"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

165 | maggio 2019

9788894840605

Mondo delle immagini. Immagini del mondo

Мир образов, образы мира: антология исследований визуальной культуры

Natalia Mazour, traduzione di Alessia Cavallaro

English abstract

Si presenta qui una versione ampliata, in lingua italiana, dell’Introduzione al libro Mondo delle immagini. Immagini del mondo curato da Natalia Mazour dell’Università Europea di San Pietroburgo (2018). L’antologia presenta la storia di due tradizioni scientifiche: gli ultimi visual studies e la “storia culturale delle immagini” (kulturwissenschaftliche Bildgeschichte) che si rifà ad Aby Warburg e al suo circolo (il Warburg-Kreis, la scuola di Amburgo). Nella seconda tradizione, sviluppata alla periferia della disciplina principale degli studi di storia dell’arte nel corso del XX secolo, si possono trovare risposte a molti problemi metodologici, posti dai pionieri della nascente disciplina.

Studi sulla cultura visuale (visual culture): storia e preistoria

1 | Natalia Mazour (redaktor-sostavitel’), Mir obrazov. Obrazy mira. Antologija issledovanij vizual’noj kultury, Sankt-Peterburg-Moskva 2018.

La seconda metà del XX secolo è stato un periodo difficile per la storia dell’arte dal punto di vista disciplinare. Il primo a sfuggire al controllo è stato l’oggetto dello studio: gli artisti nell’aspirazione alla libertà assoluta di autoespressione hanno abbandonato i due tradizionali compiti dell’arte – l’imitazione della natura e la visualizzazione del mondo delle idee. I sovversivi della tradizione non volevano essere parte della “storia dell’arte” e non avevano bisogno (o così dicevano) del linguaggio figurativo sviluppato nel corso di secoli. La Fontana di Marcel Duchamp (1917) e Brillo Box di Andy Warhol (1964) hanno dimostrato che nell’arte moderna l’oggetto e il mezzo di espressione (medium) possono essere qualsiasi cosa. I critici hanno iniziato a parlare della fine dell’arte, gli studiosi della fine della storia dell’arte (si vedano Belting 1983; Danto 1986; Belting 1994).

Parallelamente si è sviluppato un processo inverso. Mentre gli artisti espellevano dalle loro opere il principio mimetico, il cinema e la fotografia – mezzi modesti di riproduzione della realtà il cui valore estetico ha suscitato seri dubbi per molto tempo – si erano trasformati nelle forme d’arte della vita quotidiana più comuni e popolari. Più la nuova arte si allontanava dal pubblico, più si rivelava importante il ruolo delle ‘arti industriali’ – design e pubblicità: oggi esse rispondono alle richieste estetiche quotidiane che si stanno diffondendo sempre più, nonostante, oppure in stretta connessione, con l’avvento della “fine dell’arte”. Tuttavia gli storici dell’arte e gli storici dello stile hanno evitato a lungo l’arte di massa della vita quotidiana ad eccezione di alcuni precursori come Erwin Panofsky e Leo Spitzer (rimando a Panofsky 1936 e Spitzer 1949: le traduzioni di entrambi questi articoli sono incluse nell’antologia Mondo delle immagini).

Cambiamenti significativi si sono verificati anche nel contesto sociale della disciplina: negli anni ‘60-’70 nelle università europee e americane sono apparsi molti dipartimenti dove, in una forma o nell’altra, si insegnava la storia dell’arte. Questi dipartimenti erano aperti in nuove università, dove la reverenza verso l’autorità della Ragione e Cultura era temperata da un forte orientamento sociale e pratico della formazione, e dalle convinzioni di sinistra dei giovani insegnanti che costituivano la maggioranza del corpo docente. Il desiderio per il rinnovamento scientifico, unito al desiderio di rinnovamento sociale, penetrò profondamente nell’ambiente universitario: gli studenti diventarono la forza propulsiva degli eventi rivoluzionari della fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70.

Per capire meglio come questi processi si siano manifestati nella storia dell’arte, confrontiamo due serie documentarie della BBC: “Civilisation: A Personal View” (1969) di Kenneth Clark e “Ways of Seeing” (1972) di John Berger. La prima serie – senza precedenti per portata (13 serie a colori), costi e proventi – è stata creata da un ben noto storico d’arte, dai modi aristocratici e dalla pronuncia oxfordiana. Il solido sistema di valori estetici e l’autorevolezza della civiltà europea, sostenuta dalle istituzioni statali, erano confermati dal testo e dal carisma personale di Clark, dalle riprese altamente professionali in situ, e da una musica appositamente scritta per il serial. Il successo commerciale di “Civilisation” in Inghilterra e USA portò a Clark ottimi profitti, mentre il suo titolo di barone si deve a una totale coincidenza della sua “personale versione” della civiltà con il punto di vista della monarchia inglese.

Le quattro puntate di “Ways of Seeing” erano un progetto a budget ridotto: vestito in jeans e con una camicia a colori forti e vivaci, il giovane dai capelli ricci e lunghi parlava con gli spettatori con un linguaggio semplice, senza gesticolare come un italiano o un francese. Nella seconda metà degni anni ’60 questo artista, scrittore e critico frequentò molto la Francia, e in quel contesto apprese le teorie più recenti, che presto avrebbero apportato una rivoluzione nelle discipline umanistiche. In “Ways of Seeing” Berger si riferiva direttamente al saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica (1936); l’autore evitò di menzionare le altre fonti, ma riconoscerle oggi, ora che questi testi sono diventati canonici, non è difficile. Il ragionamento di Berger sull’immagine della natura femminile nell’arte e sull’autopresentazione della donna nella società sviluppava le teorie psicoanalitiche di Jacques Lacan. Una delle quattro puntate di Berger è dedicata interamente alla pubblicità: in essa, insisteva Berger, è stata trasferita gran parte delle funzioni sociali della pittura classica. Questa idea risale alle opere dei filosofi francesi di sinistra – La società dello spettacolo di Guy Debord (1967) e La società dei consumi di Jean Baudrillard (1970). Forse, a Parigi, Berger aveva avuto qualche sentore del formalismo russo scoperto di recente e utilizzò abilmente il metodo dell’alienazione (ostrannenie): tagliando con un coltello il quadro di Botticelli Venere e Marte, o discutendo con i bambini se il Cristo del quadro di Caravaggio La Cena in Emmaus fosse più simile a un uomo oppure a una donna, aiutava lo spettatore a liberarsi dagli stereotipi della percezione.

Berger minava alle fondamenta quell’estetica idealistica, il cui paladino devoto era Sir Kenneth Clark, e in certi casi polemizzava con lui direttamente. Dimostrando che il successo del genere del paesaggio è legato non tanto all’amore disinteressato per la natura, quanto a un desiderio dei proprietari terrieri di enfatizzare il loro status socio-economico, Berger sfidava il saggio di Clark sul paesaggio (Clark 1949) mentre, mettendo in dubbio la castità della nostra percezione del nudo femminile, dibatteva sul suo, non meno popolare, libro sul “nue” (Clark 1956).

La serie di Berger, e il libro basato su di essa, furono una bomba a scoppio ritardato. All’inizio degli anni ’70 le forze in campo erano disuguali: a favore di Clark si era schierata l’autorità dell’establishment accademico, che preferiva ignorare l’impertinente sortita del giovane contestatore, e il general public, che ascoltava con reverenza il titolato storico dell’arte. Berger trovò una sponda positiva nel pubblico dei giovani, e a loro apparteneva il futuro. Le prime conseguenze di “Ways of Seeing” si manifestarono presto: la teoria dell’interiorizzazione dello sguardo maschile nelle donne proposta da Berger, e risalente all’articolo di Lacan Il significato del fallo, ispirò l’articolo di Laura Mulvey Piacere visivo e cinematografia narrativa (1975), considerato oggi un punto di partenza nella ricerche femministe sul cinema (Mulvey 1975):

Gli uomini agiscono e le donne appaiono. Gli uomini guardano le donne. Le donne guardano se stesse mentre sono guardate. Questo determina non solo la maggior parte delle relazioni fra uomini e donne, ma anche il rapporto delle donne con se stesse. L’osservatore della donna è maschile; l’osservata femminile. Così lei si trasforma in oggetto. Più specificamente in oggetto di visione (Berger 2008, 41).

Le considerazioni di Berger sul genere del paesaggio come un modo di visualizzare il diritto di proprietà basate sull’esempio del ritratto dei Coniugi Andrews di Thomas Gainsborough, stimolarono lo studio di questo dipinto in diversi contesti storici (dall’agrotecnica al diritto di caccia, fino allo stile dei cappelli) e risvegliarono l’interesse per il paesaggio nei sostenitori della variante marxista della storia sociale dell’arte (si vedano Barrell 1980; Bermingham 1989). Nel 1982 il giovane storico dell’arte David Solkin, canadese di origine e marxista per convinzioni, preparò una mostra alla Tate Gallery di Londra sul classico del paesaggio inglese del XVIII secolo, Richard Wilson, con un catalogo dal titolo azzeccato Landscape of Reaction (Solkin 1982). Incrociando i dati socio-economici e le fonti letterarie, egli cercava di dimostrare che i paesaggi inglesi del XVIII secolo, considerati un simbolo del secolo d’oro, dell’armonia sociale e della prosperità, consolidavano quello stesso mito, creato dalla classe dominante, per addolcire lo sfruttamento delle classi più povere. L’attentato contro il principio del “godimento disinteressato” della natura, che costituisce la base della mitologia culturale inglese, commesso da un immigrato di una ex colonia, provocò grida di indignazione nei settori conservatori. Gli editoriali di destra – da “Apollo”, rivista di lusso per gli amanti dell’arte, al quotidiano “Daily Telegraph” – collegarono il progetto di Solkin e la crescente popolarità delle teorie di sinistra nelle discipline storiche con la minaccia sovietica, sospettando “la mano del KGB” (sullo scandalo intorno alla mostra, si veda: McWilliam, Potts [1983] 1986). Tuttavia, nei dieci anni che separano “Ways of Seeing” e “Landscape of Reaction” fu raggiunto un certo equilibrio nell’ambito del potere: Solkin non era più un ribelle solitario, egli rappresentava la “nuova storia dell’arte” (New Art History), sviluppata nelle giovani università inglesi. Nonostante la debolezza dell’impianto metodologico, che non gli consentì di andare oltre l’Inghilterra, all’epoca questo movimento venne percepito come il primo passo per rinnovare la disciplina (Harris 2001). Lo scandalo attorno alla mostra di Wilson non impedì la brillante carriera accademica di Solkin: nel 1986 ricevette un posto al Courtauld Institute e nel 2007 la carica di Vice-Dean di quella venerabile istituzione. La storia sociale dell’arte alla fine del XX secolo in Gran Bretagna era diventata parte dell’establishment accademico. Ma molti innovatori non erano soddisfatti.

Nella seconda metà degli anni ’80, significativi cambiamenti politici (la caduta del muro di Berlino; la disintegrazione del blocco socialista, etc.) stimolarono il rinnovamento metodologico di molte discipline umanistiche. L’interesse per la filosofia di sinistra, per la psicoanalisi e per gli approcci interdisciplinari acquisì legittimità all’interno della maggior parte delle discipline storiche; le lotte tra tradizionalisti-empiristi e gli amanti delle nuove teorie raramente rimanevano senza conseguenze e di solito davano una forte spinta allo sviluppo. Ma nella storia dell’arte la tensione, dovuta al cambiamento dell’oggetto e del contesto sociale, era già così grande che alla fine degli anni ’80 – inizio anni ’90 la lotta finì con una scissione, particolarmente grave negli Stati Uniti. I pionieri del rinnovamento insistevano sul fatto che la disciplina della storia dell’arte fosse “per la maggior parte separata dalla vita contemporanea, o che era addirittura per sua stessa natura elitaria, politicamente ingenua, costretta a metodologie obsolete, legata al mercato dell’arte e ipnotizzata da una ristretta serie di artisti e capolavori”. In risposta, ricevettero critiche “per la scarsa conoscenza della storia, per la fissazione con un concetto semplificato della visualità, perché ignorano le differenze tra i media, per la trascuratezza del problema del valore artistico e per la leggerezza nella scelta di oggetti e metodi” (Elkins 2003, 23).

Le conseguenze della scissione non sono state finora superate: i conservatori-empirici si sono trincerati nell’avversione alla ‘teoria”, e gli innovatori non sono arrivati a un’intesa sull’argomento e sui metodi. Questo dato di fatto non permette di dichiarare il consolidamento di una disciplina a tutti gli effetti e tanto meno di un paradigma, cioè di una teoria scientifica di base che abbia ricevuto un riconoscimento universale e abbia iniziato a determinare la direzione generale dello sviluppo della scienza.

Mettiamo in evidenza le posizioni di base dei sostenitori della nuova scienza. Tra loro non c’è unità nemmeno sulla questione del nome. All’inizio parlavano di “cultura visuale” (visual culture), utilizzando il termine suggerito nel libro di Michael Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento: un’introduzione alla storia sociale dello stile pittorico (Baxandall 1972) e sviluppato nel libro di Svetlana Alpers, L’arte della descrizione: arte olandese del XVII secolo (Alpers 1983). Questo termine fu usato nel titolo del “Questionario sulla cultura visuale” (Visual Culture Questionnaire), pubblicato nel 1996 sulla rivista “October” – l’organo principale dei critici d’arte di sinistra (October 1996). Tuttavia, le domande del Questionario svelano una sfiducia verso il nuovo orientamento perfino nell’ala sinistra dei critici dell’arte (per una critica al Questionario si veda Moxey 2000; la traduzione di questo capitolo è parte dell’antologia Mondo delle immagini), mentre le risposte di due dozzine di storici dell’arte, dell’architettura, della letteratura e del cinema rivelarono una tale confusione di opinioni tra i sostenitori del rinnovamento, che molti avvertirono il concetto di visual culture come compromesso e lo sostituirono con visual studies. Anna Freedberg, impegnata nella creazione del primo corso di dottorato in ricerche visuali all’Università della California a Irvine nel 1988 scriveva:

Noi abbiamo preferito il nome “visual studies” a “visual culture”, ricordando bene che nel questionario della rivista “October” si afferma che lo studio della cultura visuale è la versione debole degli studi culturali (cultural studies) che trascura la forma per il contenuto sociale (Dikovitskaya 2006, 156).

Qualcuno criticava questo termine dal punto di vista linguistico, insistendo sul fatto che il concetto di visual culture descrivesse un oggetto, quindi, era meglio parlare di visual culture studies (si vedano Walker, Chaplin 1997; Morra, Smith 2006). Infine, alcuni studiosi preferirono chiamare la disciplina visual studies, e il suo oggetto visual culture (si veda ad esempio Crimp 1999, 52).

Ancora più profonda è la variazione di idee sull’argomento della ricerca. Keith Moxey, uno dei padri fondatori del primo corso magistrale in visual studies all’Università di Rochester alla fine degli anni ’80, delineava così i due approcci possibili: “Una nuova disciplina potrebbe studiare tutte le immagini [...] senza condurre tra loro qualitative differenze”; o ancora “tutte le immagini a cui è stato attributo o verrà attribuito un certo valore culturale” (October 1996, 57). Moxey preferiva il secondo approccio, ma la sua definizione ha causato gravi obiezioni. Un’altra rilevante autorità dei visual studies, William J.T. Mitchell, creatore del termine pictorial turn (che subito diventò di moda), dubitava che “la dimensione visuale della cultura” potesse essere “oggetto di uno studio speciale. Immediatamente sorge una domanda: a che cosa si oppone il visuale? Al sonoro? Al linguistico o discorsivo? Al mondo ‘invisibile’?” (Mitchell 1995, 208; la traduzione dell’articolo è parte dell’antologia Mondo delle immagini). Successivamente lo stesso Mitchell – che era filologo di formazione e insisteva sulla testualità delle immagini e visualità dei testi – concordò con la separazione della dimensione visuale dalla dimensione uditiva, allo scopo di una più precisa definizione dei rispettivi confini (Dikovitskaya 2006, 246).

Anche gli ambiti cronologici dell’oggetto sono stati determinati in modi diversi. Baxandall e Alpers studiavano la visual culture italiana del Quattrocento e olandese del Seicento. Ma molti studiosi preferiscono, riferendosi all’autorità di Walter Benjamin, limitare l’esistenza dei visual culture all’epoca della “riproducibilità tecnica delle immagini” oppure alla cosiddetta “modernità” (si veda, per esempio, l’antologia Schwartz, Przyblyski 2004). Un certo numero di sostenitori ha anche la posizione di Nicholas Mirzoeff, che propone un quadro cronologico ancora più stretto: lo studioso giustifica la nuova “formazione post-disciplinare” dall’emergere di un fenomeno fondamentalmente nuovo – la visual culture globale nell’era del postmodernismo, della televisione e di internet. Mirzoeff considera la visual culture come un interfaccia tra tutte le discipline, che studiano la componente visuale della cultura globale di oggi – un interfaccia che aiuta a formare le ‘tattiche’ corrette del consumo (Mirzoeff 1999, e la sua Introduzione alla antologia da lui curata, Mirzoeff 2002).

Sebbene la nascita d’interesse per la cultura visuale sia strettamente correlata alla lotta contro il canone estetico, molti aderenti ai visual studies operano su una sorta di “canone alla rovescia”: limitano l’oggetto della loro ricerca alla cultura di massa dell’epoca della “riproducibilità tecnica dell’immagine”. Per esempio, Margaret Dikovitskaya vede la principale differenza tra le ricerche visuali e la storia dell’arte nella “particolare attenzione verso i beni industriali dell’era moderna” (Dikovitskaya 2012, 74). L’editore di uno dei primi libri di testo in visual culture studies, John A. Walker, propone una lista di possibili oggetti di studio:

[…] fotografia, pubblicità, animazione, grafica al computer, Disneyland, arte decorativa applicata, eco-design, moda, graffiti, design paesista, parchi a tema, performance rock e pop, stilistica della underground culture, tatuaggi, film, televisione e realtà virtuale (Walker 1998, 14).

James Elkins in Visual Culture: A Skeptical Introduction suggerisce una lista più ampia:

[…] sesso e sessualità, Las Vegas, Hollywood, immagini di morte e violenza, aeroporti internazionali, i capoluoghi delle corporazioni, centri commerciali, arte contemporanea – video e installazioni, arte transgenica, arte turistica dell’isola di Bali, prodotti in bachelite, le Barbie, il festival Burning Man, Kunstkamera moderne, palline di vetro con fiocchi di neve all’interno, boe, i pez e i sen-sen, mini sculture, stoviglie da gioco, macramè, la carta marmorizzata, le repliche di anelli vittoriani nei negozi Accessories, copertura d’erba artificiale, il Mah Jong in avorio, il gioco di Monopoli sott’acqua, film sulla sicurezza e l’igiene degli anni ’50, cartoline di auguri, tamagotchi, gli interni dei ristoranti, orologi Kit-Cat, le vernici fluorescenti, le decorazioni natalizie dell’Europa Orientale, le copie di plastica delle chimere, […], il minigolf, la pittura commerciale aborigena, il culto del cargo, i manifesti e i volantini del XIX secolo, le illustrazioni dei libri, i libri per bambini, i passaporti e le forme burocratiche, i biglietti, le mappe, lo schema della metropolitana e dei trasporti terrestri, i pacchetti di sigarette, i posacenere da viaggio, la moltitudine di temi nelle foto, incluse le composizioni da parete delle foto di famiglia, la pornografia omosessuale della fine del XIX secolo, i diorami di Daguerre, le prime foto di fulmini e cavalli al galoppo, la storia delle macchine stereoscopiche e i lavori delle prime donne fotografo iniziando da Julia Margaret Cameron e fino a Claude Cahun, Diane Arbus, Nan Goldin, Sally Mann, Catherine Opie (Elkins 2003, 34-36).

Inoltre, Elkins crede che nelle ricerche visuali si debba studiare l’uso delle immagini come nelle scienze esatte e naturali – illustrazioni, grafici, diagrammi e così via (per una rassegna dei lavori sull’uso delle immagini nelle varie scienze, si veda la prefazione di Elkins a Elkins 2007; un tentativo di descrivere la cultura visuale della medicina moderna in Cartwright 1995).

Un altro gruppo di innovatori insiste sul fatto che i visual studies dovrebbero concentrarsi su diversi regimi (oppure modalità) di percezione visuale e di visualizzazione, e sulle pratiche culturali e sociali associate. Uno dei principali ideologi della svolta postmoderna nella critica dell’arte, Hal Foster, nella prefazione alla sua raccolta Vision and Visuality (1988) definì come compito della nascente disciplina l’analisi delle differenze:

[...] tra i meccanismi della visione e le sue tecniche storiche, tra la fissità di una visione e il suo discorso prevenuto, una differenza o una moltitudine di differenze tra il modo in cui vediamo, come ci è permesso o come dobbiamo guardare e come finiamo a vedere il visibile e il non visibile. Ogni regime di visione (scopic regime), con la propria retorica e le proprie rappresentazioni, cerca di livellare queste differenze, di fondere una moltitudine di visioni sociali in una singola visione essenziale o di classificarle nella gerarchia naturale della vista. Per questo, è così importante ridurre il focus di queste impostazioni e distruggere l’ordine dato dai fatti visivi (forse solo così possiamo veramente vedere) (Foster 1988, IX).

Questo appello risuonò all’alba della formazione dei visual studies: nella raccolta di Foster si trovavano pacificamente fianco a fianco Martin Jay, Jonathan Crary, Rosalind Krauss e Norman Bryson – che si disperderanno presto in direzioni diverse, ognuna delle quali offrirà una propria visione della nuova disciplina e una propria gerarchia delle autorità scientifiche. Krauss e Foster avvieranno la pubblicazione del Visual Culture Questionnaire in “October”; Bryson sodalizzerà con Keith Moxie, che esporrà le critiche a quello stesso Questionario, e Crary in risposta al Questionario criticherà con veemenza ogni concetto della cultura visiva diverso dal suo.

Crary protestava contro l’isolamento della componente visuale della cultura, insistendo sul fatto che “la visione non può essere separata dalle grandi questioni storiche sulla costruzione della soggettività”, e ridicolizzava la semplice “espansione delle tradizionali categorie di immagini” sulla cultura di massa o, al contrario, il restringimento del campo di ricerca a “oggetti come un nuovo fast-food con prodotti dei media moderni e della cultura di massa” (October 1996, 33). Le interpretazioni delle immagini fatte da Crary e dai suoi seguaci sono costruiti sul concetto lacaniano della visione come strumento di potere e desiderio, e sulla teoria della soggettività di Michel Foucault (si veda, anzitutto, Crary 1990, un testo che alla pubblicazione aveva ottenuto un notevole successo e poi, di recente, è stato aspramente criticato per la debolezza dell’argomentazione e gli errori nella storia dei primi media: v. Huhtamo 2013. Ma anche all’interno di questo partito si registrano disaccordi: per esempio, David Rodowick, che per qualche tempo ha diretto il primo corso magistrale in visual studies a Rochester, ha preferito affidarsi a Gilles Deleuze per la sua lettura di Foucault. Centrale è, secondo Deleuze, il cambiamento storico delle tre forme di episteme di Foucault e dei tre regimi di potere. In Les Mots et les Choses (Paris 1966) Michel Foucault individuò tre forme di episteme: l’episteme rinascimentale della conoscenza olistica, in cui la parola funge da simbolo di una cosa; l’episteme propria del razionalismo dei secoli XVII-XVIII, dove la parola è l’immagine della cosa; l’episteme moderna (dalla fine del XVIII secolo), dove la parola è un segno nel sistema dei segni. Foucault definì altresì il modello di potere della “società disciplinare” del XVIII e XIX secolo, ravvisandolo nelle monarchie del primo periodo moderno; Deleuze integrò questa opposizione con un terzo membro: la moderna “società di controllo”. Quel cambiamento storico nel paradigma del sapere era accompagnato da un cambiamento nella struttura della soggettività e delle strategie della sua espressione visuale e verbale; secondo Rodowick, il vero soggetto della visual culture doveva essere “il cambiamento delle percezioni del sapere e del potere per mezzo di varie strategie di visualizzazione e verbalizzazione” (Dikovitskaya 2006, 263).

Forse l’unica caratteristica universalmente accettata della disciplina nascente è la sua interdisciplinarità, ma anche le idee sulle discipline da cui attingere nuovi metodi e approcci sono piuttosto diverse. Il Questionario della rivista “October” iniziava con questa tesi:

Si ritiene che il progetto interdisciplinare della visual culture (al contrario delle discipline storiche della storia dell’arte, dell’architettura, del cinema, ecc.) non faccia affidamento su un approccio storico, ma segua un modello proprio dell’antropologia. Si può presumere che la visual culture abbia una posizione eccentrica e talvolta persino direttamente ostile rispetto alla ‘New Art History’ con il suo approccio storico-sociale, l’imperativo semiotico e i modelli di testo e di contesto (October 1996, 25).

Sebbene gli autori del Questionario identifichino bene le principali linee di tensione che sorgono attorno ai visual studies, nello stesso tempo finirono col livellare la diversità delle posizioni dei seguaci di questo filone di studi: rifiutando all’unanimità la storia dell’arte tradizionale, gli innovatori valutano l’importanza dell’antropologia, della semiotica e degli approcci storici e contestuali in modi diversi.

Due importanti storici dell’arte che hanno studiato la psicologia della percezione delle immagini, David Freedberg e Hans Belting, sono diventati i fiori all’occhiello della svolta antropologica. Il primo nella prefazione al suo The Power of Images (1989) scriveva:

Dobbiamo diventare etnografi e raccogliere tutti i dati in tutti i settori della società, e quindi trasformarci in antropologi culturali ed esplorare il numero massimo di società. Ma il problema principale per noi resta posto a un livello diverso: più profondo dell’istruzione, della coscienza di classe e delle condizioni sociali – a livello di riflessi e sintomi cognitivi. L’oggetto dello studio [...] dovrebbe essere tutte le immagini visive, e non solo l’arte. Per capire l’“arte alta”, abbiamo bisogno sia di dati generali che specifici sulla reazione alle immagini “basse”. Di conseguenza, la storia dell’arte sarà assorbita dalla storia delle immagini. Ciò che era, ed è, considerato arte ha una sua storia, ma ora non è questo che ci interessa. Ora la storia delle immagini sta diventando la disciplina centrale nello studio di uomini e donne, e la storia dell’arte sta diventando un’area marginale della storia culturale (Freedberg 1989; si veda anche Freedberg 2008).

Hans Belting, il primo ad annunciare la fine della storia dell’arte, nei primi anni Duemila propose di sostituire la storia dell’arte con “scienza delle immagini” (Bildwissenschaft) o con “antropologia delle immagini”, il cui oggetto principale era il triangolo “immagine–corpo–medium” (Belting 2001 e, per una sinossi di quel lavoro, si veda anche Belting 2004: la traduzione di questo articolo è parte dell’antologia Mondo delle immagini).

Tuttavia, né Freedberg né Belting si sono rifiutati di studiare il materiale storico e l’“arte alta”, che rimane per loro il principale campo di studio, nonostante la loro odissea metodologica lunga un quarto di secolo. L’antistoricismo del loro approccio antropologico è dovuto al desiderio di esplorare gli universali alla base dell’interazione uomo-immagine. Lo stesso si può dire del loro atteggiamento nei confronti del valore estetico delle immagini: sollecitando lo studio di tutte le aree della produzione e del consumo di immagini, Freedberg e Belting non negano l’esistenza di una gerarchia estetica.

Un’altra posizione è quella dei rappresentanti del cosiddetto gruppo di Rochester, organizzatori del primo corso magistrale e di un certo numero di conferenze sulla visual culture all’Università di Rochester tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Michael Ann Holly, Norman Bryson e Keith Moxie nella prefazione-manifesto alla raccolta Visual Culture: Images and Interpretations (1994) propongono di sostituire la storia dell’arte con una nuova disciplina – la “storia delle immagini” che avrebbe avuto come oggetto l’arte antica e moderna, la cultura popolare e il cinema. I tre studiosi sono stati i principali critici della New Art History e dell’approccio contestuale, rimproverando ai seguaci di quel filone di studi il rispetto eccessivo per il canone estetico. Allo stesso tempo, la loro attitudine all’approccio storico era ambivalente: rifiutando il canone estetico, insistevano sul carattere puramente storico del valore artistico, poiché ciò che è considerato un capolavoro in un’epoca può perdere quello status in un’altra. Criticando l’approccio contestuale, cioè l’interpretazione di un’opera d’arte basata su fonti contemporanee, assumevano una posizione antistorica, particolarmente evidente nella scelta degli strumenti di interpretazione. Essi sostenevano che la nuova disciplina “dovrebbe offrire tali interpretazioni di immagini che aiutino a esplorare più efficacemente il valore potenziale delle opere della cultura del passato in relazione alle condizioni del nostro presente” (Bryson, Holly, Moxey 1994, XVII).

Verso la metà degli anni ’90, tra i fautori di questo approccio, è emerso un canone di autori e un armamentario concettuale ben definito. Nella sua risposta al Questionario sulla cultura visuale Susan Buck-Morss ha descritto questo canone con forte ironia:

Bart, Benjamin, Foucault, Lacan; [...] la riproducibilità dell’immagine, la società dello spettacolo, l’Altro immaginario, le modalità di visualizzazione, il simulacro, il feticcio, lo sguardo (maschile), il gaze, l’occhio meccanico (October 1996, 29).

Questo canone metodologico coincide in gran parte con il canone dei cultural studies. Forse è per questo che la prima storiografa di visual culture, Margarita Dikovitskaya, crede addirittura che la cultura visuale “sia emersa come un campo di ricerca interdisciplinare alla fine degli anni ’80, quando discipline come la storia dell’arte, l’antropologia, la scienza del cinema, la linguistica e gli studi letterari comparati hanno incontrato i cultural studies e le teorie post-strutturaliste” (Dikovitskaya 2006, 68). Infatti, il programma del corso magistrale presso l’Università di Rochester fu chiamato visual and cultural studies.

I cultural studies sorti negli anni ’60 in Inghilterra e diffusi anzitutto nel mondo anglosassone, si differenziano per un distinto programma ideologico. I principali problemi di ricerca si basano su come l’ideologia delle classi dirigenti sia trasmessa attraverso vari strumenti culturali e come questi messaggi siano decodificati dai destinatari in base al genere, alla classe, alla razza e all’etnia, ecc. Poiché la sfera principale in cui il potere svolge la sua politica culturale è la cultura di massa, i padri fondatori dei cultural studies si sono concentrati sullo studio di quest’ultima. Il primo è stato Richard Hoggart: nel suo libro L’uso dell’alfabetizzazione: aspetti della vita della classe operaia (The Uses of Literacy: Aspects of Working Class Life, 1957), al quale spesso si fa risalire proprio la nascita dei cultural studies, egli dimostra come i valori della cultura di massa siano diffusi attraverso la letteratura dell’intrattenimento a basso costo (pulp-fiction), la pubblicità e il cinema e come la cultura di massa soppianti la cultura popolare, considerata da Hoggart originale, organica e di classe. Altri due padri fondatori dei cultural studies – Raymond Williams e Stuart Hall – sono stati i primi a studiare il ruolo della televisione nella traslazione dell’ideologia (si veda Hall 1974). La mecca di questa tendenza è stata a lungo il Centro per gli studi culturali contemporanei di Birmingham (Birmingham Centre for Contemporary Cultural Studies, fondato nel 1964 da R. Hoggart, che fu sostituito da S. Hall nel 1968 – il centro è stato chiuso nel 2002).

Inizialmente, i cultural studies si basavano sulla comprensione dell’ideologia di Karl Marx e sulla teoria dell’egemonia culturale di Antonio Gramsci, ma con il tempo il loro repertorio metodologico si è espanso, includendo la psicoanalisi, la semiotica, la teoria della soggettività, ecc. Nell’ambito dei programmi dei cultural studies hanno trovato posto i gender, queer e postcolonial studies. La percezione della visual culture come cultura del capitalismo globale, proposta da Nicholas Mirzoeff, si inserisce facilmente in questa serie. L’unica difficoltà creata da questa alleanza è che la visual culture si trasforma in un ramo dei cultural studies, perdendo la propria identità disciplinare. Poiché i rappresentanti dei cultural studies comprendono la cultura come “un intero modo di vivere” (a whole way of life – definizione risalente al più complesso concetto di cultura proposto da Raymond Williams in Convinctions del 1958) di fatto un’analisi isolata della componente visuale di una cultura non può avere un valore indipendente. Questo è in parte il motivo per cui l’idea di avvicinare i visual e i cultural studies ha molti sostenitori, ma anche molti critici.

Un’ulteriore difficoltà sta nel fatto che i cultural studies sono nati e fioriti sul suolo anglosassone, ma rimangono estranei alla tradizione europea, dove nel corso del XX secolo si sono formate diverse varianti di storia della cultura (cultural history), che fin dall’inizio si sono sviluppate in un dialogo con l’antropologia, la psicologia storica, la semiotica e la storia dell’arte. Di conseguenza, la tradizione europea della ricerca sulla cultura visiva si è rivelata molto più vicina alla cultural history che ai cultural studies, o alla loro variante affine dei visual studies (si veda il capitolo sul Visual turn in Burke 2004).

Sembra che oggi lo sviluppo dei visual studies abbia raggiunto un punto di svolta. Nessuna delle parti che difendeva la propria visione dell’argomento e dei metodi della nuova disciplina ha vinto in modo decisivo. Il pathos rivoluzionario si è indebolito e il desiderio di cancellare la storia dell’arte tradizionale è gradualmente svanito, tanto più che la maggior parte dei protagonisti dei visual studies negli Stati Uniti, come Solkin in Inghilterra, ha avuto carriere di successo nei dipartimenti o negli istituti specializzati in storia dell’arte. Inoltre, ora sia questi teorici sia il loro canone rivoluzionario (Benjamin, Bart, Foucault, Lacan, per non parlare di Hoggart, Williams e Hall) sembrano obsoleti: le nuove generazioni richiedono nuove, a volte più antiche ma comunque diverse, autorità e teorie (si veda, per esempio, la recensione distruttiva di Je Emerling, un giovane rappresentante di studi visivi, del libro di Keith Moxye: Moxye 2013; Emerling 2015, 1-11). Allo stesso tempo, con l’iscrizione degli studenti nei dipartimenti di storia dell’arte, le cose non sono andate poi tanto più male di quanto era stato previsto. La “riproducibilità tecnica” delle opere d’arte è entrata in un’alleanza con il turismo di massa e, invece di indebolire il valore degli originali, ha aumentato la loro attrattiva e l’interesse per la loro storia. Gli esponenti di altre discipline umanistiche sono attivamente interessati alla cultura visiva e accolgono i metodi della storia dell’arte.

Vogliamo dire che i visual studies sono giunti alla fine? Al contrario, crediamo che sia giunto il momento migliore per separare le feconde innovazioni metodologiche dal desiderio di innovazione a ogni costo. Per questo, a nostro avviso, sarebbe utile chiarire la genealogia della nuova disciplina, che a un esame più attento rivela molte intersezioni con alcune scuole di storia dell’arte del XX secolo. Ciò è stato indicato dagli stessi autori del Questionario di “October”, che includeva una clausola:

Forse la visual culture abbraccia la stessa vasta gamma di pratiche che ispiravano le prime generazioni di storici dell’arte come Alois Riegl e Aby Warburg e il ritorno alle loro prospettive intellettuali può rivelarsi vitale per il rinnovamento delle discipline incentrate sulla storia dei singoli media – la storia dell’arte, dell’architettura e del cinema (October 1996, 25).

Nelle risposte al Questionario, questo punto appare trascurato, molto probabilmente perché l’impulso alla scissione era troppo forte. Oggi che quell’impulso sembra essersi esaurito, è il tempo di verificare come un appello alle prospettive intellettuali che sono state aperte un secolo fa, ma poco diffuse, possa contribuire al rinnovamento pacifico della disciplina e all’espansione del dialogo interdisciplinare (per un tentativo di ricostruire la genealogia della ricerca visiva nell’arte v. Bredekamp 2003).

Tra le due direzioni proposte da “October”, l’eredità di Aby Warburg ci sembra molto più promettente dal punto di vista dell’apertura disciplinare. Negli ultimi decenni ripetuti sono stati i tentativi di determinare il suo metodo scientifico (una piccola biblioteca è stata dedicata al metodo di Warburg nell’ultimo quarto di secolo; si vedano le bibliografie: Wuttke 1998; Biester, Wuttke, 2007; Biester 2015 e la Bibliografia ragionata, più volte aggiornata, in Engramma, ora Fressola 2019); e, ogni volta, la definizione è stata associata alla tendenza di pensiero più richiesta in quel momento. Nel 1975, dopo un anno di ricerca alla Biblioteca del Warburg Institute, Giorgio Agamben descrisse il metodo del suo fondatore come la “futura antropologia della cultura occidentale in cui filologia, etnologia e storia si fonderanno con ‘l’iconologia dello spazio’, con lo studio del Zwischenraum, quell’apertura in cui si realizza l’instancabile lavoro simbolico della memoria sociale”. Tuttavia pubblicando l’articolo nel 1984, quando, secondo le sue parole, era iniziata una delusione generale per la natura universale dell’antropologia, nel post scriptum Agamben abbandonò la definizione originale e, rapito dalla “svolta linguistica”, collegò il metodo di Warburg alla filosofia del linguaggio (si veda Agamben 1984).

All’epoca del cultural turn, Warburg era classificato tra i pionieri della storia culturale e, dopo il disgelo nel programma ideologico dei cultural studies, ha trovato posto anche in quel contesto (si veda Becker 2013, 8-9). Con lo sviluppo dei memory studies, è stato incluso nel novero dei padri fondatori di questo paradigma (si veda Assmann 1995), in seguito è stata riproposta la connessione con l’antropologia, questa volta unificata con i memory studies (si veda Severi 2003). La ricerca di una definizione per la scienza, che “a differenza di molti altri esiste, ma non ha un nome” (Klein 1970, 224), è probabile che continui.

Questi “studi genealogici” hanno le loro ragioni. Il pensiero di Warburg aveva in origine un carattere sintetico: all’Università di Bonn studiava simultaneamente la storia dell’arte con Carl Justi e la storia con Karl Lamprecht, fondatore della psicologia storica (si veda Brush 2001, 65-92). Warburg fu profondamente influenzato da Hermann Carl Usener, il filologo classico e storico delle religioni; fu lui a richiamare l’attenzione di Warburg sul libro di Tito Vignoli Mito e scienza (1879), in cui veniva postulata la necessità di un approccio allo studio dell’uomo che combinasse antropologia, etnologia, mitologia, psicologia e biologia (nella copia di questo libro che apparteneva a Warburg tutti i ragionamenti sull’interdisciplinarietà sono stati abbondantemente sottolineati). Seguendo il consiglio di Usener, Warburg intraprese per diversi mesi una spedizione antropologica fra gli indiani Hopi (si veda Settis 2012). Tra gli studenti di Usener c’erano studiosi che diventarono famosi nei più diversi campi della conoscenza umanistica, dal linguista Hermann Osthoff, al filosofo Friedrich Nietzsche, le cui opere furono importanti anche per Warburg. Infine, il suo maestro indiretto fu Jacob Burckhardt, famoso storico della cultura, creatore della visione del Rinascimento che ancora oggi determina la nostra percezione di quell’epoca. Gli “anni di studio” di Warburg, che non si stancava di scoprire nuove aree di conoscenza e nuovi metodi, erano destinati a non finire mai: negli ultimi anni della sua vita, grazie a Fritz Saxl, si interessò alla teoria della memoria sociale di Maurice Halbwachs, e grazie a Edgar Wind alla semiotica di Charles S. Pierce.

L’amplissima gamma degli interessi di Warburg (che, riportata all’ambito dei visual studies, supera le istanze più audaci per l’espansione dei confini disciplinari) non lo portò a sfuocare il centro principale della sua attenzione: il soggetto centrale del suo interesse restò sempre la cultura visuale, comprendente l’arte e la cultura di massa; fra l’altro, per Warburg la ricerca non era fine a se stessa, ma un modo per assolvere al compito più ambizioso legato all’analisi della psicologia e dell’autocoscienza storica dell’uomo.

Per la nuova disciplina definita la “storia culturale delle immagini” (kulturwissenschaftliche Bildgeschichte), Warburg sviluppò due metodi principali: la storia delle immagini e l’analisi iconologica. Applicandoli costantemente nelle sue ricerche, non si preoccupò di fornire una loro spiegazione, e questo fu il compito che i suoi più stretti collaboratori assunsero dopo la sua morte. L’essenza e i principi della storia delle immagini sono resi con evidenza nel testo di Fritz Saxl Costanti e variazioni nel significato delle immagini (Saxl [1947] 1957, 1-12), quindi ci possiamo limitare a brevi osservazioni. Il contributo di Warburg a questo metodo non è limitato alla scoperta delle Pathosformeln e del loro ruolo nella rinascita delle immagini antiche nell’arte delle epoche successive (Nachleben der Antike). Gertrud Bing, che dopo molti anni di lavoro nell’archivio di Warburg probabilmente lo capì meglio di tutti, sostenne che per lui i due problemi principali erano:

La funzione della creazione figurativa (coining of images) nella vita della civiltà e il rapporto variabile che esiste fra espressione figurativa e linguaggio parlato. Tutti gli altri temi che sono considerati caratteristici delle sue ricerche, il suo interesse per il contenuto delle figurazioni, la sua attenzione per la sopravvivenza dell’antichità (Nachleben der Antike), erano non tanto obiettivi veri e propri, quanto mezzi per raggiungere quello scopo (Bing 1965, 302; tr. it. G. Bing, Introduzione, in A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, Firenze 1966, XIV).

L’efficacia di questo metodo per un certo numero di discipline umanistiche fu apprezzata molto prima che il concetto stesso di interdisciplinarietà entrasse di moda. Il ruolo dei topoi antichi nella conservazione della tradizione letteraria europea fu la scoperta del filologo tedesco Ernst Robert Curtius, che agì sotto l’influenza diretta di Warburg. A Warburg Curtius dedicò la sua ricerca fondamentale sui topoi Letteratura europea e Medioevo latino (Curtius 1948; sui rapporti tra i due si veda: Wuttke 1996, Bd. 2, 667-682). Lo studio delle immagini-costanti si è rivelato utile per la storia delle religioni, come dimostra il lavoro di Fritz Saxl sulla diffusione del culto di Mitra (Saxl 1931) e per la storia politica, dove fu utilizzato con grande successo da Ernst Kantorowicz (Kantorowicz 1963; Kantorowicz 1961, 368-393; la traduzione di questo secondo articolo è parte dell’antologia Mondo delle immagini) e in molti altri campi – fino alla teratologia (ricordiamo l’articolo di Rudolf Wittkower sulle meraviglie dell’Oriente: Wittkower 1942).

Quindi, l’appello dei fautori dei visual studies di abbandonare la “storia dei capolavori” per la “storia delle immagini” non è qualcosa di rivoluzionario. Inoltre, in alcuni lavori recenti, la connessione con il metodo di Warburg è abbastanza ovvia. Per esempio, mettendo da parte le componenti vitalistiche e animistiche del modello dell’immagine, che hanno assicurato un clamoroso successo del libro di William J.T. Mitchell What Do Pictures Want? The Lives and Loves of Images, troveremo nel testo una comprensione warburghiana della storia delle immagini (Mitchell 2005). Mitchell viene a conoscenza del metodo di Warburg nel 2003, grazie a un articolo di H. Bredekamp su “Critical Inquiry” (v. Dikovitskaya 2006, 239) e ammette che la trasformazione della metafora della “vita delle forme”, presa in prestito dal libro di Henri Focillon Vie des formes (1934), in un “modello vitalista/animistico dell’immagine” è stata una provocazione consapevole; v. Grønstad, Vågnes, 2006).

La stessa scienza delle immagini (Bildwissenschaft) di Hans Belting si basa sull’idea di “natura nomade” delle immagini come prodotti dell’immaginario collettivo, che viaggiano da un’epoca all’altra e da un medium all’altro – una teoria che ovviamente risale alla storia delle immagini di Warburg.

Dovremo soffermarci sul metodo iconologico, poiché, riconoscendo Warburg come il suo creatore, ci poniamo in disaccordo con la communis opinio che attribuisce la sua paternità a Panofsky. In realtà, la relazione di William S. Heckscher, il più intimo amico e discepolo di Panofsky al “XXI Congresso Internazionale degli storici dell’arte” (1964) e il suo articolo sulla genesi dell’iconologia, dimostrano che nel circolo dei warburghiani si associava la nascita del metodo iconologico con la relazione del 1912 di Warburg sugli affreschi di Palazzo Schifanoia (Heckscher 1967, Bd. 3, 239-262; la traduzione di questo articolo è parte dell’antologia Mondo delle immagini). Dalle note a quest’articolo è chiaro che Heckscher aveva discusso la sua versione dell’origine dell’iconologia con Panofsky, che non si oppose affatto all’idea della prima ‘paternità’ di Warburg. Tuttavia, proprio a Panofsky si deve il merito della prima spiegazione dettagliata del metodo nell’articolo Sul problema della descrizione e dell’interpretazione delle opere di arti visive (Panofsky 1932, 103-119), in cui gli elementi del nuovo metodo e il meccanismo per il loro uso erano riassunti nella tabella:

Oggetto dell’interpretazione

Soggetto dell’interpretazione

Correzioni obiettive dell’interpretazione

Senso fenomenico
(Phänomensinn),
compreso il soggetto (Sach) e l’espressione (Ausdrucks)
 

Esperienza di vita

Storia dello stile
(quintessenza di ciò che può essere rappresentato)

Senso sostanziale
(Bedeutungssinn)
 

Conoscenze derivate
dalla letteratura

Storia dei modelli
(quintessenza di ciò che può essere pensato)

Significato documentato (essenziale)
(Dokumentsinn, Wesenssinn)

Origini ideologiche del comportamento
(Weltanschauliches Urverhalten)

Storia intellettuale generale
(quintessenza dell’ammissibile nella visione del mondo)

Compilando questa tabella, Panofsky ha indubbiamente preso in considerazione l’applicazione pratica del metodo iconologico negli articoli di Warburg sul testamento di Francesco Sassetti (1907) e sugli affreschi di palazzo Schifanoia, ma la sua riflessione metodologica ha acquisito chiarezza finale grazie all’articolo del giovane sociologo Karl Mannheim Sull’interpretazione del concetto di Weltanschauung (Mannheim 1923; sui legami tra gli articoli di Panofsky e Mannheim, si veda Hart 1993, 534-566). Polemizzando sulla separazione della forma dal contenuto nelle opere di Wölfflin e dei suoi seguaci, da un lato, e sullo psicologismo sfrenato, cui i rappresentanti della Geistesgeschichte incorrevano spesso, dall’altro, Mannheim propose di integrare l’analisi della forma e l’interpretazione del contenuto degli artefatti con una comprensione sociologica della cultura, e di separare chiaramente il soggetto e l’oggetto dell’interpretazione. Mannheim individuò tre livelli semantici nelle opere d’arte: reale (fisico, esistenziale o anche quotidiano), espressivo (socialmente e culturalmente condizionato) e documentario, cioè quello su cui, indipendentemente dal desiderio consapevole dell’artista, si esprime la sua Weltanschauung, la visione del mondo. Questa divisione fu quindi illustrata con un esempio tratto dalla vita quotidiana: immaginiamo che io e il mio amico passiamo accanto a un uomo con una mano tesa, in cui il mio compagno mette una moneta (livello quotidiano); io interpreto questo gesto ‘fisico’ come ‘espressivo’ da un punto di vista sociale: in un contesto sociale, tutti gli elementi di questo quadro acquisiscono determinati significati – ‘il mendicante’, ‘il benefattore’, ‘l’elemosina’. A questo livello, i pensieri e le sensazioni del donatore non sono importanti: un’altra persona può essere al suo posto e il significato oggettivo di ciò che sta accadendo non cambierà. Ma se so che il mio compagno è un ipocrita, l’intera scena acquisisce immediatamente un nuovo significato.

Nell’articolo del 1932, Panofsky modificò leggermente il contenuto dei tre livelli di interpretazione e aggiunse strumenti per controllare la soggettività separando l’oggetto e il soggetto. Noi percepiamo il significato ‘fenomenico’, che comprende il dato fisico e l’espressivo, grazie alla nostra esperienza di vita e lo verifichiamo con la conoscenza dei limiti stilistici imposti dall’epoca. Il livello ‘sostanziale’ di interpretazione introdotto da Panofsky viene ricostruito sulla base delle conoscenze tratte da fonti letterarie, e si verifica nella comprensione del carattere condizionale degli schemi interpretativi (questo livello corrispondeva all’analisi iconografica di Émile Mâle). Il terzo e ultimo livello coincide con il modello di Mannheim: Panofsky propone di verificare il riflesso nell’opera d’arte nella Weltanschauung dell’epoca grazie al ricorso alla storia intellettuale. Il risultato di questa interpretazione doveva essere l’identificazione dell’“autoespressione involontaria e inconscia dei fondamenti della visione del mondo, ugualmente caratteristica di un certo creatore, periodo, popolo e comunità culturale”, poiché “la grandezza della realizzazione artistica alla fine dipende da quanto l’energia di una particolare immagine del mondo è incarnata nella materia fusa e trasmessa allo spettatore” (Panofsky 1932, 116). La menzione di “energia” ci riporta a Warburg e all’ultimo fra i tanti sottotitoli che decise di dare all’atlante di immagini da lui composto, il Bilderatlas Mnemosyne:

Transformatio energetica come tema di ricerca e come funzione di una biblioteca di storia comparata dei simboli [...] (Warburg 2001, 505).

Sfortunatamente, l’articolo tedesco di Panofsky fu dimenticato per decenni, oscurato da versioni semplificatorie del metodo iconologico proposte da lui stesso nei suoi lavori in lingua inglese – Studies in Iconology pubblicato nel 1939 e Content in Visual Arts del 1955 (per un confronto tra le tre versioni della tabella si veda: Elsner, Lorenz 2012, 483-512). La versione di Panofsky del 1939, come quella di Mannheim, iniziava con un esempio quotidiano: io incontro un uomo per strada che, vedendomi, alza il cappello; sul piano reale (formale), capiamo che si tratta del saluto di un gentiluomo verso un altro; a livello espressivo, percepiamo le sfumature emotive di un gesto (amichevole, provocatorio, neutrale); al terzo livello esploriamo il significato filosofico di questo gesto, utilizzando la nostra conoscenza dello stato sociale e dell’etnia dei protagonisti. Cosi un esempio socialmente ed emotivamente ‘carico’ proposto da Mannheim venne adattato ai gusti di un nuovo pubblico – le studentesse del Bryn Mawr College, per le quali nel 1937-1938 Panofsky tenne un ciclo di conferenze poi pubblicato come Studies in Iconology. Simili modificazioni si registrano nella tabella: la separazione dell’oggetto e del soggetto è scomparsa assieme all’idea che la soggettività di ogni interpretazione debba essere verificata in vari contesti. Nella versione del 1955, la tabella è diventata ancora più semplice, liberandosi dai riferimenti alla filosofia e alla sociologia della cultura.

L’articolo tedesco di Panofsky era indirizzato a un pubblico pronto per il dialogo interdisciplinare: non è un caso che sia apparso nella rivista filosofica “Logos”, mentre l’articolo di Mannheim era stato pubblicato nella rivista della storia dell’arte “Jahrbuch für Kunstgeschichte”. Il metodo di interpretazione da loro esplicitato era all’incrocio tra estetica, filosofia e sociologia della cultura ed era fatto per essere applicato all’arte e alla cultura di massa. Questo approccio era troppo complicato per gli storici dell’arte americani, che a quel tempo vacillavano tra il positivismo e l’idealismo kantiano e diffidavano delle interpretazioni. Nel 1966, con triste ironia, Panofsky ricorda come, dopo la pubblicazione di Studies in Iconology, il direttore del Metropolitan Museum, che non aveva mai sentito parlare di Cesare Ripa:

Si è così indignato che mi ha accusato personalmente del successo di Hitler, dicendo che non sorprende che gli studenti “di fronte a un metodo così incomprensibile e inutile, siano diventati nazional-socialisti per la disperazione”. [...] Con il tempo, tuttavia, anche lui si è convertito, e ora ho paura che si sia arrivati al punto in cui la stessa iconologia sia caduta nello stadio di manierismo, rivelando sia i punti di forza e di debolezza di ciò che abbiamo cercato di fare negli ultimi decenni” (citato da: Hart 1993, 563).

Per cambiare la situazione, bisognava offrir loro degli strumenti molto più accessibili, come fece Panofsky. Tuttavia, egli stesso e altri warburghiani continuavano a usare il vero metodo iconologico anche nelle loro opere scritte in inglese.

Ci limitiamo a menzionare due monografie che sviluppavano i metodi della “storia culturale delle immagini”, scritte negli anni ’50 da due giovani rappresentanti della scuola di Amburgo – Horst W. Janson (meglio conosciuto in America come Peter Janson) e William S. Heckscher. Nel suo fondamentale studio Apes and Ape Lore, in the Middle Ages and the Renaissance, Janson trovava le sue fonti nella cultura visuale, la letteratura, la storia naturale e le superstizioni di massa (Janson 1952) e spiegava come l’immagine della scimmia è divenuta una denotazione universale capace di acquisire una moltitudine di significati, generando ogni volta un nuovo segno con nuove connotazioni: una delle forme del diavolo nella prima cristianità; il simbolo del peccatore nell’arte a somiglianza dell’uomo nella scienza del Medioevo; l’emblema della stupidità, della vanità, del temperamento sanguigno, del senso del gusto e dell’arte che imita la natura; e dopo la scoperta degli antropoidi la scimmia divenne un Altro significativo dell’uomo all’interno del mondo animale, che riconosciamo con gioia o con orrore in noi stessi. I cambiamenti dell’immagine della scimmia permettevano a Janson di scoprire i lati sconosciuti nella percezione del mondo in diverse culture e correnti di pensiero – fino alla reazione alla teoria evolutiva di Darwin. Questo studio innovativo non ha avuto l’apprezzamento che meritava, ma pare abbia trovato un attento lettore tra i pionieri dei visual studies: il libro di William J.T. Mitchell sul dinosauro come “segno culturale” ci sembra un erede diretto del libro di Janson (si veda Mitchell 1998).

Heckscher inizia la sua monografia Rembrandt’s Anatomy of Dr. Nicolaas Tulp: an Iconological Study (1958) con una critica alla “storia di capolavori”: un quarto di secolo prima dei rappresentanti del gruppo di Rochester, egli scrive che:

Il valore di qualsiasi notevole opera d’arte cambierà nel tempo, ma preserverà anche la sua proprietà immutabile, ovvero servire come specchio dell’ambiente culturale che l’ha generata (Heckscher 1958, 3).

Insieme alla “storia di capolavori”, Heckscher rifiutò anche di descrivere il quadro di Rembrandt ricorrendo alle categorie dell’estetica kantiana, sostituendole con l’apparato della retorica barocca ben nota al pittore (Heckscher fu per altro uno dei primi a sottolineare l’importanza della retorica per la pittura barocca). Per ricostruire l’ambiente all’interno del quale nacque il quadro di Rembrandt, Heckscher studiò arte, letteratura, medicina, atlanti anatomici, incisioni popolari e spettacoli pubblici e infine usò il quadro come strumento per scoprire il ruolo dell’anatomia nella scienza, nell’arte e nella cultura visuale dei secoli XVII-XVIII, e tutto ciò alla fine aiutò lo studioso a vedere il capolavoro di Rembrandt in una nuova luce. La ricerca di Heckscher anticipò di vent’anni l’interesse degli storici verso l’anatomia (e forse per questo non ebbe all’epoca la dovuta risonanza).

Janson e Heckscher frequentarono il seminario di Panofsky all’Università di Amburgo nei primi anni ’30 e si unirono rapidamente alla comunità attorno all’Istituto Warburg, che Janson chiamava “scuola di Amburgo”. Crediamo che questa definizione trasmetta meglio la sensazione dell’unione e della libertà del pensiero rispetto alla più tradizionale (e patriarcale) formula “scuola di Warburg”: ognuno di questi studiosi seguiva il proprio percorso, non condizionato dalla volontà del “padre fondatore”; ognuno contribuiva dal suo particolare approccio alla definizione complessiva della ricerca delle immagini e della cultura visuale.

Dalle opere dei rappresentanti della scuola di Amburgo possiamo trarre conclusioni generali che forniscono una base affidabile per lo studio della cultura visuale:

1. L’integrità della cultura europea si basa anche su un insieme di immagini-costanti che funzionano a livello verbale e visuale e si manifestano in varie pratiche culturali. Da un lato, queste immagini sono in grado di svilupparsi e adattarsi a culture diverse, d’altra parte, mantengono una certa stabilità semantica e/o formale. Lo studio di tali immagini-costanti è uno dei modi di orientamento nello spazio della cultura.

2. Tutte le immagini, incluse le opere d’arte, fanno parte della cultura visuale; la loro interpretazione è impossibile sia al di fuori di essa che al di fuori del contesto più generale della cultura in un ampio senso antropologico.

3. L’interpretazione delle immagini è uno strumento per risolvere questioni più generali che sono legate non solo alla cultura, ma anche alla psiche umana, poiché la necessità di creare immagini ha sia una natura sociale che biologica.

Già negli anni ’30 attorno alla scuola di Amburgo si formò una cerchia di studiosi che condivideva in tutto o in parte questi principi. Alcuni di loro erano studenti di Julius von Schlosser dalla scuola di Vienna (Ernst Kris, Otto Kurz), alcuni, come Jean Seznec, venivano dalla scuola di Émile Mâle, uno dei padri del metodo iconografico, oppure dal grande formalista francese Henri Focillon (Jean Adhémar, Jurgis Baltrušaitis). Altri non erano affatto storici dell’arte, come il filosofo Ernst Cassirer, il filologo Ernst Robert Curtius, lo storico Ernst Kantorowicz e lo storico della filosofia Raymond Klibansky.

Nell’ambito di questa vasta cerchia possiamo ancora rintracciare gli impulsi diretti di Warburg e Saxl, invece negli anni ’60 gli studi sulla cultura visuale raggiunsero un nuovo livello di approfondimento grazie a studiosi che non erano direttamente collegati alla scuola di Amburgo. Non è un caso, tuttavia, che pionieri come Bernard Smith, Sixten Ringbom, Michael Baxandall e Francis Haskell avessero studiato o lavorato all’istituto Warburg e nella sua biblioteca. Baxandall descrive così il ruolo dell’Istituto Warburg a Londra nel plasmare un certo tipo di pensiero scientifico:

Questa biblioteca significa molto per me, specialmente dal punto di vista dell’interdisciplinarità o, in altre parole, della voglia di rivolgersi costantemente agli argomenti non direttamente correlati a ciò di cui ti occupi. [...] L’Istituto Warburg, oltre a una certa gamma di argomenti che là sono stati storicamente sviluppati, è il simbolo di un certo tipo di curiosità, di un certo tipo di energia, o del desiderio di muoversi non nel modo più diretto ed economico. È tutta questa serie di principi impalpabili che sono sempre pronto a difendere; sono questi che sono misteriosamente assimilati da chiunque abbia utilizzato quella biblioteca (Langdale 2009, 16).

Il grande merito di questa generazione fu la scoperta delle componenti culturali e sociali della percezione visiva. Quarant’anni prima della stesura di Vision and Visuality di Hal Foster, un giovane studioso australiano dell’Istituto Warburg, Bernard Smith, scrisse un articolo European Vision and the South Pacific, dove dimostrava come la percezione europea delle scoperte del Capitano Cook alla fine del XVIII secolo dipendesse da vari miti e stereotipi culturali – il buon selvaggio, l’età dell’oro, l’Arcadia, ecc. (Smith 1950, 65-100: l’articolo è diventato un libro – Smith 1960 – nel quale la nascita della storia del viaggio è rapportata a un nuovo indirizzo nella storia culturale; la traduzione di quell’articolo è parte dell’antologia Mondo delle immagini). A differenza di Foster, Crary, Rodowick, e altri studiosi moderni, che credono che la classe dominante cerchi di creare un unico “modo di vedere”, Smith ricostruì la complessa dipendenza dei modi di rappresentazione non solo rispetto allo status sociale, ma sul ruolo sociale dell’artista e sui suoi committenti, nonché sulla pragmatica dell’immagine (illustrazione botanica, vista topografica, paesaggio pittoresco, ecc.); Smith dimostrò che le rappresentazioni delle terre scoperte e dei loro abitanti riportavano più informazioni sul soggetto (colui che guardava) piuttosto che sull’oggetto dello sguardo.

Nei visual e cultural studies non troveremo riferimenti all’articolo e al libro di Smith: i loro esponenti preferiscono affidarsi non a Smith, ma alla teoria dell’“orientalismo” di Edward Said. La differenza fondamentale tra gli approcci di Said e Smith coincide essenzialmente con la differenza tra Smith e i nuovi ricercatori del visuale: il determinismo di Foucault, da un lato, e il desiderio di tenere conto della diversità culturale e sociale dei fenomeni analizzati, dall’altro. Smith critica Said per il fatto che:

Il sistema di credenze, che descrive come orientalista, è internamente coerente, relativamente stabile e presenta una tale immagine dell’Est – dall’Egitto alla Cina – che è rivolta al passato e acquisisce uno status fuori tempo. Ma se il romanticismo e il primitivismo sono fenomeni altamente eterogenei e mutevoli, come può non essere così anche l’orientalismo che da loro si è sviluppato? (Smith 1993, 173).

Smith mostrò che la percezione europea cambiava a seconda di chi era il soggetto e chi l’oggetto dello sguardo in Oriente: gli inglesi e gli olandesi, i francesi e gli spagnoli guardavano gli abitanti delle nuove terre e li rappresentavano in modo diverso.

Un altro lavoro pionieristico sulle modalità di visione e visualizzazione, non menzionato tra i precursori dei visual studies, è il primo libro di Sixten Ringbom, giovane borsista finlandese dell’Istituto Warburg, Icon to Narrative: The Rise of the Dramatic Close-up in Fifteenth-Century Devotional Painting (Ringbom 1965). Investigando l’emergere e l’impetuosa crescita nel Quattrocento della popolarità della composizione di varie figure a metà o due terzi con Cristo e/o la Madonna al centro, Ringbom mostrò come lo sviluppo di nuove forme di pietà delineava la nuova pragmatica della pittura religiosa: nel Medioevo l’immagine veniva usata come l’ipostasi del volto divino (icona) oppure per insegnare la storia sacra agli analfabeti (narrativa), mentre nel XV secolo iniziarono a usarla come stimolo per l’esperienza empatica degli eventi rappresentati. Immergendo la formula pittorica, come fosse un ramo vegetale immerso in una soluzione salina, nello spessore della cultura visuale e delle pratiche religiose e sociali dell’epoca, Ringbom scoprì un nuovo lato nella visione del mondo dell’uomo del Quattrocento. Il recensore della seconda edizione di Icon and Narrative (1984) rimarca che nel 1965 la critica d’arte era completamente impreparata ad accettare queste idee (Hood 1986, 429); comunque, anche la prima edizione del lavoro di Ringbom aveva trovato lettori attenti che ne avevano riconosciuto il valore e che contribuirono alla nuova comprensione della cultura visuale: le osservazioni di Ringbom sono accolte e sviluppate da Michael Baxandall in Painting and Experience in Fifteenth-Century Italy (1972), David Freedberg in The Power of Images (1989) e Hans Belting in Bild und Kult (1990).

La prima descrizione coerente e sistematica della natura storica della visione, in relazione a fattori sociali e culturali, fu proposta da Baxandall in Painting and Experience, dove troviamo introdotto il concetto del period eye (sguardo dell’epoca). La teoria in questo lavoro nasce dal materiale: attingendo a una amplissima e diversificata gamma di fonti, Baxandall dimostra perché l’occhio di un fiorentino del Quattrocento captava molti dettagli a noi inaccessibili. Un uomo del Quattrocento era in grado di distinguere le sfumature del blu, ottenute attraverso l’uso del costosissimo blu oltremare e dell’‘azzurro tedesco’, la più economica azulite (il blu oltremare era usato per enfatizzare i dettagli più preziosi nel dipinto: per esempio gli abiti della Madonna). L’ascoltatore dei sermoni settimanali ricordava bene le cinque fasi del miracolo dell’Annunciazione, e quindi, era in grado di valutare l’accuratezza con cui gli artisti rendevano lo stato psicologico della Vergine in ciascuna di queste fasi. Abituato dalle scuole primarie a stimare a occhio le dimensioni e la distanza e a calcolare mentalmente l’area e il volume, l’uomo del Quattrocento esaminava con particolare interesse il dipinto, nel quale erano utilizzati oggetti e forme che aveva imparato dai suoi libri di scuola. Così, gradualmente e in modo convincente, Baxandall espone la sua tesi:

La parte dell’apparato intellettuale che controlla la percezione visiva di una persona varia da un’epoca all’altra; una parte significativa di questo apparato è condizionata dalla cultura, cioè è determinata dalla società, che ha influenzato l’esperienza di vita della persona (Baxandall 1972, 40).

Un altro lavoro che non si può fare a meno di menzionare, neppure in un breve saggio sugli studi della visione e della visualizzazione, è il libro dello storico dell’arte americano Leo Steinberg, The Sexuality of Christ in Renaissance Art and in Modern Oblivion (poiché nessun editore ebbe il coraggio di stampare il libro, esso fu pubblicato per la prima volta come numero speciale della rivista “October” nel 1983: la prima edizione del libro esce successivamente, a New York, nel 1983; la seconda, raddoppiata di volume con le risposte dei critici alla prima edizione, a Chicago nel 1996). Il libro è dedicato allo scarto forse più significativo tra la rappresentazione e la percezione nella storia dell’arte europea; Steinberg scoprì infatti un fatto ovvio, ma ignorato per quattro secoli: molti artisti del Rinascimento, che raffigurarono il Cristo Bambino oppure il Cristo morente/morto, cercavano di attirare l’attenzione dello spettatore sui suoi genitali. Per spiegare questa ostentazione Steinberg esplorò le interpretazioni del miracolo dell’incarnazione nelle diverse fasi della storia del cristianesimo. Mentre i primi Padri della Chiesa combattevano per la diffusione della fede nella natura divina di Cristo, nel XIV secolo non c’erano più dubbi su questo e, al contrario, vi era la necessità di sottolineare il lato umano della sua natura. Così Steinberg spiega il cambiamento nella rappresentazione del corpo di Cristo: mentre l’iconografo bizantino rappresentava la Parola divina che diviene carne, laddove la natura umana di Cristo è messa in evidenza con la sua origine dalla Vergine Maria, l’artista rinascimentale dipinge un uomo in carne e ossa, senza timore dell’effetto del “basso” naturalismo, poiché al suo pubblico non sarebbe venuto in mente di mettere in dubbio la divinità di Cristo, o la sua purezza incontaminata. La rappresentazione dei genitali ricordava che, dotato dello stesso nostro corpo, l’uomo-Dio non solo era senza peccato, ma aveva anche espiato il peccato originale con la morte. Dopo il Concilio di Trento, Cristo non fu più ritratto nudo e nelle immagini già esistenti gli organi sessuali iniziarono a essere coperti o distrutti. Per lo spettatore moderno, la nudità di Cristo sembra così indecente e blasfema che si rifiuta di notarla, ignorando gli sforzi degli artisti del Rinascimento. Nonostante la persuasività di questa ipotesi e la notevole correttezza della sua esposizione (anche i teologi hanno accettato l’ipotesi di Steinberg), nella comunità degli storici dell’arte l’uscita dello studio provocò un incredibile sgomento e, anche dopo che il clamore si era placato, l’establishment accademico continuò a guardare Steinberg con apprensione e incredulità. Paradossalmente, anche i rappresentanti dei visual studies non menzionano questo lavoro di Steinberg, sebbene sia difficile trovare un esempio più efficace di come uno studioso sia riuscito a rivelare “il modo di vedere” imposto dalla morale pubblica, a “distruggere un dato ordine di fatti visivi” e a “vederli per davvero” (parola d’ordine di Hal Foster).

Il numero di storici dell’arte che hanno studiato la cultura visuale, la storia delle immagini, la struttura della visione e la pratica della visualizzazione nel corso dell’ultimo secolo è molto più ampio di quanto avremmo potuto menzionare in questo saggio. Tuttavia, questi esempi sembrano essere sufficienti per confermare la nostra tesi principale: un gran numero di problemi metodologici sollevati dai sostenitori dei visual studies alla fine del XX secolo aveva già attirato l’attenzione degli storici dell’arte nel corso del secolo. E sebbene lo sviluppo di questi problemi fosse principalmente alla periferia della via maestra della scienza delle arti, gli impulsi verso il rinnovamento lentamente ma inesorabilmente si sono andati diffondendo dalla periferia al centro. Non stiamo cercando di livellare le differenze ideologiche tra le tradizioni di ricerca sulla cultura visuale che si sono sviluppate nel secolo scorso e i più recenti visual studies, ma prestiamo attenzione a non esagerare con le innovazioni di questi ultimi. Altrimenti, rischiamo di inventare ex novo la bicicletta dopo che già, da più di un secolo, è stata inventata l’automobile.

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Мир образов, образы мира: антология исследований визуальной культуры
The World of Images, Images of the World. An Anthology of Visual Culture Studies. Ed. Natalia Mazour
Table of Contents

Visual Culture Studies: History and Prehistory

1. Nachleben of Warburg’s Methoda
a) N. Mazour, On Warburg
A.M. Warburg. Manets “Dejeuner sur l’herbe”. Die vorpragende Funktion heidnischer Elementargottheiten fur die Entwicklung modernen Naturgefuhls, D. Wuttke, Kosmopolis der Wissenschaf, Baden-Baden 1989, 257-272.
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E. Wind, Warburgs Begriff der Kulturwissenschaft und seine Bedeutung für die Ästhetik, Beilageheft zur Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft 25 (1931), 163-179.
c) N. Mazour, On Heckscher
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d) N. Mazour, On Ginzburg
C. Ginzburg, Le forbici di Warburg in M.L. Catoni, C. Ginzburg, L. Giuliani, S. Settis, Tre figure: Achille, Meleagro, Cristo, Milano 2013, 109-132.

2. History of Images
a) N. Mazour, On Saxl
F. Saxl, Continuity and variation in the meaning of images (1947), Lectures, Vol. 1, London 1957, 1-12.
b) N. Mazour, On Janson
H.W. Janson, Titian’s Laocoon Caricature and the Vesalian-Galenist Controversy, “The Art Bulletin” 28/1 (March 1946), 49-53.
c) N. Mazour, On Gombrich
E.H. Gombrich, Imagery and Art in the Romantic Period, “The Burlington Magazine” 91/555 (June 1949), 153-159.
d) N. Mazour. On Kantorowicz
E.H. Kantorowicz, Gods in Uniform, "Proceedings of the American Philosophical Society" 105/4 (August 15, 1961), 368-393.

3. Style and Visual Culture
a) N. Mazour, On Panofsky
E. Panofsky, Style and Medium in the Motion Pictures [“On Movies” 1936], “Bulletin of the Department of Art and Archaeology of Princeton University” (June 1936), 5-15.
b) N. Mazour, On Spitzer
L. Spitzer, American Advertising Explained as Popular Art, in Method of Interpreting Literature, Northampton Mass. 1949, 102-149.
c) N. Mazour, On Alpers
S. Alpers, The Mapping Impulse in Dutch Art, in The Art of Describing. Dutch Art in the Seventeenth Century, Chicago 1983, 119-168.
d) N. Mazour, On T.J. Clark
T.J. Clark, The View from Notre-Dame, in The Painting of Modern Life: Paris in the Art of Manet and his Followers, New York 1985 (chap. 1. abridged).

4. Body-as Medium
a) N. Mazour, On Baltrusaitis
J. Baltrusaitis, Physiognomie animale, in Aberrations: Essai sur la legende des forms, Paris 1957, 7-46.
b) N. Mazour, On Settis
S. Settis, Immagini della meditazione, dell’incertezza e del pentimento nell’arte antica, “Prospettiva” I/2 (1975), 4-18.
c) N. Mazour, On Bryson
N. Bryson, The legible body: LeBrun, in Word and Image. French Painting of the Ancien Regime, Cambridge 1981 (chap. 2 abridged).
d) N. Mazour, On Ciardi
R.P. Ciardi, L’anima e i corpi: anatomia delle passioni, fisiologia delle espressioni, in Visioni anatomiche: Le forme del corpo negli anni del Barocco, Milano 2011, 35-52.

5. Vision and Visualization
a) N. Mazour. On Smith
B. Smith, European Vision and the South Pacific, “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes” 8 (1950), 65-100.
b) N. Mazour, On Baxandall
M. Baxandall, Pictures and Ideas: Chardin’s A Lady Taking Tea, in Patterns of Intention: On the Historical Explanation of Pictures, New Haven 1985, 74-104.
c) N. Mazour, On Goffen
R. Goffen, Sex, Space, and Social History in Titian’s Venus of Urbino, in R. Goffen (ed.), Titian’s Venus of Urbino, New York 1997, 63-90.
d) N. Mazour, On Kemp
M. Kemp, Temples of the Body and Temples of the Cosmos: Vision and Visualisation in the Vesalian and Copernican Revolutions, in Picturing Knowledge: Historical and philosophical problems concerning the use of Art in Science, Toronto 1999, 40-85.

6. Images of History
a) N. Mazour, On Wind
E. Wind, The Revolution of History Painting, “Journal of the Warburg Institute” 2/2 (October 1938), 116-127.
b) N. Mazour, On Haskell
F. Haskell, Problems of Interpretation, in History and its Images, New York 1993, 131-158.

7. “The eye is an organ of the mind”
a) N. Mazour, On Steinberg
L. Steinberg, The Eye is a Part of the Mind, “Partisan Review” (1953), 194-212.
b) N. Mazour, On Ringbom
S. Ringbom. Art in ‘The Epoch of the Great Spiritual’: Occult Elements in the Early Theory of Abstract Painting, “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes” 29 (1966), 386-418.
c) N. Mazour, On Freedberg
D. Freedberg, Vittorio Gallese. Motion, emotion and empathy in esthetic experience, “Trends in Cognitive Sciences” 11/5 (2007).

8. Questioning the Method
a) N. Mazour, On Einstein
C. Einstein, Aphorismes Méthodiques, “Documents” 1 (Avril 1929), 22-24.
C. Einstein, Notes sur le cubisme, “Documents” 3 (Juin 1929), 146-155.
b) N. Mazour, On Mitchell
W.J.T. Mitchell, What is visual culture?, in Meaning in the Visual Arts. Views from the outside. A Centennial Commemoration of Erwin Panofsky, New York 1995, 207-217.
c) N. Mazur, On Moxey
K. Moxey, Nostalgia for the Real. Tre Troubled Relation of Art History to Visual Studies, in K. Moxey, The Practice of Persuasion. Paradox and power in Art History, New York 2000, 103-123.
d) N. Mazur, On Belting
H. Belting, Toward an Anthropology of the Image, in Anthropologies of Art, New Haven 2004, 41-58.

English abstract

An extended version of the introduction to readers of visual culture studies The World of Images, Images of the World. An Anthology of Visual Culture Studies edited by Natalia Mazur at the European University at Saint Petersburg (2018) offers a synopsis of two intellectual traditions – the new discipline of visual studies or visual culture and the “culturological history of images” (kulturwissenschaftlische Bildgeschichte) created by Aby Warburg and his colleagues belonging to the so-called Hamburg school. The author performs an analysis of their methodological frameworks and suggests that the older tradition developed on the periphery of the “big” history of art during the last century contains solutions to a whole range of methodological problems posed by the pioneers of the younger discipline.

keywords |  visual studies, visual culture, vision and visuality, history of images, iconology, Aby Warburg and the legacy of the “Hamburg school”.

To cite this article: N. Mazour, Mondo delle immagini. Immagini del mondo, traduzione di A. Cavallaro, “La Rivista di Engramma” n. 165, maggio 2019, pp. 269-305 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2019.165.0014