per adattare il tema alla forma inusuale il pittore escogita ancora una volta una soluzione inedita e ardita. Invece della scena di supplica dipinge su entrambi i lati del vaso un naiskos ionico circondato di offerenti, e sul lato principale pone all’interno una figura femminile velata con accanto due grandi anfore lustrali. Il tema della statua del defunto entro un’edicola funeraria, imitazione delle grandi stele attiche contemporanee, era stato introdotto dal Pittore dell’Ilioupersis fra il 370 e il 360 a.C. (Lohmann 1979, pp. 52-55). Il Pittore di Varrese è il primo a utilizzarlo sulle hydrie destinate alle sepolture femminili, prima affiancando (Taranto, M.A.N. 8922: RVAp  p. 337, nr. 1), poi sostituendo (RVAp p. 337, nr. 2; RVAp Suppl. 1, p. 88, nr. 30f) al giovane eroizzato una donna stante. Nel nostro caso egli usa il motivo per la prima volta su un’anfora, ma con due significativi cambiamenti: invece del gesto nuziale (anakalypthai) o degli atteggiamenti quotidiani (l’uso di specchi, ventagli e altre suppellettili) attribuisce alla figura la posa del lutto; inoltre limita la tipica sovradipintura bianca ai piedi e alla parte inferiore del chitone.

Questi particolari, specialmente la fascia bianca in basso (già scambiata per i resti della sovradipintura: Schauenburg 1957, p. 201), sono semplici ma acuti espedienti che suggeriscono l’identità della figura: non un’anonima defunta ma Niobe in lutto nel momento in cui si compie il suo destino ultimo, la trasformazione in pietra. Quella che vediamo è già la pietrificazione in atto, non più la sua prefigurazione drammatica attraverso il silenzio. In questo modo il pittore ha ricondotto un mito adatto alle sepolture femminili, per il quale non esisteva ancora una formula consolidata, entro uno schema che stava rapidamente guadagnando popolarità e che si adattava bene ai campi figurati alti e stretti dei tipici vasi dei corredi femminili, loutrophoroi e anfore. Forse non è un caso che il pittore abbia introdotto diversi richiami alla scena di Niobe sulla tomba da lui stesso dipinta sull’anfora tarantina (cat. 3): il fregio dorico del podio (caso unico nella sua produzione), gli abiti ricamati, il gesto del lutto di Niobe e persino le anfore entro l’edicola sono citazioni precise che stringono il rapporto fra le due iconografie. Certo il pittore riteneva la storia agevolmente leggibile per gli spettatori, e non esita a togliere gli abituali co-protagonisti, Tantalo e la ‘nutrice’, sostituiti da quattro figure generiche di offerenti che per posa e attributi non danno alcun contributo alla lettura del soggetto. La scelta evita l’anacronismo, poiché la pietrificazone non può avvenire nello stesso momento in cui Niobe viene supplicata al sepolcro.

L’intuizione del Pittore di Varrese si rivela fortunata. Il nuovo schema diviene la formula standard per la rappresentazione del mito nella seconda metà del IV secolo. Tutti i vasi posteriori all’anfora di Bonn associano Niobe alla pietrificazione, completando o meno la scena con figure di contorno o con l’associazione ad altri miti, spesso senza stretta connessione con il nucleo narrativo originale (cat. 5-9).

La splendida loutrophoros del Getty Museum di Malibu attribuita al Pittore di Louvre 1148 (cat. 9), uno dei più dotati fra i seguaci del Pittore di Varrese che Trendall colloca agli inizi dell’Apulo recente, è un esempio da manuale. L’edicola sovradipinta, Niobe nella posa dolente e i vasi lustrali (in questo caso due loutrophoroi del tipo a corpo ovoide e a corpo cilindrico) sono citazioni quasi fedeli del modello.


Pittore di Louvre MNB 1148, loutrophoros, prov. ignota: Niobe in lutto, 340-330 a.C., Malibu, J.P. Getty Mus. 82.AE.16 (recto e verso)

Come nell’anfora di Bonn (cat. 4) l’accenno alla pietrificazione è sufficiente a rendere riconoscibile Niobe, cosicché i personaggi di contorno lasciano il posto a quattro offerenti generiche collocate negli spazi di risulta fra l’edicola e le volute sotto le anse. La compattazione permette al pittore di associare per la prima volta l’eroina tebana a un altro mito, che occupa il registro inferiore: Pelope e Ippodamia sul carro durante, o più probabilmente dopo, la vittoriosa gara con Enomao. Pelope, figlio di Tantalo, è il fratello minore di Niobe. Il suo destino è complesso: la felicità personale, culminata con la conquista del regno della Pisatide e la prole numerosa, contrasta con la malediazione della sua stirpe, che provoca le sofferenze di Tieste, Atreo e degli Atridi, con le loro vite costellate di lutti. La sua presenza sul vaso può dunque essere letta in chiave narrativa (Pelope visita la sorella dopo la morte dei figli: Trendall 1985, p. 139) oppure come una semplice giustapposizione di miti significativi in chiave funeraria. In un caso e nell’altro la formula compattata della scena di Niobe è il presupposto per l’invenzione, in cui l’elemento ‘eschileo’ è scomparso.

La loutrophoros del gruppo di Vaticano X.6 (cat. 5), prodotta nella cerchia del Pittore di Varrese, offre l’esempio di una versione più ampia della storia. Qui il tipo di Niobe nel naiskos è combinato con il maggior numero possibile di elementi narrativi. Niobe recupera il gesto del dolore originario (cat. 1), Tantalo e la ‘nutrice’ sono nell’atteggiamento ‘eschileo’ di coloro che parlano; Tantalo ha anche per la prima volta una esplicita connotazione regale, grazie al tipico scettro con aquila ad ali spiegate. La nutrice è seduta, forse per una forma di assimilazione al tipo delle offerenti standard, e anche questa è una novità. Nel registro superiore Zeus, Hermes, Apollo, Artemide e una figura femminile che può ben essere Latona rappresentano il coté divino, ma sarebbe difficile attribuire loro un ruolo diverso da quello di generici complementi narrativi. Ancor di più difficile è pensare che la loro  presenza alluda ai personaggi della tragedia di Eschilo: il pittore ha sì coscienza della storia originale, sa cioè che deve mostrare il silenzio di Niobe di fronte alle suppliche di Tantalo e della ‘nutrice’, ma non esita a combinare i personaggi con lo schema della pietrificazione, generando quell’anacronismo che il Pittore di Varrese aveva evitato (cat. 4).


Pittore di Dario, hydria: Niobe in lutto, 340-330 a.C., Ginevra, coll. priv. (recto e verso)

L’hydria da Ruvo di Puglia in collezione privata a Ginevra (cat. 6) attribuita al Pittore di Dario, più recente di dieci o quindici anni, presenta una situazione ancora diversa e a mio parere assai eloquente. La scena è anche in questo caso costruita combinando la formula della pietrificazione con i personaggi ‘eschilei’, ma colpisce il fatto che i gesti siano mutati al punto da stravolgere il senso originario della storia. Niobe solleva con la destra il lembo del mantello, in un gesto più vicino all’anakalyptè delle spose che alla manifestazione del dolore. Tantalo e la ‘nutrice’ hanno smesso di parlare per assumere un atteggiamento doloroso che non si attaglia al loro ruolo; questa poi siede su una sacca da viaggio che la caratterizza per la prima volta come proveniente da lontano. Il rapporto fra i personaggi è sconvolto: non più la tensione spasmodica dei vivi verso una Niobe insensibile, bensì Niobe e Tantalo che congiuntamente osservano con attitudine compassionevole la vecchia assorta nel dolore. È come se Niobe e la ‘nutrice’ si fossero scambiati i ruoli. Anche le figure di contorno hanno un legame molto debole con la storia. Le due offerenti e i quattro giovani armati orientali potrebbero, sì, essere le therapoinai di Niobe e i soldati del seguito di Tantalo (così Aellen, Cambitoglou, Chamay 1986, p. 150 s.), ma la loro presenza non aggiungerebbe comunque nulla al racconto. Simili mutamenti sono conseguenza dell’usura del legame fra immagini e contenuto, mostrano che la ‘storia’ è cristallizata in formula. In un caso come questo la ricerca di una fonte drammatica è velleitaria. L’ipotesi che cambiamenti possano spiegarsi attraverso "another, intermediate, and otherwise lost tragedy" (Taplin 2007, p. 77; contro Aellen, Cambitoglou, Chamay 1986, p. 153) è una facile ma inutile fuga nella speculazione.

È interssante confrontare la scena dipinta dal Pittore di Dario con quella più o meno contemporanea su un’hydria di provenienza imprecisata, attribuita da Trendall al Pittore della Libagione, uno dei più interessanti fra i pittori campani della metà del IV secolo (cat. 10). Il pittore ha recepito le innovazioni della produzione apula contemporanea: la tomba in forma di naiskos, Niobe che si muta in pietra, la ‘nutrice’ trasformata in dolente. Le figure e i particolari di contorno come la donna che compie il gesto dell’anakalypthai, Apollo, le offerte funebri davanti alla tomba, in particolare il kalathos e la lira, replicano il repertorio spiegato sulla loutrophoros vaticana (cat. 5), chiara riprova della circolazione di prodotti apuli in area campana e della loro capacità di influenzare le officine locali. Ma accanto agli elementi nuovi ci sono precise sopravvivenze del repertorio precedente: il gruppo di Tantalo e del giovane accompagnatore è quello usato dal pittore di Roccagloriosa, e il gesto di ripulsa di Niobe di fronte all’atteggiamento esplicita la situazione ‘eschilea’ che l’invenzione del Pittore di Varrese aveva indebolito in Apulia. Diversametne dal Pittore di Dario, l’artigiano campano sente ancora il nesso fra Tantalo e Niobe come l’elemento caratterizzante della storia (ma non così per la 'nutrice') e lo valorizza attraverso l’iconografia del supplice; allo stesso tempo però non riesce a immaginare Niobe se non come una defunta che si trasforma in pietra all’interno della tomba, e attribuisce alla metamorfosi un’evidenza icastica che la tradizione apula non conoscerà mai.

Possiamo per il momento fermarci qui. Gli altri vasi, l’hydria del Pittore di Ganimede transitata sul mercato antiquario di Zurigo (cat. 8) e il piatto del Museo di Taranto (cat. 10), unico esempio di forma aperta decorato con il mito, e soprattutto la loutrophoros del museo dell’Università di Princeton del Pittore di Dario (cat. 7) presentano complesse associazioni mitologiche che richiedono un discorso a parte.


Pittore di Ganimede, hydria: Niobe in lutto, 340-330 a.C., Sidney


5. Conclusioni

L’analisi dello sviluppo del tema può essere sintatizzato in quattro punti:

1) Il motivo di ‘Niobe in lutto’ sulla tomba compare nella ceramica suditalica nel periodo 370-350 a.C. e conosce la maggiore popolarità nella seconda metà del IV secolo a.C. Le scene più antiche (cat. 1-2) presentano evidenti punti di contatto con la Niobe di Eschilo nel contenuto ma considerevoli divergenze nei particolari, di modo che non sembra esservi nei pittori la volontà riconoscibile di riprodurre la scenografia drammatica.

2) Le immagini più significative sono prodotte intorno al 350 a.C. dal Pittore di Varrese (cat. 3, 4), che dipinge la scena più vicina alla tragedia eschilea (cat. 3) ma inventa poco dopo una formula altenativa, adattando al mito lo schema del defunto all’interno dell’edicola funeraria per suggerire la pietrificazione (cat. 4). Il rapporto fra l’iconografia vascolare e la situazione eschilea si attenua in questo modo considerevolmente.

3) La produzione apula della seconda metà del IV secolo (cat. 6-10) adotta senza eccezioni la formula della pietrificazione, talora senza altri personaggi (cat. 9), più spesso combinandola con i personaggi delle scene più antiche (cat. 5, 6, 7, 8), con un effetto di anacronismo temporale o meglio di conflazione di due momenti della storia (supplica e pietrificazione).

4) A partire dal Pittore di Varrese (cat. 4) la rappresentazione appare sempre più formulare e il rapporto con la situazione eschilea si attenua. In molti vasi, nonostante tentativi in tal senso, non si individua alcun plausibile rapporto con fonti estranee alla pittura vascolare.


Appendice

Vasi suditalici con rappresentazione di ‘Niobe in lutto’

I vasi sono classificati secondo le aree di produzione. L’asterisco (*) contrassegna le scene di dubbia interpretazione. Per la cronologia dei pittori e dei gruppi seguo ove possibile la messa punto di M. Denoyelle e M. Iozzo (Denoyelle, Iozzo 2009). La descrizione è limitata agli elementi significativi, e così pure la bibliografia (indico per primi i repertori). Le misure sono in metri. 

Lucania

1. Anfora frammentaria a collo distinto. Roccagloriosa, Antiquarium Com., s.n. Da Roccagloriosa (SA), tomba 24 (rinv. 1978). Misure della parte cons. 0,38 x 0,38. Attribuita da A.D. Trendall al Gruppo della Furia Nera; più probabilmente pittore pestano ‘apulizzante’ attivo nella Lucania occidentale. 370-350 a.C. (più prob. 370-360 a.C.)

Niobe in lutto, stante sopra la tomba dei figli (altare); Tantalo supplice in ginocchio, sorretto da un accompagnatore; ‘Nutrice’ supplice; Apollo, Artemide, Erinni (?)

LIMC VI.1 (1992), p. 911, nr. 15; VII.1 (1994), p. 842, nr. 1; Todisco 2003, p. 413 s., cat. Ap 31.

Fracchia 1984, pp. 291, 294-295; Fracchia 1987, pp. 203-204; Gualtieri 1990, p. 171, nr. 2; p. 194, nota 96; Aellen 1994, pp. 24, 34, 42, 45, 69, 73, 130, 211 nota 75; Schulze 1998, pp. 66, 86, 130 cat. AV 54; Gualtieri 2003; Sisto 2009, p. 81, nr. 1.



Apulia

*2. Hydria. Londra BM F 93 (già Napoli, coll. Blacas). Da Avella. Alt. 0,285. Vicino al Pittore di Boston 00.348. 370-360 a.C.

Figura femminile in atteggiamento doloroso (Niobe?), stante sopra la tomba dei figli (podio con colonna e vasi lustrali); a sin. uomo adulto barbato ma non canuto, con himation e bastone (Tantalo?); a des. giovane donna in peplo (‘nutrice’?).

RVAp I, p. 268, nr.53; LIMC VI.1 (1992), p. 911, nr. 15; VII.1 (1994), p. 842, nr. 21; Todisco 2003, p. 419, cat. Ap 49.

Kossatz Deissmann 1978, p. 79, cat. K23; Fracchia 1984, p. 296 nota 16; Gogos 1984, pp. 48-49; Fracchia 1987, p. 205 nr. 10; Todisco 2002, pp. 74-75; Sisto 2009, p. 81, nr. 2.

3. Anfora pseudo-panatenaica. Taranto, MAN 8935. Da Canosa, località Monte Palumbo, ipogeo Varrese. Alt. 0,50. Pittore di Varrese, 350-340 a.C.

Niobe in lutto seduta sopra la tomba dei figli (podio su colonnette ioniche e vasi lustrali); a sin. Tantalo supplice; a des. 'nutrice'.

RVAp I, p. 338, nr. 4; RVAp Suppl. 1, p. 45; RVAp Suppl.2.2, p. 86; LIMC VI.1 (1992), p. 910, nr. 10; VII.1 (1994), p. 840, nr. 2; Brandes Druba 1994, p. 246, cat. V.B.14; Todisco 2003, p. 442, cat. Ap 114.

Trendall 1972, 314-316; Schmidt, Trendall, Cambitoglou 1976, 40, 79, 116; Kossatz Deissmann 1978, 80 cat. K26; Keuls 1978a, 46 nr. 1; Keuls 1978b, 87; Fracchia 1984, 296; Gogos 1984, 47-48; Fracchia 1987, 204 nr. 1; Cassano 1992, p. 261, nr. 1; De Cesare 1997, p. 286, nr. 397; Roscino 1998, pp. 115, 118; Schulze 1998, p. 130, cat. AV 49; Corrente 2001, pp. 9, 23, 26, 29; Todisco 2002, p. 75; Sisto 2009, p. 82, nr. 4.

4. Anfora a collo distinto. Bonn, Akademisches Kunstmuseum 99. Prov. ignota. Alt. 0,64. Pittore di Varrese, 350-340 a.C.

Niobe stante in lutto fra due anfore nel naiskos su alto podio dorico; quattro offerenti.

RVAp I, p. 338, nr. 3; RVAp Suppl. 1, p. 45; RVAp Suppl.2.1, p. 86; CVA Deut. 59 (Bonn 3), pp. 41-44, tav. 22; LIMC VI.1 (1992), p. 911, nr. 16; Brandes Druba 1994, p. 243, cat. V.B.1; Todisco 2003, p. 440, cat. Ap 111.

Trendall 1972, p. 314 s.; Brommer 1973, p. 537, cat. D4; Schmidt, Trendall, Cambitoglou 1976, p. 41; Kossatz Deissmann 1978, p. 79, cat. K22; Keuls 1978a, p. 47 s., nr. 5; Keuls 1978b, p. 86; Fracchia 1984, p. 296; Trendall 1985, p. 137; Fracchia 1987, p. 205, nr. 5; De Cesare 1997, p. 286, nr. 398; Todisco 2002, p. 75; Sisto 2009, p. 82, nr. 3.

5. Loutrophoros. Napoli, MAN 82267 (H3246). Da Ruvo di Puglia. Alt. 0,92. Vicino al Pittore di Varrese, sottogruppo Vaticano X.6. 350-340 a.C.

Niobe stante in atteggiamento dolente entro il naiskos su podio con fregio figurato (Parche); a des. Tantalo supplice con accompagnatore; a sin. ‘nutrice’ supplice seduta e offerente; in alto da sin. Latona, Artemide, Apollo, Hermes, Zeus.

RVAp I, p. 341, nr. 22; RVAp Suppl. 1, p. 45; RVAp Suppl.2.1, p. 86; LIMC VI.1 (1992), p. 911, nr. 12; VII.1 (1994), p. 840, nr. 3; Brandes Druba 1994, p. 243, cat. V.B.6; Todisco 2003, p. 447 s., cat. Ap 130.

Trendall 1972, pp. 309-312; Schmidt, Trendall, Cambitoglou 1976, pp. 40-50; Kossatz Deissmann 1978, p. 79 s., cat. K24; Keuls 1978a, p. 47 s., nr. 5; Keuls 1978b, p. 86; Fracchia 1984, p. 296; Fracchia 1987, p. 204 s., nr. 4; De Cesare 1997, p. 286, nr. 399; Todisco 2002, p. 75; Sisto 2009, p. 82, nr. 5.

6. Hydria. Ginevra, coll. priv. Da Ruvo di Puglia. Alt. 0,627. Pittore di Dario, 340-330 a.C.

Niobe stante in lutto fra due anfore nel naiskos; a des. Tantalo supplice con accompagnatore; a sin. ‘nutrice’ supplice seduta e offerente; in alto da sin. Latona, Artemide, Apollo, Hermes, Zeus.

RVAp Suppl.2.1, p. 150, nr. 63e; LIMC VI.1 (1992), p. 911, nr. 13; VII.1 (1994), p. 840, nr. 4; Todisco 2003, p. 451, cat. Ap 138.

Allen, Cambitoglou, Chamay 1986, 150-157; Todisco 2002, p. 75; Sisto 2009, p. 83, nr. 6.

7. Loutrophoros, Princeton, University Art Mus. 1989.29. Provenienza ignota. Alt. 0,795. Pittore di Dario, 340-330 a.C. circa.

Niobe stante in atteggiamento dolente entro il naiskos; a sin. Merope (iscriz.) e una offerente; a des. ‘nutrice’ e uomo anziano in abiti modesti (pedagogo?). Nel registro superiore a sin. Apollo e Artemide; a des. giovane con cornicoli (Pan?) e figura in costume orientale (iscriz. Sipyl[os]). Nel registro inferiore Pelope  e giovane donna sulla tomba di Anfione (iscriz.)

RVAp Suppl. 2.1, p. 149, nr. 56b; LIMC VI.1 (1992), p. 911, nr. 20; Brandes Druba 1994, p. 245, cat. V.B.8; Todisco 2003, p. 452 s., cat. Ap 142.

Aellen 1994, 104, 119, 127, 130, 139-140, 146, 150, 190, 213; De Cesare 1997, p. 287, nr. 401; Todisco 2002, p. 75; Sisto 2009, p. 82, nr. 5.

8. Hydria. Zurigo, Archäol. Samml. d. Universität 4007 (già Zurigo, Gall. Nefer 1983, nr. 52). Provenienza ignota. Alt. 0,59. Pittore di Ganimede, 330-320 a.C. circa

Niobe stante in atteggiamento dolente entro il naiskos, accanto la statua di una fanciulla con alabastron in mano; doni funebri in primo piano; a sin. Pelope e Ippodamia; a des. Tantalo e ‘nutrice’.

RVAp Suppl. 1, p. 70, nr. 11a; RVAp Suppl.2.1, p. 138; RVAp Suppl.2.2, p. 246, nr. 17.2; LIMC VI.1 (1992), p. 912, nr. 19; VII.1 (1994), p. 840, nr. 6; Brandes Druba 1994, p. 244, cat. V.B.3; Todisco 2003, p. 472 s., cat. Ap 194.

Fracchia 1987, p. 200, 202, 205, nr. 7; De Cesare 1997, p. 287, nr. 403; Todisco 2002, p. 75; Sisto 2009, p. 473, nr. 8.

9. Loutrophoros. Malibu, J.P. Getty  Mus. 82.AE.16. Provenienza non dichiarata. Alt. 0,98. Pittore di Louvre MNB 1148, 330 a.C. circa

Niobe stante in atteggiamento dolente entro il naiskos fra due loutrophoroi; a sin e des. quattro offerenti. Nel registro inferiore Pelope e Ippodamia sulla quadriga.

RVAp Suppl. 1, p. 100, nr. 278a; RVAp Suppl.2.1, p. 172; LIMC VI.1 (1992), p. 912, nr. 18; Brandes Druba 1994, p. 244, cat. V.B.4; Todisco 2003, p. 479, cat. Ap 211.

Trendall 1985; Fracchia 1987, p. 200, 205, nr. 6; De Cesare 1997, p. 287, nr. 402; Todisco 2002, p. 75; Sisto 2009, p. 474, nr. 10.

10. Piatto. Taranto, MAN 8928. Da Canosa. Alt. 0,104. Vicino al Pittore di Arpi. 315-305 a.C. circa

Niobe stante in atteggiamento dolente entro il naiskos; a sin. Tantalo con accompagnatore e offerente; a des. ‘nutrice’ dolente. Nel registro superiore Andromeda incatenata; a des. Perseo, Cefeo e giovane assistente; a sin. due offerenti.

RVAp Suppl. 1, p. 100, nr. 278a; RVAp Suppl.2.1, p. 172; LIMC VI.1 (1992), p. 912, nr. 18; Brandes Druba 1994, p. 244, cat. V.B.4; Todisco 2003, p. 479, cat. Ap 211.

trendall 1985; Fracchia 1987, p. 200, 205, nr. 6; De Cesare 1997, p. 287, nr. 402; Todisco 2002, p. 75; Sisto 2009, p. 474, nr. 10.

Campania

11. Hydria. Sidney, Nicholson Mus. 71.01 (già Italia, mercato antiquario). Provenienza imprecisata. Alt. 0,43. Pittore della Libagione, 350-340 a.C. circa.

Niobe stante in lutto nel naiskos; a sin. Tantalo supplice con accompagnatore; a des. ‘nutrice’(?) dolente. Nel registro superiore a sin. figura femminile velata (Latona?); a des. Apollo.

LCS Suppl. 2, p. 223, nr. 340a; LCS Suppl. 3, p. 201, nr. 340a; LIMC VI.1 (1992), p. 911, nr. 11; VII.1 (1994), p. 840, nr. 5; Todisco 2003, p. 514 s., cat. C 22.

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12. Lekythos. Berlino, Staatl. Mus. F 4284. Da Calvi Alt. 0,43. Pittore di Caivano, 340 a.C. circa.

Niobe stante parzialmente pietrificata; Tantalo supplice.

LCS p. 309, nr. 582; LIMC VI.1 (1992), p. 911, nr. 11; VII.1 (1994), p. 840, nr. 5; Todisco 2003, p. 56, cat. C 31.

Kossatz Deissmann 1978, p. 79, cat. K21; Fracchia 1984, p. 296; Fracchia 1987, p. 205, nr. 9; Todisco 2002, p. 75; Sisto 2009, p. 82, nr. 3.

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Ludovico Rebaudo
Il tema di ‘Niobe in lutto’

The paper deals with some South Italian vase-paintings representing Niobe, the Lydian princess daughter of Tantalos and wife of the Theban king Amphion, standing or sitting in mourning upon the grave of her sons killed by Apollon and Artemis on behalf of Leto, bitterly hurt by Niobe's hybris. These paintings are traditionally related to Aeschylos' lost Niobe, a very popular play in the fifth and fourth century B.C., frequently referred to by ancient grammarians and erudites. We know from Aristophanes (who mocked the play in his Frogs) and from the Vita Aeschyli that in the first half of the tragedy Niobe sat veiled on the tomb and kept an opressive silence for a very long time, despite the fact that her father Tantalos was desperately begging her to come out of mourning. The author's point of departure is the statement that: 1) the iconography of the "mourning Niobe" is a definite innovation of South-Italian vase painters, totally apart from the Attic long-term tradition, representing the myth only by means of the slendering of the Niobids; 2) the simultaneous occurence of such an innovation with the meaningful similarity to the plot of a popular play makes it plausible, if not probable, that the new schema would have been somehow inspired or influenced by the dramatic treatment of the myth. But a careful analysis of the pictures shows also that a few important narrative details, as well as some actual iconographic developments (e.g. the introduction of Niobe standing inside a naiskos and trasformed into stone) can be better explained through the workshops' technical praxis and occasional arrangements of a well-established iconographic repertoire rather than through references to unknown dramatic sources, different from Aeschylus' Niobe, how it has been recently made.

engramma n. 99, luglio-agosto 2012