"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

65 | giugno/luglio 2008

9788898260102

Orestea oggi

Intervista a Pietro Carriglio, regista dell'edizione siracusana 2008 dell'Orestea di Eschilo

Agamennone-Coefore-Eumenidi - XLIV Ciclo di Rappresentazioni Classiche - Teatro greco di Siracusa, 8 maggio - 22 giugno 2008

a cura di Anna Banfi

D - Quale significato ha per lei l’Orestea?

R - L’Orestea ha un significato primo e irrinunciabile: è l’atto stesso di fondazione del teatro, un teatro inteso come comunità civile, come rito. Dopo l’Orestea soffriamo una ferita profonda: siamo spettatori dolenti di un rito perduto, che nel tempo di volta in volta si è cercato di recuperare in forma diversa, senza riuscire però nell’impresa di restituire quel significato che il rito ha nell’Orestea: una ritualità complessa, se si pensa che in Eschilo vi sono tutte le metafore possibili. Borges dice che la storia del mondo è la storia del variare di poche metafore: le poche metafore che fanno la storia del mondo già si trovano nell’Orestea.

D - Qual è l’attualità di Eschilo oggi?

R - Eschilo è il grandissimo poeta sul quale si fonda la poesia dell’Occidente, ma è anche un grande sapiente, qualcosa di più e di diverso dal filosofo. Platone è il testimone di una sapienza perduta; in Eschilo vive una sapienza che si manifestava anche nell’accendersi di una ritualità, della quale oggi possiamo catturare solo alcuni bagliori. In questa edizione della trilogia abbiamo puntato su uno dei tanti segni che suggerisce la complessa lettura di Eschilo, quello dell’atto di fondazione della comunità civile e quindi della legalità che presuppone l’ordine delle regole. Infatti, le vicende dell’Orestea raccontano del passaggio dalla società tribale a una società moderna, da una religiosità oscura a una sistemazione teologica del valore religione.

Pietro Carriglio dirige Luciano Roman nelle prove del prologo dell'Agamennone

D - Nel 1960 la traduzione dell’Orestea a opera di Pier Paolo Pasolini, tra attacchi e plausi, ebbe il merito di scuotere pubblico e critica dal torpore 'archeologico' delle Rappresentazioni Classiche. Nel 2008, quasi cinquant’anni dopo, questa traduzione torna a risuonare nel teatro siracusano. Qual è la sua opinione su questa versione?

R - Ho conosciuto Pasolini attraverso Carlo Levi, con il quale ho avuto un rapporto profondissimo. Levi sapeva sempre reinventare la materia: più che avere avuto questo dono dagli dei, era lui stesso un dono degli dei. Levi diceva che Pasolini era un grandissimo pittore, che il mondo di Pasolini era il mondo delle immagini. In questo senso la traduzione di Pasolini è quella che si dice una bella traduzione da fruire in teatro e, oltre ad essere bella, è anche corretta. Se la traduzione dell’Iliade di Monti è uno stupendo bassorilievo neoclassico, la traduzione di Pasolini rimane come uno scavo antropologico negli anni Sessanta (sulla traduzione dell'Orestea di Pier Paolo Pasolini si veda il saggio-documentario di Monica Centanni e Margherita Rubino, Gassman, Pasolini e i filologi nel n. 49 di "Engramma", e in questo stesso numero si veda il contributo di Anna Banfi, Orestea, da Eschilo a Pasolini: la parola alla polis). Così come Levi, con l’invenzione di una linguaggio, ci ha fatto scoprire il mondo contadino, allo stesso modo Pasolini, inventando un linguaggio, ci ha fatto scoprire il mondo delle borgate. Oggi il mondo contadino di Levi non esiste più, così come non esiste più il modo delle borgate di Pasolini, ma entrambi hanno fissato una memoria che altrimenti non avremmo avuto. Una critica colta e di sensibilità vibratile, Rita Sala, ha scoperto un piccolo segreto nel mio rapporto con Pasolini: la scenografia dell’Orestea vorrebbe essere un’iconostasi di pietà del lungo viaggio di Pasolini da Roma alle borgate, al lettuccio di sabbia e terra sul quale è stato trucidato (sulla scenografia dell'Orestea ideata dallo stesso Carriglio per l'edizione siracusana si veda la recensione di Andrea Santorio in questo stesso numero di "Engramma").

D - Oltre alla scenografia, lei ha disegnato anche i costumi per questo spettacolo. Quale significato hanno nell’orizzonte di questa Orestea?

R - I costumi nascono dal linguaggio figurativo che io posseggo e che è profondamente legato al Medio Oriente. Non hanno quindi nessuna proprietà filologica, ammesso che si possa fare filologia di immagini a proposito dell’Orestea di Eschilo, ché sempre quella filologia è un falso archeologico.

D - Che ruolo deve avere secondo lei, oggi, il teatro?

R - L’Orestea è un’occasione per dare un ruolo al teatro: restituire ad una comunità la capacità di vivere insieme i problemi e insieme dibatterli attraverso un linguaggio che è fondamento di tutto, e che è il fondamento della poesia. Nell’Orestea, infatti, viene pronunciata una sentenza che non appartiene a nessun ordinamento giuridico e a nessun sistema politico, ma è una sentenza che è profondamente nostra, perché pronunciata in nome dell’umanità.

Pietro Carriglio posiziona il Coro nelle prove dell'Agamennone

D - La sua Orestea nasce per Siracusa, per la Sicilia. Quale attualità può trovare un siciliano – oggi – nelle parole di Eschilo?

R - L’inchiesta Franchetti-Sonnino sulla Sicilia si apre con un capitolo che si intitola Pazienza dell’universale: essere pazienti di tutto, cioè, accettare il mondo nella sua immobilità. I contadini dicevano che il mondo è sempre lo stesso, immutabile. La mafia nasce anche da questo, da sotto i grandi mantelli dei campieri che regolavano la grande fatica dei campi. Oggi, in Sicilia, non si dice che il mondo è immutabile e si accetta il principio che sta a fondamento dell’Orestea: la comunità non ha bisogno di manifestazioni tribali, ma di regole per le quali Eschilo dice, attraverso le parole di Thomson: “Il regno della legge è iniziato”.

  

I documenti e i materiali riprodotti in questo saggio sono conservati presso l'Archivio Fondazione Inda - AFI - di Siracusa

Per citare questo articolo / To cite this article: A. Banfi, Orestea oggi. Intervista a Pietro Carriglio, regista dell'edizione siracusana 2008 dell'Orestea di Eschilo, “La Rivista di Engramma” n. 65, giugno/luglio 2008, pp. 52-55 | PDF