"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

12 | novembre 2001

9788894840100

9.11.2001. ‘Occidente‘ negli echi di guerra

a cura della Redazione di Engramma

English abstract | English full version | Compedium 
I. Atene 472 a.C. - New York 2001 d.C.

Nel tempo precario della guerra, dopo l’attacco devastante contro i due simboli geometrici del potere occidentale – i parallelepipedi gemelli che disegnavano lo skyline di New York e il Pentagono – e dopo la conseguente strage di migliaia di vite, tornano prepotenti nel lessico del dibattito culturale coppie oppositive elementari come ‘noi’ e ‘gli altri’, ‘amico’ e ‘nemico’, ‘civile’ e ‘barbaro’.

Si agita una temperie incandescente di ragionamenti e di passioni tenuti sopiti da cinquant’anni di ‘pace ufficiale’: ‘Occidente’, ‘tradizione occidentale’ sono il tema teorico e il refrain retorico intorno a cui si riorganizza la sintassi dell’identità nel tempo della guerra.

Ma che cos’è ‘Occidente’? La determinazione è ab initio relativa. Occidente è una prospettiva dialettica rispetto a un punto di vista originario: ‘occidente’ è un pensiero arcuato rispetto a un ‘oriente’. Se a Oriente il limes sfugge alla cattura, anche l’Occidente è senza confini certi e stabili: la determinazione negativa del non plus ultra delle Colonne d’Ercole sembra essere stabilita come provocazione alla trasgressione del limite. Trasgressione già molte volte praticata dall’antichità, e poi progettata proprio nel tempo in cui lo sprofondamento di Bisanzio nell’Asia sconvolse l’orizzonte del mondo e costrinse a trovare un nuovo disegno delle coordinate spaziali. Da là, in cerca di Oriente, si scoprì quella che doveva diventare la terra di deriva dell’Occidente. Ma l’errore di Colombo riflette un’ambiguità profonda ed essenziale: dove finisce ‘Occidente’? A occidente di Occidente non si trova il ‘primo’ Oriente?

Nell’Iliade, primo testo della letteratura che dovrebbe raccontare di una guerra tra ‘noi-Greci’ e ‘loro-Troiani’, la parola ‘barbaros’ non compare mai. Si parla di eroi, di onore, di guerra. Di ferocia e di pietà. Non si parla di ‘noi’ e di ‘altri’. I Troiani condividono con gli Achei un linguaggio etico ed estetico: nomi, dei, forme, valori. Atena e il suo palladion proteggono Troia, ed è quel talismano potente che Odisseo tenta nella notte di sottrarre alla città per renderla vulnerabile. “Il tuo corpo non avrà sepoltura, ma sarai divorato da cani e uccelli”: gli eroi prima del duello si scambiano minacce efficaci perché parte di un lessico simbolico condiviso; Glauco e Diomede si scambiano le armi, anziché combattersi, perché riconoscono segni di antica ospitalità tra i loro antenati. Il troiano Ettore sottrae a Patroclo le armi di Achille e le indossa, per presentarsi in campo con la sua sagoma: Achille contro Achille.

La morte di Ettore annuncia per figura la morte di Achille, elusa dal taglio narrativo dell’Iliade: il pianto di Teti, la madre di Achille, su Patroclo vestito delle armi di Achille, ma anche su Ettore, che indossa le stesse armi, conferma che la morte del campione troiano non è altro che una prefigurazione, un gioco di specchi che sfonda il tempo narrativo.

Omero – come già notava Tucidide – non conosce il significato di ‘barbaro’: gli ‘altri’, in Omero, ‘altri’ non sono da nessun punto di vista; lo schema identitario greci/barbari è più recente, tutto iscritto nella ‘storia’.

Come insegna magistralmente Santo Mazzarino, l’idea di una alterità, culturale e istituzionale, fra Oriente e Occidente nasce paradossalmente nello spazio liminare dell’incontro: sulla costa dell’Asia minore della precoce colonizzazione ionica. Le colonie originariamente allargano i confini del concetto di identità, pur esportandolo nell’altrove orientale. Feconda risulta l’integrazione e contemporaneamente l’attrito con la potente istituzione politica e istituzionale dell’Impero persiano. Là sul limes della costa asiatica, dove i greci sono sudditi delle satrapie persiane, ma dove la cultura achemenide, dalla lingua all’architettura, è pesantemente infiltrata di elementi greci, nasce l’idea di ‘noi’ e di ‘altri’: nascono i primi, precocissimi, esperimenti di demokratie (con tutta l’ambiguità e la difficoltà interpretativa che il termine comporta fin dalla sua prima attestazione in Erodoto VI, 43, in riferimento alle ‘democrazie’ istituite d’autorità da Mardonio, genero di Dario, nelle colonie greche dell’Asia Minore “dopo aver deposto tutti i tiranni degli Ioni”). Ad Alicarnasso, colonia asiatica, nasce Erodoto, e con lui l’invenzione della storia. E quindi dell’idea di una contesa ancestrale tra Asia ed Europa che affonda le sue radici nel mito.

Le guerre persiane sono il momento in cui i Greci si riconoscono come tali: in cui si chiamano, per la prima volta, tutti insieme Hellenes. l’identità occidentale – il pericoloso pronome ‘noi’– sorge dunque da un preciso conflitto. Le battaglie difensive degli Elleni contro l’invasione persiana, avvenuta tra il 490 e il 480 a.C. – una campagna di consolidamento del fronte occidentale di un impero sterminato che si affacciava sul Mediterraneo con le ricche satrapie di lingua e cultura greca della Ionia – scatenano un meccanismo narrativo che, nella forma tutta nuova della scrittura in prosa, prende il nome di ‘storia’. La storia nasce in Occidente dal racconto di Erodoto che prende avvio da una catena di vendette, con un andirivieni di donne rapite e trasportate dalla costa orientale a quella occidentale e viceversa.

Tra i testi teatrali che ci sono pervenuti, il termine ‘barbaros’ risuona per la prima volta nel teatro di Dioniso di Atene nel 472 a.C. nelle parole del coro dei Vecchi dignitari dei Persiani di Eschilo, tra i resti della distruzione recente dell’acropoli avvenuta nel 480 (il nemico tremendo e potente che pochi anni prima aveva incendiato i templi del cuore simbolico di Atene e aveva fatto evacuare la città) nella locuzione antifrastica “barbara chiarezza”. Non c’è polemos, insegna il linguaggio tragico, che non riveli al fondo un grumo di stasis, di conflitto intestino irriducibile al gioco facilitato dell’identità/alterità – che include in sé l’antinomia fondativa dell’identità: la consapevolezza che il nemico è sempre “una forma del mio problema”; e che non si dà ‘altro’, non si dà ‘nemico’ in cui non sia riconoscibile un riflesso della mia identità (un’immagine di questo riflesso nello sguardo che si scambiano, nel momento fatale in cui Eros prevale su Thanatos, i nemici-amanti: Achille e Pentesilea).

Ma se ha un senso parlare di ‘tradizione occidentale’ è necessario far riferimento alle peculiarità di una cultura che dalle sue origini, fuori da uno schema retorico primordialmente bellicista, ha saputo pensarsi come luogo di confine: non pacifica accentuazione del dato identitario, ma orizzonte critico della definizione della propria identità dinamica che non si lascia mai fissare in una forma rigidamente chiusa.

Eschilo, fiero soldato a Salamina, decide di non inscenare la vittoria del proprio popolo, ma l’arrivo della notizia della sconfitta subita da parte dei Persiani. Nel momento dell’attesa celebrazione della gloria, nella città distrutta dallo stesso esercito ora sbaragliato, il pubblico ateniese assiste alla tragedia altrui: la scena allontana dalla propria catastrofe – il rogo di Atene, l’acropoli, il simbolo della polis – la proietta sul dolore altrui e la riplasma su di esso.

Inevitabile, dopo l’attacco al cuore di New York, l’ideale sovrapposizione della distruzione sacrilega del Partenone con la distruzione che ha colpito nel suo centro nevralgico la città contemporanea per eccellenza. I simboli antichi e i miti della tragedia non si lasciano però semplificare e ridurre, come insegna in prima istanza il ribaltamento scenico eschileo – immaginiamo le scene del bombardamento di Kabul proiettate in uno schermo installato al ‘Ground Zero’. Ma il gioco di attualizzazione si presta a uno scarto ulteriore.

I Persiani sono il popolo potente di uno sterminato impero conquistato con la forza di un imbattibile esercito di terra, la cui influenza si spinge oltre i confini delle terre possedute. Nei versi della tragedia le genti ‘barbare’ si caratterizzano per l’opulenza e la ricchezza delle vesti, per lo sfoggio dell’oro, per la struttura politica gerarchica che pone il re, un uomo solo, al di sopra del popolo intero. Tutto è giocato in un sistema che oppone questi tratti caratteristici a quelli degli Elleni che vestono il peplo di lana grezza non tinta, e, nel sistema politico ‘democratico’, riservano il potere supremo e la giustizia unicamente agli dei, a cui soli spetta l’attributo dell’oro.

Ancora: i Persiani sono il popolo che dietro la figura di un re "furioso di guerra" (thouròs, così Eschilo in Persiani definisce Serse) si spingono oltre i confini – pur così generosi – concessi loro dalla mòira e in questa corsa scellerata e ingenua, sono colpiti nel cuore delle proprie forze, i giovani guerrieri dell’esercito: un esercito di terra empiamente spinto oltre i limiti delle proprie capacità verso le agili forze ellene esperte del mare. Se la dolorosa icona delle torri sventrate si sovrappone all’immagine del rogo di Atene, altrettanto il colonialismo economico-militare americano ricorda l’hybris persiana. Allora quali sono i barbari, chi è l’‘altro’? Il mito tragico dell’alterità ci insegna che non dovremmo credere all’esistenza di una risposta sola.

Formulate le fondamentali questioni di alterità (Oriente come altro di Occidente) e di indeterminatezza (dove finisce Occidente? dove incomincia Oriente?), se iniziassimo a considerarci un punto costantemente intermedio tra i due poli di Oriente e Occidente, potremmo in un certo senso sfatare alcuni luoghi comuni e scoprire l’anima di queste ‘geografie’ nel loro divenire sorgenti e matrici di civiltà e di storia.

II. Dioniso migrante

Da Oriente a Occidente viaggia Dioniso, il due-volte-nato, il dio venuto da lontano, che riconduce sempre alla radice duale e plurima delle cose, e impedisce che l’Occidente marcisca, appaesandosi fissamente nell’assoluta certezza della propria identità. Per quanto esibita in forma dialetticamente mossa, per quanto retoricamente autocelebrativa, la civiltà occidentale non può essere solo ‘identità’, se non rischiando, paradossalmente, di assomigliare troppo a qualsiasi altra civiltà.

    

"La contrapposizione geografica tra Oriente e Occidente è qualcosa di fluttuante e indeterminato: è soltanto un contrapposto fluire di una minor quantità di notte e di luce. La nostra terra ha un polo nord e un polo sud, non però un polo orientale e uno occidentale. Sul piano geografico in rapporto con l’Europa, l’America è l’Occidente; in rapporto con l’America, Cina e Russia sono l’Occidente; in rapporto con Cina e Russia, a sua volta Occidente è l’Europa. Sul piano puramente geografico, quindi, non ne scaturisce affatto una polarità, e tanto meno una spiegazione sensata delle ostilità, né la possibilità di riconoscerne la struttura peculiare". (Carl Schmitt, Il nodo di Gordio)

Da Occidente a Oriente viaggia Alessandro, nuovo Dioniso, e sciogliendo il mitico nodo di Gordio unifica per un tempo breve e folgorante non solo politicamente, ma simbolicamente il cosmo, riconnettendo Oriente a Occidente. Alessandro si appropria dello splendore delle regge dell’Asia e nelle illustrazioni orientali il re greco è identico al re persiano sconfitto, di cui acquisisce il potere.

     

Giunto alla fine della sua agonia il Virgilio di Hermann Broch confonde i luoghi della sua vita: Roma e l’Oriente gli appaiono incerti nella loro effettiva collocazione, ogni cosa velata dalla nebbia dell’origine, nebbia nativa che confonde i confini. Da sempre nel Mediterraneo ogni luogo si è confuso con altri e poi si è trasferito secondo rotte spesso imprevedibili fino a rigenerare altrove la propria realtà. Dove Roma è apparsa più splendente che in Africa o nel Vicino Oriente? Nelle città di Leptis o Palmira dove la tradizione dell’impero si è conservata intatta nel tempo e ancora i colonnati svettano nel deserto. Dove l’Islam ha brillato più che a Granada, il cui ricordo si fissa nelle lacrime dell’ultimo moro che la lascia per tornare a materializzarsi a Fès o Marrakech? Dove la Grecia si rivela più che nelle sue colonie oltre il mare o nei sentieri delle montagne d’Oriente o ad Alessandria? E dove l’Inghilterra o la Spagna sono più reali che in India o nelle Americhe?

Nelle collocazioni originarie le architetture rimangono presto icone vuote se la vita si separa dalle forme, impronte o rovine che la storia pedantemente si incarica di decifrare: forme e significati si trasferiscono invece altrove, dove il rallentamento del tempo ne permette la conservazione o dove la semplicità del vivere affida ancora un senso alle cose. I luoghi, tòpoi della fissità, sono invece per loro natura quanto di più mutevole e fluttuante esista e i loro segreti percorsi tracciano sul mondo una trama che sovverte la geografia convenzionale e rende impossibile stabilire appartenenze radicate.

E ciò non cambia granché attraverso il tempo, anche se la progressiva omologazione delle abitudini, delle religioni o ideologie di massa, dei prodotti rendono il mondo sempre più uniforme. Anche oggi, incessantemente, i significati dei luoghi si muovono nello spazio e sfidano il tempo e così le loro immagini vivono, seppur sballottate qua e là da flussi commerciali o turistici. E quasi nulla è più ciò che sembra. Sempre più sono i luoghi che assomigliano ad altri e Oriente e Occidente hanno ormai talmente incrociato i propri sentieri e le proprie tradizioni da ospitare spesso paradossalmente al proprio interno ognuno la scintilla dell’essenza dell’altro. Lo dimostrano i grattacieli che stravolgono il profilo delle città d’Africa e d’Asia o le enclaves asiatiche o magrebine in America o in Europa.

     

Se è vero che i luoghi, al più, conservano ad oltranza il proprio passato reso ormai snervato e sterile dalla migrazione delle forme e dei significati, è solo il sovvertimento topografico, che genera una geografia inquieta all’interno delle denominazioni di sempre, che può far scaturire il rinnovamento e la rigenerazione di luoghi ormai usurati dalle troppe rappresentazioni e dalle troppe parole.

Ma ciò che è fuori luogo, rispetto alle ondate unificanti di ogni tipo, turistiche, consumistiche o religiose, è anche immediatamente in pericolo. Ciò che simboleggia ancora qualcosa che non rientra nei processi di omologazione di tutti i generi deve essere cancellato. Così è per i Buddha di Bamiyan la cui distruzione era già profeticamente paventata nel 1980 da Bruce Chatwin:

"Gli afghani faranno qualcosa di assolutamente terribile ai loro invasori – magari ridesteranno i giganti addormentati dell’Asia centrale […]. Non saliremo sulla testa del Buddha di Bamiyan, dritto nella sua nicchia come una balena in un bacino di carenaggio".

Si distrugge ciò che non può essere del tutto controllato perché simboli o luoghi inconciliati non si prestano facilmente a significati univoci. Nel continuo tentativo di neutralizzazione dell’altro, c’è chi i propri luoghi o gli altrui simboli li distrugge diffondendo modelli infestanti ma rassicuranti e c’è chi li attacca frontalmente non potendo sopportare la diversità. Ma l’annullamento dell’altro non può che condurre alla negazione di sé nell’inconscia identità con l’altro rimosso.

Il termine stesso ‘identità’ pare incongruo; rinvia a un’immagine fissa, fotografica, più che alle sequenze di un film d’azione drammatica quale è la storia occidentale: ma la natura ossimorica e paradossale di questa tradizione si manifesta nella trama tecnicamente tragica, che stilizza l’identità come una specifica e individuale tensione tra poli contrapposti.

Storicamente connotata per l’atto di ‘decidersi da’ qualcosa, per il gesto storico di dislocarsi dall’Asia, l’identità nasce dal movimento, e deve, per esistere, continuare a seguire quest‘inquietudine eraclitea. La distanza dal pieno dell’origine asiatica e dal vuoto dell’inizio greco – l’ebbrezza di Dioniso e la chiara misura di Apollo – segna continuamente le oscillazioni di una tradizione che si vuole contraddittoria, perché trova senso solo nella sfida a governare – con vie plurali – le energie suscitate dalla contrapposizione polare che la attraversa.

La crucialità dell’identità occidentale si svolge tra l’attitudine a superare ogni limite e il continuo richiamo al ‘luogo di provenienza’. l’attrito tra le due coordinate sviluppa esiti puntuali, storicamente delimitati, e le forme culturali di volta in volta provocate dai diversi modi di incontro tra le due tendenze sono sempre diverse, e deperibili.

l’Impero romano ha visto i suoi migliori prìncipi alternativamente cadere uccisi durante le campagne d’Oriente o morire organizzando il limes contro i barbari del nord. E se l’impegno militare di imperatori filosofi come Marco Aurelio testimonia, al di là di qualsiasi tentazione pacifista, la natura costitutivamente conflittuale dell’Occidente, adeguata alla durezza richiesta dalla lotta per la creazione di grandi forme, rimane vero, nello stesso tempo, che il limes più che escludere i barbari, li attrae nel mondo degli uomini civili. Il limes potenzia la dinamica di un desiderio che attiva attrazione e aggressione.

III. Attacco simbolico

Un aereo all’improvviso nel cielo azzurro di Manhattan e una torre del World Trade Center è inesorabilmente colpita; diciotto minuti dopo la scena si ripete. Fiamme rosso e arancio esplodono come un magnifico fuoco d’artificio. Poi la terribile e diabolica bellezza della caduta, all’improvviso i muri si gonfiano, il crollo e una nube che tutto avvolge. È uno spettacolo drammaticamente bello: "è un film" tutti ci ripetiamo.

C’è un’ipertrofia irragionevole di esattezza simbolica, di purezza del gesto, di spettacolarità, di immaginazione. Nei diciotto minuti che separano i due aerei, nello sgranarsi degli altri veri e falsi attentati, nella invisibilità del nemico, nell’immagine di un Presidente che se ne parte da una scuoletta della Florida per andare a rifugiarsi nel cielo, in tutto questo c’è troppa maestria drammaturgica, c’è troppo Hollywood, c’è troppa fiction. La Storia non era mai stata così. Il mondo non ha tempo di essere così. La realtà non va a capo, non concorda i verbi, non scrive belle frasi. Noi lo facciamo, quando raccontiamo il mondo. Ma il mondo, di suo, è sgrammaticato, sporco, e la punteggiatura la mette che è uno schifo (Alessandro Baricco).

Quelle immagini perfette ci colpiscono per la ferocia, i morti, la paura ma è la perfezione della realizzazione di quella catastrofe che ci attrae e ci incolla al video. "La più grande opera di tutti i tempi". Il giudizio non è di un fanatico fondamentalista ma del compositore tedesco Karlheinz Stockhausen a una radio di Amburgo. "Che degli spiriti” dice “compiano una cosa del genere, che delle persone provino per dieci anni come pazzi in modo totalmente fanatico per un concerto e poi muoiano: questa è la più grande opera d’arte che in assoluto esiste nel cosmo". E ancora: "Gente così concentrata su una recita e poi 5.000 persone che vengono cacciate nella resurrezione in un momento; al confronto noi compositori non siamo niente". Lo stesso musicista mentre parla si accorge di avere esagerato. "Dove mi ha portato Lucifero? È folle [...]", si giustifica e prega di non diffondere l’intervista.

Aisthànomai: estetica, ha a che fare con i nervi, con il costruire il mondo sentendolo, disponendolo con politica responsabilità in una rete di nessi, richiami, nascondimenti. Non c’è alcuna morale né alcuna autonomia del ‘valore’ artistico: il giudizio di Stockhausen è politicamente giusto, perché un grande compositore agisce come un sismografo warburghiano e – ingenuus ed esattamente visionario – trasmette la grandezza energetica delle catastrofi, obliando inconsapevolmente il filtro profilattico della premessa di condanna morale, cultuale, maniacale. Intanto il Musikfest di Amburgo comunque cancella subito i due concerti programmati.

Il film Indipendence day: negli States un flop. Gli americani non avevano creduto, neppure per divertimento, al superamento del limite: la distruzione dei luoghi simbolo, dei luoghi del potere, dei luoghi che esprimono la loro identità. l’11 settembre 2000, l’inverosimile fantascienza diventa fuoco, polvere e sangue:

I disprezzatori dell’umanità che hanno scelto le Torri gemelle non sono rozzi abbastanza da non riconoscere il valore più profondo dei nostri simboli (Adriano Sofri).

Le Twin Towers sono Manhattan, come la Tour Eiffel è Parigi, San Pietro è Roma: così New York, con l’amputazione del suo skyline unico al mondo, soffre la perdita traumatica di un’immensa parte di sé. Manhattan è uno dei luoghi nevralgici dell’interscambio finanziario e decisionale del pianeta: come Londra, Bangkok, Tokyo, Francoforte, si tratta di nodi della ‘città globale’ dove si fa e si pianifica tutto dappertutto. Il World Trade Center è il simbolo più evidente e più ovvio, la concentrazione visibile di potenza economica e di sistemi di trasporto pubblico: sotto le due torri passavano varie linee della metropolitana, il treno per il New Jersey, collegamenti cruciali per la città.

   

I nodi del potere e dell’economia sono stati colpiti, ma, se ripensiamo a quella ‘esattezza estetica’ che ci ha impressionato e che spesso ritorna nel nostro immaginario, dobbiamo ammettere che il regista che ha messo in scena l’attacco terroristico (non con effetti speciali ma reali) ha afferrato appieno il messaggio che le città trasmettono. Avere colpito le Torri, il Pentagono, significa colpire non solo economia e politica, ma centrare il bersaglio della comunicazione, centrare l’identità di quella civiltà che attraverso alcuni punti di riferimento architettonici si rappresenta. Attraenti segni sbrilluccicanti della civiltà occidentale contemporanea.

La definizione di un’identità non può darsi senza l’attribuzione di un’immagine. Questo è particolarmente vero per la civiltà occidentale, che soprattutto a partire dalla benjaminiana epoca della ‘riproducibilità tecnica delle immagini’, ha fatto dell’iconismo lo strumento per eccellenza dell’espressione di sé: per l’Occidente, e non per l’Oriente, possiamo parlare di ‘civiltà dell’immagine’. E proprio questo è l’obiettivo che l’estremismo islamico ha inteso colpire, facendo dell’attacco terroristico soprattutto un attacco simbolico – cogliendo tra l’altro un suggerimento hollywoodiano del ‘nemico’.

Ma l’eccessiva perfezione nel scimmiottare l’esatta tecnologia occidentale è negazione ultima del proprium dell’Occidente: che è fondamentalmente frattura, imperfezione, ferita. Ancora una volta purezza monoteistica e iconoclasta versus pericolo politeista immaginale, tratto peculiare della civiltà occidentale.

Una civiltà ancora viva che trasforma e mette in discussione i suoi simboli attraverso metamorfosi che nel tradimento perpetuano la tradizione e permettono la fuga dall’immobilismo. Qualità o caratteristica che distingue questa civiltà dalle altre, compresa quella islamica che ha creato tante meraviglie, che ora però, raggelate, sembrano essersi spente. Seppur lontana la fine e lo spegnimento della nostra civiltà, dobbiamo ammettere che oggi più che mai mostra le sue crepe:

Da tanto tempo l’occidente, così brillante di marchi ed emblemi e logo, perde la guerra dei simboli. Lancia missili da elicotteri marziani, mentre gli altri mandano padri di dieci figli imbottiti di esplosivo e chiodi, ragazze incinte della propria bomba. Ora, per spingere fino al cielo l’aggressione simbolica, gli uomini del terrore hanno messo insieme il suicidio fanatico con la potenza tecnica (Adriano Sofri).

Questo è il momento della richiesta di sicurezza: matura in questo clima la tentazione di leggi restrittive per tutti i canali della comunicazione. Ogni censura viene giustificata dalla necessità di bloccare il terrorismo. Prevale nuovamente il ‘valore’ della sicurezza con i suoi corollari: incapacità di rapporto creativo con l’altro, difensivismo psicologico, concentrazione del potere di declinazione di ciò che è identità in una o più caste specializzate, ossessione sospettosa dello stato verso gli stranieri. Anzi, hobbesianamente, verso tutti i cittadini.

Proiettando compattamente all’esterno la carica conflittuale, ponendosi con rigidità assoluta nei confronti dell’altro, l’Occidente finisce con l’assomigliare all’altro. Che, appunto, vede nell’innovazione un pericolo, delega ad un potere teocratico l’interpretazione universale del mondo, diffida a priori del popolo vicino. Cade così la differenza – e l’autolegittimazione della tradizione occidentale: per timore del rischio (cioè per stanchezza di sé, per esaurimento della tensione creativa votata all’experimentum mundi) si torna alla purezza, all’idea dei popoli Eletti, all’omogeneità etnica, all’immunità ecologica, alla fedeltà al Libro. Il regime del rigore è allertato contro il pericolo mercuriale della comunicazione libera e incontrollabile.

Limitare e vigilare Internet, perché possibile ‘arma da guerra’, significa ammettere che i terroristi hanno saputo vincere anche questa battaglia. Guerra, sicurezza, controllo della rete, il mausoleo al posto delle Twin Towers: non sono queste le risposte che possono rianimare una civiltà che vuole continuare a essere vitale. Sono, al contrario, il decreto di condanna a un immobilismo del tutto estraneo all’essenza dinamica della tradizione occidentale.

IV. Architettura verticale

E i grattacieli? E il vuoto che ora si è aperto a New York?

Spero che l’offensiva del terrorismo non sradicherà il grande tema dell’architettura con tutto il suo potenziale simbolico […] Rinunciare significherebbe dargli ragione. È inammissibile, sul piano etico e su quello politico (Jean Nouvel).

La catastrofe libera spazi e prospettive: se questo è Occidente, non di commemorazioni immobilizzanti abbiamo necessità ma di architetti che vogliano riempire i vuoti e di politici che, come Pericle, anche quando ricordano i caduti trascinano gli interlocutori a nuove imprese: che è poi l’unico modo dinamico di elaborare il lutto, di dare eco ai sacrificati.

Spetta al senso tragico l’ulteriore compito di impedire grossolane interpretazioni dei fatti, di riscattare dalla dimenticanza la genealogia dei conflitti, l’ordito interiore di Oriente e Occidente, il suo fulgido intarsio: ancora, contro gli animaleschi sentimenti di paura o di vendetta, si pone il sentire politico.

Si intende che per sua natura il sentire politico è l’opposto di ogni furbesca mediazione, che esige affermazioni irruenti: può benissimo diventare conflitto o guerra. Ma sempre per portare a compiuta espressione un teso artificio umano. No, le nazioni avanzate non rinunceranno ai grattacieli. Le megastrutture dal 1990 in poi hanno vissuto un rilancio impressionante, negli Usa, in Estremo Oriente e in alcune città europee. Le massime espressioni simboliche della potenza finanziaria, dell’audacia creativa e tecnologica, non cesseranno di puntare al cielo.

L’attacco a Manhattan non fermerà la corsa all’altezza, come alla fine del XIV secolo i crolli delle cattedrali non furono la fine dell’architettura ecclesiastica, interviene Kurt W. Forster e Massimiliano Fuksas, autore delle due torri Wienerberger a Vienna.

Basta ricordare la Mile High Tower di Wright, la torre ha un contenuto di provocazione. Ma soprattutto, nella società globalizzata, sottile stratosfera che funge da conduttore tra grandi centri finanziari, è il punto dove convergono i fili della rete. La corsa sarà limitata dai Dioscuri, Economia e Struttura. New York non sceglierà mai il Memorial, un’idea tipicamente europea; già il valore economico dell’area lo esclude (Kurt W. Forster).

Che si fa, torniamo alla città-giardino per paura dei terroristi? Non si può rinunciare alla creazione. Siamo costretti a salire dalla densità planetaria. In Cina si inurberanno nei prossimi anni 600 milioni di abitanti, a Pechino sono previsti oltre 140 edifici alti. A Manhattan mancano 6 milioni di metri quadrati: quante decine di ettari coprirebbero, se fossero suddivisi in edifici di sei piani? […] Negli anni Settanta, quando le autobombe attaccarono le ambasciate Usa, il Dipartimento di Stato volle decentrare le nuove sedi diplomatiche verso siti periferici e inappariscenti. Possiamo ridurci a questo? Ripiegare su cittadelle blindate ipersorvegliate? O avremo il coraggio di difendere l’ideale democratico della città densa e vitale? (Massimiliano Fuksas).

     

Nessuna neutralità quindi, e sia chiaro che non alberelli commemorativi devono essere piantati al posto delle Twin Towers, ma nuovi e più ardimentosi grattacieli devono sorgere in questa terremotata radura, in questa sorgiva agorà. Il tentativo, compiutamente teorizzato, di colpire l’orgoglio costruttore troverà smentita solo nella futuristica dimensione della città verticale. Ma la sconnessione storica, l’energia che si sta liberando chiama una nuova sensibilità artistico-politica. Solo la tradizione occidentale può produrre la risposta, rielaborando il repertorio di tracce, cicatrici, intraprese, che la connotano e del quale pare non ricordarsi più.

           

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio (Italo Calvino).

Nessun gendarme mondiale può limitare le comunicazioni, non si può evitare di viaggiare, e non ci si può allontanare dalle città: perché la città è per l’uomo occidentale il più grande artificio da lui inventato, carico della sua presenza e dei suoi segni. Non si può rinunciare alla memoria di ciò che è stato ed è, per allontanarsi in un mondo isolato e immobile, tranquillo, sicuro, senza desideri. Le città si possono dividere in due specie:

[Le città] che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare le città o ne sono cancellati (Italo Calvino).

V. Icone in rete

Dall’11 settembre i nostri occhi e le nostre menti sono stati raggiunti da migliaia di immagini. Carta stampata e televisione ci hanno propinato in un primo momento immagini documentarie di ciò che stava accadendo. Nell’arco di due mesi però queste immagini sono cambiate: spinti da una sorta di voyeurismo della tragedia, i media sono andati in cerca delle inquadrature migliori, delle scene più strazianti, del dolore più patinabile e più patinato.

A questo voyeurismo si contrappone l’ironia (e in alcuni casi il cinismo) delle immagini digitali dei forward di Internet. Tali immagini, proiezione immediata e mediatica dell’immaginario occidentale, produzione casalinga e artigianale di fantasiosi quanto anonimi maghi del computer, nonché oggetto di una divulgazione confidenziale e un po’ goliardica, sono uno dei segnali di come l’occidente veda e interpreti l’attuale crisi. È subito interessante notare come queste immagini riguardino esclusivamente l’attacco di New York. Ciò è significativo del maggior potere simbolico di un’icona economico-politica (il cuore della polis) rispetto all’icona militare. Il repertorio delle immagini create dall’onda emotiva causata dall’attentato a New York è vastissimo. In questa sede tuttavia ne analizzeremo solamente alcune tipologie specifiche, particolarmente utili per la comprensione della distanza che intercorre fra il fatto in sé e la sua rappresentazione.

V.1 ‘Auto-rappresentazione per scarto‘ del Rogo del Terrore

Alle immagini spettacolari e cinematografiche dello skyline di New York avvolto da coltri di fumo si affiancano visioni demoniache. Nell’immenso calderone qual è la Rete, amplificato dal tam-tam della posta elettronica, valanghe di immagini, filmati e animazioni sui tragici avvenimenti del 11 settembre e sugli inizi dei combattimenti in Afghanistan, si sono riversate nei desktop di molti. Gran parte del materiale in circolazione risulta essere tutt’altro che tragico o drammatico: un sarcasmo feroce subentra spesso a scene di estrema pietà. La provenienza stessa delle immagini (europea per lo più, ma anche nord americana) palesa una ‘auto-rappresentazione per scarto’, la capacità di distacco e l’ironia insita nell’homo Occidentalis. Proprio in queste settimane l’Occidente ha fatto sfoggio in più occasioni di una autoironia pungente, come a esorcizzare la paura e lo sgomento. Il grande ‘nemico’, l’Oriente, appare invece freddo e rigido e per questo in netta contrapposizione alla ‘leggerezza’ tragica dell’Occidente: l’integralismo, ogni integralismo, si presenta tutt’altro che disposto ad accettare il sarcasmo e l’ironia.

Gli Americani, infatti, considerati ‘senza dio’, sembrano vittime di una morbosa attrazione per il demonio: i sintomi sono visibili non solo nel proliferare delle sette sataniche, ma anche nella proiezione attuata attraverso la ricchissima filmografia di genere. Anche nel caso dell’11 settembre sembrano credere che chi li attacca, il barbaros, non sia altri che Satana, il cui ghigno malefico fa capolino in ben due inquadrature della CNN.

In verità tali visioni demoniache non sono del tutto estranee alla tradizione occidentale. Ad esempio un fatto analogo, testimoniato da documenti d’archivio (ma ritenuto frutto di fantasia già dai contemporanei), avvenne alla morte di Alessandro VI, il biasimato Papa Borgia, dal cui corpo gonfio e fumante fuoriuscirono ben sette demoni. Davanti alle immagini in questione, però, può sorgere un dubbio: dove alloggiava il demone malefico a cui appartiene il volto? Nel corpo dei dirottatori o nel World Trade Center? Qualunque sia la risposta, a dar credito a questo tipo di immagini, se non proprio santa, questa guerra è per lo meno ultraterrena.

V.2 Il Futuro sul luogo del Rogo

Un’altra tipologia di immagini legate ai fatti degli ultimi tempi raffigura l’area del World Trade Center nel futuro. Nella mentalità americana non è immaginabile uno spazio obliterato nel cuore della Grande Mela. L’acropoli non può restare bruciata e sgombra, nemmeno per il tempo di rappresentare una tragedia catartica. In questa sorta di horror vacui lo spazio vuoto va riempito e ripristinato subito. Ed ecco quindi che le immagini digitali mettono già in scena come potrebbe essere la New York del futuro.

Alcune immagini raffigurano il complesso edilizio del World Trade Center ricostruito ed incrementato: le torri da due sono diventate cinque e simulano il gesto offensivo di una mano indirizzato ai terroristi. Altre immagini, invece, offrono una visione dello skyline di New York in caso di sconfitta: minareti e moschee fra i grattacieli. 

         

V.3 Iconomachia della Libertà 

La statua della Libertà è simbolo per eccellenza di New York e degli Stati Uniti. Non si tratta dell’agalma di una dea, e nemmeno di un palladion (se lo fosse andrebbe cambiato in quanto inefficace). In essa non si riconosce l’immagine di nessuna divinità e forse proprio per questo si identifica così bene con la mentalità americana. Unitamente a questa neutralità ‘politically correct’, la cinematografia e la ritualità turistica hanno fatto di questa raffigurazione un’icona potente, non statica ma oltremodo versatile, in grado di scendere in campo attivamente nella guerra delle immagini.

La statua della Libertà, a differenza, ad esempio, del Cristo di Rio, può infatti alzare la mano al cielo in un gesto volgare indirizzato ai terroristi (lo stesso gesto da una delle ipotesi di ricostruzione del World Trade Center). Anche per Miss Liberty (come viene chiamata dagli abitanti di New York) è stato ipotizzato un futuro in caso di sconfitta: continuerà a esistere seppur coperta dal burqua. Anche qui gli americani hanno fatto male i conti con i loro avversari: per l’Islam monoteista non può esistere sincretismo religioso o iconografico.

     

V.4 Altri Personaggi Icona

Qualcuno ha detto che questa guerra è una guerra sorta attorno al problema della donna. Ed ecco quindi che anche l’icona topica della foemina Occidentalis è scesa in campo: Barbie.

Questa volta non si tratta di una Barbie-Marilyn mandata dal governo in Vietnam a sollevare gli animi dei marines, ma di una Barbie Talebana. Attenzione però: non una Barbie con il burqua, ma una Barbie androgina, barbuta e armata che (come sempre accade) trasmette accessori e attributi al suo eterno fidanzato, rinominato per l’occasione Ken Ben Laden. L’icona-Barbie (detestata dalle donne, adorata dalle bambine, desiderata in carne dagli uomini, idolatrata dai gay) non può farsi mulier Orientalis, né coprirsi con un velo dal quale non esiste anakalypterion: e si fa allora uomo, negando in questo modo il suo genere, ma non il suo potere.

Fra le tante altre immagini, e in particolare fra quelle ciniche, ne segnaliamo una che ben illustra la distanza di queste raffigurazioni dalla rappresentazione dei Persiani di Eschilo sull’Acropoli bruciata: l’ex Spice Girl Geri Halliwell canta il suo successo della scorsa estate “It‘s Raining Men”, piovono uomini, mentre dietro di lei, sullo sfondo, gli impiegati del World Trade Center si gettano nel vuoto per sfuggire alle fiamme. Un uso retorico-scenografico di scene di sangue come questa non rientra nel sistema di valori etici ed estetici della tradizione culturale occidentale e, per tanto, va considerato barbaro in senso assoluto.

Nessuna tragedia in cui parlassero anche i nemici è stata messa in scena nei luoghi distrutti dagli attentati, ma si è organizzato un imponente concerto benefico in cui, fra centinaia di candele accese, star della musica pop e rock, attori, attrici, giornalisti e personaggi pubblici di ogni genere cantavano a ripetizione “God Bless America”. Nell’ego-monoteismo americanocentrico l’altro non è forma del mio problema, non è il nemico da cui difendersi, ma l’avversario da eliminare.

V.6 Icona di Osama Bin Laden

Il leader del terrorismo islamico che ha fatto inginocchiare gli Stati Uniti sceglie un’immagine video per presentarsi ufficialmente al mondo intero, studiatissima, eloquente e calcolata sapientemente. Analizzandola emergono ancora non pochi, interessantissimi dubbi e considerazioni sul valore di un’immagine, sul suo potere comunicativo, sulle stratificazioni culturali ed iconografiche che possono comparirvi.

L’immagine usata estende a tutti i campi, culture e popoli il suo potere, proprio perché sfrutta una postura che più estesa e riconoscibile non c’è : Bin Laden compare come un’icona nella sua ieraticità, il volto (ovviamente) mediorientale, l’espressione sofferta e intensa, la compostezza nei gesti, ma che affida la carica espressiva (e aggressiva) all’apparato iconografico: la tuta mimetica, il fucile, il bunker per esaltare la sua "militanza" nella fede, ma anche il turbante e la lunga barba per sottolineare l’assoluta obbedienza alla tradizione. Certo è così perché mediorientale e islamico, ma la scelta di comparire come un santone, figura rediviva del profeta che lotta fino al sacrificio per la sua religione, non è che derivazione del martire cristiano, il quale a sua volta deriva la sua figura proprio dall’Imitatio Christi.

     

L’evidenza del confronto è sconcertante, e si può approfondire il livello di lettura. La mano destra di Cristo è sollevata in una benedizione che ricorda comunque il dolore del sacrificio: secondo la tradizione iconografica bizantina infatti, il pollice, l’indice e il mignolo sollevati formano una croce, mentre la sinistra tiene aperto il Libro, la Parola di Dio. La figura di Bin Laden si presenta speculare rispetto a quella di Cristo: la sinistra levata in un gesto di ieratica ammonizione, mentre la destra sostiene il microfono con cui proclama il suo messaggio al mondo. l’immagine arriva nelle case e negli occhi di ogni abitante dell’Occidente e del Medioriente carica di tutto questo, e anche per questo è subliminarmente tanto incisiva.

Davanti a tale studiata complessità sorgono molti interrogativi: si potrebbe riflettere ancora sul valore carismatico-totalitario che hanno le immagini riprodotte in serie con Walter Benjamin; oppure rianalizzare che valore può avere un’immagine tale negli occhi dell’Islam iconoclasta, e chiedersi con André Grabar come mai nell’VIII secolo sono le grandi dispute per le immagini e proprio nell’VIII secolo nasce l’lslam iconoclasta.

Ma soprattutto ci si domanda se questa immagine è indirizzata al mondo occidentale, che ormai vive in una totale assuefazione e inflazione di immagini (molto spesso dentro l’abito del proverbiale monaco non c’è nessuno!); oppure se è destinata al mondo orientale, seguendo allora gli schemi di un simbolismo propagandistico tipico dei grandi tiranni e dei grandi imperatori d’oriente. In ogni caso Osama Bin Laden, che ha studiato in Occidente, ha imparato bene entrambe le lezioni.

VI. Ferita

Una ferita è stata aperta nel nostro immaginario. Qualcuno invoca terapie psichiatriche di massa per adulti egoisti, benestanti e paurosamente infantilizzati e – dall’altra parte – qualcuno coltiva in forme terroristicamente superstiziose il rancore/nostalgia per l’esaurimento creativo della propria civiltà. Ma dietro i Beni e i Mali assoluti, dietro le loro favole indiscrete e primitive, si agitano grandi trasformazioni ancora indecifrabili, che meritano adeguata accoglienza: Occidente si dà soltanto per figura e per scrittura di un’inquietudine geologica e vitale che scuote la tellurica immobilità di una certa concezione orientale dell’Essere, che si vuole sempre uguale a se stesso, afflitto dalla paranoia dell’Ordine immutabile.

L’errore è negare la ferita, rifiutarla, cercare di ripararla con atti affrettati di ricostruzione del proprio corpo lacerato o con devastazioni del corpo di chi viene arbitrariamente indicato come ‘nemico’. Ma la ferita può essere “un’apertura, una bocca, una qualche parte di noi che sta dicendo qualcosa. Se potessimo ascoltarla!” (James Hillman). La ferita mette alla prova la vitalità del tessuto, la sua sensibilità e reattività, la sua capacità di sopportare il colpo e il segno.

L’anima Occidentalis, offesa profondamente per figura, ha davanti a sé due alternative:

Può reagire vittimizzandosi eccessivamente e ritenendo la ritorsione necessaria alla guarigione, al ripristino dello status quo ante. Oppure può elaborare e incorporare quella ferita come un segno permanente, come un’iniziazione che possa ricollegarci ai valori fondamentali facendoci vedere quanta bruttezza e ingiustizia l’America è arrivata a rappresentare (James Hillman).

Dalle immagini delle città distrutte, dall’atrofia espressiva propria dell’afasia – artistica e culturale – contemporanea, dal confronto svantaggioso con la capacità degli antichi di trascrivere l’evento nel linguaggio tragico, si apre una prospettiva che ha a che fare con la storia recente delle nostre catastrofi ancora in cerca di dignità di rappresentazione. Essenziali, infine, nella ricerca di parole e immagini adatte a questo tempo, le suggestioni del filosofo americano:

Dal pomeriggio dell’11 settembre corro continuamente con la mente fra New York e Berlino, come le ho viste allo scadere del secolo, l’una intatta nel suo splendore, l’altra tutta rifatta eppure con tutte le sue ferite aperte ed esposte, i buchi aperti dalle bombe durante la guerra, il Reichstag decapitato e ricoperto con la cupola trasparente della speranza democratica, le tracce del Muro lasciate a futura memoria, la memoria ebraica lacerata nel museo di Liebenskind. In fondo, mi dico, la differenza fra le due sponde dell’oceano nel passaggio di secolo, di là una festa di luce, di qua una festa segnata da un’ombra, stava tutta in queste ferite della memoria che segnavano il paesaggio mentale europeo e risparmiavano quello americano. La ferita di Manhattan annulla d’un colpo questa differenza, riporta l’America alla sua matrice europea. Forse, invece che dilaniarci su quanto ci sentiamo americani o antiamericani, avremmo da pensare questo effetto del taglio dell’11 settembre, l’impossibilità per qualunque propaggine della coscienza europea trapiantata nel Nuovo Mondo di esentarsi d’ora in poi dall’essere anch’essa una coscienza infelice (James Hillman).

Compendium

Mense Septembri in Nova York Geminae Turres media in urbe a duobus machinis aeromobilibus, quae contra eas se fregerunt, dirutae sunt. Insidiae vindicatae sunt a Talebanis qui symbola eminentia in Occidentalium hominum mentibus eorumque modum vivendi funditus vulnerare voluerunt. Cum antea USA regio finesque numquam violatae essent, a terrificis vastatoribus islamicis incolumitas omnium gentium periclitata est. In orientali orbe ab USA bellum susceptum est ubi videas unam traditionem contra alteram in acie stantem. Quod eventum efficit ut oriatur prima ac necessaria quaestio de nobis ipsis aliisque agnoscendis: quis fuerit hostis? Quis est? Hostisne videtur an inimicus? Ad noscendos nos ipsos non oportet aliquem barbarum appellare. In traditione occidentali varia testimonia dantur quod exstiterunt plurimae relationes inter orbem occidentalem orientalemque et conversationes per aevum continuatae sunt cum eodem Levante a quo nunc videatur opportunum nos defendi.At ubinam gentium est Occidens? Quousque orbis orientalis extenditur? Et quid est Occidens? Dicitur nunc nihil futurum esse ut antea; tamen in hac atroci tempestate, necesse est ut Aristotelica pathematon katharsis”, sicut in tragoedia, efficiatur utque traditio e vinculis oblivionis alia alio modo semper in fieri servetur.

English abstract 

In September, in New York, the two symbolic towers of the city, the Twin Towers, were demolished by two planes that collided with them. The attack was carried out by the Taliban, who wanted to destroy the symbols of the West’s eminence. Thus the dispute between what is ‘us’ and what is ‘you’ is renewed, between ‘friend’ and ‘enemy’, between ‘civilian’ and ‘barbarian’. The East and the United States have tried to see why the tradition places them one in front of the other, in fact in history these two entities have often influenced each other and relations were close between West and East, the same East from which now we feel we must protect ourselves. Recognising ‘ourselves’ and ‘others’ therefore becomes extremely important: not only establish who the enemy is, but also understand what the East is and where the East is. All that remains is to make a decision: what to do with this wound? Continuing to victimize ourselves because of the incident or to process and incorporate this wound, considering it as a starting point for improving ourselves without ever forgetting how much ugliness it had ended up representing America.

keywords | Twin Towers; New York; Semptember 11 2001; West; East.

Per citare questo articolo / To cite this article: Redazione di Engramma, 9.11.2001. ‘Occidente‘ negli echi di guerra, “La Rivista di Engramma” n. 12, novembre 2001, pp. 7-29 | PDF