"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

129 | settembre 2015

9788898260744

Serial/Portable Classic. Stanze e Percorsi

Galleria degli allestimenti di Milano e Venezia

a cura di Giulia Bordignon e Fabio Lo Piparo

English abstract

Alla mostra Serial/Portable Classic – voluta da Fondazione Prada per la cura di Salvatore Settis, Anna Anguissola e Davide Gasparotto (con la preziosa collaborazione di Lucia Franchi Vicerè) – "Engramma" dedica, in occasione della recente chiusura dell’esposizione, una Galleria divisa in due parti, che ripercorrono le sezioni delle sedi espositive di Milano e Venezia, con l’intento di "tenere aperto" nel web il percorso di visita. 

La partizione interna alle due serie di immagini ripropone l'itinerario proposto nelle due esposizioni: nella Galleria il percorso è indicato mediante una numerazione progressiva attorno alla quale si condensano nuclei tematici e concettuali, per 'stanze' e percorsi. Le immagini sono corredate da didascalie, che presentano i dati di riferimento e una sintetica descrizione degli oggetti esposti (in corsivo), e appunti sui presupposti ermeneutici della mostra che trovano consonanza con gli ambiti di studio e di ricerca di "Engramma" (in tondo).

La Galleria si avvale di materiali tratti da campagne fotografiche realizzate ad hoc (foto di Olivia Sara Carli, Enkelejd Doja, Alessandro Poggio, Cecilia Prete, Alessandro Visca, Sofia Visca), e di alcuni scatti cortesemente messi a disposizione per questo lavoro da Fondazione Prada (©Attilio Maranzano).

Serial Classic. Moltiplicare l'arte tra Grecia e Roma | Salvatore Settis, Anna Anguissola | Milano, Fondazione Prada 9 maggio/24 agosto 2015

La mostra è organizzata secondo nove nuclei tematici, indicizzati da scritte che corrono sul pavimento, ed è basata sulla reciproca prossemica dei reperti, distinti in gruppi ma allo stesso tempo visivamente interconnessi, pronti così a essere considerati con nuove prospettive di sguardi, a offrirsi come materia prima per nuove libere associazioni. 

Esposti nei due piani del Podium progettato da Rem Koolas, unici elementi insieme ai visitatori a 'gettare ombra' all'interno del vasto open space, vari esemplari di notissime sculture antiche sono presentati in modo da cogliere i rapporti di derivazione reciproca tra l''originale' perduto o esistente, e la sua seriazione. 

L’architettura ha un ruolo primario nella realizzazione dell’idea espositiva: l’obiettivo esplicito è trasportare arte e archeologia classica all’interno del contesto contemporaneo, innescando un cortocircuito estetico positivo e inatteso (sul design dell'esposizione da parte dello studio OMA, si veda in questo numero di "Engramma" il saggio di Marco Biraghi).

Prologo. Originali in bronzo: frantumati, obliterati

La teca posta in apertura della mostra, all'entrata del piano terra del Podium, si propone come Prologo: un'intensa suggestione preliminare che imposta le coordinate di tutto il percorso espositivo. Delle centinaia e centinaia di statue in bronzo che componevano il corpus della scultura greca (secondo quanto attestano le fonti antiche) sono giunti fino a noi soltanto rari disiecta membra: nella teca alcuni di questi sono presentati, per exempla, come sporadiche prove da una 'scena del delitto' in cui ci manca anche il 'corpo del reato' (gli originali perduti, eccezion fatta per pochi fortunatissimi ritrovamenti di statue integre: si pensi ai Bronzi di Riace, o agli esemplari oggetto della recente esposizione Potere e Pathos, in mostra presso Palazzo Strozzi, Firenze). Ma spesso è proprio grazie ai frammenti che è possibile ricostruire, per quanto parzialmente, un 'paradigma indiziario' relativo all'arte greca. In tale ricostruzione sono soprattutto le copie romane a fornire gli elementi di confronto decisivi: spesso di più incerta definizione, ma maggiormente esaustivi nei dettagli, gli esemplari romani sono testimoni indispensabili per la ricomposizione del quadro delle parentele e delle relazioni, sia per quanto attiene le singole opere, sia nella definizione dei diversi 'canoni' della classicità.

In tal senso, evocativa e suggestiva è la scelta di adoperare fra i materiali dell'allestimento lastre di schiuma di alluminio, insieme al travertino iraniano e al metacrilato trasparente: in rapporto visivo con i frustuli nella teca, l'alluminio sembra richiamare la scoria metallica, lo scarto di fusione, e indicare quindi la dimensione artigiana, essenzialmente materica e 'vulcanica' del laboratorio – più fucina che atelier – del bronzista, così come ricordano (mutatis mutandis ma fino a un certo punto), le celebri pagine sulla realizzazione del Perseo da parte di Benvenuto Cellini nella sua autobiografica Vita.

Nella teca gli elementi (de)posti sulla fredda lastra bronzea – un braccio delicato forse infantile; ciglia rovinate; una bocca di bambino o di bambina – evocano il tentativo di ricostruzione paleontologica delle membra di una specie estinta e, insieme, suscitano un'intensa pietas, come fossero residui di corpi lacerati sistemati su una tavola anatomica.

Nelle foto: visione d'insieme della teca in metacrilato e particolari dei frammenti di originali in bronzo da Olimpia, datati tra il V a.C. e l'età romana. 

1. Un originale perduto, le sue copie multiple

Accanto al David di Michelangelo, alla Torre di Pisa, a Paolina Borghese di Canova, il Discobolo di Mirone – riprodotto in miniatura, nelle versioni in polvere di marmo o in gesso – oggi campeggia sulle tante bancarelle di souvenir di Roma (e d'Italia!), vera e propria icona pop dell'idea – plurivoca – di 'classico'. L'originale greco in bronzo, celebratissimo dalle fonti, è però vittima della frantumazione/obliterazione ricordata dal Prologo dell'esposizione: le statuette kitsch per turisti (in serie e portatili insieme) si possono forse considerare eredi legittime delle tante copie romane del capolavoro di Mirone, che la mostra espone e confronta icasticamente. All'annichilimento dell'originale fa da contrappunto la proliferazione delle copie.

Il Discobolo, da Mirone. Sculture in marmo, datate tra il I e il II d.C. Alla statua integra dal Vaticano si affiancano un torso da Tolosa, due teste da Dresda e Vienna, due braccia con disco da Firenze e Roma, due torsi restaurati e reintegrati erroneamente come guerriero morente, da Roma, e un Endimione, da Firenze.

[OA]: «Mirone, nato a Eleutere [Attica], (…) fece un Discobolo [“lanciatore del disco”] di bronzo (Plinio il vecchio), in posizione contorta e ricercata (Quintiliano), piegato nella posizione del lancio, con la testa volta verso il disco che tiene in mano, un po’ piegato sulle ginocchia, che pare debba rialzarsi dopo il lancio (Luciano)».

Segnacolo della 'stanza' che contiene gli esemplari del Discobolo (che ritroviamo in tutte le altre 'stanze' che accolgono per gruppi le sculture) è una lastra metallica color del bronzo – analoga a quella che fa da sfondo alla teca con i frammenti degli originali da Olimpia – disposta sul pavimento. Su queste proiezioni orizzontali il modello da cui l'esemplare in mostra trae forma e ispirazione, è disteso (anziché collocato) su un piedistallo vuoto, presente solo nell'evocazione della sua ombra. La soluzione espositiva che, come riferisce Salvatore Settis, è frutto di un colpo di ingegno dello studio grafico collegato a OMA, restituisce l'immagine, più o meno evanescente e sfocata, dell'Originale Assente (d'ora in avanti [OA]) accompagnata da un breviario minimo di fonti antiche relative all'opera. Spesso sono le stesse fonti letterarie l'anello di congiunzione che fonda la legittimità del riconoscimento dell''originale' nella copia.

Nell'allestimento i fondamentali dello stile di esposizione tradizionale dell’arte classica appaiono completamente ripensati. Anziché essere poste in ordinata sfilata, ciascuna sopra al proprio piedistallo, le sculture sono postate 'con i piedi per terra' e, però, nel contempo appaiono sospese: il basamento, eliminato visivamente, quasi costituisse un ostacolo alla libertà del movimento dei marmi antichi, è inglobato nelle lastre in travertino iraniano che si stagliano su sezioni stratificate di acrilico, configurando veri palcoscenici che si distaccano dal mare marmoreo del pavimento, in una orografia non mimetica ma concettuale e interpretativa. 

Visione d'insieme della 'stanza' con esemplari dal Discobolo.

Nel caso del Discobolo, le varianti tra le copie e l'allontanamento dal modello – dalla diversa torsione del capo alla reinterpretazione del soggetto – testimoniano da un lato l'auctoritas del nome dell'artista e dall'altro lato la difficoltà di riappropriarsi dell'originale, nonostante la celebrità dell'opera. 

Bronzetto con occhi in argento e capezzoli in rame, II d.C., da Monaco.

Già in antico troviamo una versione in miniatura del Discobolo: unica scultura in scala nell'esposizione milanese, si lega ai temi e agli oggetti trattati dalla mostra gemella Portable Classic.

Particolare del bronzetto; sullo sfondo il Discobolo presta le sue forme a un "guerriero morente".

Alcuni soggetti – come la cosiddetta Venere al bagno – hanno una notevole diffusione nel mondo romano. In questi casi non si tratta tanto di un riferimento colto all'autorevolezza del modello: l'attribuzione del prototipo della fortunata serie allo scultore Doidalsas, sulla base dell'allusione contenuta in un breve passaggio del testo di Plinio, è oggetto di discussione critica; ma se Plinio alludesse a un'altra Venere al bagno ci troveremmo di fronte all'interessante caso di un tipo iconografico che ha un grandissimo successo nella produzione artistica romana, senza che il (supposto) autorevole modello abbia lasciato alcuna traccia nelle fonti letterarie. In realtà la Venus accroupie (questo il nome convenzionale, dovuto al fatto che uno degli esemplari più notevoli della serie è conservato al Louvre) condivide la ragione del successo con altri soggetti che incontrano il gusto della committenza imperiale romana perché dotati di particolare sensualità e, anche tematicamente, adatti a essere collocati nei nuovi contesti dell'otium e dei piaceri del corpo e dello spirito: le terme, i giardini.

La Venere accovacciata, da Doidalsas. Statue in marmo, datate tra il I a.C. e il II d.C., provenienti da Parigi, Napoli,  Roma, Vaticano.

[OA]: «Doidalsas [di Bitinia] fece una Venere al bagno (Plinio il vecchio)».

La grazia della figura e la plasticità della sua postura si prestano da subito a una riproduzione non astrattamente seriale, ma che dà adito a plurime varianti (ad esempio nell'articolazione delle braccia), in cui però l'inventio del modello resta pur sempre riconoscibile.

Anche le numerosissime copie del Satiro a riposo – se ne contano oltre un centinaio, due delle quali esposte in mostra – testimoniano la fortuna di un modello prassitelico che dovette essere particolarmente apprezzato nell'antichità. A differenza della/e Venere/i accovacciata/e, più o meno liberamente tratte dal modello, le copie del Satiro risultano più fedeli – per quanto attiene la postura – all'originale, e i margini di licenza creativa dei copisti si esprimono soprattutto nel diverso trattamento delle superfici e dei dettagli.

Il Satiro a riposo, da Prassitele. Statue in marmo, datate tra il I e il II d.C., da Copenhagen e dal Vaticano.

[OA]: «Prassitele, che ebbe più successo e fama nella scultura in marmo, fece anche bellissime statue di bronzo, tra cui (…) un gruppo dell’ebrezza insieme all’eccellente satiro, che i greci chiamano periboetos, cioè “quello famoso” (Plinio il vecchio)».

Sulla lastra metallica che richiama la sagoma dell'originale greco le sfocature insistono sul tronco d'albero a cui la figura è appoggiata: l'elemento di supporto, necessario per la statica delle repliche marmoree, probabilmente non compariva nell'originale (autoportante) in bronzo.

2. Produzioni in serie: le matrici moltiplicano gli dèi

La seconda stazione del percorso focalizza l'attenzione su uno specifico caso di studio: i busti fittili di Persefone provenienti dalla colonia magnogreca di Medma. I reperti – postati entro una "trincea da scavo archeologico e concettuale", per dirla con Settis – indagano la pratica della serialità, congenita già alla pratica artigianale greca, proponendo uno spaccato di quella vera e propria macchina per la moltiplicazione del divino che era la riproduzione votiva delle immagini sacre a scopo di dedicazione e offerta santuariale. La categoria ermeneutica benjaminiana dell'"opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" risulta, almeno parzialmente, applicabile anche all'antichità, proprio laddove non è chiamata in causa l''aura' artistica dell'immagine, ma la sua vocazione funzionale alla rappresentazione del sacro. 

Busti in terracotta di Medma, da Rosarno, prima metà V a.C.: visione di insieme (sopra); visione ravvicinata (sotto)

Alla molteplicità e immanenza degli dèi percepita dagli antichi, fa riscontro una molteplicità e pervasività delle immagini, siano esse ipostasi, icone, idoli o come in questo caso, ex voto: il politeismo è, anche, poli-iconismo, la cui matrice, teorica ma anche fisica – per bronzo e terracotta – è spesso legata e ricondotta alla pratica artistica. Come prova della disponibilità delle divinità alla moltiplicazione, ricordiamo l'aneddoto eziologico di Varrone (apud Aug. Doc. Chr. II, 17, 2), secondo il quale il numero canonico delle Muse sarebbe divenuto 9 triplicando il numero originario che era 3, a seguito di un agone artistico fra tre scultori che si aggiudicarono il primo premio a parimerito: i tre gruppi delle tre divinità furono dedicati insieme ad Apollo, presso un tempio a lui dedicato, inaugurando il nuovo gruppo delle nove figlie di Mnemosyne.

3. La passione per la serialità: copie d'arte greca nelle dimore romane

La terza stanza dell'esposizione prosegue il discorso sulle copie di età romana, destinate anche ai livelli più alti della società, fino alle dimore dei principes. Dalla villa di Adriano a Tivoli provengono due dei Discoboli esposti nella prima stanza della mostra, mentre dalla villa imperiale di Castel Gandolfo provengono quattro repliche di età flavia del Satiro versante di Prassitele, realizzate con ogni probabilità da una medesima bottega come gruppo statuario destinato a una collocazione unitaria: Serial Classic riunisce quattro statue in marmo commissionate per la villa imperiale di Castel Gandolfo, un gruppo smembrato tra il 1838 e il 1890 i cui singoli elementi sono approdati a diverse collezioni, in Germania, Inghilterra, Stati Uniti . La percezione della ripetizione seriale doveva rappresentare un criterio positivo che aumentava di grado l'apprezzamento estetico di soggetti particolarmente graditi alla committenza (in questo caso, di nuovo, un personaggio del tiaso dionisiaco).

Satiro versante, da Prassitele. Quattro repliche in marmo coeve, datate alla fine del I sec. d.C., da Dresda, Londra, Malibu.

[OA] privo del tronco di sostegno: «[Ad Atene] c’è la strada detta dei tripodi, (…) dove sono esposte eccellenti opere d’arte, tra cui un satiro, di cui si dice Prassitele andasse molto fiero (…). Un satiro fanciullo che porge una coppa, nel tempio presso il [teatro di] Dioniso (Pausania)».

L'immaginario greco produce tre diverse personificazioni dell'Amore: Amore come passione istantanea e assoluta (Eros); amore come desiderio pungente (Himeros); Amore come nostalgia e rimpianto (Pothos). Da un medesimo scavo archeologico, una domus romana di età adrianea, provengono due repliche dal Pothos di Skopas che, nel gruppo ellenistico così come ci viene descritto da Pausania, faceva trinità con le statue che rappresentavano le altre due facies dell'amore. Nella villa i due Pothoi, posti ai lati di un ingresso, con la loro postura languida e seducente invitavano gli ospiti a entrare in un ampio ambiente con fontane. L'impatto estetico degli esemplari romani – oggi museificati ed esposti in situazioni del tutto astratte rispetto al contesto d'origine – andrebbe invece riconsiderato alla luce del primitivo allestimento in cui grande cura era posta nel porre in dialogo ornamenti sculturei, architetture e paesaggio.

I Pothoi, da Skopas. Due statue in marmo coeve, prima metà del II d.C., da Roma.

[OA]: «Skopas fece una Venere e un Pothos [“desiderio amoroso”], che a Samotracia sono oggetto di particolarissima venerazione (Plinio il vecchio); un [altro] Pothos, insieme con un Eros e un Himeros [“voglia”], tutte opere di Skopas, si trova a Megara nel tempio di Afrodite (Pausania)».

Anche in questo caso la sfocatura nell' [OA] evidenzia il panneggio che funge da supporto alla versione in marmo del modello (probabilmente) in bronzo.

Presenza importante in mostra sono altri due adelphoi: i Corridori da Ercolano, caso di serialità rarefatta e autoriflessa, dovuta al gusto di un committente tutto philellenos, circoscritta a questa coppia di esemplari derivati probabilmente uno dal calco dell’altro. Le simmetriche, puntuali corrispondenze, interrotte soltanto da leggere, ma perciò vieppiù significative, differenze documentano tangibilmente lo scarto incancellabile tra replica e modello – anche quando, come in questo caso, i due pezzi ci attirano nell'accattivante gioco del rispecchiamento imperfetto fra i due gemelli.

I Corridori di Ercolano. Due sculture in bronzo, I a.C., da Napoli (Ercolano, Villa dei Papiri). 

4. Materiali: marmo, bronzo, basalto

La quarta 'stanza' della mostra è dedicata a uno dei campioni dell'arte classica, il modello per eccellenza: il Doriforo. Incarnazione del Canone di Policleto, le symmetriae del Portatore di lancia hanno rappresentato da sempre una ricetta infallibile per 'fare classico'. Come testimoni della notevolissima fortuna del tipo sono stati convocati per Serial Classic: una statua integra in marmo da Napoli, risalente alla età giulio-claudia; una testa in marmo da Roma, un torso e una testa in scisto verde da Firenze e San Pietroburgo e un'erma in bronzo da Napoli, tutte di età augustea. Chiude la serie una ricostruzione in bronzo dorato, proveniente da Stettino e realizzata da Georg Römer tra il 1910 e il 1912.

Il Doriforo, da Policleto. Statua in marmo da Napoli (prima metà I d.C.); testa in marmo da Roma (I a.C.); torso e testa in scisto verde da Firenze e San Pietroburgo (I a.C.- I d.C.); erma in bronzo da Napoli (I a.C.- I d.C.); Georg Römer, ricostruzione in bronzo parzialmente dorato (1910 -1912).

Tra le molte copie esposte, una raffinata erma in bronzo proveniente dalla Villa dei Papiri di Ercolano (così come da Ercolano provengono i due Corridori della terza "stanza"), testimonia come il modello policleteo fosse ben riconoscibile e apprezzato anche per sineddoche, al di là del tratto distintivo dei signa quadrata (la locuzione è di Plinio) policletei, ovvero del bilanciamento posturale proprio delle sue sculture.

[OA] privo del tronco di sostegno: «Policleto di Sicione [nel Peloponneso] (…) fece in bronzo il Doriforo [“portatore di lancia”], un adolescente di aspetto già virile (Plinio il vecchio), che sembra sia pronto sia per la guerra sia per la palestra (Quintiliano), modellandolo nell’argilla (Galeno)»

Visione d'insieme del gruppo dei Dorifori.

Testa e torso – provenienti dall'Hermitage e dagli Uffizi – in scisto verde: un materiale di particolare pretium sia per provenienza (le lontane cave egiziane), sia per difficoltà di lavorazione dovuta alla durezza e alla fragilità estreme della pietra, che con il suo colore e la sua lucentezza richiama la politura dell'originale bronzeo.

La soluzione espositiva allinea i pezzi, realizzando una ricomposizione ideale in prospettiva e suggerendone così l'appartenenza – per altro non comprovata – a una stessa scultura.

La moderna ricostruzione in bronzo parzialmente dorato, realizzata da Georg Römer tra il 1910 e il 1912, testimonia l'interesse filologico per la restituzione del materiale e della cromia dell'originale, preludendo al tema trattato nella 'stanza' successiva.

La ricostruzione di Römer impiega e combina insieme torso, arti e testa di tre diverse copie romane: un artificio di grado di superlativo che si propone quasi come l'applicazione in vitro dell'esperimento che, secondo l'anneddoto riportato da Plinio, avrebbe messo in atto Zeusi: per realizzare un'immagine di Elena destinata al tempio di Hera Lacinia a Crotone, il pittore avrebbe fatto ricorso a cinque diverse modelle, scegliendo le fanciulle in base alla eccellenza in singoli dettagli fisici, e prelevando ciò che di più perfetto vi era in ciascuna (Plin. N.H. XXXV, 64).

5. Esperimenti sul colore: il bronzo e il marmo

Come testimonia il caso della copia e delle ricostruzioni archeologiche del cosiddetto Apollo di Kassel – forse il fidiaco Apollo Parnopios, il dio 'delle locuste' – i moderni tentativi di recupero filologico e scientifico sono, comunque, frutto di un procedimento di ipotetica (seppur accurata e controllata) reinvenzione. Nella quinta 'stanza' la statua in marmo, proveniente da Kassel e datata tra la fine del I d.C. e il primo quarto del II d.C., è accompagnata da due ricostruzioni in gesso – sempre da Kassel, datate 1991 – che mostrano l'aspetto ipotetico dell'originale bronzeo a finitura dorata (una patina documentata, tra gli altri, dalla statua-ritratto equestre di Marco Aurelio in Campidoglio, oggetto/soggetto di particolare interesse nella stazione veneziana della mostra Portable Classic) e la possibile policromia della replica marmorea romana. Il risultato produce effetti sconcertanti, perturbanti (e conturbanti) rispetto allo spettro cromatico, metabolizzato e rassicurante, della netta bicromia associato comunemente alla scultura antica (bianco:marmo; bruno/verde:bronzo). Colori e materiali diversi accostati in mostra e applicati sul medesimo soggetto, rievocano l'irrimediabile alterità dell'originale.

L'Apollo di Kassel, da Fidia. Statua in marmo (fine I d.C. e inizio II d.C.), Kassel; ricostruzioni in bronzo dorato e in marmo dipinto (1991), Kassel.

[OA] privo del tronco di sostegno: «[Ad Atene] presso il Partenone, c’è una statua bronzea di Apollo, detto parnopios [“della locusta”] perché promise di liberare l’Attica dalle locuste che la devastavano; dicono che sia opera di Fidia (Pausania)».

Congetturale (per quanto fondata sui confronti con esemplari pittorici) è la restituzione degli attributi tipici del dio – l'arco e la fronda d'alloro – più comuni rispetto alla aggiunta della locusta, che invece corredava l'esemplare in bronzo dorato esibito nell'esposizione internazionale itinerante Bunte Götter (2003-2015), dedicata alla policromia della scultura greca e romana e curata da Vinzenz Brinkmann e Raimund Wünsche.

Particolari del gruppo Apollo di Kassel.

In dialogo con questi, vari e diversi, esempi di serialità antica e moderna, è in mostra una prima assoluta nel campo delle tecnologie scientifiche applicate al restauro, alla conservazione, alla musealizzazione/fruizione e allo studio dei beni archeologici: una copia in bronzo a grandezza naturale del bronzo A da Riace. Si tratta di una replica da calco ottenuto tramite scansione laser 3d dell'originale, presentato in una nuova, "abbronzata" e mimetica veste cromatica, che viene proposta come risultato di indagini chimiche sulle patine e sulle finiture condotte su diversi bronzi antichi (inclusi la coppia di originali rinvenuti a Riace e ora custoditi nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria). L'esemplare ricostruito ed esposto in mostra presenta una (plausibile) integrazione degli elementi mancanti. L'aggiunta di armi e attributi punta al rilancio di una proposta di identificazione del soggetto già avanzata in passato: nel bronzo A sarebbe riconscibile il mitico re di Atene Eretteo e farebbe coppia con lui il re Eumolpo di Tracia. Si tratterebbe del gruppo scultoreo di Mirone segnalato da Pausania sull’Acropoli (si veda, nel catalogo della mostra, il saggio di Vinzenz Brinkmann).

I Bronzi di Riace. Vinzenz Brinkmann et. all., Ricostruzione sperimentale del Bronzo di Riace A, in bronzo, rame, argento, oro, bitume, pigmenti, pietre ornamentali (2015). 

La lastra simil-bronzea presenta l'immagine dell''originale presente' (in questo caso, coerentemente, 'a fuoco') insieme alla pagina della Gazzetta del Sud del 19 agosto 1972 che riporta la notizia del ritrovamento dei bronzi.

Dalla visione d'insieme delle ricostruzioni del Bronzo A di Riace e dell'Apollo di Kassel, scenograficamente accostate in mostra, si avverte una sorta di richiamo al visitatore a deporre, almeno per un istante, gli "occhiali neoclassici" che restituiscono comunemente la visione di un'antichità sterilizzata dal candore del marmo, ovvero, se è attivo il filtro ruinistico e romantico, inverdita a causa di patine, ossidazione, alterazioni e corrosione del bronzo. Di più, le proposte di restituzione archeologica rilanciano l'attualità di una – già rinascimentale – sfida con l'antico (illustrata a Venezia da Portable Classic), a colpi di dimensioni ma anche, se non soprattutto, di materiali. Una sfida raccolta anche dalle ultime, sperimentali, espressioni dell'arte contemporanea (si pensi alla replicazione seriale dell'antico a cui sono dedicati gli ultimi lavori di un provocatore come Jeff Koons – come ci ha ricordato Settis in occasione di un recentissimo seminario veneziano sul tema). Ancora una volta: la visione del classico, lungi dall'essere confortevole e rassicurante, comporta sempre, in qualche modo, l'innesco di una provocazione.

Visione d'insieme delle ricostruzioni del Bronzo A di Riace e dell'Apollo di Kassel. Policromie in dialogo.

6. Come si facevano le copie nell'antichità classica?

[OA] privo del tronco di sostegno: «[Nell’agorà di Atene] si levano le statue di Armodio e Aristogitone, gli uccisori del tiranno Ipparco (Pausania); sono opera in bronzo di Crizia [sic] e Nesiote (Luciano), poste nell’agorà per onorare il merito dei tirannicidi (Aristotele) sotto l’arconte Adeimanto [477/476 a.C.] (Marmor Parium)»

Passando al primo piano del Podium, la sesta 'stanza' dell'esposizione procede, a ritroso, passando dai metodi di riproduzione contemporanea a quelli della tecnica antica. I calchi da Baia riprendono il tema della riproduzione strettamente seriale, già considerato nel caso dei busti fittili di Medma, ma ad essere chiamata in gioco qui è proprio l'aura – artistica, ma anche e forse soprattutto ideologica – che circonda la coppia di eroi che abbatte la tirannide: storicamente Armodio e Aristogitone che, nell'Atene della fine del VI secolo a.C., uccisero Ipparco, successore di Pisistrato e furono a loro volta uccisi da Ippia. Ma l'eroico tirannicidio segna l'atto di nascita delle istituzioni democratiche della polis.  

In mostra, incastonate all'interno di una parete in metacrilato trasparente, le copie espositive dei frammenti in gesso di Baia, in asse con le corrispondenti regioni anatomiche delle statue in marmo dei Tirannicidi.

Aristogitone, da Crizio e Nesiote. Frammenti in gesso di Baia riprodotti in copie realizzate per l'esposizione, (I d.C.); i Tirannicidi (I a.C., II d.C.) da Roma e Napoli.

Gli Aristogitoni: copie romane in marmo.

Un torso non finito, datato tra il I e il II d.C. proveniente da Aquileia, mostra in rilievo i punti, non ancora levigati, impiegati per trasferire le misurazioni dal dal modello oggetto di replica al blocco da scolpire. Il procedimento è riproposto visivamente attraverso un sistema di proiezioni luminose su un parallelepipedo di marmo.

L'allestimento è completato da una statua di Atleta che versa l'olio, datata al II d.C. e proveniente da Dresda, termine ideale del processo di replicazione cui il torso era probabilmente destinato.

Punti di riferimento originali sul marmo antico e loro riproduzione luminosa sul blocco moderno.

7. L'uso archeologico dei calchi in gesso

Al procedimento antico della serialità si affianca la serialità di matrice antiquaria, archeologica e scientifica: ne è un esempio la ricostruzione dell’Atleta attribuibile a Mirone con assemblage e parziale, 'artistica' modellazione in gesso per quanto riguarda gli arti superiori, compiuto da Walther Amelung nel 1927 sulla base di frammenti eterogenei. La restituzione di un mai attestato 'originale assente' secondo un'ipotesi di montaggio non avvalorato, fino ad ora, dal ritrovamento di alcun esemplare integro. 

Atleta Amelung.Torso in marmo da Firenze (I sec. a.C.); due teste da Roma e Castel Gandolfo, (I sec. d.C.); nella foto sotto, a sin., Walther Amelung, Ricostruzione dell'Atleta (1927). 

La ricostruzione in gesso, datata 1927 e proveniente da Roma, fa da sfondo al gruppo, da cui è distanziata mediante una parete in metacrilato trasparente: per dirla con Settis, una "trasposizione visiva dell'asterisco davanti a forme ricostruite per la Linguistica Storica". La divinatio prodotta dalla Kopienkritik – l'approccio ermeneutico alle copie nell'ambito della disciplina archeologica – si basa essenzialmente sulla competenza estetico-stilistica dello studioso.

Visione d'insieme del gruppo dell'Atleta di Amelung.

Le sfocature sull'[OA] dell'Atleta Amelung insistono sulle gambe e sulla parte superiore del busto, testa inclusa, secondo il montaggio ricostruito ipoteticamente dallo studioso ma finora non confortato da alcun ritrovamento.

8. Un originale ritrovato: Atene, Roma, Persepoli

Protagonista di questa sezione della mostra, la figura di Penelope pensosa rappresenta un unicum nella storia delle dinamiche modello-copia nell'antichità.

Le repliche romane (torsi e teste) testimoniano la presenza di un modello greco accessibile ai copisti di età imperiale. A destra nell'allestimento, è collocata, inclusa entro teca di metacrilato (secondo una soluzione espositiva che rappresenta la cifra stilistica anche della stazione veneziana, Portable Classic), una statua greca in marmo (torso e mano destra) del medesimo soggetto, datata alla metà del V a.C. e rinvenuta negli anni Trenta del secolo scorso a Persepoli. Ma la datazione stratigrafica del reperto – la cui giacitura pare risalire alla devastazione della reggia persiana da parte dell'esercito di Alessandro Magno – rende l'originale ritrovato in Iran un modello impossibile per le repliche romane. Da qui l'ipotesi dell'esistenza di almeno due 'originali': quello iraniano, che sarebbe stato gravemente danneggiato e poi sepolto nella distruzione della reggia achemenide di Persepoli nel 334 a.C., e un secondo, accessibile e disponibile per gli artisti romani della prima età imperiale. 

La Penelope, le Penelopi. Statue da Roma e dal Vaticano e tre teste da Berlino, Copenhagen e Roma, (I a.C. e il II d.C.), dialogano con una statua greca in marmo da Teheran, (metà del V a.C.) rinvenuta a Persepoli.

Come ipotizzato nella sezione di contributi scientifici in catalogo, la Penelope oggi conservata a Teheran fu forse inviata a Persepoli come dono politico, nel contesto di trattative diplomatiche tra Grecia e Persia.

Visione di insieme del gruppo delle Penelopi.

In mostra anche due ricostruzioni in gesso, datate 1994 e 2015 e provenienti da Tubinga e Monaco, frutto del differente assemblaggio dei resti marmorei esposti.

Visione d'insieme del gruppo.

L'immagine dell'Originale Assente (modello delle copie romane) accanto all'Originale Ritrovato, giustapposti sulla lastra bronzea.

Per un approfondimento sulla Penelope di Persepoli si veda, in questo numero di "Engramma", il contributo di Alessandro Poggio.

9. Sei originali, innumerevoli copie

L’epilogo della mostra milanese vede come protagoniste le Cariatidi: accanto a un prototipo/maquette – una replica di Cariatide dell'Eretteo esposta ben salda sul pavimento, a enfatizzarne la meccanica serialità – come in una sorta di catena di montaggio, i calchi di due altre Cariatidi sono allestiti appesi per la testa a una trave: la funzione statica e strutturale delle donne-colonne, già in antico talvolta sovvertita in favore di estetica e ideologia, come nel caso delle statue dal Canopo di Villa Adriana, diviene così curiosamente auto-referenziale. Un filmato ricorda l’importante eredità del modello antico, attraverso una proiezione video di fotografie di opere architettoniche e artistiche ispirate alle fiere e nobili prigioniere di Caria (così nell'interpretazione eziologica e ideologica vitruviana) dal V secolo a.C. al XXI secolo d.C.

Le Cariatidi. Copia novecentesca in gesso di Cariatide dall'Eretteo sull'Acropoli di Atene, proveniente da Roma; replica in gesso della Cariatide dall'attico del Foro di Augusto (conservata a Firenze); replica in Nylon PA della Cariatide dal Canopo di villa Adriana di Tivoli. Sulla sinistra, altra proiezione relativa alla storia della scoperta, del restauro e della realizzazione della copia espositiva dei Bronzi di Riace.

La kore-colonna della polis per eccellenza, Atene, diviene ben presto una vera 'top-model' per l'architettura della prima età imperiale, sia nell'Urbe, ove mantiene, in età augustea, l'originale valenza di monito politico, tradotta ora nel-romano Vae victis!; ma anche, in funzione estetico-antiquaria nelle ville imperiali suburbane (come nel caso del Canopo di Villa Adriana).

Visione d'insieme del gruppo delle Cariatidi.

La fortuna del modello e la sua diffusione nelle copie è, ancora una volta, legata a una molteplicità di fattori: l'autorevolezza dell'originale, la facilità di rifunzionalizzazione, la rispondenza al gusto dei nuovi committenti.

Caryatid Factory.

Portable Classic. Dall'antica Grecia all'Europa moderna | Salvatore Settis, Davide Gasparotto | Venezia, Fondazione Prada-Ca' Corner della Regina 9 Maggio/13 Settembre 2015

Portable Classic offre un pendant e un proseguimento nella narrazione cronologica della riproducibilità seriale delle tipologie scultoree classiche secondo una particolare angolatura prospettica, dando cioè risalto e pregio critico alle copie di statue e monumenti riprodotti in scala ridotta. La maneggevolezza delle riproduzioni in miniatura mette i modelli 'a portata di mano', per dirla con Warburg ("Handbarmachung" negli appunti per la tavola 51 del Bilderatlas Mnemosyne), di artisti e collezionisti a partire dall'Antichità stessa, fino al Rinascimento e all’Età Moderna.

La mostra veneziana sfrutta appieno la splendida cornice del Palazzo Ca’ Corner della Regina: l'allestimento procede per 'studioli' e vetrine che in un labirinto di prospettive ricreano stanze nelle stanze, in un dialogo senza stonature con gli spazi e gli affreschi del palazzo. Un allestimento insieme lussuoso e minimale, così come minimale è l'apparato didascalico della mostra. L'urgenza degli snodi concettuali che sottendono l'ideazione e l'allestimento è guidata dalla rinuncia, coraggiosa ed elitaria insieme, all'obbligo del percorso guidato a favore della libera circolazione –  fisica e mentale – nelle stanze; come nella mostra milanese, l'iter di visita è solo suggerito mediante la numerazione delle sale, che sono intitolate –  con una epigrafica definizione posta su essenziali architravi d'ingresso, appositamente realizzati per l'allestimento – ai diversi nuclei tematici dell'esposizione.

Vestibolo

Nel Vestibolo della mostra – in analogia con il Prologo di Serial Classic – sono collocate repliche in gesso a grandezza naturale di celebrities dall'antico, da musei universitari o accademie di Belle Arti: ciascun modello prelude alle copie in scala del medesimo tipo iconografico, presenti al piano superiore dell'eposizione. 

Visione d'insieme del Vestibolo. Calchi in gesso in scala reale dello Spinario, del Torso Belvedere, dell'Apollo del Belvedere, del Laocoonte, dello Scita detto l'Arrotino, della Venere Medici, del Galata morente, del Fauno Barberini, di un Mercurio e di un Marsia, provenienti da Monaco, Roma, Urbino.

I calchi sono collocati su piedistalli e corredati di didascalie 'di lavoro', realizzati con materiali poveri, che si giustappongono – con ricercatezza – al design ultramoderno dei supporti dell'esposizione milanese e della sezione al piano superiore della sede veneziana. Queste copie di studio – quasi fossero appena sbarcate dalla porta d'acqua del Palazzo come profughi eccellenti dal naufragio dell'antichità – si pongono in diretta continuità, per dimensioni e valenza storico-critica (come modelli artistici e/o di ricerca archeologica), con i pezzi dell'esposizione milanese.

Le copie sono esposte su pallet o sul fondo delle stesse casse che le contenevano durante il trasporto. Le didascalie si trovano su talloncini in cartone legati alle statue con cordini di spago, analoghi a quelli d'uso abituale nei depositi dei musei.

1. IN SCALA. L'Ercole Farnese

Di grande impatto nel salone passante (portego) del primo piano è l’esposizione di nove copie dell’Ercole Farnese, il 'colosso' scoperto alla metà del XVI secolo nel sito dei Bagni di Caracalla, e presto divenuto un riferimento imprescindibile negli studi di artisti, antiquari e archeologi. L'allestimento presenta le copie in scala digradante, dalla monumentale riproduzione in resina di di poco più di tre metri della metropolitana di Napoli alla ceramica dipinta alta quindici centimetri di una collezione ottocentesca – e a questo gioco di dimensioni soltanto l'esposizione rende giustizia (in catalogo le nove sculture sono presentate secondo un ordine rigidamente cronologico).

Visione d'insieme del salone passante al primo piano di Ca' Corner.

Il cannocchiale prospettico, con il suo gioco di scale barocco, focalizza e valorizza la persistenza e la replicazione del soggetto attraverso i secoli e la stessa moltiplicazione delle repliche nei diversi materiali rendono chiaro all'impronta il concept della mostra, con una spettacolare mise en place che lo spettatore può apprezzare, interagendo con lo spazio espositivo, salendo sul podio a gradini posto all'estremità della 'galleria' – una soluzione che pone i visitatori 'sullo stesso piano' delle statue(tte), misurando queste e misurandosi con esse.

Dal maggiore al minore:
copia in scala 1:1 in resina epossidica, polvere di marmo, fibra di vetro, acciaio, resina acrilica e pigmenti, da Napoli, 317 cm;
marmo da Kassel, 1808-1813 ca., 127 cm;
bronzo da Dresda, 1675-1700, 88,6 cm,
marmo da Parma, 1752-1755, 62 cm;
terracotta di Camillo Rusconi, 1719-1725, da Venezia, 53 cm;
bronzo di Giovanni Francesco Susini, 1625-1650, da Vaduz, 41,9 cm;
porcellana bisquit della Manifattura Volpato, 1786-1800, da Roma, 28 cm;
bronzetto dorato di Pietro Simoni da Barga, 1572 ca., da New York, 22,9 cm;
porcellana dipinta e dorata della Manifattura Ginori di Doccia 1800 ca., da Londra, 15,2 cm.

2. DIMENSIONI. Capolavori in piccolo dall'antichità classica

La mostra si dipana nelle stanze laterali del palazzo secondo un criterio che incrocia l'approccio cronologico a quello tematico. Il primo ambiente raccoglie le copie antiche in miniatura: bronzetti, piccoli marmi, statue in altri materiali pregiati, provenienti soprattutto da santuari domestici e destinati a una committenza raffinata, sono collocati entro teche/scatole interamente in metacrilato, sospese in pareti semitrasparenti in plexiglass che, inquadrate tra profili metallici verniciati di bianco, realizzano vere e proprie 'camere entro le camere'.

Da sin.:
bronzetto di Ercole a riposo, datato alla prima metà del I d.C., da Parigi;
bronzetto di Ercole ubriaco, II d.C., da Parma;
bronzetto di Mercurio seduto con insetti inserti in rame e argento, II d.C., da Londra;
bronzetto di Mercurio, datato alla prima metà del I d.C., da Parigi;
un bronzetto di Efebo, datato tra il tardo I a.C. e il I d.C., da Parigi;
un bronzo di Marsia, datato tra il I a.C. e il I d.C., da Londra.

In questa sala (come nella successiva e nelle ultime due stazioni del percorso espositivo) la riproposizione dello spazio inteso come un rinascimentale 'studiolo', liberamente reinterpretato in chiave tutta contemporanea, valorizza la preziosità degli oggetti esposti/inclusi nelle teche, e ne permette una fruizione attenta e continuata, a tutto tondo, che valorizza i dettagli e i particolari preziosi. Ben si comprende come la produzione multipla di copie non fosse affatto uno svilimento del pregio dell'originale, quanto piuttosto l’attestazione materiale, e numericamente computabile, del suo successo.

Qui e nella foto di seguito, particolari della prima 'stanza'.

Il primo bronzetto che si incontra nella seconda sala della mostra è un Ercole in riposo, in connessione tematica e visiva con l''infilata' del modello Farnese nel salone: la notorietà e la fortuna del tipo scultoreo – derivante da un originale lisippeo –  si impone ben presto come riferimento canonico nella trasmissione iconografica del soggetto, anche nel ludus del rovesciamento 'comico' – ancora da un modello di Lisippo – dell'Ercole ebbro (nella foto precedente, a destra, il bronzetto visto da tergo).

Anche la figura di Venere, colta in una molteplicità di atteggiamenti, trova nelle riproduzioni in miniatura un veicolo particolarmente adatto all'apprezzamento insieme della charis muliebre e della leptotes nel trattamento dei materiali da parte degli artisti. Le miniature in mostra si richiamano a modelli celebrati dalle fonti; proprio in virtù della loro replicazione nelle copie e della loro fama anche letteraria, tali modelli trovano specifiche 'etichette' iconografiche: Venus Pudica, Venus Pseliumene, Venus Anadyomene.

Nella sala sono esposte anche due preziose e raffinatissime Veneri accovacciate, la prima in bronzo con inserti in argento, la seconda (frammentaria) in cristallo di rocca.

Da sin.:
Venere che slaccia un sandalo, marmo parzialmente dorato, occhi in pasta di vetro, da Pompei, datata al I d.C. e conservata a Napoli;
Venere accovacciata in cristallo di rocca, datata al I a.C., da Malibu;
bronzetto di Venere accovacciata, inserti d'argento, I a.C., da Copenhagen;
bronzetto di Venere, datata tra la fine del IV a.C. e l'inizio del III a.C., da Londra;
Venere in alabastro, datata al I a.C., da Malibu;
bronzetto di 
Venus Pudica, datato all'inizio del III a.C., da Parigi;
bronzetto di Venere che slaccia il sandalo da Ercolano, con armille e cavigliere d'oro e base ageminata in rame e argento, datata tra il I a.C. e il I d.C., conservata a Napoli.

Un'altra tipologia iconografica visibile in mostra – la Venere che si allaccia il sandalo – ottiene grande fortuna e diffusione nelle copie di dimensioni ridotte, nonostante non ne siano note versioni a grandezza naturale, e non  siano attestate citazioni del soggetto nelle fonti: una testimonianza della complessità e della molteplicità, a tratti carsica, delle dinamiche di trasmissione dei modelli.

Particolari.

3. EMULAZIONE. Imitare l'antico nel Rinascimento

In continuità con la seconda sala, nello 'studiolo' successivo troviamo una terza Venere accovacciata in marmo, di dimensioni di poco inferiori al naturale: un esemplare che apre allo snodo tematico della copia dall'antico nel Rinascimento. 

Visione d'insieme della 'stanza'.
Al centro:
Bernardino Licinio,
Lo scultore e i suoi allievi, olio su tela, 1533, Alnwick Castle.
Nella teca in fondo:
Pier Jacopo Alari Bonacolsi, detto "l'Antico", bronzetto di Venere accovacciata, 1520, da Zurigo;
Giambologna, bronzetto dorato di Venere accovacciata, 1584, da Firenze;
Antonio Susini, bronzetto di Venere accovacciata, 1600, da Bath
.

Nel dipinto di Bernardo Licinio, che ritrae il pittore e i suoi allievi impegnati nello studio del disegno dall’antico, compare al centro proprio una copia in piccole dimensioni della Venere accovacciata. L'esemplare, unico pezzo antico dell'esposizione non in scala ridotta, si pone in ideale collegamento con le repliche esposte nella stazione milanese Serial Classic.

Particolare della tela di Licinio e statua in marmo di Venere accovacciata, datata tra il I e il II d.C., da Madrid. 

Nella tela, uno degli scolari tiene tra le mani un disegno tratto dal medesimo modello, con l'annotazione rivolta al maestro: "Vardè si sta ben sto disegno", mentre da un'altra posizione un secondo allievo – che regge tra le mani un altro piccolo torso – commenta: "L'è dificile sta arte". La copia in miniatura dall'antico non è solo un erudito "giocattolo" per collezionisti (come illustra la quarta 'stanza' della mostra), ma una forma pratica e concreta di trasmissione dell’arte classica e dei suoi paradigmi estetici. 

Il quadro di Licinio testimonia la pluralità dei supporti nella copia e trasmissione dei modelli: repliche scultoree e, ancor prima, disegni. In mostra, il disegno di Andrea Solario che ritrae la Venere accovacciata crea un effetto di rimbalzo visivo che collega il carboncino alla scultura antica a grandezza naturale, al modellino e alla sanguigna ritratti nel quadro di Licinio, ma anche ai bronzetti dello stesso soggetto – realizzati da celebri artisti nel corso del XVI secolo – destinati alle raffinate raccolte dei collezionisti. Per gli artisti il confronto con l'antico è, insieme, metodo di affinamento tecnico e orgogliosa affermazione di un primato nella gara con il modello. In questo senso, le diverse soluzioni nella postura delle Veneri accovacciate manieriste si appaiano all'analoga ricerca, tra ricostruzione 'archeologica' e intervento artistico, che trova materia d'elezione nel Laocoonte, sia esso in scala reale o ridotta, come il prosieguo dell'esposizione permette di verificare.

L’esercizio di riproduzione era il primo gradino nella formazione dell’artista a bottega, che era indirizzato, così, alla comprensione dell’anatomia e all’acquisizione della sapienza tecnica riconosciuta agli antichi nella riproduzione del corpo umano, delle sue posture e - per riprendere un tema warburghiano – della sua espressività in termini di pathos

A dx.: Andrea Solario (attr.), Venere accovacciata, carboncino acquerellato in seppia, lumeggiature in biacca,1514 ca., da Venezia.
A sin.: anonimo pittore umbro, dal cosiddetto "Libretto di Raffaello", Studio di "ignudo della paura", punta, carboncino e penna su carta, 1500-1510, da Venezia.

La prassi artistica rinascimentale, così come quella antica, si nutre dunque di 'serialità'. Ne è un esempio la diffusione del tipo iconografico del cosiddetto "ignudo della paura": una figura antica – il cui modello è oggi perduto – di cui gli artisti del XV-XVI secolo non erano stati in grado di riconoscere il soggetto, ma che li aveva colpiti per il dinamismo e la carica emotiva espressi dalla gestualità del personaggio.

Cinque bronzetti di Marsia/"ignudi della paura", datati tra il 1450 e il 1520, provenienti da Modena, Cortona, Milano, Firenze, Venezia.

L'"ignudo della paura" deriva con tutta probabilità da un 'Originale Assente', il gruppo scultoreo di Atena e Marsia di Mirone: trasmesso da copie antiche – tra le quali l'impressionante bronzo esposto nella prima 'stanza' –, il soggetto si era però fatto incomprensibile in età moderna, anche a causa della perdita dell'aulos da parte della figura del satiro. L'oinochoe da Berlino esposto in mostra ripropone sinteticamente, per figuras, l'episodio del mito e, con esso, l'invenzione mironiana. 

Chous a figure rosse con Atena e Marsia, Pittore di Codro, secondo quarto del V a.C., da Berlino.

4. COLLEZIONISTI. L'antico in casa

La quarta sezione della mostra conduce dallo studio dell'artista allo studiolo del collezionista. Dal mercante veneziano Andrea Odoni ritratto da Lorenzo Lotto, ai ricchi 'dilettanti di antichità' effigiati da Paolo Pino e Tintoretto, tutti sono soggiogati dall'aura dell'antico e fanno vanto del proprio prestigio – culturale e sociale – mediante il possesso e l'esibizione di repliche in scala provenienti dall'antichità classica.

Storicamente ben attestato è inoltre, già a partire dal XV secolo, il collezionismo femminile: basti citare il celebre caso di Isabella d'Este. A differenza dei numerosi ritratti di gentiluomini che mostrano con orgoglio i pezzi della propria collezione, però, non troviamo pressoché traccia di ritratti di donne effigiate con le proprie "antiquità": eccezionale è, in mostra, il caso della pittrice Lavinia Fontana, che in un piccolo tondo ritrae sé stessa attorniata dalle proprie statuette, una serie di 'preziosi' che sono, insieme, anche i suoi 'strumenti' di lavoro.

Visione d'insieme.
A sin.: Lavinia Fontana, 
Autoritratto, olio su rame, 1578-1579, da Firenze.

Visione d'insieme.
Al centro: Paolo Pino,
Ritratto di collezionista, olio su tela, 1534, Chambéry.
A dx.: Bartolomeo Passerotti,
Ritratto di Ercole Basso, olio su tela, 1578-1580, da Londra.

Lo staordinario dipinto di Lorenzo Lotto, come ha raccontato Salvatore Settis nel corso del seminario su Serial/Portable Classic tenuto l'8 settembre 2015 a Ca' Corner, è stato prestato dalla Royal Collection per l'esposizione veneziana a fronte di ricerche storico-critiche che hanno individuato i probabili modelli archeologici visibili in basso nel dipinto ed esposti in mostra di fronte alla tela (foto successiva).

Lorenzo Lotto, Ritratto di Andrea Odoni, olio su tela, 1527, Collezione Reale Elisabetta II.

Figura femminile appoggiata una colonna, marmo, II d.C., e busto ritratto in stucco del giovane Adriano, 1520, da Padova.

5. CANONE. Esemplarità di Roma

Un altro dipinto di Bernardino Licinio fa da trait d'union tra le due stanze precedenti, dedicate alla passione per l'antico di artisti e collezionisti, e le vetrine dedicate ai mirabilia di Roma – monumenti e statue noti fin dal Medioevo, ma anche 'novità archeologiche' continuamente emergenti dagli scavi – che fanno dell'Urbe il luogo della (ri)nascita dell'antico per eccellenza, almeno fino al ritrovato approccio alla grecità nel XVII-XVIII secolo.

Visione d'insieme della 'stanza'.

Nella tela, in cui compaiono infanti e fanciulli figli del fratello del pittore, anche un modellino del Torso del Belvedere – visibile a Roma fin dal Quattrocento – è convocato come membro del gruppo di famiglia: anche qui come nel caso di Lavinia Fontana, si tratta forse di un duplice indicatore sia dello status sociale sia della professione artistica del giovane che la sorregge.

Bernardino Licinio, La famiglia di Arrigo Licinio, olio su tela, 1533, da Roma.

Particolare della scultura dipinta sulla tela di Licinio.

Il bronzetto del Torso presentato in mostra esemplifica, una volta di più, le dinamiche di scarto e di oscillazione nel rapporto originale/copia: l'oggetto esposto è una replica che modifica – per dimensioni e materiale – l'antigrafo di riferimento (sul paradigma filologico come traccia ermeneutica della tradizione si veda in questo numero di Engramma il saggio di Monica Centanni, il quale a sua volta è una copia-variante – almeno quanto a materiale – rispetto all'originale ellenistico in bronzo. Il bronzetto veneziano è dunque, quasi due volte antico: antico perchè copia di un'opera classica, e antico perché tecnicamente riprodotto 'all'antica'.
A questo gioco di riflessi incrociati, un'osservazione di Ludovico Rebaudo durante il seminario su Serial/Portable Classic a Ca' Corner aggiunge uno spunto ulteriore: il confronto tra il bronzetto e la statuetta nel quadro di Licinio permette di notare quanto le superfici di frattura nel marmo raffigurato, curiosamente (e innaturalmente) concave, assomiglino alle analoghe zone della piccola scultura (cava) in bronzo, quasi che Licinio abbia voluto 'marmorizzare' (e forse antichizzare/nobilitare?) un bronzetto, dandogli la parvenza del suo illustre, marmoreo, modello. 

Lo stato frammentario del marmo del Belvedere e, insieme, la sua esibita eloquenza muscolare, illustra quello che ben presto diventa un motto della percezione moderna delle antichità romane: "Roma quanta fuit ipsa ruina docet" (bastano i monumentali resti archeologici a testimoniare la grandezza, storica e culturale, di Roma).

Anonimo artista veneziano, bronzetto di Torso del Belvedere, datato tra il 1515 e il 1520, da Firenze.

Dei resti visibili nell'Urbe, ben presto diviene canonica una hit-parade di pezzi: oltre al Torso del Belvedere, statue come lo Spinario, il Marco Aurelio, l'Apollo del Belvedere, il Laocoonte etc. fanno parte dei must-see nelle visite di turisti, artisti, amatori e antiquari. Il gusto per la miniaturizzazione si esprime in due direzioni: la preziosa riproduzione della cesellatura degli originali (ad esempio per lo Spinario), ma anche la riduzione in scala di colossali monumenti (il Toro Farnese, il Marco Aurelio).

Da sin.:
Antonio Susini, bronzetto di
Toro Farnese, 1613, da Roma;
Pier Jacopo Alari Bonacolsi, detto "l'Antico", bronzetto di
Spinario, 1519-1520, da Modena;
Francesco Raibolini, detto "il Francia", bronzetto di Venere, da Oxford;
bronzetto di
Torso del Belvedere.

Raffinatissima è, in entrambe queste declinazioni, la produzione di Jacopo Bonacolsi, significativamente conosciuto come "l'Antico", i cui lavori erano indirizzati a soddisfare "l'insaciabile desiderio di cose antique" di Isabella d'Este e di altri colti committenti. In mostra vediamo uno straordinario 'trittico' di bronzetti con dorature e inserti preziosi, composto dal Marco Aurelio, dall'Apollo del Belvedere e dalla Venus Felix, di pochi anni posteriore al Parnaso di Andrea Mantegna, in cui ancora Venere-Isabella è adorna di un drappo color dell'oro.

Da sin.:
Pier Jacopo Alari Bonacolsi, detto "l'Antico", bronzetto parzialmente dorato di
Apollo del Belvedere, 1490, Francoforte sul Meno;
Pier Jacopo Alari Bonacolsi, detto "l'Antico", bronzetto parzialmente dorato di statua-ritratto equestre di Marco Aurelio, datato tra il 1519-1528, da Vaduz;
Pier Jacopo Alari Bonacolsi, detto "l'Antico", bronzetto parzialmente dorato con inserti in argento di 
Venus Felix, 1510, da Vienna;
Orazio Albrizzi, bronzetto di statua-ritratto equestre di Marco Aurelio, 1624, da Mougins.

Non solo le opere di scultura ma anche, e forse soprattutto, quelle di architettura 'fanno' Roma e 'fanno' antico: ecco, allora, archi di trionfo, templi e colonne in versione portatile, come souvenir d'Italie realizzati in un materiale leggero ed economico come il sughero (che quasi prelude a una visione pittoresca e romantica delle rovine), oppure come più impegnativi oggetti d'arredo, realizzati con materiali (marmo e bronzo) che riprendono il pretium dell'antichità, per le grandi dimore d'Oltralpe. 

Da sin.:
Antonio Chichi, Modellino dell'Arco di Costantino, sughero, legno, gesso, 1777-1783, da Kassel;
Antonio Chichi, Modellino dell'Arco degli Argentarii 
alias Arco di Settimio Severo, sughero, legno, gesso, 1783-1788, da Kassel;
Antonio Chichi, Modellino del Tempio tondo di Tivoli, sughero, legno, gesso, 1777, da Kassel;
Giovacchino e Pietro Belli, Modellino di Colonna Traiana con Custodia, bronzo dorato, prima del 1815, da Firenze;
Giovacchino e Pietro Belli, Modellino dell'Arco di Costantino, marmi e bronzo dorato, 1808-1815, Collezione Reale Elisabetta II.

E non può mancare, quasi a sottolineare la maneggevolezza di questa sofisticata Roma lillipuziana, la custodia in cuoio per il trasporto e la protezione dei monumenti: a diventare portatile – ed esportabile – è il canone estetico e culturale dell'antichità romana ma anche, grazie a esso, il modello ideologico e la vocazione imperiale delle élites nell'età di Napoleone.

Particolare del modellino di Colonna Traiana e della sua custodia in marocchino verde con dorature a impressione.

6. ITERAZIONE. Il Laocoonte reinventato

La grandeur di Bonaparte, per altro, non può accontentarsi di copie in miniatura: celebre, nella campagna di spoliazioni di opere d'arte in Italia, è il trasporto del Laocoonte da Roma a Parigi nel 1796. Il gruppo scultoreo, emerso dagli scavi nel 1506, diviene immediatamente un 'mito' e viene copiato freneticamente, fin dai primi tempi a ridosso del ritrovamento, come mostrano nell'allestimento gli esemplari in vari materiali posti l'uno accanto all'altro (sulle fonti e il Nachleben del Laocoonte si veda la pagina tematica che raccoglie diversi contributi pubblicati in "Engramma"

Visione d'insieme della "stanza".
A sin.:
Manifattura italiana, 
Laocoonte, ceramica smaltata policroma, 1850, da Roma.

Il Laocoonte, come annota icasticamente Aby Warburg, offre una risposta cruciale alle ricerche espressive di un'intera epoca: "In modo del tutto errato si ritiene che il ritrovamento del Laocoonte del 1506 sia una delle cause dello stile barocco romano del grande gesto, che in quell'epoca ha il suo inizio. La scoperta del Laocoonte è per così dire solo il sintomo esterno di un processo storico-stilistico che trova in se stesso la propria logica e sta allo zenith, non all'inizio della degenerazione barocca. Si trovò semplicemente quanto da tempo si era cercato nell'antichità e perciò si era trovato: la forma stilizzata in sublime tragicità per i valori-limite dell'espressione mimica e fisionomica" (Aby Warburg, Dürer e l'antichità italiana, 1905)

Da dx.:
Jacopo Sansovino, 
Laocoonte, bronzo, 1510-1520, da Firenze;
Laocoonte, bronzo anonimo, 1530-1550, da Brescia;
Pietro Simoni da Barga, 
Laocoonte, bronzo, 1572, da Firenze 

Nel XVIII secolo, tuttavia, il pathos intenso del sacerdote troiano si raggelerà, paradossalmente, nel paradigma winkelmaniano della compostezza antica. Dal Ri-nascimento al Neo-classico, l'antico si presta, sempre, a essere reinterpretato, seppure secondo diverse modalità, e dunque a essere continuamente reinventato, a scapito – o in virtù – dell'originale. Basta in mostra il confronto tra la candida copia settecentesca e la riproposizione della terracotta di Stefano Maderno, in cui l'allungamento 'espressionista' delle membra così come l'estensione del braccio – che, come noto, nella più aggiornata restituzione archeologica è tornato flesso – sottolineano lo spasmo patetico della figura.

Da sin.:
Joseph Chinard, 
Laocoonte, marmo, 1784-1786, da Lione;
Stefano Maderno, 
Laocoonte, terracotta, 1630, da San Pietroburgo.

7. ESPORRE. Lo studiolo

All'uscita della sesta 'stanza', tornando nel salone passante di Ca' Corner, il caso paradigmatico e celeberrimo del Laocoonte lascia spazio a un caso di studio forse meno noto, ma che delinea esemplarmente le modalità della prassi collezionistica rinascimentale, in un momento storico, la seconda metà del Cinquecento, che già apre a una nuova forma di conoscenza dell'antico e in cui si viene delineando una ambizione alla sistematizzazione dei reperti, e una circuitazione internazionale delle copie, che diventerà, in seguito, il mercato dei souvenir

Ricostruzione ideale della destinazione dei bronzetti realizzati nel 1559 da Willem Danielszoon van Tetrode, detto "Guglielmo Fiammingo", per lo studiolo dono di Nicolò Orsini Duca di Pitigliano al re Filippo II di Spagna, attualmente conservati a Firenze.
Dall'alto:

Apollo del Belvedere;
Dioscuri del Quirinale alias "di Monte Cavallo";
busti-ritratto di Nerone, Otone, Vitellio e Vespasiano;
due
Ercole Farnese speculari, privi di leonté, che inquadrano un Antinoo del Belvedere e una Venere Medici.

Nella reinvenzione nel prezioso acrilico di Koolhas, l'armadio-studiolo in legno diventa una frons scaenae trasparente, pronta ad accogliere nuovamente le statuette bronzee ricollocate programmaticamente in una vetrina che espone e celebra, in un inedito pantheon, il gusto per i modelli antichi.

Visione d'insieme.

8. TECNOLOGIA. Nuovi classici

Nell'ultima 'stanza', l'innovazione tecnologica della lavorazione della porcellana – le manifatture settecentesche Doccia-Ginori, Capodimonte, Volpato – risponde in pieno alla 'sterilizzazione archeologica' del Neoclassicismo, quasi in giustapposizione alla lucente brunitura dei bronzetti rinascimentali. Il candore delle squisite miniature in bisquit ci riconduce idealmente a quello delle copie in gesso a grandezza naturale, approntate a partire dalla stessa epoca, che ci avevano accolto nel vestibolo dell'esposizione: un 'Grand Tour prêt-à-porter' nella storia del gusto per l'antico e nei processi di definizione e di trasmissione del 'classico'. 

In primo piano:
Gaspero Bruschi, 
Arrotino, porcellana smaltata, 1745-1747, da Sesto Fiorentino.
Sullo sfondo da sin.:
Giovanni Volpato,
Fauno Barberini, porcellana bisquit, 1786-1800, da Roma
Bottega di Giovanno Volpato,
Galata morente, porcellana bisquit, 1786-1800, da Roma.
Real Fabbrica della Porcellana di Napoli,
Mercurio seduto, porcellana bisquit, 1790, da Firenze.

In primo piano: 
Gaspero Bruschi,
Venere Medici, porcellana, 1755-1670, da Sesto Fiorentino.
Sullo sfondo, da sin.:
Real Fabbrica della Porcellana di Napoli,
Satiro ebbro, porcellana bisquit, 1790, da Firenze;
Giovanni Volpato,
Ares Ludovisi, porcellana bisquit, 1786-1800, Roma;
Real Fabbrica della Porcellana di Napoli, due Centauri con Eroti, porcellana bisquit, post 1796, da Napoli.

In primo piano, porcellana raffigurante il Fauno Barberini.

English Abstract

"Engramma" devotes its September 2015 issue to Serial / Portable Classic – the exhibition organized by Fondazione Prada and curated by Salvatore Settis, Anna Anguissola and Davide Gasparotto – on the occasion of its recent closing, with a photographic gallery divided into two sections, retracing the sections of the exhibition venues in Milan and Venice, with the intention of keeping the visiting routes open on the Internet.
The internal partition of the two series of pictures resumes the itinerary proposed in the two exhibitions: as in both Prada’s venues, the path in the Gallery is indicated by a progressive numbering around which, through 'rooms' and routes, thematic and conceptual cores are clustered.
Pictures are accompanied by captions, that present the main reference data and a brief description of the objects exhibited (in italics), and notes on hermeneutical assumptions of the exhibition that are consonant with the areas of study and research of "Engramma".

The gallery is based on photographic campaigns specifically made for “Engramma” (photos by Olivia Sara Carli, Enkelejd Doja, Alessandro Poggio, Cecilia Prete, Alessandro Visca, Sofia Visca), and some pictures kindly offered by Fondazione Prada (©Attilio Maranzano).

 

keywords | Exhibition; Exhibition design; Fondazione Prada; Milan; Venice; Serial/Portable Classic.