"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

129 | settembre 2015

9788898260744

Originale Assente: il paradigma filologico

Una proposta di metodo in stile corsaro. Riproposizione del “decalogo di dodici articoli” di Giorgio Pasquali*

Monica Centanni

English abstract

Originale e copia, modello ed esemplari, archetipo e riproduzioni, unicità e serialità, prototipo e multipli. La storia della tradizione occidentale continuamente scarta dal binario della ripetizione di un’esemplarità auratica, astratta e assoluta, dell'antico. Continuamente e da sempre – fin dalle sue origini – smentisce l'idea di una inimitabile (irripetibile e non riproducibile) unicità, si discosta da una, sacra e intangibile, staticità. 

Serialità, portatilità: i classici sono, fin dalle origini, riproducibili in serie e si prestano anche a essere ridotti di scala, fino a diventare ‘portatili’. Ma quali sono i principi teorici e le procedure tecniche che conducono dall'originale alla sua imitazione, riproduzione, ripresa? Recensio, collatio, emendatio, editio; ricognizione, valutazione e messa a confronto dei modelli esistenti, selezione e produzione. Come già indicavamo nel testo introduttivo de L’originale assente*, lessico e procedura delle operazioni che portano alla riproduzione (e in genere alla produzione dell’opera d’arte) richiamano le mosse della operazione filologica.

La prospettiva che Serial/Portable Classic ha illuminato con la sua eccezionale sceneggiatura (che porta chiara l’impronta degli studi e del metodo di Salvatore Settis) mi dà l’occasione per ripercorrere i capitoli del paradigma filologico – che ha come oggetto l’analisi e la ricostruzione della storia di un testo – secondo l’impostazione, a oggi insuperata, proposta da Giorgio Pasquali in Storia della tradizione e critica del testo (1934), e verificarne l’applicabilità all’analisi critica delle copie nell'arte. Questo particolare punto di prospettiva, data la mia institutio filologica declinata anche verso lo studio dell’iconologia e della tradizione classica, condiziona il mio sguardo – che è strabico, e per di più di uno strabismo squilibrato, ché pende dalla parte della filologia. So già che questo mio esperimento, se certo parrà scolastico e banale ai filologi puri, sull’altro fronte agli storici dell'arte potrà apparire o pedante o forzato. Ma a me, mettere a confronto istanze ermeneutiche diverse e provare a usare come armi improprie le diverse tecniche disciplinari è parso un esercizio non del tutto inutile, non foss'altro che al fine di provocare e filologi e storici dell’arte a fare il gioco che provo a fare io nell'incursione, in stile corsaro, che di seguito propongo: incrociare i rispettivi – strabici – sguardi, scambiarsi di posizione e leggere analogie e differenze di metodo tra filologia e storia dell'arte mettendosi gli uni gli occhiali degli altri.

Per segnare le coordinate del parallelo metodologico che qui propongo, ricapitolo i punti del “decalogo” che lo stesso Pasquali così proponeva come “conclusioni generali”, in apertura del suo lavoro:

Non ci sarà nulla di male se io qui dinanzi al mio volume [...] formulerò brevissimamente non certo norme, ma conclusioni generali che credo di aver raggiunto con perfetta sicurezza e che vorrei che qualunque studioso di testi antichi tenesse presenti. E anche poco male, se il decalogo riuscirà di dodici articoli (Pasquali [1934] 19522, XV; il contenuto del decalogo, a cui si fa riferimento di seguito, è alle pp. XV-XVIII).

Si tratta dunque di un “decalogo” aritmeticamente scorretto, in dodici articoli, che qui riaccorpo in sette nuclei tematici (I-VII): 

I. La tradizione non è mai ‘meccanica’ 
II. La tradizione non è quasi mai verticale, ma trasversale e orizzontale
III. Varianti antiche e varianti d’autore
IV. Ogni esemplare è un’edizione
V. Recentiores non deteriores
VI. Il criterio geografico
VII. Utilità e inutilità del concetto di archetipo

I. La tradizione non è mai meccanica (“decalogo Pasquali”, punto 6)

6) È un pregiudizio credere che la tradizione dei testi degli autori antichi sia sempre meccanica; meccanica è solo dove l’amanuense si rassegna a non intendere. […] La congettura paleograficamente più facile non è, in testi trasmessi non meccanicamente, quasi mai la più probabile. Quanto alla recensio solo nei casi, relativamente rari, di tradizione meccanica è possibile, se i nostri codici risalgono a un archetipo, applicare […] i criteri […] meccanici della recensione chiusa […]; dove la recensione è aperta, valgono solo i criteri interni (Pasquali [1934] 19522, 140).

II. La trasmissione non è quasi mai verticale, ma trasversale e orizzontale (“decalogo Pasquali”, punto 7)

7) È un pregiudizio credere che la trasmissione dei testi sia unicamente “verticale”; essa è spesso, e in testi molto letti e in testi propriamente scolastici si potrebbe dir sempre, “trasversale” o “orizzontale”; vale a dire varianti buone o cattive, anche errori, che a noi parrebbero evidenti, penetrano spesso nei manoscritti per collazione. Solo le lacune sono, almeno di regola, trasmesse direttamente.

E, tornando sul punto ribadisce la possibilità della contaminazione orizzontale, che si dà anche per singole lezioni: 

Rimane certo sicuro che la trasmissione di un testo, la “tradizione”, avviene da principio, com’è naturale, in senso “verticale”. Ma certo, non appena si formino varianti, e a uno studioso che cerchi in qualche modo di intendere il suo testo venga in mente di confrontare un altro codice, sia pure saltuariamente, sia pure soltanto per passi che suscitano difficoltà, la tradizione diviene da esclusivamente “verticale” anche orizzontale o trasversale.

III. Varianti antiche e varianti d'autore (“decalogo Pasquali”, punti 9 e 12)

9) Le varianti, anche erronee, possono essere molto più antiche dei manoscritti che le presentano, anche se questi si possono dimostrare derivati tutti da un archetipo conservato persino medievale. Archetipi medievali possono aver contenuti varianti alternative, come già ne presentano i papiri, e vanno in tal caso considerati come bacini di raccolta di tali varianti. Varianti possono anche […] essere penetrate in copie singole dell’archetipo per collazione con manoscritti da esso indipendenti. Più comune ancora è il caso […] che le famiglie di manoscritti medievali proseguano (o contaminino) più edizioni antiche.

12) Lo studio delle testimonianze antiche e di pochi papiri autografi […], l’analogia di testi medievali per i quali possediamo una tradizione contemporanea agli autori, specialmente nei testi Petrarca e del Boccaccio, legittimano l’ipotesi che varianti di natura particolarissima […] possano anche in opere dell’antichità essere ricondotte agli autori medesimi.

E ancora sul tema, proponendo di seguire anche l’interessante confronto con le varianti d’autore negli autografi conservati della poesia italiana del XIV secolo:

Eliminate felicemente tutte […le] innovazioni, antiche e medievali, ci troviamo talvolta ancora di fronte a un resticciolo di varianti che deve risalire all’autore stesso. […] Queste “varianti d’autore” devono risalire o a diverse edizioni dell’opera, vigilate e corrette dall’autore stesso (e quindi tutte parimenti autentiche), o anche a sue esitazioni e oscillazioni nell’originale, negli originali (Pasquali [1934] 19522, 392).

IV. Ogni esemplare è un’edizione (“decalogo Pasquali”, punto 10)

10) I papiri per la tradizione greca, le citazioni antiche per la latina mostrano che già nell’antichità per autori molto letti ogni esemplare rappresenta in qualche modo un’edizione particolare, cioè una miscela ogni volta variamente graduata di varianti preesistenti, genuine e spurie. Già nell’antichità era cominciato il processo di contaminazione, di conguagliamento tra tradizioni diverse, il processo che talvolta sblocca nella formazione di una “vulgata”. Tali condizioni spiegano come papiri che restituiscono in un punto la lezione genuina oscurata nella tradizione medievale, coincidano poi con rami e ramoscelli di essa in corruttele particolari.

V. Recentiores non deteriores (“decalogo Pasquali”, punti 2, 3, 4, 5)

2) In Oriente l’età bizantina, in Occidente l’età carolingia e il Rinascimento possedettero molti più manoscritti di classici conservati di quanto non si soglia supporre. Ancora il Cinquecento e il Seicento francesi e fiamminghi hanno sciupato, perduto, distrutto, codici preziosissimi […].

3) [Soprattutto] nella tradizione di autori latini è sempre probabile ‘a priori’ che testimoni tardi dipendano, totalmente o parzialmente, da fonti diverse da quella da cui sono discesi i testimoni più antichi. Un recentior non è perciò solo un deterior. L’autorità di un testimone è indipendente dalla sua antichità.

4) Quello che qui si dice di manoscritti recenti vale nello stesso modo di collazioni umanistiche e di edizione a stampa per le quali siano stati anche soltanto consultati codici ora perduti […].

5) Alterazioni arbitrarie e persino falsificazioni conscie non bastano ancora a squalificare un manoscritto recente, una collazione umanistica, un’edizione a stampa della quale non siano conservate tutte le fonti. Chi come il Lachmann rifiuta di servirsi degli interpolati, rischia di lasciar perdere anche tradizione genuina.

I recentiores includono dunque anche le prime edizioni a stampa, spesso opera di umanisti che sui manoscritti a loro disposizione eseguivano una vera e propria collazione delle varianti, e per le quali spesso il passaggio in tipografia significava il danneggiamento o la perdita definitiva del manoscritto utilizzato come codex optimus. 

E più oltre, a proposito della recensio fatta da Lachmann per la sua edizione di Lucrezio del 1850, così torna a essere stigmatizzato l'errore di compilare uno stemma codicum rigido, impermeabile alla possibilità delle contaminazioni orizzontali (pp. 4-5):

Lachmann […] va in cerca di criteri che siano oggettivi, e che quindi si possano seguire con rigore. Il rigore diventa talvolta meccanico. […] Al criterio del valore della lezione singola si sostituisce quello della credibilità della testimonianza. Questo procedimento contiene in sé una rinunzia e insieme una semplificazione. Il Lachmann rinunzia già in principio e ancor più nella pratica a esaminare tutta la tradizione manoscritta […]. Sui codici umanistici pesa su per lui, sino a prova contraria, il sospetto di interpolazione. […] Questo procedimento è, a rigore, errato: errato perché incauto: non si può escludere che un codice sconosciuto, anche recentissimo, sia copia di un manoscritto che conteneva il testo in forma più genuina di tutti quelli sinora noti […]. Da questa limitazione, volontaria e insieme necessaria, del Lachmann deriva un’altra lacuna ch’egli non ha riempito neppure più tardi. Un’operazione alla quale noi filologi più recenti sogliamo attribuire un’importanza particolare, l’eliminatio codicum descriptorum.

L’antichità del manoscritto non dà alcuna garanzia di maggiore genuinità:

Anche mss. più antichi del XV possono derivare da età e cerchie nelle quali l’interpolazione era consueta […] e quindi il vantaggio della genuinità, ch’essi presenterebbero di fronte a codici recenti, è troppo spesso solo apparente (Pasquali [1934] 19522, 46).

Seguendo il filo di questo ragionamento, si arriva a sostenere che, considerato che anche le corruttele possono avvenire per via poligenetica (p. 19), alla fine delle più accurate operazioni di collatio e di recensio, si potrà soltanto avere una “presunzione” relativamente alla dipendenza di un manoscritto da un altro:

Quando, collazionando per intero un manoscritto più recente con uno più antico, non si trovino indizi probanti di dipendenza, ma non si scoprano neppure né lezioni migliori né divergenze singolari e neanche corruttele che non possano derivare dal ms. più antico, ma faccian sospettare di una tradizione sfigurata quanto si vuole, ma diversa, allora, allora soltanto ci si potrà contentare della ‘presunzione’ che il ms. più recente sia copia del più antico. (Pasquali [1934] 19522, 35-36)

VI. Il criterio geografico (“decalogo Pasquali”, punto 8)

8) Come nella linguistica è ormai pacifico che gli stadi più antichi si conservano più a lungo in zone periferiche, e che quindi coincidenza di due zone periferiche lontane l’una dall’altra in un fonema, una forma, un vocabolo, un costrutto garantisce la loro antichità, così anche in coincidenza di lezione in codici scritti lontano dal centro della cultura e lontane tra loro costituisce una presunzione per la genuinità di questa lezione. Spesso di testi molto letti sia nell’antichità, sia nel Medioevo, si è formata una vulgata che, come suole la moda, progrediva da un centro verso la periferia, ma non sempre la raggiungeva.

La concordanza tra varianti geograficamente lontane è un criterio di bontà della lezione attestata in area periferica, rispetto alla lezione attestata in un’area centrale:

La linguistica ha insegnato una considerazione metodica […]: ogniqualvolta aree laterali coincidono tra loro in un fenomeno contro l’area centrale che le separa, è straordinariamente probabile che questo fenomeno sia antico. Trasportando il principio dalla linguistica alla critica diplomatica, se un codice scritto a Cipro coincide in una lezione caratteristica con uno scritto in Russia, è probabile che questa lezione sia genuina; perché non s’intenderebbe come mai lo stesso testo sia stato alterato nello stesso modo, caratteristico, indipendentemente in due aree diverse. Questo metodo che chiameremo “geografico” [potrebbe essere…] un nuovo criterio che vale […], accanto a quelli dell’usus scribendi e della lectio difficilior e con più oggettiva sicurezza che non essi, a dirimere divergenze in caso di recensione aperta (Pasquali [1934] 19522, 160).

Spesso innovazioni vittoriose (o, come nel caso di Sallustio, un’unica edizione di successo) “uccidono un buon numero di varianti” (p. 346). Anche in questi casi per lezioni singolari attestate in aree periferiche si può supporre che si tratti di fenomeni di resistenza al mainstream della tradizione, e quindi, per i testimoni che tali varianti restituiscono, si può avanzare un’ipotesi di maggior genuinità:

Innovazioni vittoriose si irradiano per lo più da un centro verso la periferia e non sempre giungono a toccarla, sicché se una lezione è attestata in due punti, rispetto al centro, periferici, essa ha molta probabilità di essere l’originaria non ancora sopraffatta dall’innovazione (Pasquali [1934] 19522, 7).

VII. Utilità e inutilità del concetto di archetipo (“decalogo Pasquali”, punti 1, 11)

1) Non sempre la tradizione medievale dei testi greci e latini risale a un archetipo esso stesso medievale o appartenente al periodo più tardo dell’età antica.

11) Non vi sono esempi certi di archetipi appartenenti ancora all’antichità per la tradizione greca; per la tradizione latina non pare che tali archetipi possano esser negati.

Prove di applicazione del paradigma filologico alla pratica artistica

In vista dell’applicazione del paradigma filologico alla pratica della copia di opere d’arte, raggruppo ulteriormente i punti del decalogo di Pasquali in 3 insiemi (A, B, C):

A. Il fattore umano: il copista-scriba e il copista-artista
I. La tradizione non è mai ‘meccanica’
II. La tradizione non è quasi mai verticale, ma trasversale e orizzontale
III. Varianti antiche e varianti d’autore
IV. Ogni esemplare è un’edizione

B. Il tessuto della tradizione: anacronismi ed ectopie
V. Recentiores non deteriores
VI. Il criterio geografico

C. Archetipo: una finzione ermeneutica
VII. Utilità e inutilità del concetto di archetipo

A. Il fattore umano: il copista-scriba e il copista-artista

Sul piano filologico si può affermare che la tradizione, avendo come attore coprotagonista il copista-scriba, qualunque sia il medium scrittorio (dallo stilo al computer), non è mai un’operazione meccanica pulita di trasferimento verticale da un antigrafo (l’‘originale’, per dire così, ovvero l'esemplare da cui il copista copia il testo) a un apografo (la ‘copia’ per così dire, ovvero l'esemplare che è il prodotto del lavoro di trascrizione). Innanzitutto diamo per certo che il copista introdurrà comunque nel nuovo testo, involontariamente e volontariamente, un numero variabile di errori e di consapevoli modifiche. Nel processo di analisi filologica gli errori – sviste e refusi involontari – saranno i più facilmente individuabili ed emendabili, a meno che nel passaggio di testimone in testimone l’iterazione e la stratificazione dell'errore non abbia prodotto guasti irreparabili. Meno evidenti e meno facilmente emendabili saranno le banalizzazioni e le normalizzazioni operate dal copista su punti critici del testo – passaggi difficili, parole rare o tecniche, nomi propri – dove il copista interviene, con gradazioni diverse di consapevolezza, introducendo normalmente lezioni faciliores allo scopo di rendere il testo comprensibile a se stesso e/o a chi leggerà la sua trascrizione. Ancora più difficili da individuare sono gli emendamenti in cui il copista mette in gioco la sua cultura e la sua intelligenza per introdurre una variante che crede (a torto o a ragione) più corretta rispetto alle norme grammaticali, alle regole metriche, o all’usus scribendi dell’autore, ovvero, se ne ha la possibilità, laddove per risolvere il passo dubbio attua il confronto con altri esemplari del testo che siano a lui accessibili.

A meno che il copista non sia uno scriba inetto e affatto passivo, che nell’operazione di trascrizione non attiva neppure la modalità automatica del ‘correttore automatico’, la recensione chiusa non è mai veramente tale perché, a ogni punto in cui il copista avverta (a torto o a ragione) un intoppo nella perspicuità del testo, metterà in azione non solo la sua intelligenza ma anche, se gli è possibile, il confronto con altre varianti che trova attestate o meno, e quindi compirà a sua discrezione una scelta orientata dalla sua sensibilità, dalla sua cultura, dal suo gusto e comunque sempre discrezionale. In questo senso ogni passo in cui si presenti una difficoltà (oggettiva o soggettiva) di comprensione si configura come un bivio in cui la recensione è suscettibile di aperture orizzontali, di contaminazioni anche non sistematiche, anzi piuttosto stocastiche (e perciò meno monitorabili) che provengono dalla collazione con altri testimoni. Insomma: il copista ideale, che garantirebbe una tradizione verticale e blinderebbe la recensione, è uno scriba perfettamente imbecille, digiuno di qualsiasi conoscenza, privo di qualsiasi curiosità, ma con una altissima qualità e costanza di attenzione e di precisione, mai distratto, che possibilmente non sappia nulla di quel che sta trascrivendo e che purtuttavia trascriva tutto meticolosamente (ma se esistesse un tipo simile, ci chiederemmo perché farebbe mai quel mestiere e chi mai lo pagherebbe per farlo). La situazione invece tanto più si complica quanto più il copista è intelligente, colto, curioso, e magari anche dotato di divinatio – il miracoloso colpo di ingegno che risolve l’empasse di un locus desperatus o che risarcisce una lacuna irrimediabile – in questo caso il lavoro di analisi filologica sarà estremamente complicato perché bisognerà passare al setaccio, lezione per lezione, le scelte del copista, filtrarle comprendendone di caso in caso la fondatezza, il senso e l’intenzione.

Pasquali ci insegna a leggere in qualsiasi esemplare una “edizione”, ovvero un nuovo testo che, fatte salve le varianti involontarie dovute a errori o sviste, si propone positivamente come un “testo critico” (ovviamente a tasso variabile di criticità: su una scala da 0 a 100, l’interventismo critico del copista può interferire con il testo da un valore 0,1 a un valore 100, mai comunque per un valore pari a 0). Il nuovo testo è una “edizione” in quanto questo, propriamente, si ripropone di essere (più o meno intenzionalmente, più o meno ambiziosamente, più o meno istituzionalmente). E la nuova “edizione” risentirà di contaminazioni orizzontali provocate dall'interferenza di altre varianti che il copista rimedia grazie al confronto con esemplari diversi dal suo antigrafo e/o grazie alle sue conoscenze, alla sua cultura, alla sua sensibilità linguistica o (in caso di edizione critiche vere e proprie) alla qualità della sua tecnica filologica. 

Già nella stesura prima e originale, la cui politezza compositiva può essere in partenza compromessa da varianti d'autore, l’‘originale’ comunque latita: tanto più le sue tracce si perdono nella complicata storia della tradizione del testo. In sua supplenza si pone il succedaneo virtuale per cui Lachmann trovò il nome di ‘archetipo’. Ma come insegna Giorgio Pasquali, il riconoscimento dell’antigrafo (l’esemplare da cui si copia) non garantisce certo dell’unicità di un archetipo nell’esecuzione dell’apografo (l’esemplare copiato). E più il ‘copista’ è intelligente e colto (più è ‘filologo’) più il gioco si fa complicato perché non si sarà accontentato di una sola fonte ma, quando possibile, avrà collazionato varianti da altri testimoni, da altri rami della tradizione che dipendono da diversi archetipi. E comunque poi nella collatio delle varianti avrà messo in campo il suo sapere, la sua conoscenza, il suo orecchio per i loci paralleli, per l’usus scribendi dell’autore, e quindi, anche il suo talento per le congetture, e così via. Tanto più il ‘copista’ è colto e bravo, tanto meno fedelmente (purtroppo, in certo qual senso) copia. In questo senso nella tradizione dei testi l'intelligenza/cultura del copista si qualifica come un fattore pericoloso, per il serio rischio di interferenze: in altre parole, sotto il profilo della riproduzione meccanica, l’attendibilità di un manoscritto risulta inversamente proporzionale all’intelligenza/cultura del copista.

A questa mercuriale mobilità del testo – a cui corrisponde perfettamente la facies ermetica dell’azione critica, ovvero la difficoltà ermeneutica – si aggiunge il caso che il copista-scriba sia lo stesso autore e che quindi l’originale autografo ci giunga con correzioni e varianti di pugno dell’autore (Pasquali ricorda, ad esempio, il caso di varianti che Cicerone apportò ai suoi testi dopo averli già congedati con il suo imprimatur). Specie nella tradizione di testi cronologicamente a noi più vicini per i quali è possibile risalire alla versione di mano dell’autore, abbiamo una chiara evidenza di come, in presenza di varianti d’autore, il quadro possa essere ancor più complicato e il lavoro del filologo ancor più difficile. Neppure la versione d’autore, quindi, può essere considerata l’unico ‘originale’: l’esistenza di varianti d’autore (amplificata di recente dall’avvento della scrittura a computer e dalla conseguente facilità di intervento sul file) si unisce alla possibilità di ‘errori d’autore’ (sviste grafiche e ortografiche).

Comunque il copista, specie nella sua veste – più o meno istituzionale – di “editore” del testo, opera al primo livello il mestiere del filologo (prefigurando l’azione che il filologo porrà in essere con la sua edizione critica) e quindi si trova continuamente di fronte a scelte irrisolvibili sulla base del metodo, indecidibili con il criterio della razionalità, che finiscono per essere affidate a una solitaria, responsabile o irresponsabile, vile o coraggiosa, discrezionalità. In realtà, anche lo stesso filologo, che in questo quadro altro non è che un copista emancipato, di secondo livello, impegnandosi nell’impresa di una edizione critica, per quanto farcisca di informazioni e giustificazioni gli apparati critici e i commenti al testo, delle sue scelte potrà sinceramente rispondere soltanto a se stesso. 

Applicato al campo artistico, in particolare alla replica dai modelli, l’assunto dell’impossibilità di un passaggio da antigrafo ad apografo che sia meramente meccanico e di una tradizione puramente verticale esce confermato e rafforzato. Se è certo che il copista-scriba, anche nella figura emancipata del copista-umanista e oggi del copista-filologo, interpola, consapevolmente o inconsapevolmente, il testo per i motivi e con gli obiettivi che abbiamo appena descritto (produrre una nuova “edizione” dell’opera, sia essa poi tirata in 1 o in 100.000 copie), il copista-artista interpola il suo modello per le stesse ragioni e per altre sue proprie. Riguardo all’interpolazione con il copista-scriba il copista-artista condivide alcune motivazioni negative: può essere, ad esempio, che il modello non sia integro e che pertanto il copista-artista fraintenda in tutto, o in qualche dettaglio, la postura del modello, o che intenzionalmente lo manipoli e reinterpreti prestando la postura originaria a una diverso soggetto (è il caso del Discobolo che presta la sua postura al “guerriero morente” in mostra a Milano).

Ma le ragioni che motivano l'interpolazione artistica della copia rispetto all’interpolazione testuale sono in realtà molto più complesse e più varie. Attiva è, intanto, una interferenza con gli obiettivi specifici dell'azione artistica. Lo scopo del copista-artista quasi mai è quello di produrre un esemplare il più possibile fedele al modello. Non prendiamo qui in considerazione lo statuto e gli obiettivi peculiari, in grado più o meno sensibile, di ogni opus artistico e quindi anche in qualche misura anche nella ‘copia’ da modello, ovvero la tensione all'originalità dell'artista, l'investimento sull'autorialità, la sua libertà di invenzione, l’interazione tra la cifra stilistica personale e la fedeltà al modello. Tuttavia, a meno che il copista-artista non sia un falsario professionista (perché in quel caso il suo obiettivo strategico e la sua ambizione saranno diversi dall'artista tout court) la sua azione non mirerà forzatamente alla massima prossimità, all’imitazione perfetta del modello, ma spesso giocherà il gusto, o la necessità della variazione – nei dettagli, nella scala, nei materiali. Sarà quindi molto probabile che il nuovo esemplare, pur ricollegabile al modello, si diversifichi intenzionalmente da esso, ad esempio adattando qualche dettaglio per andare incontro alle esigenze della committenza o anche, semplicemente, per assecondare la cifra stilistica dell’autore dell’opera. Sarà anche possibile che il copista-artista deduca la sua nuova opera da modelli differenti, della stessa opera, o addirittura combinando dettagli prelevati da opere diverse, ibridando dettagli e contaminando le fonti.

B. Il tessuto della tradizione: anacronismi e ectopie

In campo filologico dobbiamo a Giorgio Pasquali la formulazione del principio di metodo secondo cui nella ricostruzione di un testo non è possibile decretare l’eliminazione di esemplari derubricandoli come descripti, solo a ragione della cronologia oggettiva del singolo manoscritto. Lo schema ad albero genealogico, convenzionalmente adottato per la visualizzazione della relazione tra i manoscritti, non fornisce una figura precisa alla dinamica che muove dal suo interno la tradizione di un testo. A differenza dello stemma genealogico che presume comunque una derivazione di padre/madre in figlio/figlia, le relazioni fra gli esemplari non sono quasi mai descrivibili in modo rigorosamente verticale: a causa della dinamica delle contaminazioni orizzontali e delle continue interferenze dovute al ‘fattore umano’ di cui abbiamo trattato nel paragrafo precedente (A), non è affatto detto che un testimone datato a una cronologia più bassa non possa conservare un testo o singole lezioni di un testo che si possono far risalire a una posizione molto più alta nello stemma. 

Insomma: nella ricostruzione della parentela filologica accade di osservare fenomeni accostabili non tanto alle linee rette della derivazione genealogica (per cui sarà pur sempre vero che un figlio è figlio di suo padre e di sua madre, non di un suo bisnonno) quanto piuttosto ai fenomeni ad andamento curvilineo, di emersione e riemersione, di latenze e ricomparse, osservati nelle ricostruzione delle derivazioni genetiche, sin dai primi studi nel XIX secolo e fino alla scoperta del DNA e alle ricerche sulle sue dinamiche della trasmissione dei geni. Come sappiamo è ben provato che nel codice genetico di un individuo possono essere rintracciate evidenze di caratteri recessivi, non epifenomenicamente presenti nei genitori, che purtuttavia erano caratteri dominanti in antenati più lontani. Fermandoci alla superficie del fenomeno – ovvero alla visibilità dei caratteri non alla loro effettiva presenza nel DNA (in cui restano comunque custoditi, ma in forma latente) – un'“edizione” recente, ad esempio i manoscritti umanistici ma anche le prime edizioni a stampa che spesso dagli umanisti stessi erano curate, può contenere lezioni di cui si può provare la dipendenza da esemplari più antichi dell’antigrafo diretto – testimoni per noi perduti ma che hanno lasciato tracce consistenti di sé nell'esemplare recente, apparentemente separato da secoli di distanza dai suoi ‘antenati’.

Un altro elemento del quale Pasquali mette in evidenza la possibilità di una positiva rilevanza consiste in quella che potremmo definire una “ectopia (non patologica) delle varianti”. Un esemplare eseguito in un’area periferica, a distanza dal centro, da cui si irradiano le “lezioni vittoriose” che “uccidono le varianti”, può essere portatore di lezioni genuine: lo è senz’altro se rileviamo coincidenze con altri esemplari dislocati in altra area periferica non collegata alla prima. Pasquali chiama “criterio geografico” questo assunto, mutuato dalla norma osservata nella linguistica della conservazione di forme arcaiche in aree periferiche, indipendentemente l’una dall’altra: parafrasando la parallela formulazione pasqualiana relativa alle gerarchie cronologiche, potremmo adottare per questo criterio che valorizza la perifericità del testimone la formula sepositi non deteriores.

Le vie della tradizione sono imprevedibili e spesso non tracciabili: relazioni e parentele non sono mai certe. Se inoltre siamo avvertiti del fatto che neppure “da coincidenze in corruttele ovvie è lecito concludere nulla quanto a parentela di manoscritti” e che “solo le lacune sono, almeno di regola, trasmesse direttamente” (Pasquali [1934] 19522, 21, 140) il tessuto della tradizione ci appare composto su un telaio in cui neppure le coordinate spazio-temporali, la trama e l’ordito, sono disegnate ortogonalmente, ma ogni brandello di stoffa può intrattenere relazioni stocastiche con un altro brano posto a una distanza, cronologica o geografica, apparentemente incolmabile. Solo i buchi nel tessuto (le lacune) sono segni certi: molte delle evidenze e delle latenze, le dinamiche interne su cui la tradizione intreccia i suoi fili, non sono disegnabili con linee tirate a righello. Insomma, seguendo il principio recentiores non deteriores coniugato al “criterio geografico” sepositi non deteriores, il filologo, come ogni storico rigoroso, si trova metodologicamente obbligato a contemplare nella sua ricostruzione fenomeni che non hanno una giustificazione cronologicamente o spazialmente plausibile. Avrà l’obbligo, pertanto, di tenere in seria considerazione due fattori che a primo avviso parrebbero antistorici e antirazionali: l’anacronismo delle fonti e il valore positivo dell'ectopia (intesa nella sua prima accezione, medico-anatomica).

Anche nell’ambito della produzione artistica antica, si verifica l’impossibilità di una ricostruzione genealogicamente lineare. Dinamiche di ripresa, di citazione, di ricorso scandiscono il moto non lineare della tradizione, prima ancora che dall'antichità al Rinascimento, dai Greci ai Romani: da ciò dipende anche la sensibile oscillazione nelle datazioni delle ‘copie’ rispetto ai modelli, delle 'repliche' rispetto agli ‘originali’. Le forme in gesso ritrovate a Baia, prese a calco da dettagli di opere ellenistiche per le riproduzioni di bottega, sono per noi fonti insostituibili della perduta raffinatezza di dettagli dei bronzi originali, insospettabile nelle copie in marmo pervenuteci ma solo intuibile a posteriori, per confronto incrociato tra copia e calco-matrice. Ben si comprende, nell’ambito della datazione di opere scultoree romane rispetto a presunti ‘originali’ ellenistici, la difficoltà di decidere, in assenza di dati tecnici o storici contestuali, cosa sia ’originale’ rispetto a ‘copia’.

La statua di bronzo della Venus Victoria ritrovata nel XIX secolo nel Capitolium di Brescia è opera della prima età imperiale romana – una Venere a cui per correzione o pentimento d’artista in corso d’opera, o per diversa destinazione, sono state aggiunte le ali della Vittoria – o si tratta del rimaneggiamento di una Afrodite ellenistica del III secolo a.C.? Qualunque sia la genesi del manufatto, si tratta comunque della contaminazione tra due modelli, culturalmente e cronologicamente distanti: l'Afrodite che si gingilla con le armi di Ares e la Nike che scrive sullo scudo il nome del vincitore. Ma il miglior esemplare che possediamo di questa iconografia della Victoria scribens è proprio la Venere di Brescia: un caso emblematico di conferma dell’anacronismo delle fonti (vedi sul tema, in Engramma, saggio e tavola iconografica Venus volubilis/venusta Victoria).

In casi come questo, le amplissime oscillazioni cronologiche e geografiche proposte dalla critica per lo stesso manufatto appaiono metodologicamente imbarazzanti, al punto che sembrano smentire ogni assunto di scientificità nel mestiere dell’archeologo, dello storico dell'arte antica, dello storico della tradizione classica. Vero resta che la variante stilistica è sintomo storico di una precisa prospettiva estetica e culturale, ma per il moto implicativo delle complesse dinamiche modello-esemplare, citazione e ripresa, il rilievo del mero dato formale non è di per sé sufficiente alla definizione di una lettura critica (ovvero: storica) dell’opera.

Ectopica è la ‘Penelope’ di Teheran, ma ectopiche sono probabilmente anche le sue sorelle romane rispetto al luogo e al tempo in cui furono concepiti e realizzati i prototipi (al duale o al plurale) che si suppone siano da collocare geograficamente nell’area della madrepatria greca o delle colonie microasiatiche, e cronologicamente alla prima età ellenistica. Ma se, come in questo caso, la presenza degli esemplari a Roma è da considerarsi significativa, in quanto ectopica rispetto a una centralità non attestata da alcun esemplare, lo schema stemmatico si complica e, ancora in assenza di una seria e imprescindibile analisi petrografica, nell’impossibilità di illustrare snodi e percorsi, il campo resta aperto a qualsiasi genere di teoria, comprese le ipotesi meno economiche e convincenti. Anche l’ectopia della serie ‘Penelope’ è dunque un caso emblematico che mette in seria discussione l’ipotesi dell’esistenza di un archetipo (sulla “Penelope di Persepoli” vedi, in questo stesso numero di Engramma, il contributo di Alessandro Poggio).

C. Archetipo: una finzione ermeneutica

In ambito filologico va riconosciuta a Lachmann la paternità del termine e del concetto di ‘archetipo’. Così Pasquali introduce, con una punta di divertente ironia, il riconoscimento al filologo dell’Ottocento:

Il commento di Lachmann a Lucrezio fu pubblicato nel 1850 […]. Si sente ch’egli […] profferisce [giudizi] dall’alto della cattedra […] Perfino di un termine, in questo senso nuovo necessario e felice, archetipo, egli non fa pompa: ne usa prima come di sfuggita; subito dopo in una parentesi confessa, con modestia apparente, ch’è sua abitudine dir così: id exemplar ceterorum archetypum (ita apellare soleo) (Pasquali [1934] 19522, 3).

Ma alla verifica della collatio in molti casi il ricorso all’archetipo pare non avere alcuna plausibilità né essere di alcuna utilità; accade ad esempio per la tradizione di testi molto diffusi in età tardo-antica e medievale come l’Iliade:

Ho parlato sinora di ‘capostipite’, evitando accuratamente la parola ‘archetipo’. Io sono convinto che per l’Iliade un archetipo, nel senso nel quale abbiamo adoperato questa parola […per altri autori], non esista […]. [Se anche un archetipo di età bizantina] ci fosse stato, attenderemmo che lezioni antiche di qualsiasi origine si ritrovassero con frequenza superggiù uguale in tutti i mss. medievali […]. Non è così: alcuni papiri hanno coincidenze numerose con determinati codici medievali […]. Coincidenze così spiccate di un ms. medievale con un ms. antico escludono l’esistenza di un unico ‘bacino di ridistribuzione’, l’archetipo medievale (Pasquali [1934] 19522, 210).

Così è anche per un altro testo di successo in età tardo-antica e medievale, il Timeo di Platone, per il quale la contaminazione orizzontale è attiva già in età antica:

[Quanto all'opera di Platone, in particolare al Timeo,] ‘l’archetipo con varianti’ non vi fu proprio per quel testo per il quale per la prima volta su supposto con certa conseguenza e consequenziarietà: Platone è tramandato dall’antichità recta via, come Omero. Contaminazione, diffusione ‘trasversale’ o ‘orizzontale’ di lezioni vi fu di certo ma essa appartiene già al periodo antico della storia del testo non soltanto a quello medievale (Pasquali [1934] 19522, 260).

Non si tratta, afferma Pasquali, di ingaggiare una “lotta contro il concetto di archetipo”, quanto piuttosto di valutare, caso per caso e cum grano salis, la funzionalità del concetto (Pasquali [1934] 19522, 40). Sta di fatto che, per ragioni di volta in volta diverse, la plausibilità del concetto di archetipo e la sua utilità è messa in crisi anche per altri testi: 

[Per Plauto si suppone…] un ‘archetipo antico’? Questo concetto ripugna a noi per ragioni ben note a chiunque abbia avuto la pazienza di leggere questo libro sin qui (Pasquali [1934] 19522, 340).

Neppure la presenza di errori congiuntivi in manoscritti diversi garantisce la presenza di un archetipo comune:

Un […] caso comunissimo [… è quello secondo cui] le varie famiglie di codici medioevali proseguono ciascuno un’edizione antica. È evidente che, se anche qui tutti i mss. presentano, come per lo più presentano, errori comuni, il concetto di archetipo non è qui di alcuna utilità (Pasquali [1934] 19522, 21).

“Ci fu sempre un archetipo?“ è il titolo del secondo capitolo del volume (Pasquali [1934] 19522, 15-21). La questione investe la storicità, e quindi la realtà obiettiva dell’esistenza dell’archetipo, ma anche la sua utilità ermeneutica; la risposta (non troppo ovvia in ambito filologico) è negativa: in molti casi non solo l’archetipo non c'è mai stato, ma non c'è neppure necessità di presupporne l'esistenza. In molti casi l'archetipo non funziona neppure come dispositivo ermeneutico.

La possibilità di ricostruzione di un archetipo attendibile è complicata anche dall’eccesso di fortuna: quanto più un testo è ‘fortunato’ – diffuso e riprodotto – quanto meno resta periferico, tanto più difficile sarà ricostruirne l’archetipo.

In conclusione, nella tradizione testuale l‘archetipo non è mai identificabile con un testimone, non trova corrispondenza concreta in alcun testo reale, conservato o perduto: al massimo si tratta dell’esito di un processo logico-induttivo (prodotto della collatio) che in qualche caso potrebbe tornare utile come provvisoria finzione ermeneutica. Lo stemma codicum in cui i manoscritti sono collocati secondo un ordine genealogico tendenzialmente verticale può essere una rappresentazione utile ma spesso è gravemente difettosa, del tutto deficiente rispetto alla realtà delle relazioni che lo schema traduce in segni grafici lineari.

La lezione di metodo che si ricava dalla filologia insegna che l’ansia di risalire, a ritroso e in verticale, agli archetipi, alle essenze prime, alle radici dei nuclei tematici e simbolici, insomma all’Ur della Tradizione, va tenuta sotto controllo, pena la distorsione e la forzatura del metodo al servizio di una intenzione interpretativa. Ma anche dal punto di vista della finzione ermeneutica, molto probabilmente, nella maggioranza dei casi, dell'archetipo come concetto e come termine gerarchicamente connotante possiamo fare serenamente a meno.

Esemplare, prototipo, modello

Tenendo un occhio sul campo della storia della tradizione dei testi e un occhio sulla storia delle opere d’arte, ed esercitando con questo strabismo un doppio esperimento di metodo, proviamo a interrogare i termini ricorrenti nel lessico della filologia testuale e della metodologia storico-artistica: modello ed esemplari; archetipo e riproduzioni; unicità e serialità, prototipo e multipli, originale e copia.

Nel processare il concetto di archetipo, dal punto di vista della storia del testo, Pasquali faceva riferimento alla tradizione dei testi dell’Iliade e del Timeo di Platone. Nelle esposizioni Serial/Portable Classic abbiamo avuto occasione di ripercorrere, per stazioni, una campionatura dei modelli che hanno fatto ‘canone’ nella storia dell'arte antica, dall'antichità alla Rinascita e dal Rinascimento fino alla modernità: Il Discobolo di Mirone, la Venus accroupie, il Pothos di Skopas, il Doriforo di Policleto, l’Apollo di Kassel, il Bronzo A di Riace, i Tirannicidi, le Cariatidi dell’Eretteo, l’Ercole Farnese, il Marco Aurelio, l’Arco di Costantino, il Laocoonte (si veda, in questo stesso numero di Engramma, la Galleria delle esposizioni di Milano e Venezia, organizzata per stanze e percorsi). Si tratta di opere-simbolo che interpretano significativamente la temperie culturale e il contesto storico in cui sono state concepite e prodotte e che hanno avuto un posto di privilegio e una fortuna a volte intermittente ma tenace, anche a dispetto di lunghi periodi di oblio, nella storia della tradizione occidentale. Si tratta, come si dice comunemente, di capolavori esemplari.

‘Esemplari’? Ecco che si impone alla nostra attenzione una ambiguità semantica che provoca divergenza tra il significato dell’aggettivo rispetto al corrispondente sostantivo. L'aggettivo ‘esemplare’ qualifica la posizione di un primato, qualitativo se non cronologico o genealogico, di un'opera umana – un testo, un manufatto, ma anche un comportamento individuale o il carattere di un'istituzione – rispetto alla serie di cui la stessa cosa è parte. In altre parole l'esemplarità (il senso del nome astratto è connesso a quello dell'aggettivo) è una qualità relazionale, non assoluta. Anche il significato del sostantivo 'esemplare' è semanticamente connotato in senso relazionale: gli esemplari sono solitamente più di uno e, se pure l'uso linguistico non ci impone la forma pluralia tantum, vero è che la locuzione ‘esemplare unico’ è quasi un ossimoro, buono ad esaltare l'eccezionalità dell'opera, con rimando implicito al fatto che altri esemplari fratelli non sono stati prodotti o potrebbero essere andati perduti. Il senso più comune del sostantivo è però connesso alla dimensione della serialità: si parla di “esemplare di una serie”, di “riproduzione in tot esemplari”. In questa accezione 'esemplare' è sinonimo di ‘copia conforme’ (ad esempio di una serie numismatica, o di una serie litografica, a volte numerata e autentificata dalla firma d’autore).

Il significato di ‘esemplare’ oscilla dunque tra due polarità. Da un lato si apprezza il profilo dell’aggettivo ‘esemplare’, denotativo di eccellenza; dall’altro lato nel termine ‘esemplare’ convive il significato di riproduzione/copia che da uno stampo/prototipo è derivata e da cui trae certificazione di autenticità. La connotazione semantica del termine risente della complessità del processo dell’exemplare. Da un’altra prospettiva, l’ambiguità intrinseca del termine è una luminosa spia linguistica che suggerisce la sempre incerta possibilità di una distinzione tra esemplare/prototipo ed esemplare/copia: portata al bordo del suo profilo semantico, la definizione di ‘esemplare’ mette in crisi il concetto stesso di originale e di copia.

Come abbiamo imparato da Pasquali, l'‘archetipo’, quando pure se ne possa supporre una utilità, non è niente altro che una rappresentazione logico-virtuale di una derivazione, utilizzabile soltanto nel contesto di tradizioni di tipo rigorosamente ‘verticale’ (ovvero nel caso di recensioni chiuse). L’archetipo corrisponde quindi al capostipite di una famiglia di opere – testi o manufatti che siano – che si colloca in una posizione di massima prossimità rispetto al punto di origine della genealogia. Ma, come abbiamo visto, metafore e figure genealogiche malfunzionano per rappresentare le dinamiche della tradizione classica: la loro utilità si limita alla schematizzazione grafica dell'albero stemmatico, una semplificazione che fa torto alla complessità del tessuto delle relazioni – implicate in traiettorie spesso sghembe e desultorie – fra i vari ‘testimoni’ (per recuperare un altro termine caro alla filologia e che lessicalmente prefigura la teatralità del processo di ricognizione critica).

Esistono purtuttavia ambiti e pratiche di tradizione di testi e di immagini in cui è corretto far riferimento alla concretezza (reale o supposta) di un archetipo che trae la sua autorevolezza dall’essere molto prossimo all'‘originale’. Il confronto, all'interno dell'ambito sacro-religioso, tra le icone del cristianesimo orientale e le Madonne della pittura rinascimentale italiana rende evidente lo scarto concettuale tra l'uno e l'altro schema di rappresentazione. L’icona del cristianesimo orientale intrattiene con il suo ‘archetipo’ una relazione che ha come suo presupposto necessario la verticalità della dipendenza genealogica: la linea di relazione ha origine dal primo, “vero” e “originale”, ritratto della Madonna fatto da San Luca (ma la stessa cosa si può dire per il volto di Cristo impresso nella Veronica o per il ritratto del Santo) di cui l’icona è precisa, puntuale, trascrizione: “copisti” si definiscono i pittori di icone, e l'opera che producono è copia conforme la cui garanzia di autenticità sta proprio nella derivazione recta via dal ritratto originale che la rende “vera icona”, sacra e venerabile (Centanni 2005)

Più duttile e maneggevole invece sarà, in generale, il concetto di ‘prototipo’: la prima impressione di una serie che non deve essere di necessità allineata all'idea di copia conforme. Perché soprattutto nella pratica artistica interviene, a complicare il gioco, la dialettica dinamica tra il modello e le deduzioni o le variazioni.

In questa prospettiva anche il fenomeno della riproduzione assume, nell’ambito della tradizione classica, una sua tipicità. Non si tratta, infatti di una ripetitività di tipo cultuale – che riflette il presupposto dell’archetipo e ripropone l’immutabilità del rito – ma dell'idea di riproducibilità – cioè dell'idea, tutta originale, di modello, e di copia e di serie.

L’artista inventa – cerca scopre trova – modelli che utilizza liberamente per rifondare attivamente, non per confermare passivamente, la tradizione. L’artista si nutre di suggestioni, e a sua volta con la sua opera alimenta allusioni al punto di riferimento che non è l’‘origine’ consegnata a un irrecuperabile passato, ma l’origine attuale: che è in atto, interessa e chiama in causa il presente. L’opera poetica è quindi una scheggia di senso: un frammento dello specchio frantumato di Dioniso in cui il mondo può scoprire il riflesso di sue nuove, attuali, immagini: “Il grande pittore aggiunge una nuova dimensione a questo mondo, troppo sicuro di sé, facendovi vibrare la contingenza” (Merlau-Ponty [1960] 20032, 77).

Nel grande regesto della tradizione classica ogni poietes iscrive la sua opera in un genere, si rifa a modelli preesistenti: la necessità (più o meno dichiarata, più o meno dissimulata) del modello pare ineludibile, e a sua volta il fare dell’artista stringe e conferma tale necessità. Ma il gioco creativo – la riuscita dell’opera – sta nel come: come l’artista si ispira al modello, come l’artista al modello resiste. A proposito dei suoi studi sul Rinascimento fiorentino, Aby Warburg ci insegna che è cura dello studioso di tradizione classica analizzare “come l’artista si confronta con le percezioni che dell’Antico aveva avuto la sua epoca, quasi si trattasse di una potenza che esigeva resistenza o soggezione”; ancora, a proposito di Manet e dei modelli antichi e rinascimentali del Dejeneur sur l’herbe, lo stesso Warburg si interroga su quale sia il bisogno che porta l’artista moderno a rivolgere indietro il suo sguardo e a “presentarsi come un fidato amministratore dell’eredità della tradizione”. La risposta è che soltanto “coloro che condividono l’eredità spirituale del passato sono in grado di trovare uno stile carico di nuovi valori espressivi. Tali valori infatti derivano la loro forza di penetrazione non dalla rimozione ma dalla sfumatura che apportano alla rielaborazione delle antiche forme”. Rispetto agli artisti comuni che sentono questo obbligo come un peso, il genio sfrutta l’energia dell’attrito che si crea tra soggezione e resistenza al modello e “dà luogo a un atto di magia anteica” (Warburg [1929] 1984, p. 40).

Originale assente

Dobbiamo ancora a Giorgio Pasquali la suggestione di un'immagine che descrive il corso della tradizione classica. Il filologo mutua da Paul Maas la figura di:

[...] un corso d’acqua che, ricevendo affluenti e filtrando terreni d’ogni genere, perda il colore genuino, ne acquisti di spuri. (Pasquali [1934] 19522, XI)

Ovvero, con descrizione più ampia e articolata:

[...] la similitudine di un fiume sotterraneo, che sottoterra si divide in rami e sempre in nuovi rami, che qua e là erompe alla superficie in sorgenti per poi sprofondarsi di nuovo, ma non senza aver accolto in sé materie coloranti, che del resto penetrano anche in ciascuna di queste ramificazioni, ogniqualvolta una appare alla superficie. ‘Compito della ricerca è quello di esaminare la genuinità dei colori, fondandosi sulle sorgenti’. Tutta questa comparazione è una bellissima pagina […]. Questo dotto, che dev’essere anche un amatore entusiasta della natura, sa rappresentarsi vivamente e descrivere con evidenza fenomeni carsici. Ma se l’immagine rende bene la trasmissione prevalentemente verticale di un testo, la trasmissione orizzontale, se non di un testo, di singole lezioni, si confronta molto meglio con una macchia d’olio che da un punto determinato di allarga a poco a poco sino a coprire tutta una superficie: fino dove giungerà allargandosi, nessuno può prevedere con sicurezza.

Con una punta di sarcasmo anti-naturalista il filologo italiano va ben oltre l’immagine elementare, proposta dal collega tedesco, del fiume ramificato che emerge e soffonda nelle viscere della terra. Non il rassicurante stemma genealogico, ma neppure il fiume carsico, dunque, per quanto inquinato e diversamente colorato dai retaggi delle contaminazioni superficiali, soddisfa la complessità dello scenario in cui si muove lo studioso di tradizione classica. Alla profondità dello scavo stratigrafico, che indaga le diramazioni e gli snodi sotterranei del flusso, deve anche corrispondere una attenzione di superficie. L’immagine più propria per il movimento della tradizione classica è il distendersi di una macchia d’olio. Nessun conforto lirico-romantico: i percorsi della tradizione classica sono come su una macchia d’olio, scivolosi e imprendibili. Il metodo giusto per l’intelligenza dei meccanismi della tradizione classica deve tener conto, a ogni snodo, a ogni svolta, di questo profondo inquinamento, ma anche della dispersione superficiale delle fonti.

Nel movimento della tradizione classica ciò che si trasmette non è un testo sacro e immutabile, un repertorio di simboli o un prontuario di atti codificati. Si trasmettono materiali, si trasmettono tecniche: si recuperano, si inventano, modelli. Nelle continue variazioni, contaminazioni, diramazioni dei circuiti di trasmissione del “classico”, resta infatti un punto fermo: l’esistenza, almeno fin dall'ellenismo, dell'idea di ‘modello’. Lo sguardo del poeta e dell’artista non è rivolto però ad archetipi immutabili ma a modelli storicamente riconoscibili, stilisticamente connotati: oggetti reali, storicamente accertati, disponibili e utilizzabili.

Alla logica imperante della consequenzialità secca archetipo/copia, si dovrà sostituire la domanda pregiudiziale, squisitamente storica, sulla disponibilità e accessibilità dei modelli, ma anche la consapevolezza dell’andatura non-lineare che regola la complessa trama delle interrelazioni che, attraverso fitti intrecci, lega il prototipo alla serie ‘provocata’. Anche in questo campo, molto più interessante rispetto alle battute di ‘caccia grossa’ sulle orme degli archetipi, sarà la ‘caccia sottile dei dettagli rivelatori delle relazioni tra le riproduzioni e i modelli: indagare nella concreta proliferazione dei testimoni la dinamica della riproduzione seriale (ad esempio, la pratica di riproduzione e deduzione rinascimentale da sarcofagi tardo antichi). Se dunque l’originale latita dietro all’epifania del fenomeno, se si danno per conoscibili soltanto reali modelli e concrete copie, anche la storia dell'arte è possibile soltanto nella forma della ‘critica del testo’.

La tradizione di moduli figurativi o letterari classici è segnata, nella maggior parte delle sue opere, dall’assenza di un archetipo unico, a cui si sostituisce la presenza fantasmatica di modelli reiterati, sfruttati, tradìti, reinventati. È proprio nella loro reiterazione che l’originale assente viene in superficie e nella continuità seriale trova un’evidenza concreta, un modo plurale di accesso alla realtà. È questa l’idea – tutta irreligiosa e fortemente tecnica – del modello infinitamente riproducibile in copie. Il modello origina una serie ed è nel continuum della ripetizione seriale che riemerge il profilo della prima impressione – il ‘prototipo’: l’originale che è assente ma, di fatto, appare sempre latitante in filigrana. E sarà la pluralità della serie, non l’astrattezza monocratica dell’Idealtypus, a ‘fare testo’.

L’andamento obliquo e diversificato del corso dei flussi della trasmissione allena lo storico alla comprensione dinamica dei meccanismi di contaminazione: il processo storico è una sequenza di domande ‘dialettiche’ in cui le questioni, anziché chiudersi nella risposta, prestano il fianco sempre a nuove aperture. La tradizione è un processo di selezione dei materiali: un meccanismo la cui vitalità e durata è garantita non dalla conservazione dell’integrità ma da espedienti di compensazione degli errori e dei difetti di trasmissione. Si tratta a volte di una scelta coatta, per fraintendimenti o per difetto materiale di modelli disponibili; a volte di una selezione volontaria e discrezionale, che dipende da una scelta ideologica, funzionale, stilistica o di coerenza contestuale.

Ma la relazione tra disponibilità effettiva dei materiali e fortuna del repertorio antico non si lascia ridurre in forma di equazione matematica. Nella storia della tradizione classica si rivela che spesso, più che l’abbondanza di materiali, è la penuria di reperti che risulta feconda, stimolante per la fortuna dei temi antichi. Gli umanisti e gli artisti del Quattrocento avevano a disposizione un repertorio letterario e artistico ben misero: rari e scarsi i testi antichi (specialmente i testi greci recuperati e tradotti lentamente nel corso del XV secolo); scarsissimo il repertorio di fonti iconografiche: rarefatti i reperti archeologici romani (soprattutto di Roma), solo dagli inizi del XV secolo avidamente indagati e copiati; qualche esemplare di sarcofago reimpiegato nel Medioevo per funzione o per pregio di auctoritas; le prime collezioni di monete di età imperiale e le raccolte di gemme ellenistico-romane. La ‘rinascita’ dell’antico che effettivamente si compie nel corso del Quattrocento non dipende direttamente dalla scoperta delle fonti: è il desiderio di antico che, ancora anacronisticamente, produce l’interesse, e quindi la riscoperta, delle fonti.

I meccanismi di contaminazione e di incrocio complicano la logica consequenziale e rigida della relazione modello/copia, ovvero della deduzione diretta e univoca tra due esemplari in un dialogo storicamente attestato, fisicamente diretto: di conseguenza, anche nel rilevare una deduzione precisa da modello, è necessario osservare una certa cautela nel disegnare schemi stemmatici lineari, netti e definitivi. In altre parole: non possono essere stabilite connessioni univoche ed esclusive tra presunti modelli e presunte copie. La ricerca spesso sterile di un unico originale per giustificare la riemersione di una formula iconografica antica e inserirla in un sistema ‘ordinato’ di deduzioni non comporta alcuna acquisizione ermeneutica, ma soltanto il rischio di forzature. Se l’origine non è pensabile come fonte unica, pura e diretta, ma, secondo l’intuizione di Walter Benjamin, è “vortice” che altera in partenza il corso del fiume; se le fonti risultano essere ab origine “sviate, indirette, ramificate”, sarà spesso impossibile dimostrare l’esistenza di un unico “modello diretto”. L’opera è comunque un “prodotto di compromesso o un processo di condensazione”; le fonti/modello sono “costantemente delocalizzate nell’eclettismo che le manipola, nel ‘libero adattamento’ che subiscono o nell’intensificazione stilistica che suscitano. Sono dunque malintesi […] sono cioè essenzialmente equivoche” (Didi-Huberman 2004, 93).

L’opera d’arte è considerata non unicum ma modello-esemplare con importanti effetti, già in età antica, sulle funzioni sociali dell’arte: la rivendicazione di un’autonomia estetica dell’opera ispira una sorta di ‘culto laico’ dell'arte, che prende già in età ellenistica e romana le forme del collezionismo e della museificazione dei capolavori. Ma il gusto marcatamente retrospettivo con cui già i Greci guardano ai modelli precedenti è indirizzato a un investimento strategico, a un progetto di reinvenzione del presente; di converso, la tensione umanistica non si riduce mai a nuovismo perché l’esempio del modello, il monumentum, garantisce fondatezza e tenacia alla catena di trasmissione della memoria. 

La caccia agli originali produce invece un’idea di tradizione che assomiglierebbe a un fondale a scena fissa, popolato di severi idoli delle origini. I ‘cacciatori di archetipi’ hanno solitamente una relazione disturbata, tendenzialmente paranoica, con il loro tempo: l’obiettivo dell’indagine si riduce spesso all’identificazione coatta e sbrigativa dell’‘originale’, condotta a scapito dell’analisi filologica, a dispetto della valutazione del pregio storico dell’opera. Ma solo nell’intervallo temporale in cui è possibile ignoranza e oblio, soltanto sotto il cielo vuoto di desiderio, l’opera diventa storica ovvero comincia a vivere, a trasformarsi, a invecchiare. Comincia a finire, smentendo l’eternità. E questa frattura nel continuum apre la dimensione dell’invenzione. Nell’ignoranza, nella latenza, nella paura di non capire e non sapere, si rianima il desiderio, la caccia alla conoscenza, l’eros della riscoperta: inventio. Ritrovando un capo, magari sbagliato, del filo, si riavvia la costruzione di una nuova opera. Dal vuoto, dalla paura, dall’assenza e dal complementare desiderio nasce l’opera d’arte; non la ricostruzione, la restaurazione dell’originale “feticcio del vero”, ma l’invenzione per attrito di un’opera di per sé autentica: di una, in sé fondata, nuova origine.

La latitanza dell’originale (che ha effetti importanti nell’estetica dell'imitazione), la relazione con il modello più o meno consapevole ma comunque storicamente connotata, garantisce paradossalmente a ogni esemplare una certificazione autonoma di autenticità. Poesia e arte si salvano dalle opposte derive dell’effimero e della mummificazione, del relativismo e dell’estetismo assoluto, se denunciano un rapporto necessario eppure critico con i propri modelli e se hanno tempra solida e filo da tessere: l’opera d’arte resiste al tempo (entra nella storia) se instaura un dialogo serrato con il proprio tempo. È un doppio movimento di necessità e di resistenza rispetto ai propri riconosciuti modelli: In gioco è il concetto stesso di ‘canone’. O per dire meglio: il gioco stesso è 'il gioco del canone' che nella cultura occidentale, fin dalla Grecia arcaica, nelle sue varie declinazioni storico-culturali, implica: una prima mossa di valutazione critica del contenuto dell'eredità (il modello, lo schema); quindi un processo, metodologicamente controllato, di collazione e di selezione degli esemplari disponibili; ancora oltre, la ricognizione critica e la scelta delle varianti; e infine la produzione di un nuovo esemplare.

La cura della memoria vale soltanto come proiezione di senso sull’attualità del presente: l’amore del passato è ‘vero’ soltanto in quanto sguardo retrospettivo che indaga i precedenti per cercare misure per l’oggi. Anche da questa prospettiva è il sentimento della perdita, è la frattura nella continuità delle pratiche del sapere che induce a ricercare misure: è il difetto di fondamento, la radice in sofferenza, la nostalgia, che inventa/rifonda canone.

Il canone non è un elenco: non è l’albo dei classici a cui si iscrivono, di volta in volta, gli autori illustri, ma una struttura mobile e funzionale, configurata dinamicamente dal gioco polemico e amicale dei conflitti e dei confronti, delle influenze e degli attraversamenti reciproci. Il canone è un campo di osservazione e di possibilità: il campo di un gioco, di cui è possibile modificare persino le regole.

Il canone è un Atlante: della memoria e delle narrazioni, dei racconti, dei conflitti. Un Atlante storico e topologico fitto di segni che ogni autore utilizza come mappa da seguire e da ridisegnare nel suo proprio viaggio. Il canone è una scelta plurivoca di autori, in lotta tra loro per la sopravvivenza: stabilire un canone significa scegliere di includere, ma soprattutto scegliere di escludere. Questa dell’agone e del sacrificio è la figura del rapporto che lega anche l’autore ai suoi modelli: nel più bello stile occidentale, il poietes entra nel canone mediante un parricidio. Anche in questo senso il canone è uno schema dinamico, e ‘tradizione’ è ciò contro cui ho combattuto e che ha resistito alla mia critica. Così Giorgio Colli illustrando il rapporto agonale che lega, nella paideia classica, maestro e discepolo:

Per i Greci “universalmente valido” significa “ciò che è stato messo alla prova da tutti e che tutti per contro ha soggiogato”. Negli altri fenomeni collettivi della razionalità umana tale condizione non si è verificata. Nella logica indiana, il rapporto di dominazione è stabilito sin dal principio, e non è lecito al discepolo combattere contro l’insegnamento. Similmente per la razionalità medievale, dove in più l’esercitazione diretta sui concetti allo stato nativo è del tutto assente” (Colli 1982, 255).

Seriali, portatili “sommamente originali”

La negoziazione tra il canone (mai rigido), il modello e la sua realizzazione produce una relazione inquieta, un movimento combinato di osservanza (citazione, ripresa, ossequio del canone) e di resistenza: il risultato di questo attrito è il segno dell’opera d’arte. L’esito del confronto agonale che l’artista intrattiene con la tradizione è perciò un’opera comunque ‘autentica’: ovvero un ‘esemplare’ come aggettivo e come sostantivo, in tutta l’inquietudine anfibologica del termine di cui l’incertezza semantica è segno.

La latitanza dell’originale (che ha suoi effetti importanti nell’estetica dell’imitazione), la relazione con il modello più o meno consapevole ma comunque storicamente connotata, garantisce paradossalmente a ogni esemplare una certificazione autonoma di autenticità.

Libri e opere d’arte, ‘in serie’ e portatili: portatiles (inteso in un senso vicinissimo alla nostra, moderna, accezione di pc o, più recentemente, di tablet) è il nome che Aldo Manuzio inventa per denominare il nuovo formato dei suoi classici greci e latini, ma anche i contemporanei classici italiani, pubblicati in serie, in 8°, in alta tiratura – maneggevoli ed eleganti status symbols degli intellettuali di primo Cinquecento. 

Classici seriali, portatili, ovvero “sommamente originali” (Settis 2015). E così nel gioco di soggezione e libertà rispetto alla tirannia del modello, possiamo affermare, parafrasando Pasquali, che ogni “esemplare è un’edizione”: ogni opera include in sé l'ossimoro di un “nuovo originale” e intrattiene una doppia, aoristica, relazione con il passato e con il presente.

*Questo contributo è stato scritto in occasione della riflessione metodologica e teorica intorno alle mostre Serial/Portable Classic curate da Salvatore Settis per la Fondazione Prada (Milano e Venezia, primavera/estate 2015): si tratta di un ampliamento e una argomentazione critica di alcuni spunti contenuti nell’Introduzione e articolati nei vari saggi del volume a più mani pubblicato 10 anni fa, frutto dell’elaborazione metodologica collettiva del Seminario di tradizione classica: Maria Bergamo, Lorenzo Bonoldi, Giulia Bordignon, Laura Bumbalova, Monica Centanni, Claudia Daniotti, Marianna Gelussi, Luana Lovisetto, Katia Mazzucco, Giovanna Pasini, Alessandra Pedersoli, Daniela Sacco, Laura Squillaro, Caterina Tonini, L’originale assente. Introduzione alla storia della tradizione classica, Milano 2005.

Riferimenti bibliografici
English abstract

A methodological proposal, in corsair style, for studying the dynamics of the Classical Tradition, crossing the Philological field and Art History’s. This proposal takes its cue from the exhibitions Serial / Portable Classic (Fondazione Prada, Milan-Venice, Spring-Summer 2015). Original vs copy, model vs exemplars, archetype vs reproductions, uniqueness vs seriality, multiples and prototypes. Since its beginnings, the Classical Tradition progresses on by discarding the binaries of the repetition of an auratic, abstract and absolute exemplarity of the Antique. In the process of the Classical Tradition, the idea of a sole uniqueness, unrivaled and not reproducible, is continuously and always belied. 
 

Serial / Portable Classic: since the Antiquity, the Classics are reproducible in series and are also suitable to be reduced in scale, to become ‘portable’. The theoretical principles and technical procedures that lead to imitate the original, and then to reproduce it, are: recensio, collatio, emendatio, editioi.e.: recognition, evaluation and confrontation of existing models, and then selection and production of a new manufact. As already indicated in my Introduction of the book L’originale assente (An Introduction to the Classical Tradition, Milan 2005), the vocabulary and the procedures for the reproduction, and generally for the production of artworks, recall the moves of philological methodology.

The prospect highlighted by the exhibitions Serial / Portable Classic throughout their outstanding scenaries (which clearly reflect the imprint of the studies and method of Salvatore Settis) gives me the opportunity to sum up the rules of the philological paradigm, depending on the setting – as of today unsurpassed – proposed by Giorgio Pasquali in his book Storia della tradizione e critica del testo (1934), and to verify the applicability to the artworks of the critical analysis of copies of manuscripts.

Given from my philological institutio turned also towards the study of the Classical Tradition and Iconology, this particular point of view influences my squint of eyes, and what is more a squint unbalanced on the side of Philology. In my opinion, the comparison of different hermeneutical instances, and the use of different disciplinary techniques as imprope weapons, may be a not completely useless exercise, if not only in order to provoke both philologists and art historians to enter my game and play in the way I try to propose with this raid. The aim of my game is to intersect  the respective squintings, change in positions, exchange the eye-glasses with each other, and succeed in seeing similarities and differences of approach between Philology and Art Criticism.

 

keywords | Giorgio Pasquali; Archetype; Classical Philology; Philology of Images.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Centanni, Originale Assente: il paradigma filologico. Una proposta di metodo in stile corsaro, “La Rivista di Engramma” n. 129, settembre 2015, pp. 115-141 | PDF