"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

67 | novembre 2008

9788898260126

Lo scudo con stella nella monetazione romana. Un’ipotesi di datazione per la lastra di S. Apollonia

Giacomo Calandra di Roccolino

L’indagine iconografica che qui si propone muove da una ricognizione sulle emissioni del periodo consolare (periodo nel quale l’analisi petrografica colloca cronologicamente la stele), che si ricollegano direttamente alla stella argeade, posta sullo scudo del rilievo nel convento di S. Apollonia. Per cercare di capire quale potesse essere il significato della rappresentazione di uno scudo macedone con stella su un monumento romano è innanzitutto necessario ricordare l’enorme portata del cambiamento introdotto dal contatto di Roma con la Grecia, e ripetere, una volta di più, quanto questo contatto sovvertì le convenzioni dal punto di vista ideologico, culturale, sociale, artistico.

La ricerca è partita dall’individuazione dei tipi e degli schemi iconografici riconducibili, per qualche aspetto, alla conquista della Grecia (202-146 a.C.). Questo avvenimento sancì la fine di due dei tre grandi regni (Macedonia, Siria ed Egitto) sopravvissuti alle guerre intestine tra i diadochi, che si erano innescate dopo la morte di Alessandro Magno.

Dallo studio delle monete è emersa una frequenza discontinua dei tipi ascrivibili a un’iconografia ‘greco-macedone’. Un primo nucleo, che comprende il maggior numero di conii selezionati in questo studio, si colloca in un arco di circa venticinque anni nella seconda metà del II secolo a.C.; un secondo nucleo si pone cronologicamente in concomitanza con la definitiva vittoria e il successivo trionfo di Pompeo su Mitridate; infine, un terzo e ultimo gruppo si pone in piena guerra civile, tra il 44 e il 31 a.C., poco prima della vittoria definitiva di Ottaviano su Antonio.

Per quanto riguarda il primo gruppo, il ritardo di circa sessant’anni rispetto alla vittoria di Cinocefale riportata da Tito Quinctio Flaminino (197 a.C.), e di circa trent’anni dalla definitiva vittoria di Lucio Emilio Paolo su Perseo (167 a.C.), può essere spiegato se si tiene conto del dato che presso i Romani, proprio fino alla metà del II sec a.C., esisteva per le monete uno schema iconografico ben preciso e, di fatto, fisso. L’iconografia tradizionale assunta per il denario fin dall’inizio della sua introduzione (269 a.C.) era la seguente: testa di Roma al diritto; Dioscuri a cavallo al rovescio. Non è un caso che il primo ritratto vero e proprio della monetazione romana consolare sia quello di Filippo V: il cambio di tendenza e la pratica di rappresentare avvenimenti in qualche modo riconducibili alla storia della gens del tribuno incaricato di battere moneta si afferma proprio alla metà del II sec. a.C., quando il gusto ellenizzante e la sottesa ideologia erano ormai entrati a far parte pienamente della cultura romana.

Denario battuto da Lucio Marcio Filippo nel 113 a.C., che rappresenta al diritto l’effigie di Filippo V di Macedonia,
presso il quale era stato mandato più volte come ambasciatore un antenato del monetario

Soltanto a partire dell’ultimo quarto del II secolo a.C. quindi, in coincidenza con l’affermazione dell’egemonia culturale che la Graecia capta esercita sul ferum victorem romano, la moneta diventa mezzo di comunicazione trasversale e strumento di propaganda ideologica eccezionale, per l’ampiezza della sua diffusione. Un secondo motivo del relativo ritardo, nell’emissione di tipi che richiamassero alla mente la Macedonia, rispetto alla datazione storica della conquista romana, si può imputare al periodo necessario per l’assuefazione dei nuovi modelli culturali da parte dell’intera società romana, fino agli strati meno acculturati e quindi più resistenti alle novità di derivazione greca.

Dei tredici pezzi censiti, solo cinque mostrano esplicitamente simboli macedoni, e si tratta in tutti i casi di scudi: questo potrebbe suggerire il motivo per cui sulla lastra di S. Apollonia, che secondo l’ipotesi di Maddalena Bassani (pubblicata in questo stesso numero di "Engramma") faceva probabilmente parte di un monumento celebrativo-funerario, compare proprio uno scudo.

I primi due monetari a mostrarci lo scudo macedone sono M. Caecilius Q.f. Q.n. Metellus e un componente della gens Quinctia: T. Quinctius Flaminius.

Il primo denario fu battuto nel 127 a.C. da M. Caecilius Q.f. Q.n. Metellus, che fu console nel 115 a.C. con Marco Emilio Scauro e nel 114 fu inviato come proconsole in Sardegna: era il terzo figlio di Quinto Metello Macedonico, cui la moneta è dedicata. Il grande scudo rotondo che egli effigia sulle sue monete è senza dubbio uno scudo macedone, e il modo in cui è rappresentato ricorda molto da vicino le monete in argento coniate dai re di quella regione. Rispetto a quei conii, che pur si prestano al confronto, ci sono però importanti differenze. Il desiderio di esaltare le vittorie del padre è sottolineato dalla corona d’alloro che circonda lo scudo; inoltre Cecilio Metello fa raffigurare sull’umbone una protome d’elefante che, ritornando anche nei bronzi, attribuisce immediatamente la paternità del conio alla gens Caecilia. Come altre importanti famiglie romane (Cornelia, Iulia), i cui rappresentanti si erano messi in luce per episodi che avevano a che fare con elefanti (si pensi alla battaglia di Heraclea – il primo scontro avuto dalle gentes romane con gli elefanti di Pirro nel 280 a.C. – e alle tre guerre puniche), la gens Caecilia aveva adottato l’elefante come suo emblema e in molti suoi conii aveva inserito questo animale intero, o la sua testa, o ancora l’exuvia elephantis, quasi fosse un simbolo araldico (sul diverso significato delle exuviae elephantis nella monetazione ellenistico-alessandrina vedi in "Engramma" il contributo di Lorenzo Bonoldi). Per quanto riguarda la gens Caecilia, siamo a conoscenza di un episodio che è probabilmente all’origine della scelta di questo simbolo: un antenato del monetario, anche egli di nome Lucio Cecilio Metello, vinse contro gli elefanti cartaginesi in Sicilia nel 251 a.C.

Denario battuto da Marco Cecilio Metello nel 127 a.C. che rappresenta al rovescio uno scudo macedone.
Al centro dello scudo è tratteggiata una protome elefantina, emblema della gens Caecilia

A distanza di appena un anno, un altro monetario fa inserire uno scudo macedone sul suo denario. Si tratta ancora una volta di un membro della famiglia Quinzia: il tribuno T. Quinctius Flaminius. La moneta – a differenza della precedente, che variava il rovescio inserendo lo scudo a tutto campo – riprende lo schema iconografico delle prime monete in argento consolari, ma aggiunge ai piedi dei cavalli dei Dioscuri, sul rovescio della moneta, lo scudo macedone: un simbolo inconfondibile, che richiamava con immediata evidenza icastica l’importanza del ruolo avuto dal suo avo nella sconfitta di Filippo V a Cinocefale. Questo magistrato monetario è il nipote di Tito Quinctio Flaminino, il conquistatore della Macedonia. Tito Quinctio – il padre del monetario – è citato nel 174 per aver fatto celebrare grandi feste a Roma in onore delle vittorie di suo padre su Filippo V di Macedonia, e sappiamo che fu console nel 150. Tito Quinzio Flaminio, il monetario, fu anche lui console nel 123 con Quinto Cecilio Metello Balearico. Sul suo denario vi sono come simboli l’apex (la punta metallica posta sul copricapo da flamine, allusione al nome di Flaminio) e lo scudo macedone, che ricorda puntualmente la conquista della Macedonia. La presenza dei Dioscuri riprende la raffigurazione tradizionale, ma forse è anche connotata in modo più preciso, relativamente a una munifica donazione della gens del monetario: ci è noto infatti il dono di 2 scudi d’argento, fatto dal nonno del magistrato dopo la vittoria al tempio di Delfi, proprio come ex voto ai Dioscuri, protettori degli equites e più in generale dell’esercito romano.

Denario battuto da Tito Quinctio Flaminio nel 126 a.C. che rappresenta al rovescio uno scudo macedone a ricordo del proprio antenato Titus Quinctius Flamininus e il suo dono di due scudi macedoni d’argento, fatto al tempio di Delfi per celebrare la vittoria su Filippo V a Cinocefale

Con la sconfitta di Perseo nel 167, e poi con la definitiva conquista della Grecia (presa di Corinto da parte di Lucio Mummio nel 146 a.C.), giunse a Roma una straordinaria quantità di opere d’arte e di maestranze greche. La fine di questa fase della storia di Roma viene sancita dai trionfi di Lucio Emilio Paolo e dello stesso Mummio, che portano a Roma come trofeo innumerevoli ricchezze (Plut., Emil. 32). Abbiamo una testimonianza architettonica, che ancora ci appare maestosa, costruita in quegli anni: il tempio rotondo di Ercole Olivarius nel Foro Boario, il secondo tempio di Roma costruito completamente in marmo (il primo era stato il tempio di Giove Statore eretto da Metello Macedonico, ma di esso non rimane traccia).

Oltre al nutrito gruppo di emissioni cui abbiamo fin qui fatto riferimento, ve ne sono altre tre che si collocano intorno alla metà del I secolo a.C., in un’epoca che corrisponde maggiormente alla datazione emersa dal rilievo petrografico della stele (si veda la scheda di Lorenzo Lazzarini in questo stesso numero di "Engramma"). Il primo conio fu battuto da C. Servilius C.f.: questo personaggio non ci è noto da altre fonti e il suo denario risulta quindi di difficile datazione. Dal dibattito tra gli studiosi sono emerse datazioni diverse, anche se, in base al confronto tra i tesori ritrovati, sembra probabile la datazione del 52 o 53 a.C. Al diritto la moneta mostra la testa della dea Flora, le cui feste venivano celebrate annualmente, e per la storia delle cui celebrazioni la gens Servilia vantava forse un ruolo importante: l’iscrizione FLORAL PRIMVS sembra indicare infatti che uno dei suoi antenati fu il primo ad organizzare i Floralia, giochi licenziosi in onore di Flora, dea della crescita dei frutti, che si tenevano dal 28 aprile al 3 maggio. Il lituus, che appare sul diritto dietro alla testa della dea, indica la discendenza del monetario da M. Servilius C.f. P.n. Pulex Geminus, ed è proprio a quest’ultimo personaggio che si riferisce il rovescio della moneta.

Denario battuto da Caio Servilio probabilmente nel 53 a.C., che rappresenta al rovescio un duello tra l’antenato del monetario Marcus Servilius Pulex Geminus e un soldato macedone.
Il soldato greco è riconoscibile dallo scudo con stella argeade che tiene con la mano sinistra

Sul rovescio Servilio pone la rappresentazione di una scena militare: due guerrieri stanno in piedi faccia a faccia con le spade sollevate, in un atteggiamento che sembra il preludio di un duello. Su alcune rare varianti le spade sono già incrociate. A differenza che in altri pezzi coniati dalla stessa gens, in questa raffigurazione l’identificazione di Marco Servilio Pulex non è immediata, ma possiamo riconoscere il Romano rispetto al Greco, proprio dallo scudo macedone che questi tiene con la mano sinistra. La scena sembra rappresentare uno dei ben ventitre combattimenti individuali da cui, secondo Livio e Plutarco (Liv. XLV, 39, 16; Plut. Emil. 31, 4), Pulex Geminus, console nel 202, uscì vittorioso. Il valore dello stesso consul, che rifulgeva soprattutto nei combattimenti corpo a corpo, era già stato commemorata da M. Servilius C.f., su una moneta emessa circa nel 100, che rappresenta un duello in atto: due guerrieri smontati dai loro cavalli, che rimangono indietro sullo sfondo, si stanno menando fendenti. Un terzo combattimento era stato rappresentato ancora prima da Caius Servilius Vatia, attorno all’anno 127. Mostra un cavaliere al galoppo, che dirige la sua spada contro un altro cavaliere in fuga davanti a lui. Sullo scudo del cavaliere vittorioso il monetario ha inscritto la lettera M, per rendere chiaro a tutti che il cavaliere effigiato è il suo illustre antenato (la lettera M indica appunto il prenome Marcus): su quella stessa moneta, come sulla moneta del nostro monetario Gaio, il lituus sul verso riafferma soltanto che, oltre ad essere risultato vittorioso in ventitre duelli, Pulex Geminus fu augure per quarant’anni. Le virtù marziali del bellicoso antenato erano evidentemente la principale fonte di orgoglio per la gens Servilia. Livio non si limita solo a ricordare che partecipò alle guerre macedoniche, ma riporta un intero e lungo discorso tenuto da Servilio alle truppe di Paolo Emilio che, incitate da Sulpicio Galba, volevano negare il trionfo al loro comandante, accusandolo di aver diviso il bottino in modo iniquo (Liv. XLV, 35-39; Plut. Emil. 31).

Denario battuto da Ottaviano intorno al 34 a.C., che rappresenta al rovescio una panoplia al centro della quale vi è uno scudo con stella macedone. Sul bordo dello scudo la legenda "CAESAR"

Ma sono soprattutto due conii che risultano particolarmente importanti per stabilire una possibile datazione della Stele di S. Apollonia: si tratta di due denari battuti da Ottaviano intorno al 34 a.C., probabilmente subito dopo la campagna vittoriosa contro i Pannoni. Il primo conio mostra al rovescio uno scudo rotondo, al centro del quale, quasi a decorazione dell’umbone, è chiaramente tratteggiata una stella a otto punte con un cerchio al centro. Il secondo denario mostra invece una figura femminile stante, la cui veste è scivolata lasciando completamente scoperta la schiena e il fondoschiena. Si tratta di una Venere callipigia (mitica progenitrice e divinità tutelare della gens Iulia), che tiene in una mano un’asta, mentre con l’altra sostiene un elmo corinzio verso il quale è rivolta: era per altro proprio questa Venere, vittoriosa sulla furia di Marte, che esibisce le armi del bellicoso amante come trofeo, il modello della Venus Victrix e poi, dal I secolo d.C., della Victoria in clipeo scribens (sul tema si veda in "Engramma" il saggio di Lorenzo Bonoldi). Ai piedi della colonnina cui si appoggia la dea compare, seppur non frontalmente, lo scudo con stella argeade. La singolarità della presenza dello scudo macedone in queste due rappresentazioni è la totale corrispondenza formale e stilistica con lo scudo del rilievo di S. Apollonia, che fornisce un elemento importante per la datazione della stele agli anni 30 del I secolo a.C. Le dimensioni del rilievo ci consentono di ipotizzare, per il monumento di cui essa faceva parte, una committenza certamente molto alta: potrebbe essere stato addirittura lo stesso Ottaviano, una volta consolidato il suo potere e assunto il nome di Augusto, ad aver promosso e finanziato la realizzazione o il restauro di un monumento sul quale, se non altro, vi fosse questa sua 'firma': lo scudo con stella macedone, simbolo di Alessandro e di suo padre Cesare, che aveva voluto paragonare sé stesso al grande kosmokrator (per la datazione agli stessi anni del I sec. a.C., benché con una diversa ipotesi sulla committenza, si veda il saggio di Maddalena Bassani in questo stesso numero di "Engramma").

Denario battuto da Augusto intorno al 32 a.C., che raffigura al rovescio Venus Victrix.
Appoggiato alla colonnina si vede di scorcio uno scudo macedone

È logico pensare che entrambi i conii rientrino a pieno titolo nella politica di propaganda personale avviata da Ottaviano Augusto sulla moneta. I due denarii sono certamente rivolti a riaffermare la discendenza di Augusto da Cesare e dunque la legittimità della sua successione. Le due legende si riferiscono infatti in modo esplicito al dittatore, ucciso pochi anni prima. Il primo conio, come abbiamo detto, mostra al rovescio una panoplia macedone (dietro lo scudo si intravedono un’asta e l’elsa di una spada). Questi simboli che, come ricorda Maddalena Bassani, identificano la sepoltura di un guerriero macedone e non la vittoria su uno di essi, sono un esplicito riferimento a Cesare come Alessandro, e potrebbero commemorare la vittoria di Filippi, avvenuta per di più proprio in Macedonia, e la definitiva vendetta del CAESAR DIVI F[ilius] sugli ultimi congiurati. È forse ipotizzabile anche una velata imitatio Alexandri da parte di Ottaviano: come Alessandro, infatti, è lui stesso a vendicare la morte del padre prima di assumere il potere.

In conclusione possiamo affermare che lo scudo macedone e la stella argeade, per tutto il periodo repubblicano, avevano assunto un preciso significato nel mondo romano. Questi simboli avevano lo scopo di richiamare alla mente di qualunque cittadino le guerre macedoniche, e più in generale la conquista della Grecia che, come emerge anche da altre fonti, aveva introdotto una rivoluzione irreversibile nella cultura romana. Il personaggio che sceglieva di raffigurare sulla sua emissione o sul suo monumento funerario un simbolo macedone, voleva lanciare un messaggio chiaro: la sua famiglia aveva avuto un ruolo nella conquista della Grecia e come tale doveva essere considerata fondatrice del nuovo corso della storia romana, e partecipe della sempre maggior ricchezza e del crescente prestigio di Roma.

L’iscrizione della presenza dello scudo con stella sulla stele di S. Apollonia in una tale genealogia iconografica ci consente di concordare pienamente con la sua datazione alla fine dell’epoca romana repubblicana (cfr. la scheda di Lorenzo Lazzarini in questo stesso numero di "Engramma"). Con il declino della repubblica e l’avvento di Augusto la stella cambierà significato, pur mantenendo il suo ruolo celebrativo e il suo richiamo alla figura di Alessandro Magno, con il quale prima Cesare e poi Augusto avevano teso a identificarsi. Avverrà infatti una sovrapposizione e, oseremmo dire, una voluta confusione con il sidus Iulium, la cometa apparsa per sette giorni nel cielo di Roma subito dopo la morte di Cesare: tale sovrapposizione accrescerà il già fulgido significato della stella come nuovo emblema della gens Iulia, di Augusto e quindi della famiglia imperiale.

Nonostante gli stringenti confronti con i conii della prima età augustea, risulta molto difficile stabilire una datazione esatta del rilievo di S. Apollonia. Ma la raffigurazione della stella con scudo macedone, in auge nel decennio 40-30 a.C. nei denari augustei, ribadisce la grande valenza politica del monumento la cui erezione o restauro potrebbero essere stati votati da Ottaviano durante il suo ritorno dalla campagna Pannonica, quando con i suoi eserciti attraversò la X Regio (Venetia et Histria) diretto a Roma. Dallo stesso Augusto (Res Gestae 19-21, Appendice) sappiamo che la restitutio riguardò non solo le istituzioni dello stato, ma anche e soprattutto i monumenti architettonici che, a partire dalla conquista della Grecia, celebravano il potere di Roma.

Bibliografia