"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

“Un atlante su cui esercitarsi”.
Walter Benjamin interprete di Menschen des 20. Jahrhunderts di August Sander

Antonio Somaini

English abstract

“Un atlante su cui esercitarsi [ein Übungsatlas]”. Con queste parole, nelle pagine finali della sua Piccola storia della fotografia [Benjamin [1931] 2012, 240], Benjamin sintetizza la propria interpretazione di Menschen des 20. Jahrhunderts (Uomini del XX secolo), l’ampio progetto a cui il fotografo tedesco August Sander aveva iniziato a lavorare sin dagli anni Dieci e che sarebbe rimasto incompiuto alla sua morte nel 1964. Al termine di un percorso che prende le mosse dalla nascita della fotografia con Nièpce e Daguerre e prosegue con i primi decenni della storia del nuovo medium con l’opera di fotografi come Hill e Cameron, Hugo e Nadar, toccando via via questioni relative alla storia delle tecniche fotografiche (dai dagherrotipi alle istantanee), alla storia degli usi sociali della fotografia (dai primi ritratti borghesi agli album di famiglia e alle riviste illustrate), allo statuto ontologico ed epistemico dell’immagine fotografica e alla relazione tra fotografia e pittura, Benjamin si sofferma su tre protagonisti della fotografia degli anni Venti – oltre allo stesso Sander, Albert Renger-Patzsch ed Eugène Atget – la cui opera gli sembrava avere una notevole rilevanza culturale e politica, sia in positivo che in negativo.

Da un lato, condanna l’interpretazione della Neue Sachlichkeit proposta da Renger-Patzsch, le cui fotografie, pubblicate nel 1928 in un libro di successo intitolato Die Welt ist schön (Il mondo è bello), si limitavano a suo parere a celebrare, tramite il virtuosismo di una tecnica fotografica che trovava nel primo piano il suo punto di vista privilegiato, la bellezza “vendibile” di un mondo da cui era stata evacuata ogni tensione sociale. Nelle fotografie di Renger-Patzsch Benjamin vedeva

l’atteggiamento di una fotografia che è capace di montare dentro la totalità del cosmo un qualunque barattolo di conserve, ma che non è in grado di afferrare nessuno dei contesti umani in cui essa si presenta e che così, anche quando affronta i soggetti più trasognati, è più una prefigurazione della loro vendibilità che della loro conoscenza [Benjamin [1931] 2012, 243].

Dall’altro, Benjamin esalta la capacità delle fotografie di Atget, con la loro rappresentazione di “elementi dismessi, spariti, svaniti” e di luoghi urbani “privi di atmosfera”, di “struccare la realtà” e di favorire quella “liberazione dell’oggetto dall’aura”, quella “salutare alienazione tra il mondo circostante e l’uomo” che “libera il campo per lo sguardo politicamente educato [dem politisch geschultem Blick]” [Benjamin [1931] 2012, 236-237]. Riproponendo un tema che ritorna spesso nei suoi scritti su fotografia e cinema, Benjamin vede nella fotografia di Atget lo strumento di una “educazione”, di una Schulung dello sguardo che ha delle immediate ripercussioni politiche.

La stessa valenza politica ed educativa viene attribuita da Benjamin all’opera di Sander, la cui raccolta di ritratti, ben lontana da una “ritrattistica di rappresentanza ormai svalutata” [Benjamin [1931] 2012, 239], appariva ai suoi occhi come il corrispettivo, in ambito tedesco, di quell’esplorazione dell’espressività del volto che aveva caratterizzato il cinema sovietico degli anni Venti. In Germania, così come in Unione Sovietica, la capacità di decifrare l’espressione di un volto poteva svolgere secondo Benjamin un ruolo fondamentale in un’epoca caratterizzata da profonde trasformazioni sociali. Con la sua raccolta di “una serie di teste che non ha nulla da invidiare alla poderosa galleria di fisionomie di un Ejzenštejn o di un Pudovkin” [Benjamin [1931] 2012, 239], il progetto Menschen des 20. Jahrhunderts di Sander apparteneva secondo Benjamin al novero di quelle opere che “da un momento all’altro […] potrebbero assumere un’imprevista attualità”:

I mutamenti di potere, come quelli che da noi ormai s’impongono, trasformano di solito in una necessità vitale l’elaborazione e il raffinamento della comprensione fisiognomica. Che si venga da destra oppure da sinistra, bisognerà abituarsi a essere guardati in faccia per sapere donde veniamo. Dal canto proprio bisognerà abituarsi a guardare in faccia gli altri per lo stesso scopo. L’opera di Sander è più di un libro fotografico: è un atlante su cui esercitarsi  [Benjamin [1931] 2012, 240, corsivo di chi scrive].

Comprensione fisiognomica, formato dell’atlante, esercizio dello sguardo. È su questi tre temi tratti dal commento di Benjamin all’opera di Sander che ci soffermeremo qui di seguito, prendendo le mosse da un’esposizione della struttura di Menschen des 20. Jahrhunderts che ci consentirà di stabilirne l’appartenenza a quell’ampio “paradigma fisiognomico” [Gurisatti 2006, 21-43] che attraversa la cultura della Germania weimariana. Vedremo poi come l’opera progettata da Sander possedesse quelle stesse caratteristiche del formato dell’atlante di immagini – al tempo stesso strumento di mappatura, di classificazione e di esercizio – che erano proprie di diverse delle pubblicazioni sul significato del volto prodotte nella Germania degli anni Venti. Il tema dell’esercizio, dell’educazione dello sguardo, infine, ci consentirà di vedere come la concezione della fotografia esposta nella Piccola storia della fotografia si inscriva in una più ampia teoria dei media in cui Benjamin sottolinea la capacità della tecnica moderna di sottoporre il sensorio degli individui a un “training di ordine complesso” [Benjamin [1939] 2012, 183], trasformando profondamente le coordinate dell’esperienza percettiva.

1. “Un’istantanea della mia epoca che sia assolutamente fedele alla natura”: Menschen des 20. Jahrhunderts e l’oggettività della fotografia

Benjamin commenta l’opera di Sander nella Piccola storia della fotografia dopo aver preso visione della prima presentazione parziale di Menschen des 20. Jahrhunderts in un libro fotografico uscito nel 1929 con il titolo Antlitz der Zeit (Il volto del tempo). Il libro proponeva al lettore una scelta di 60 fotografie tratte da un’opera le cui finalità e la cui struttura complessiva erano state meticolosamente pianificate da Sander negli anni immediatamente precedenti. Già nel 1925, in una lettera a Erich Stenger del 21 luglio, Sander aveva formulato il proposito di realizzare un’opera che proponesse “una sezione dell’epoca presente”, tramite una fotografia che, con la sua “fedeltà assoluta”, avrebbe consentito di elaborare “una psicologia veridica della nostra epoca e del nostro popolo” [cit. in Lange, Conrath-Scholl 2001, 12-13]. In uno schema dattiloscritto risalente al 1925-27, poi, Sander aveva presentato quella struttura dell’opera che sarebbe rimasta invariata nei suoi tratti fondamentali anche negli anni successivi. Menschen des 20. Jahrhunderts – “un’opera culturale in fotografie” (ein Kulturwerk in Lichtbildern), come recita il sottotitolo nel foglio dattiloscritto – viene presentato qui come un’opera suddivisa in sette “gruppi” (Gruppen), articolati al loro interno “in circa 45 cartelle (Mappen), ognuna delle quali con circa 12 fotografie”.

Bauerliches Brautpaar, 1911-1914.

Il primo gruppo, intitolato Il contadino (Der Bauer), era considerato da Sander come una sorta di gruppo originario – il termine utilizzato è Stammappe, la cartella fondamentale da cui, come dal tronco (Stamm) di un albero genealogico, derivavano tutte le altre – in quanto il fotografo tedesco riteneva che da esso provenisse l’intera società weimariana. Al suo interno, il gruppo dedicato ai contadini avrebbe dovuto essere suddiviso in una serie di sezioni intitolate, rispettivamente, Il giovane contadino, Il bambino contadino e la madre, Il contadino, la sua vita e il suo lavoro, Il contadino e la macchina, Il contadino proprietario terriero, L'abitante della piccola città, Lo sport.

Konditor, 1928.

Il secondo gruppo, L’artigiano (Der Handwerker), avrebbe invece dovuto essere suddiviso in sezioni intitolate Il mastro artigiano, L’industriale, Il lavoratore, la sua vita e il suo lavoro, I tipi di lavoratori, manuali e intellettuali, Il tecnico e l’inventore.

Junge Mutter, bürgerlich, 1926.

Il terzo gruppo, La donna (Die Frau), avrebbe avuto come sotto-sezioni La donna e l’uomo, La donna e il bambino, La famiglia, La donna elegante, La donna che esercita un mestiere intellettuale e quella che esercita un mestiere pratico.

Kunstgelehrter, 1932.

Il quarto gruppo, Le professioni (Die Stände), avrebbe annoverato sezioni intitolate Lo studente, L’erudito, Il funzionario, Il medico e il farmacista, Il giudice e l’avvocato, Il soldato, Il nazionalsocialista, L’aristocratico, L’ecclesiastico, Il professore e il pedagogo, Il commerciante, L’uomo politico.

Maler, 1924 (Gottfried Brockmann).

Il quinto gruppo, Gli artisti (Die Künstler), si sarebbe suddiviso in Lo scrittore, L’attore, L’architetto, Lo scultore, Il pittore, Il compositore, L’interprete musicale.

Zigeuner, um 1930.

Il sesto gruppo, La grande città (Die Großstadt), avrebbe avuto come sotto-sezioni La strada (vita e animazione), Gente in viaggio, Edifici belli e brutti, I domestici, Tipi e personaggi della grande città.

Blinder Bergmann und blinder Soldat, um 1930.

Il settimo e ultimo gruppo, infine, intitolato Gli ultimi uomini (Die letzten Menschen), avrebbe avuto quattro componenti: Gli idioti, I malati, I folli, La materia (Die Materie), termine con cui Sander indica i cadaveri, presenti in Menschen des 20. Jahrhunderts con due fotografie che ritraggono dei volti di morti nella camera ardente, e con una che ritrae la maschera mortuaria del figlio Erich Sander, a lungo prigioniero politico sotto il nazismo, importante interlocutore del padre sulle questioni teoriche dell'intero progetto e fotografo lui stesso, prima di morire in prigione nel 1944 per un’appendicite acuta non curata.

Negli anni successivi, a questa articolazione generale in sette gruppi si aggiungeranno ulteriori sotto-sezioni intitolate Prigioneri politici, Perseguitati e Lavoratori immigrati, che dimostreranno la decisione di Sander di rendere visibili nella propria opera le drammatiche ferite sociali provocate dal nazismo, ma che non altereranno l’architettura complessiva, il senso e gli obiettivi dell’intero progetto. Così come non varieranno le caratteristiche formali delle fotografie di Sander: le inquadrature prevalentemente frontali, lo sguardo in macchina delle persone fotografate, gli sfondi neutri, la staticità dei corpi dovuta anche alla scelta di lunghi tempi di esposizione per aumentare la resa dei dettagli, e in generale la ricerca di pose tipiche capaci di rivelare nel modo più chiaro possibile la professione e la collocazione sociale dei soggetti fotografati. Pose tipiche che Sander non imponeva ai suoi soggetti, ma che venivano perlopiù concordate con le persone fotografate in un lungo progetto di coreografia dell’inquadratura, un processo il cui risultato doveva essere la registrazione sulla lastra fotografica della comprensione di sé di ognuno degli individui rappresentati. Sander, in altre parole, non era assolutamente interessato a una fotografia istantanea, capace di cogliere e fissare delle espressioni effimere, fuggenti, ma piuttosto a registrare in modo statico e sintetico delle pose che riflettessero la consapevolezza della propria posizione sociale da parte dei diversi individui tipici appartenenti alla società weimariana.

Come Sander stesso ripete a più riprese in scritti come Mein Bekenntnis zur Photographie (La mia professione di fede nella fotografia – pubblicato nel 1927 in occasione di una mostra al Kunstverein di Colonia) e Wesen und Werden der Photographie. Die Photographie als Weltsprache (Essenza e divenire della fotografia. La fotografia come linguaggio internazionale – il testo di una conferenza radiofonica tenuta nel 1931 per il Westdeutscher Rundfunk), l’obiettivo del suo progetto era quello di elaborare – sfruttando il valore documentario di una fotografia “esatta”, “oggettiva” che “tramite la pura azione della luce” consentiva secondo Sander di “vedere le cose come realmente sono”, e il potenziale euristico di una visione comparativa che ordina le fotografie disponendole in gruppi e sezioni – “un’istantanea della mia epoca che sia assolutamente fedele alla natura” [Sander [1927] 1997, cit. in Lugon [1919-1939] 1997, 187]: un “ritratto”, composto al suo interno da molteplici serie di ritratti, della società della Germania weimariana.

Di questa società, tramite l’ausilio della fotografia, Sander intendeva individuare ed evidenziare le articolazioni interne, disponendo i ritratti fotografici in serie omogenee che avrebbero dovuto mostrare le diverse variazioni di alcune “figure tipiche” fondamentali. Disposizione in serie e ricerca del tipico vengono presentati dallo stesso Sander come i due ingredienti essenziali del suo modus operandi:

Dal momento che l’individuo isolato non fa la storia del suo tempo, ma caratterizza l’espressione di un’epoca ed esprime i suoi sentimenti, è possibile cogliere la fisionomia di tutta una generazione e darle un’espressione fotografica. Questo quadro dell’epoca sarà ancora più comprensibile se noi disponiamo in serie le fotografie dei tipi che rappresentano i gruppi più diversi della società umana [A. Sander, Wesen und Werden der Photographie, cit. in Lange, 21, corsivo di chi scrive].

2. "Cogliere la fisionomia di tutta una generazione e darle un’espressione fotografica": l’opera di Sander e la tradizione della fisiognomica nella Germania weimariana

“Espressione”, “fisionomia”, “tipi”: il lessico usato da Sander per parlare della struttura e degli obiettivi di Menschen des 20. Jahrhunderts testimonia dell’appartenenza di quest’opera a quell’ampio “paradigma fisiognomico” (Gurisatti 2006, 21-46) che, affondando le proprie radici nelle opere tardosettecentesche di Lavater e Goethe, attraversa la cultura della Germania weimariana. Dagli scritti sulla caratterologia e la grafologia di Ludwig Klages (Prinzipien der Charakterologie, 1910, in seguito pubblicato con il titolo Die Grundlagen der Charakterkunde, 1927; Handschrift und Charakter, 1917; Zur Ausdruckslehre und Charakterkunde, 1926) a quelli sulla relazione tra struttura corporea e patologie mentali di Ernst Kretschmer (Körperbau und Charakter. Untersuchung zum Konstitutionsproblem und zur Lehre von den Temperamenten, 1921); dalla fisiognomica della storia presentata da Oswald Spengler in Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente, 1918-1922) all’“immagine del mondo fisiognomica” (das physiognomische Weltbild) – un sapere intuitivo, immaginativo, ermeneutico, pensato in esplicita antinomia rispetto ai saperi scientifico-razionali fondati sul calcolo e sul numero – teorizzata da Rudolf Kassner (Zahl und Gesicht. Der Umriss einer Universalen Physiognomik, 1919; Die Grundlagen der Physiognomik. Von der Signatur der Dinge, 1922; Das physiognomische Weltbild, 1930; Physiognomik, 1932); dalle riflessioni sullo sguardo “fisiognomico” della cinepresa, capace di cogliere il “volto delle cose” (Gesicht der Dinge), la dimensione espressiva e animata di tutto il mondo visibile, negli scritti di teoria del cinema dell’ungherese Béla Balázs (in particolare Der sichtbare Mensch, 1924), al continuo confronto con la fisiognomica che troviamo negli scritti di Benjamin: da Destino e carattere (1919) alla descrizione di E.T.A. Hoffmann come “fisiognomico di Berlino” in Berlino città demoniaca (1930); dalla “comprensione fisiognomica delle opere d’arte, in cui esse appaiono come incomparabili e uniche” di cui Benjamin parla nel suo Curriculum del 1928 alle peculiarità dello sguardo dei collezionisti come “fisiognomici del mondo delle cose” di cui si parla in Elogio della bambola (1929) e Tolgo la mia biblioteca dalle casse (1931); dagli “aspetti fisiognomici di mondi di immagini che abitano il microscopico”, invisibili a occhio nudo ma colti dallo sguardo penetrante dell’ingrandimento fotografico descritto in Piccola storia della fotografia (1931) al “talento fisiognomico” attribuito al flâneur (per cui “tutto è viso”, come leggiamo nel frammento M Ia, 1 del libro sui passages parigini) e di cui Benjamin si era sentito improvvisamente dotato vagando per Marsiglia in preda agli effetti dell’hashish (Benjamin [1932] 2012 ), fino alla descrizione dell’esperienza dell’aura nel saggio Su alcuni motivi in Baudelaire (1939) come esperienza di un esser guardato dalle cose, dai fenomeni [“Avvertire l’aura di un fenomeno significa dotarlo della capacità di guardare”, Benjamin [1931] 2012, 197].

Come sottolinea giustamente Richard T. Gray nel suo About Face. German Physiognomic Thought from Lavater to Auschwitz (Gray 2004, XVIII-XX), la storia della presenza del paradigma fisiognomico nella cultura tedesca si conclude con un capovolgimento di senso, un vero e proprio about face, nel passaggio dal filantropismo pietista di Lavater all’ultima tappa della fisiognomica weimariana: gli studi di fisiognomica razziale, pienamente adottati dal nazismo, di figure come Hans F.K. Günther (Rassenkunde des deutschen Volkes, 1922; Adel und Rasse, 1926; Rassenkunde Europas, 1929) e Ludwig Ferdinand Clauss (Die nordische Seele, 1932; Rasse und Seele, 1937), entrambi esponenti di riferimento della Nordische Bewegung sviluppatasi negli anni Venti e Trenta. Studi in cui tutta una serie di misurazioni antropometriche, condotte spesso sulla base di fotografie, venivano messi al servizio dell’individuazione dei tratti distintivi della razza nordica, di cui si intendeva perseguire, con precise politiche repressive ed eugenetiche, il rafforzamento e la purezza: un processo di Aufnordung, di “nordificazione”, per usare un’espressione di Günther, con cui combattere la Entnordung, la “denordificazione” causata dalla mescolanza razziale [Gray 2004, 246].

Se lasciamo momentaneamente da parte questa deriva razziale e razzista della fisiognomica – una deriva di cui le premesse erano peraltro già evidenti nell'Ottocento, nell'opera di Carl Gustav Carus [Gray 2004, 113-136] – possiamo osservare come nelle opere di tutti gli altri esponenti della fisiognomica weimariana l’originario progetto fisiognomico di Lavater, presentato nei Physiognomische Fragmente, zur Beförderung der Menschenkenntniss und Menschenliebe (Frammenti fisiognomici, per la promozione della conoscenza dell’uomo e dell’amore per l’uomo) del 1775-1778, di dedurre dallo studio della conformazione anatomica del volto il carattere interiore di un individuo, si trasformi nel disegno più ampio di una fisiognomica che studia, di volta in volta, le forme espressive della scrittura e della lingua (Klages) o quelle delle culture storiche (Kassner, Spengler), il “volto delle cose” colto dalla cinepresa (Balázs) o gli “aspetti fisiognomici” racchiusi nel mondo microscopico ma rivelati dalla macchina fotografica (Benjamin).

Questa estensione al di là del volto dei fenomeni studiati dalla fisiognomica non si trova nell’opera di Lavater, i cui Physiognomische Fragmente sono ancora pienamente incentrati sull’analisi dei tratti espressivi del volto e si collocano all’interno di una tradizione di studi fisiognomici che comprende i disegni sulle espressioni del volto di Leonardo e Dürer, il trattato De humana physiognomonia (1586) di Giambattista della Porta, le osservazioni sulle manifestazioni somatiche delle passioni raccolte da Descartes nel trattato Les Passions de l’âme (1648), così come la classificazione delle espressioni passionali dei volti proposta da Charles Le Brun, pittore alla corte di Louis XIV, nella sua Méthode pour apprendre à dessiner les passions, proposée dans une conférence sur l’expression générale et particulière (1702).

Pur concentrandosi sull’interpretazione del volto individuale, manifestazione esteriore di un carattere a sua volta individuale e irripetibile, e rifiutando quindi ogni intento tipologico e classificatorio [Gurisatti 2006, 69-80], Lavater concentra le proprie analisi sul volto inteso come luogo ermeneutico primario. L’origine di una fisiognomica estesa, che spinge le proprie analisi al di là del volto va cercata piuttosto in Goethe, ai cui studi di morfologia del resto si richiamano, ben più che a Lavater, tutti gli autori degli anni Venti e Trenta. Dopo aver aderito inizialmente al progetto di Lavater, Goethe se ne distanzia infatti gradualmente, sino a formulare, in uno dei suoi contributi (Beiträge) ai Physiognomische Fragmente di Lavater, la necessità di considerare come “esterno” dell’uomo da interpretare con gli strumenti della fisiognomica non solo i tratti somatici del volto ma un complesso di fenomeni che comprende la gestualità corporea, l’abbigliamento, il tenore di vita, le abitudini di ogni individuo:

Cos’è l’esterno nell’uomo? Certo non la sua figura nuda e semplice, i suoi gesti irriflessi, che caratterizzano le sue forze interiori e il loro gioco. Il ceto, le abitudini, i beni posseduti, i vestiti, tutto ciò lo modifica, lo nasconde. Già il penetrare attraverso così tanti veli fino al suo intimo, già il trovare in questi dati esteriori dei punti fermi, da cui si possa con sicurezza arrivare a delle conclusioni sul suo essere, appare estremamente difficile, anzi impossibile. Consoliamoci! Ciò che circonda l’uomo non opera solo sull’uomo, ma opera ritorcendosi anche su se stesso, e mentre si fa modificare, modifica a sua volta ciò che lo circonda. Così, certamente i vestiti e il tenore di vita familiare di un uomo ci danno indicazioni precise sul suo carattere. La natura forma l’uomo, egli si trasforma, e questo mutamento è a sua volta naturale; l’uomo, posto nel vasto mondo, si crea all’interno di questo un suo piccolo mondo, recintato e munito di mura, e lo equipaggia a sua immagine [Lavater [1775-1778] 1989, fr. I, 2 - Postilla].

Ciò che propone Goethe, in sostanza, è di estendere lo statuto di “volto espressivo” a tutte le cose che circondano un individuo, in quanto ognuna di esse può essere vista come manifestazione superficiale, fenomenica, del suo carattere individuale, secondo quella piena consustanzialità dell’interno e dell’esterno che Goethe teorizza nei suoi scritti sulla morfologia e sulla teoria del colore. Secondo questa prospettiva, non vi è separazione tra ciò che è in profondità e ciò che è in superficie. Il visibile e l’invisibile, l’esterno e l’interno, l’espressione e l’espresso coesistono, coincidono, sono simultanei, contemporanei l’uno all’altro. Questa idea viene formulata con grande chiarezza nelle Massime e riflessioni (I, 575), in cui leggiamo che “l’ideale sarebbe capire che ogni elemento reale è già teoria. L’azzurro del cielo ci rivela la legge fondamentale del cromatismo. Soprattutto non si cerchi nulla dietro ai fenomeni: essi stessi sono la teoria” (corsivo di chi scrive). Come scrive Kassner, richiamandosi a Goethe, “non c’è dentro, non c’è fuori, poiché il dentro è pure fuori” (Kassner 1938, cit. in Gurisatti 2006, 185), e il “fuori” si estende ampiamente al di là del volto. Questo rimane il luogo emblematico dell’interpretazione fisiognomica, ma ora è un insieme più ampio di manifestazioni corporee, comportamenti, beni materiali e ambienti ad acquisire un volto, una fisionomia interpretabile da un punto di vista fisiognomico e morfologico.

Blinder Bergmann und blinder Soldat, um 1930.

Nei ritratti fotografici di Menschen des 20. Jahrhunderts, in cui ampio spazio viene dato alla mimica, al vestiario, agli oggetti emblematici delle diverse professioni – quasi degli “attributi”, come nell’iconografia tradizionale delle figure dei santi: pensiamo per esempio agli strumenti del pasticciere al lavoro – questa concezione estesa della fisiognomica formulata da Goethe si manifesta pienamente. Il carattere specifico di ogni tipo sociale della Germania weimariana, secondo Sander, può essere colto non soltanto nei tratti che l’appartenenza sociale scolpisce nel volto, ma anche nelle pose corporee, nei tessuti e nelle fogge dei vestiti, negli strumenti di lavoro, negli ambienti e nei paesaggi in cui si collocano gli individui fotografati. Di qui l’importanza di osservare attentamente ogni elemento che compare nelle fotografie che compongono ognuno dei sette “gruppi” fondamentali in cui Sander intendeva articolare la sua opera: i paesaggi e gli abiti festivi che compaiono nelle fotografie dei contadini; le pose emblematiche e gli strumenti di lavoro degli artigiani; la mimica e il vestiario delle donne; il portamento corporeo dei borghesi appartenenti al ceto dei professionisti; l’eccentricità dei volti degli artisti; gli ambienti e le abitudini degli abitanti della metropoli; la condizione di emarginazione e i segni  della malattia e della morte nei ritratti degli “ultimi uomini”… Tutte queste componenti visibili delle varie fisionomie sociali rappresentate in Menschen des 20. Jahrhunderts potevano essere colte in modo nitido e oggettivo, secondo Sander, con l’ausilio della fotografia. Una convinzione che sottolinea ulteriormente l’appartenenza di Sander alla tradizione della fisiognomica moderna, che sin dalle sue origini ha sempre attribuito un’importanza fondamentale alle tecniche di rappresentazione con cui cogliere, riprodurre e interpretare i tratti espressivi del volto.

3. Silhouette, fotografia, cinema: storia della fisiognomica e storia delle tecniche di rappresentazione

Utilizzando la fotografia per elaborare quel “quadro dell’epoca” che voleva fosse “assolutamente fedele alla natura”, Sander ripropone quello stretto nesso tra fisiognomica e tecniche di rappresentazione che si era già proposto nei disegni di Leonardo e Dürer, nei diagrammi con cui Le Brun studiava sistematicamente le variazioni dei tratti fondamentali del volto sotto l’effetto delle principali passioni, così come nella nuova tecnica della silhouette usata ampiamente da Lavater nei suoi Physiognomische Fragmente, il cui successo editoriale fu anche dovuto all’ampia galleria di volti neri e di profilo contenuti all’interno dei due volumi.

A ogni tappa della sua storia, la fisiognomica elabora nuove tecniche di rappresentazione e nuove forme di presentazione delle immagini, alla ricerca di una maggiore precisione e di una maggiore oggettività nell’individuazione e nella resa dei tratti fisiognomici pertinenti. Le Brun non si accontenta di usare il disegno come Leonardo e Dürer, ma inquadra i suoi volti in diagrammi che registrano esattamente le diverse “latitudini” delle principali parti del volto (fronte, sopracciglia, occhi, nasco, bocca, mento) al variare delle espressioni passionali. Lavater va un passo oltre, e introduce una nuova tecnica di rappresentazione, la silhouette, nella quale era convinto di aver individuato la forma di rappresentazione più appropriata per cogliere il carattere individuale a partire dai tratti fondamentali, invariabili, del volto. Eliminando tutta una serie di tratti somatici ed espressivi giudicati come non pertinenti (il colore della carnagione e degli occhi, il colorito del volto, quella mimica passionale che tanto interessava a Descartes e a Le Brun), la silhouette consentiva secondo Lavater di concentrarsi sull’analisi di quelle configurazioni anatomiche del volto che non variano al variare delle espressioni patemiche: linea del profilo, inclinazione del naso, distanza tra naso e fronte e tra naso e mento, etc.  Di questi tratti somatici, la silhouette forniva secondo Lavater una rappresentazione oggettiva, facilmente riproducibile e analizzabile. La stessa oggettività che Lavater attribuiva alla silhouette verrà in seguito attribuita alla fotografia da alcuni dei principali protagonisti della storia successiva della fisiognomica.

Pensiamo innanzitutto a Lombroso e Bertillon, protagonisti di quella svolta con cui a fine Ottocento la fisiognomica, da sapere ermeneutico con cui viene interpretato il carattere individuale a partire dai tratti somatici del volto, si trasforma in una disciplina antropometrica e classificatoria con finalità criminologiche e poliziesche. Bertillon, in particolare, concepisce i propri “tableaux synoptiquqes des traits physionomiques pour servir à l’étude du ‘portrait parlé’” come delle tavole su cui vengono disposte in gruppi ordinati delle immagini fotografiche di dettagli del volto: “front”, “cheveux”, “nez”, “lèvre”, “bouche”, “menton”, “contour général de la tête due de profil, contour général de la tête due de face”… L’accurata catalogazione delle principali conformazioni di queste parti del volto avrebbe reso possibile, secondo Bertillon, la precisa individuazione di ogni volto, reso "parlante" dal confronto con le tavole antropometriche.

La stessa impostazione antropometrica e classificatoria la si trova nella fisiognomica razziale negli anni Venti e Trenta, con le opere dei già citati Günther e Clauss, che fanno ampio ricorso alla fotografia per studiare, rispettivamente, i tratti somatici invariabili da cui dedurre l’appartenenza razziale (Günther), o la mimica da cui dedurre lo “stile” e la “psicologia” razziale predominante (Clauss). In libri come Rassenkunde des deutschen Volkes (1922) di Günther o Rasse und Seele (1937) di Clauss – entrambi ricchi di tavole e di illustrazioni fotografiche – la fotografia svolgeva una serie di compiti strettamente interconnessi: documentazione (costituzione di raccolte e archivi di volti tipici, ritratti un’unica volta di profilo, staticamente, per sottolinearne i tratti somatici invariabili, come in Günther, o ripresi più volte in sequenza, per cogliere la dinamica delle espressioni passionali, come in Clauss); propaganda (esaltazione della superiorità della razza nordica, promozione della fisiognomica come sapere-chiave della moderna antropologia razziale); infine, esercizio (utilizzo delle tavole fotografiche nelle scuole tedesche degli anni Trenta, al fine di esercitare – schulen – lo sguardo alla comprensione fisiognomica, e di trasformare la società tedesca degli anni Venti in un grande panopticon razziale in cui l’appartenenza razziale di ogni individuo sarebbe stata facilmente identificata).

Con Sander, il potenziale fisiognomico della fotografia si sgancia da quella funzione strettamente antropometrica che le era stata attribuita prima dalla criminologia di Bertillon e poi dalla teoria delle razze di Günther e Clauss. Sander considerava la fotografia come un “linguaggio universale” dotato di un “potere espressivo inattingibile da parte del linguaggio verbale” [dalla radioconferenza del 1931 intitolata Wesen und Werden der Photographie. Die Photographie als Weltsprache, cit. in Gray 2004, 47] proprio in virtù della sua capacità di registrare ed esibire in modo nitido e oggettivo la fisionomia dei diversi tipi sociali della Germania weimariana, ma questa fisionomia non era solo corporea, non era descrivibile in termini antropometrici. Come abbiamo visto, accogliendo in pieno lo spirito dell’estensione dei compiti della fisiognomica proposto da Goethe nei suoi Beiträge ai Fragmente di Lavater, Sander ritrae nelle sue fotografie non solo i volti ma anche le posture dei corpi, il vestiario, gli ambienti, gli strumenti di lavoro. Il suo obiettivo era quello di mostrare come tutte queste componenti dell’“esterno” dell’uomo non fossero qualcosa di individuale e irriducibile, ma bensì il risultato di una lenta opera di uniformazione e di omologazione da parte della società.

Come leggiamo nella radioconferenza sulla fotografia come “linguaggio universale”, Sander riteneva che gli individui avessero una natura essenzialmente sociale, in quanto è la società a plasmarli e a dar loro le fattezze esteriori visibili. Il loro carattere non dipende in modo deterministico e inalterabile dai tratti somatici dei loro volti, né dalla loro appartenenza razziale: dipende piuttosto dall’ambiente in cui si formano, dalla posizione sociale che vanno a occupare, dallo stile che questa posizione introduce nelle loro espressioni somatiche, nel loro modo di vestire, nel loro comportamento: tutti fenomeni che la fotografia avrebbe dovuto saper registrare per produrre un ritratto fisiognomico oggettivo dei tipi sociali fondamentali.

Sander non era il solo ad attribuire alla fotografia uno spiccato potenziale fisiognomico, vale a dire una spiccata capacità di registrare i caratteri espressivi del volto e di tutto quell’“esterno” dell’individuo a partire da cui sarebbe stato possibile dedurne il carattere. Negli stessi anni Venti e Trenta in cui prende forma Menschen des 20. Jahrhunderts, alla stessa fotografia e al cinema viene attribuito un potere fisiognomico da parte di teorici come Balázs e Benjamin. Due autori la cui concezione della fisiognomica si estende al di là dei limiti del volto per prendere in considerazione, qua vultus, l’intero mondo fenomenico.

Nel suo Der sichtbare Mensch (1924), in particolare, Balázs aveva presentato la cinepresa come sede di uno sguardo fisiognomico capace di cogliere “la fisionomia (Die Physiognomie)” [Balázs 2001, 53], “il volto delle cose (Das Gesicht der Dinge)” – [Balázs 2001, 59 e ss.]. Uno sguardo che, sebbene mediato dalla tecnologia, sapeva far propria quella che Balázs considerava, kantianamente, come una delle forme a priori della sensibilità umana:

tutte le cose esercitano su di noi, che noi ne siamo consapevoli o no, un’impressione fisionomica. Tutte e sempre. Così come lo spazio e il tempo sono categorie della nostra percezione, e quindi non possono mai essere eliminate dal nostro modo di esperire il mondo, allo stesso modo il fisionomico è presente in ogni fenomeno. È una categoria (Kategorie) necessaria della nostra percezione [Balázs 2001, 70].

Secondo Balázs, in altre parole, le cose si danno fenomenicamente non solo disposte entro gli ordinamenti dello spazio e del tempo, ma anche con una propria fisionomia individuale. La possibilità di leggere nella superficie del volto l’espressione visibile di un carattere unico e irriducibile non è una proprietà solo del volto umano, ma di tutte le cose, di tutte le apparizioni fenomeniche. Ed è proprio questo a priori che struttura il mondo fenomenico – e che Balázs sembra a volte considerare come un a priori materiale, inscritto nelle cose, e non solo soggettivo – che il cinema riesce a cogliere con il proprio sguardo fisiognomico. Questa capacità di captare e restituire sullo schermo la dimensione fisionomica della realtà costituisce per Balázs l’essenza del cinema, lo specifico filmico, la nuova dimensione del visibile che il cinema sa rivelare in contrasto con l’impoverimento sensoriale che affligge lo spirito moderno.

Benjamin, dal canto suo, attribuisce un potere fisiognomico al procedimento dell’ingrandimento fotografico là dove, nella Piccola storia della fotografia (1931), introduce il concetto fondamentale di “inconscio ottico”, ripreso pochi anni dopo nelle diverse versioni del saggio sull’opera d’arte:

La natura che parla alla macchina fotografica è infatti una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente. Se è del tutto usuale che un uomo si renda conto, per esempio, dell’andatura della gente, sia pure all’ingrosso, egli di certo non sa nulla del loro contegno nella frazione di secondo in cui “si allunga il passo”. La fotografia, grazie ai suoi strumenti accessori quali il rallentatore e gli ingrandimenti, è in grado di mostrarglielo. La fotografia gli rivela questo inconscio ottico, così come la psicoanalisi fa con l’inconscio pulsionale. Configurazioni strutturali, tessuti cellulari, che la tecnica, la medicina sono abituate a considerare – tutto ciò è originariamente più congeniale alla fotografia che non un paesaggio carico di emozioni o un ritratto tutto spiritualizzato. Nello stesso tempo però, in questo materiale, la fotografia dischiude aspetti fisiognomici, mondi di immagini (physiognomische Aspekte, Bildwelten), che abitano il microscopico, avvertibili ma dissimulati abbastanza per trovare un nascondiglio nei sogni a occhi aperti, e ora, diventati grandi e formulabili come sono, capaci di rivelare come la differenza tra tecnica e magia sia una variabile storica [Benjamin [1931] 2012, 230).

Ampliando il campo del visibile verso dimensioni prima confinate nel dominio del magico e dell’occulto, la fotografia contribuiva secondo Benjamin a quella “grande revisione dell’inventario percettivo (jene grosse Überprüfung des Wahrnehmungsinventars)” che avrebbe in futuro cambiato “in modo imprevedibile […] la nostra immagine del mondo (Weltbild)” [Benjamin [1928] 2012, 219]. Una trasformazione delle coordinate dell’esperienza sensibile, un “training di ordine complesso” del sensorio [Benjamin [1939] 2012, 183], a cui stavano in realtà contribuendo tutti i media moderni: oltre alla fotografia, il cinema, il telefono, la radio… tutti protagonisti di un processo di esercizio ed educazione dei sensi in cui secondo Benjamin si inscriveva anche l’“atlante su cui esercitarsi” di Sander.

4. La fisiognomica e il progetto di una educazione dello sguardo: Döblin, Benjamin, Sander, e il procedimento del tipaž nel cinema sovietico

Commentando nella Piccola storia della fotografia, nel 1931, le fotografie di Sander pubblicate in Antlitz der Zeit, uscito nel 1929, Benjamin aveva ben presente quanto affermato da Alfred Döblin nella sua introduzione al volume fotografico sul “volto del tempo” [Döblin [1929] 2003]. Reduce dal grande successo di Berlin Alexanderplatz, uscito anch’esso nel 1929, Döblin presenta la fisiognomica sociale di Sander con delle parole che verranno riprese esplicitamente da Benjamin. Parla dell’azione di “livellamento” (Abflachung) degli individui – “l’uniformazione, la soppressione delle differenze personali e private” [Döblin [1929] 2003, 7] – provocato dalla vita in società, dall’appartenenza a una classe sociale, dal livello di educazione e di cultura. Secondo Döblin, sono diversi i fattori biologici, ambientali, sociali e culturali che “modellano un essere umano”: “il cibo che mangia, l’aria e la luce in cui si muove, il lavoro che svolge o che non svolge, l’ideologia propria della sua classe sociale” [Döblin [1929] 2003, 14]. Posto di fronte a questa forma di livellamento – analogo a quello provocato dalla morte, che gradualmente annulla ogni tratto individuale dei volti “con una gigantesca retouche” (eine massive Retusche) [Döblin [1929] 2003, 9] – un fotografo secondo Döblin può assumere tre diversi atteggiamenti, ognuno dei quali definisce tre diversi gruppi di fotografi.

Vi sono innanzitutto coloro che ritraggono i volti con un intento esplicitamente artistico: si interessano unicamente alla resa estetica delle loro immagini e le sottopongono al giudizio estetico dello spettatore, con il risultato, però, che le loro fotografie “non ci insegnano nulla né su di noi, né sull’uomo” in generale [Döblin [1929] 2003, 12]. Vi sono poi quei fotografi che Döblin definisce “nominalisti”, facendo riferimento alla disputa medievale tra nominalisti e realisti: sono fotografi che credono solo nell’esistenza degli individui e non degli “universali”, vale a dire dei gruppi sociali, delle collettività di cui gli individui fanno parte, e che cercano quindi di cogliere con le loro immagini tutti i tratti individuali con il massimo di precisione e di somiglianza. Sono dei “fotografi della somiglianza” (Ähnlichkeitsphotographen) [Döblin [1929] 2003, 13], la cui attività ha però delle finalità prevalentemente commerciali. Infine, vi sono quei fotografi che possono essere considerati come dei “realisti”, in quanto credono innanzitutto nell’esistenza reale di concetti e categorie “universali”, capaci di contenere al proprio interno delle molteplicità di individui. Nelle loro fotografie, non cercano di cogliere ciò che distingue gli individui gli uni dagli altri, ma piuttosto ciò che li accomuna, ciò che ne testimonia l’appartenenza a un qualche raggruppamento sociale sovra-individuale. Cercano di mostrare nelle loro immagini quello “stupefacente livellamento dei volti” (jene erstaunliche Abflachung der Gesichter) [Döblin [1929] 2003, 10] operato dalla società, dalle classi, dai diversi livelli culturali.

A questo terzo gruppo, secondo Döblin, appartiene Sander con il suo progetto Menschen des 20. Jahrhunderts. Un progetto che presenta “una sorta di storia culturale (eine Art Kulturgeschichte), o meglio una sociologia, degli ultimi trent’anni” [Döblin [1929] 2003, 13]. Di questo studio Döblin esalta l’oggettività e la scientificità, ottenuta mediante il ricorso a una “fotografia comparata” (vergleichende Photographie) (Döblin [1929] 2003, 14), che entra in azione solo dopo un lavoro preliminare di confronto tra i soggetti da rappresentare, e che presenta al pubblico delle serie di fotografie ordinate in gruppi che favoriscono ulteriormente questo confronto:

Così come esiste una anatomia comparata, che favorisce la nostra comprensione della natura e della storia degli organi, allo stesso modo [Sander] ci propone una fotografia comparata con la quale si è collocato in una prospettiva scientifica che va al di là di quella dei fotografi del dettaglio (der Detailphotographen). Sta a noi leggere queste immagini – la loro raccolta costituisce un materiale straordinario per lo studio della storia culturale, sociale ed economica degli ultimi trent'anni [Döblin [1929] 2003, 13-14].

Tramite la disposizione in gruppi e sottogruppi delle serie di fotografie, attraverso un uso accorto del montaggio, Sander ci consente di considerare con uno sguardo sinottico l’articolazione sociale della Germania weimariana, i “tipi” (Typen) [Döblin [1929] 2003, 14] che la compongono, nella loro continua trasformazione all’interno di una società attraversata da un continuo “rivolgimento” (Umwälzung) [Döblin [1929] 2003, 15]. Osservandole singolarmente e nella loro disposizione in serie, “impariamo con un semplice sguardo più di quanto impareremmo da resoconti di ampio respiro o da denunce ricche di accuse” [Döblin [1929] 2003, 14]. “Chi guarda, verrà presto istruito (belehrt), meglio che da saggi o teorie, sugli altri e su se stesso” [Döblin [1929] 2003, 15].

Döblin insiste esplicitamente su questo aspetto istruttivo ed educativo dell’opera di Sander, un’opera che, proprio come Benjamin nella Piccola storia della fotografia, considera come un potenziale oggetto di esercizio. Espressione compiuta di una vera e propria fisiognomica sociale elaborata tramite il potere documentale ed euristico della fotografia, le immagini di Sander rendono possibile secondo Döblin “un ampliamento del nostro campo visivo” (Erweiterung unseres Gesichtsfeldes) e si propongono come uno “straordinario materiale didattico” (ein herrliches Lehrmaterial) [Döblin [1929] 2003, 12].

Sin dalle sue origini nell’opera di Lavater, la fisiognomica moderna ha sempre avuto come obiettivo quello di un’educazione dello sguardo, strettamente connessa con il ricorso a nuove tecniche di rappresentazione del volto. In Lavater, si trattava di imparare a interpretare il carattere, l’interno dell’individuo, a partire dalle fattezze esterne del volto, registrate in modo statico dalla silhouette. Nella Germania weimariana degli anni Venti e Trenta, questo stesso obiettivo di un’educazione dello sguardo era stato fatto proprio dalla fisiognomica razziale di Günther e Clauss, i cui libri fanno ricorso continuamente all'ausilio di tavole fotografiche che sarebbero poi diventate parte di un ampio programma didattico di educazione al riconoscimento razziale promosso dal regime nazista [Gray 2004, 254-272].

Commentando l’opera di Sander, sia Döblin che Benjamin insistono sul suo potenziale istruttivo ed educativo, ma lo fanno in senso opposto a quelli degli esponenti della fisiognomica razziale. Per entrambi, il valore di Menschen des 20. Jahrhunderts non stava affatto nel consentire di riconoscere, tramite l’immagine fotografica, un’appartenenza razziale iscritta in modo permanente nei tratti del volto. Piuttosto, si trattava di cogliere tutti quegli aspetti dell’esterno dell’uomo – sguardi, espressioni del volto, posture corporee, abiti, pose, ambienti, strumenti di lavoro – che ne testimoniassero la collocazione sociale, ben diversa dall’appartenenza razziale in quanto non data a priori e non immutabile, bensì soggetta alla continuazione di una società in perenne rivolgimento.

Per Döblin, la “fotografia comparata” di Sander aveva il merito di contribuire a una generica “conoscenza di sé e degli altri” [Döblin [1929] 2003, 15], mentre per Benjamin essa aveva un’esplicita valenza politica in un periodo segnato dall'attesa di imminenti “mutamenti di potere”: “Che si venga da destra oppure da sinistra, bisognerà abituarsi a essere guardati in faccia per sapere donde veniamo. Dal canto proprio bisognerà abituarsi a guardare in faccia gli altri per lo stesso scopo” [Benjamin [1931] 2012, 240].

In questo contesto, l’opera di Sander poteva svolgere per Benjamin un ruolo analogo a quello che nel corso degli anni Venti aveva esercitato il procedimento del tipaž nel cinema sovietico: quella capacità di scegliere attori professionisti o non professionisti che avessero dei volti esemplari, tipici, da cui dedurre in modo immediato la collocazione sociale e politica dei personaggi da essi interpretati. “Per la prima volta, dopo decenni – scrive Benjamin nella Piccola storia della fotografia – soltanto i lungometraggi a soggetto dei russi fornirono l’occasione di far comparire davanti alla cinepresa uomini che non avrebbero saputo che farsene della loro fotografia. E istantaneamente il volto umano ricomparve sulla lastra con un significato nuovo, enorme” [Benjamin [1931] 2012, 238]. Un uso politico dell’espressività del volto che per Benjamin si inseriva in quel massiccio progetto di educazione delle masse di cui il cinema sovietico stava dando un contributo fondamentale. Già nel 1927, in un saggio scritto subito dopo il ritorno dal suo soggiorno a Mosca con il titolo Sulla situazione dell’arte cinematografica in Russia, Benjamin aveva individuato nel cinema uno degli strumenti con cui venivano condotto “uno dei più grandiosi esperimenti di psicologia dei popoli […] nell’immenso laboratorio russo” [Benjamin [1931] 2012, 259]. Parte integrante di questo grandioso esperimento di “psicologia dei popoli” era proprio la riscoperta dell’espressività del volto, più che mai evidente nella “poderosa galleria di fisionomie di un Ejzenštejn o di un Pudovkin” [Benjamin [1931] 2012, 239].

Dei due registi sovietici, il primo, in particolare, Ejzenštejn, aveva fatto ricorso al procedimento del tipaž in tutti i suoi film degli anni Venti: da Sciopero (1924) a La corazzata Potëmkin (1925), da Ottobre (1928) a La linea generale (iniziato nel 1926, ma uscito solo nel 1929 con il titolo Il vecchio e il nuovo). In tutti questi film, operai, contadini kolkhoziani e bolscevichi da un lato, esponenti dell’esercito zarista, borghesi e contadini kulaki, ostili alla collettivizzazione delle campagne, dall'altro, avevano sempre delle fisionomie fortemente caratterizzate, in modo da render possibile anche al pubblico meno istruito individuare immediatamente l’appartenenza politica di ognuno dei personaggi.

Quando ormai la grande stagione del cinema sovietico degli anni Venti si era chiusa ed era stata messa esplicitamente sotto accusa dalla nuova estetica del Realismo socialista, nel 1935, nel testo della sua relazione alla Conferenza Pansovietica dei lavoratori nel campo della cinematografia intitolata La forma cinematografica: problemi nuovi, Ejzenštejn ritornerà sul procedimento del tipaž mettendolo esplicitamente in relazione con la tradizione della fisiognomica. Quest’ultima viene presentata da Ejzenštejn come una di quelle “teorie e punti di vista, che, in una data epoca storica, costituiscono l’espressione della conoscenza scientifica, [mentre] in un’epoca seguente decadono come scienza, pur continuando ad essere possibili e ammissibili sul piano dell'arte e delle immagini” (Ejzenštejn [1935] 2003, 134). Così come la mitologia o l’idealismo hegeliano, anche la fisiognomica secondo Ejzenštejn aveva perso gradualmente ogni funzione conoscitiva, acquisendo però una funzione espressiva nel campo delle arti:

Passiamo ora a un altro campo, alla «fisiognomonia» di Lavater, considerata ai suoi tempi un sistema scientifico obiettivo. Ma la fisiognomonia oggi non è più considerata una scienza. Già Hegel si faceva gioco di Lavater, anche se Goethe continuava a collaborare, sia pure anonimamente, con lui (a Goethe va attribuita, per esempio, la paternità di uno studio fisiognomico della testa di Bruto). Noi non attribuiamo alla fisiognomonia nessun valore scientifico obiettivo, ma non appena, nel corso della rappresentazione completa d’un personaggio che incarna un certo tipo, cerchiamo le caratteristiche esterne d’un volto, immediatamente ci mettiamo a usare le fisionomie esattamente come faceva Lavater. Lo facciamo perché in un caso simile è per noi importante creare in primo luogo un’impressione, l’impressione soggettiva dell’osservatore, non il coordinamento obiettivo di segno ed essenza che costituiscono effettivamente il carattere. In altre parole, il punto di vista stimato scientifico da Lavater viene da noi «sfruttato» nelle arti, quando occorra, sul piano delle immagini (Ivi, 135).

Collegando l’opera di Sander a quel procedimento del tipaž in cui registi sovietici come Ėjzenštejn vedevano una nuova formulazione dei compiti della fisiognomica, Benjamin sottolinea il potenziale politico di “un atlante su cui esercitarsi” come Menschen des 20. Jahrhunderts. Un atlante radicalmente diverso da quelli elaborati dagli esponenti della fisiognomica razziale, sebbene condividesse con essi il progetto di una educazione dello sguardo. Questa educazione, però, non aveva in Sander come obiettivo il riconoscimento antropometrico (Günther) e psicologico (Clauss) dei tratti razziali degli individui, ma piuttosto la classificazione in un numero ristretto di tipi sociali fondamentali, in un contesto, la Germania degli anni della Repubblica di Weimar, caratterizzato da un senso di confusione sociale e da un crescente bisogno di orientamento. La risposta a questo bisogno di orientamento venne trovata negli anni Venti in una fisiognomica concepita come esercizio dello sguardo a cui si applicavano sia coloro che venivano “da destra” che coloro che venivano “da sinistra”, attribuendo entrambi all’immagine fotografica e al montaggio un fondamentale valore euristico e politico.

English abstract

In his Little History of Photography (1931) Walter Benjamin describes August Sander’s book Antlitz der Zeit (The Face of Time) (1929), the first public presentation of his project Menschen des 20. Jahrhunderts (Men of the 20th Century), as “a training atlas” (ein Uebungsatlas). According to Benjamin, such an atlas could have played a crucial political role in an age in which “whether one is of the Left or the Right, one will have to get used to being looked at in terms of one's provenance. And one will have to look at others the same way”.

The present essay is dedicated to an interpretation of Benjamin’s words. It its first part, it presents the structure of Sander’s project Menschen des 20. Jahrhunderts, in order to explain how, according to its author, it had the aim of producing a “photographic”, “physiognomic portrait” of German society during the period of the Weimar Republic. The second part is dedicated to locating Sander’s project within the wider “physiognomic paradigm” that, having its roots in the writings of Lavater and Goethe at the end of the 18th century, runs through the German culture of the 1920s and 1930s, in particular in the writings of very different authors such as Ludwig Klages, Ernst Kretschmer, Oswald Spengler, Rudolf Kassner, Bela Balázs, Walter Benjamin, as well as the “racial (and racist) physiognomy” developed by authors such as Hans F.K. Guenther and Ludwig Ferdinand Clauss. The third part is dedicated to an analysis of the link between physiognomy and technical forms of representation of the human face, from Lavaters silhouettes to Sander’s photographs. The fourth part, finally, goes back to Benjamin’s words on Sander in The Little History of Photography, in order to investigate the nexus between photography and the project of a “political education of the gaze” in Benjamin’s writings.

 

keywords | Warburg; Atlas; Benjamin; Little History of Photography; August Sander; Photography; Germany; Weimar Republic.

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Per citare questo articolo / To cite this article: A. Somaini, "Un'Atlante su cui esercitarsi". Walter Benjamin interprete di Menschen des 20. Jahrhunderts di August Sander, “La Rivista di Engramma” n. 100, settembre-ottobre 2012, pp. 260-270 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2012.100.0020