"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

170 | dicembre 2019

97888948401

Gli antichi a processo

I volumi dedicati ai processi in Grecia e a Roma nella collana “I grandi processi della storia” del Corriere della Sera

Barbara Biscotti

English abstract

Il processo si colloca al centro delle relazioni umane. Di esse, individuali o collettive che siano, è allo stesso tempo fallimento totale e perfetta riuscita. Fallimento, perché il fatto che le persone debbano giungere al processo per comporre i propri divergenti interessi, delegando con ciò ad altri il compito di occuparsene, manifesta una tragica incapacità del soggetto umano di farsi carico di se stesso – con le proprie idee, pulsioni, abitudini, soprattutto con i propri desideri – e del rapporto con l’altro da sé. A fronte di tale apparentemente ineluttabile forma di impotenza, il processo costituisce l’antropotecnica per eccellenza ideata dagli animali umani per confrontarsi con la propria natura violenta: esso è infatti la soluzione alternativa alla forza bruta, laddove nelle relazioni sorga il conflitto. Ma la contenzione dell’aggressività che questa tecnica mette in atto non vale ovviamente a eliminare in modo radicale tale elemento violento, che pertiene invece intrinsecamente anche al processo: esso è infatti la forma ‘addomesticata’ di una violenza ineliminabile, che si traduce nell’imposizione da parte di un certo gruppo di esseri umani ad altri di una condizione del vivere differente da quella da essi desiderata.

In tal senso il processo è una sorta di vaso magico all’interno del quale la potenza deflagrante dell’istintuale violenza umana viene racchiusa, al fine di ridurne gli effetti distruttivi che nuocerebbero all’intera comunità, ma al prezzo di una forma più sottile di violenza, esercitata da una parte del gruppo sociale dominante nei confronti di quella in qualunque senso minoritaria. Per quanto la giustizia sia, come vuole Jacques Derrida, esperienza dell’impossibile, la tecnica attraverso cui la stessa si invera, il processo, la rende possibile, ma solo per alcuni. D’altro canto – e per gli stessi motivi – si deve rilevare come il processo rappresenti anche la più piena realizzazione dell’umanità. La capacità di sottoporre i propri istinti e le azioni che ne derivano a un procedimento di contenimento istituzionale è tutta e solo umana, come insegna Gilles Deleuze, e consente, in quanto strumento di risoluzione del conflitto, la costruzione di una rete di relazioni altrimenti inimmaginabile, per vastità e complessità.

L’aspetto istituzionale del processo, per cui decisioni fondamentali per la vita delle persone vengono delegate a organi a ciò preposti, passa tuttavia decisamente in secondo piano rispetto alla sua natura trasformativa, in quanto legato in modo esiziale, e non solo sotto il profilo etimologico, all’azione da cui prende il nome: esso è infatti, in senso materiale, un ‘procedere’. Il punto di partenza di tale azione dinamica e vettoriale – va infatti in direzione univoca, da un evento scatenante iniziale, lo scontro, verso la risoluzione dello stesso mediante la decisione – è rappresentato appunto dal conflitto nei rapporti tra singole persone o tra gruppi di persone, che in modo più o meno libero – secondo i ruoli – si mettono in cammino, forzatamente insieme, per attraversare sino in fondo la condizione di incompatibilità che stanno vivendo, per sondarne i recessi più bui, per farne emergere gli aspetti nascosti, per stanare infine l’indicibile; e pronunziarlo.

Si tratta di un percorso dantesco, suscettibile di condurre tutti coloro che vi si incamminano – attori, convenuti, testimoni, giudici – a sprofondare nelle pieghe più recondite del proprio vissuto e a fare i conti, a volte con fatica, spesso con esiti imprevedibili, con parti di sé non sempre note. In ogni caso, una cosa è certa: al termine di questo percorso nulla sarà uguale a prima. Il rapporto umano che era stato introdotto nella macchina processuale, passando attraverso fasi di analisi, sminuzzamento, elaborazione, ricomposizione, sicuramente esce, all’altra estremità di essa, completamente trasformato. Gli uni hanno torto, gli altri hanno ragione. Gli uni hanno diritto a una certa cosa, gli altri hanno l’obbligo invece di ‘fare’ qualcosa. Agli uni spetta questo, agli altri quello. Agli uni viene riconosciuto un certo status, agli altri no. I protagonisti stessi del processo, quindi, non saranno mai più quelli di prima: saranno in qualche modo persone nuove, calate in una condizione esistenziale comunque, poco o tanto, differente rispetto a quella precedente.

Quello del processo è dunque un procedimento alchemico, attraverso il quale la società trasforma con successo materiali considerati nocivi – il conflitto, la disobbedienza alle regole condivise, la violenza distruttiva, la differenza – in sostanze accettabili, la cui capacità di destabilizzare gli equilibri del gruppo è stata neutralizzata. Esso rappresenta, insomma, anche la valvola di sicurezza capace di garantire la miglior riuscita possibile della convivenza tra persone, in quanto luogo in cui i rapporti umani vengono ricondotti dalla violenza del Chaos all’ordine del Kosmos. Senza contare che – come insegnano le Eumenidi di Eschilo, la tragedia in cui si inscena il giudizio di Oreste – la perdurante percezione che si ha, anche in un’epoca così disincantata, forse, e materialista come l’attuale, del Kosmos che viene rappresentato e attuato nel processo è quella di un luogo re-ligioso, e quindi, nel senso proprio del termine, ‘riunificatorio’: lì giustizia divina e giustizia umana cooperano e sembrano avere il potere, insieme, di ricondurre a unità l’uomo altrimenti eternamente scisso tra volontà e fato, tra colpa e innocenza, tra responsabilità e inconsapevolezza.

Per questi motivi, dunque, il processo fornisce un punto di vista privilegiato dal quale osservare l’umano, nella sua singolarità individuale e nel suo divenire storico. Le vicende processuali, la cui narrazione in questa collana viene proposta, coinvolgono sempre, infatti, individui o gruppi di individui che in qualche modo vengono sottoposti al giudizio di una comunità, che di loro non può accettare le idee e l’operato. In questo senso si potrebbe affermare, prendendo a prestito un’idea di Carmelo Bene, che il processo è vero “teatro del potere”; il potere che un certo gruppo sociale fa valere nei confronti di un altro o di un singolo, indirizzando così il corso della storia. Ma se la Storia, sempre secondo una visione beniana, è “marchio temporale del Potere”, i processi che qui vengono proposti possono rappresentare una traccia lasciata nel corso del tempo, una chiave di lettura di questo tortuoso, millenario percorso dell’umanità attraverso i propri dilemmi, le proprie scelte, i propri esercizi di potere.

Ci troviamo, quindi, di fronte a un dispositivo che, lungi dall’assorbire e annullare la ‘minorità’ delle storie individuali e il loro divenire, viceversa le pone a confronto con la Storia stessa e ne fa emergere in modo assoluto la grandezza, a prescindere dal giudizio finale, etico e giuridico. Nel processo infatti l’inarrivabile confronto della singolarità umana con la legge, che permea di sé ogni esperienza e allo stesso tempo risulta però, secondo la lezione racchiusa in modo magistrale nell’opera kafkiana, inconoscibile nella sua origine per l’uomo, trova un escamotage e una soluzione: l’irrisolvibile domanda sulla provenienza stessa della regola, cioè della misura del comportamento umano, è drammaticamente superata dalla sua applicazione, dall’implacabile avanzare nella Storia di ciò che è ‘diritto’, rispetto a ciò che viene connotato come ‘stortura’ e, quindi, eliminato dalla storia stessa. Oppure trasformato, appunto, da essa e incluso; a volte reso immaginifico, ingigantito, magnificato.

Alcuni dei processi qui presentati, infatti, hanno gettato per sempre i protagonisti nel baratro dei reietti e dei malvagi. Altri hanno per sempre elevato coloro che vi sono stati sottoposti a protagonisti positivi della storia dell’umanità. In ogni caso, quel “per sempre” rappresenta il vero esito finale dei processi raccontati nei volumi di questa collana. Essi sono un colpo di coda della Storia, una brusca sterzata, una narrazione epica, che trascende la storia dei singoli protagonisti, la quale è qui solo occasione di un grido corale, condivisibile o meno, dell’umanità. E se concordiamo con Pasolini che “il passato è la sola critica globale del presente”, le storie di questi grandi processi possono forse costituire una bella occasione di riflessione.

La collana, curata da chi scrive e Luigi Garofalo, entrambi storici dei diritti dell’antichità, attraversa tutte le epoche sino alla contemporaneità, ma sette dei quarantacinque volumi che la compongono riguardano processi ascrivibili all’antichità classica. L’analisi di tali vicende processuali appartenenti al passato più lontano e legate, pertanto, a contesti sociali molto distanti da quelli contemporanei, possiede eppure una potenza euristica del tutto peculiare, dal momento che fornisce accesso a categorie seminali del pensiero politico e all’origine stessa del rapporto dialettico individuo-società, libertà-istituzione, che trova negli ingranaggi della macchina processuale il proprio momento decisivo.

Carlo Pelloso è autore del libro dedicato alla “tragedia del processo a Socrate”, secondo la definizione di Hegel (vol. 5, Socrate. La democrazia contro il libero pensiero). È noto come la letteratura in proposito si sia schierata nei secoli in due fazioni: coloro che hanno visto in tale episodio ultimativo della vita del filosofo il trionfo della democrazia, vittoriosa sul suo pensiero ritenuto antidemocratico, e quanti hanno invece considerato il suicidio di Socrate, che conseguì all’esito del giudizio, come atto eroico di denuncia e condanna del fallimento della democrazia. Pelloso sceglie però una terza via, che pone al centro l’uomo Socrate, il cittadino Meleto che lo accusa di empietà e la città di Atene, non come entità astratta, ma in quanto concreto giudice di tale processo pubblico che, con le sue regole, funge da cornice tecnica e sostanziale dello scontro. La vicenda, dunque, viene analizzata con il rigore dello storico del diritto non come il fronteggiarsi di diverse visioni del mondo – libero pensiero contro ordine costituito –, bensì in quanto calata in un contesto normativo specifico, caratterizzante un sistema, politico, sociale, giuridico, di un determinato popolo in un certo momento storico, con l’esito di una ricostruzione nuova, che restituisce verità a una storia ben nota.

L’Atene del V secolo a.C. costituisce lo scenario anche di un altro volume della collana, dedicato a Temistocle (vol. 43, Temistocle. La città ingrata), del quale gli autori sono Monica Centanni e Peppe Nanni. Il “mostruoso processo”, così Luciano Canfora definisce il procedimento contro il vincitore di Salamina che, con la battaglia navale contro i Persiani del 480 a.C., aveva compiuto un’impresa militare incredibile. Il contrappunto della vittoria, però, è che egli stesso, le sue avventure politiche, la sua gloria, sono oggetto di ammirazione ma anche di invidia da parte di tutti – Greci e Spartani – e anche quanti racconteranno la sua storia si divideranno su due fronti. Un processo? Forse due, forse tre, forse quattro – comprendendo l’ostracismo: un gruppo di ben 1696 cocci, ritrovati presso il Ceramico in Atene portano iscritto il nome ‘Temistocle’. Di fatto, con prove probabilmente inattendibili, i due acclamati protagonisti delle vittorie di Salamina e Platea – l'ateniese Temistocle e lo spartano Pausania – vengono additati come le icone negative del tradimento. Ingrata è la città – Atene o Sparta che sia – verso i suoi più illustri protagonisti. Ma forse, sotto il cielo della polis greca, si tratta di un’ingratitudine necessaria, un’ingiustizia preventiva per sterilizzare qualsiasi rischio di tentazione tirannica.

Chi scrive è autrice del volume dedicato a Catilina (vol. 17, Catilina. Le strategie del processo politico). Com’è noto, in questo caso non si può parlare, da un punto di vista tecnico, di processo: Catilina e i suoi subirono una pubblica condanna – e la persecuzione conseguente – al di fuori del quadro giuridico processuale che avrebbe potuto fornire loro, tra l’altro, una serie di garanzie; tra le quali, non ultima, il diritto di fare ricorso al popolo per la revisione della condanna capitale, a loro negato. Per questo caso si può parlare piuttosto, dunque, di un processo politico e mediatico, abilmente orchestrato da Cicerone, che guidò il senato ad avallare decisioni palesemente fondate sull’imperium e il popolo, per il quale viene costruita una situazione emergenziale, a condannare coralmente il “mostro” che Cicerone stesso aveva saputo con pazienza e abilità ineguagliabili edificare. L’autrice, lungi dall’assolvere Catilina e i suoi seguaci, si preoccupa però di mettere in luce le tecniche della condanna politica affinate in tale circostanza e destinate a caratterizzare ogni processo politico nei secoli a venire e sino alla contemporaneità: dalla diffamazione pubblica, costruita attraverso il ricorso retorico alla reprehensio vitae anteactae, alla fabbricazione meticolosa del nemico della società, che non risparmia strategie subdole e falsificazioni del reale, giungendo infine a mettere in campo il più potente dei dispositivi: la paura. Ne risulta un libro quanto mai attuale, ritratto paradigmatico e potente delle strategie del potere costituito di ogni tempo.

Un altro processo che vide sempre protagonista Cicerone viene preso in esame da Paola Ziliotto, che nel volume 22, Verre. Quando la repubblica protegge i deboli, descrive ed esamina a fondo l’emersione a Roma, nel corso del I secolo a.C., di valori – politici, culturali, identitari – completamente nuovi nella società e l’avvento di un’etica individualista e profittatrice che, su uno sfondo connotato dalla violenza, condurrà la res publica alla sua fine. Il processo in questione, nel quale in apparenza si confrontano i boni mores che qualificano la romanità con questi nuovi “valori”, che si vorrebbero solo di pochi degenerati tra cui Verre, è in effetti una straordinaria pièce teatrale, con l’inarrivabile regia dell’Arpinate, nella quale infine non vi sono ‘buoni’, ma solo cattivi, non difensori di un ideale pubblico ormai tramontato, ma solo arrivisti interessati alla propria affermazione personale: il popolo romano, spettatore di questa riuscita farsa, accorre e applaude, stregato dallo spettacolo dei ricchi e potenti. Ma, tra vincitori e vinti che salvano comunque la pelle (e le ricchezze), l’unico perdente è, in senso paradigmatico, proprio il popolo.

Luigi Garofalo affronta il processo più famoso e spinoso della storia, quello a Gesù (vol. 14, Gesù. La crocifissione di un giusto), a proposito del quale l’adozione della prospettiva tecnica giuridica consente di gettare nuova luce, offrendo uno sguardo inedito su una figura in relazione alla quale ovviamente sarebbe altrimenti impossibile esprimersi senza incorrere nel già detto. Una serrata disamina delle regole procedurali cui Pilato avrebbe dovuto conformarsi, tra diritto romano e diritto giudaico, sullo sfondo della condizione di tensione politica e sociale perenne di Gerusalemme, vera città polveriera, consente infatti all’autore di evidenziare l’oggettiva violazione da parte del governatore dei dispositivi processuali che avrebbe dovuto seguire, cui conseguì la crocifissione del Nazareno. Scavalcando le interpretazioni religiose o anche solo puramente storiche, benché ne tenga e ne renda conto, l’autore fornisce dunque una chiave di lettura nuova della vicenda, che ha il pregio dell’oggettività storica nel tenere conto dei ruoli ricoperti dalle parti in esse implicate, dei rapporti istituzionali che le legano e del tessuto giuridico entro il quale il processo a Gesù, punto culminale della sua vicenda terrena, è avvolto.

Dello stesso autore è il volume dedicato al processo a Paolo di Tarso (vol. 19, San Paolo. Esule e martire per volontà imperiale). Anche la vicenda dell’apostolo delle genti trae nuova luce da un’approfondita disamina dello status giuridico che lo caratterizzava come cittadino romano; come tale, egli subì tre processi, essendo accusato di diverse colpe che ruotavano tutte intorno al crimine di lesa maestà, a causa del proselitismo cui era dedito e della sua sollecitazione a fondare comunità cristiane devote al culto di Gesù, anteposto a quello dell’imperatore. L’ultimo episodio processuale, in esito del quale gli furono comminati l’esilio e la condanna a morte per decapitazione (come prevedeva ancora una volta il suo stato di civis) e i cui estremi Garofalo ricava da indizi testuali eterogenei tra cui anche la seconda lettera a Timoteo, è completamente affidata all’imperium di Nerone, diretta parte lesa in base alle accuse che si attribuivano al predicatore; alla sua volontà Paolo infine si sottomette, attendendosi però la “corona di giustizia” dal solo “giudice giusto” che riconosca, il Signore, e negando così sino in fondo ogni valore alla giustizia temporale e all’autorità dell’imperatore. Le circostanze di tale terzo processo si dipanano sullo sfondo dei complessi rapporti interni, nonché con il potere costituito, della nascente comunità cristiana di Roma, nella quale l’apostolo è accolto con freddezza e scarsa solidarietà; anche sulle dinamiche in questione l’analisi dei passaggi processuali compiuta da Garofalo offre nuovi spunti interpretativi.

Il iudicium publicum che vide Apuleio di Madauros accusato in base alla lex Cornelia de sicariis et veneficis per pratiche magiche costituisce l’oggetto di un ulteriore volume tra quelli dedicati ai grandi processi dell’antichità romana(vol. 37, Apuleio. Le metamorfosi di un “mago”). Ne è autrice chi scrive, la quale, a introduzione della specifica vicenda, traccia un affresco della società romana del II secolo d.C.: una società multietnica, cosmopolita, nella quale la provincia d’Africa, in cui sono ambientati gli accadimenti in questione, rappresenta uno dei centri culturali principali dell’impero. Apuleio appare, in tal senso, pienamente uomo del suo tempo: viaggiatore instancabile, colto intellettuale, polimata, filosofo legato alle correnti del medioplatonismo, oratore, medico interessato ai fenomeni naturali, e al contempo curioso esploratore della dimensione religiosa più esoterica, quella legata ai culti misterici. Anche in questo caso l’approccio storico-giuridico e la disamina sotto questo profilo delle vicende processuali offre l’occasione di delineare uno scenario originale: la tradizionale interpretazione di tale processo come generico manifesto della vittoria della sapienza sull’ignoranza (la quale etichettava il filosofo come mago, non essendo in grado di comprenderne e accettarne le conoscenze) viene ridisegnata come riuscito esito della volontà di Apuleio di affermare quella cultura aristocratica di cui si sentiva portatore e il ruolo centrale – politico e, sul piano sociale, psicagogico – del ‘filosofo’, secondo l’interpretazione data al termine nel II secolo. Nelle pieghe dell’orazione, tuttavia, si nasconde proprio l’ambiguità di tale figura e, nella sua pienezza, la natura teatrale del processo, luogo della grande magia verbale, nel quale la verità spesso si vela, mentre sembra disvelarsi, e l’esito finale, quale che sia, pare arrancare inutilmente dietro la complessità del reale.

L’ultimo dei volumi della collana dedicati all’antichità classica vede come protagonisti due personaggi leggendari (vol. 40, Orazio e Appio Claudio. Un eroe e un antieroe a giudizio) le cui vicende, seppure separate nei fatti e nei tempi, sono accomunate innanzitutto dall’aver segnato momenti fondamentali della storia istituzionale di Roma arcaica, collocabili rispettivamente nel VII e nel V secolo a.C. Gli autori, Luigi Garofalo e Carlo Pelloso, argutamente hanno deciso di porre a confronto le due storie: ambedue di fatto colpevoli di un grave crimine, Orazio e Appio Claudio rappresentano tuttavia nella storia di Roma l’uno l’exemplum positivo, il campione della civitas amato dal popolo, l’altro l’antieroe, dal popolo detestato. In entrambi i casi, tuttavia, seppure in direzioni e con esiti opposti, si assiste alla disapplicazione del diritto costituito a favore del prevalere della scelta del popolo, di fronte alla cui sovranità anche il regno della legge cede. Sullo sfondo delle due vicende, le storie parallele di due donne, le vittime: una contro-storia possibile, la cui trama è lasciata alla curiosità e all’immaginazione del lettore.

Ogni volume, esaurita la parte testuale relativa ai protagonisti visti al momento del processo (cap. 1), al contesto di cui la loro vicenda giudiziaria costituisce un esito (cap. 2) e allo svolgimento processuale (cap. 3), è corredato di un glossario in cui vengono illustrati alcuni termini chiave – giuridici ma anche non tali e tuttavia centrali nella vicenda esaminata – e di una parte di approfondimenti, in cui si riassume la cronologia essenziale della storia, si riporta una bibliografia minima ragionata, cui poter attingere per approfondire, e si indicano ulteriori itinerari, geografici, culturali, artistici, che possano guidare in modo alternativo il lettore sulle tracce dei protagonisti.

Bibliografia essenziale di riferimento
Sui processi in Grecia e a Roma
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Sul processo a Socrate
  • M. Bonazzi, Processo a Socrate, Bari 2018.
  • M.M. Sassi, Indagine su Socrate. Persona filosofo cittadino, Torino 2015.
  • I.F. Stone, Il processo a Socrate, trad. it., Milano 1990.
Sul processo a Temistocle
  • L. Canfora, “Eschilo e Temistocle” in Id., Storia della letteratura greca, Roma-Bari 1986, pp. 128-148.
  • E. Culasso Gastaldi, Le Lettere di Temistocle. Il problema storico. Il testimone e la tradizione, Padova 1990.
  • L. Piccirilli, Temistocle, Aristide, Cimone, Tucidide di Melesia, Genova 1987.
Sul processo a Catilina
  • L. Fezzi, Catilina. La guerra dentro Roma, Napoli 2013.
  • B. Levick, Catilina, (trad. it. B. Forino), Bologna 2017.
  • C. Vacanti, I Catilinari. Progetto di una congiura, Napoli 2018.
Sul processo a Verre
  • E. Ciccotti, Il processo di Verre. Un capitolo di storia romana, Roma 1965 (rist. dell’ed. Milano 1895).
  • L. Fezzi, Il corrotto. Un’inchiesta di Marco Tullio Cicerone, Roma-Bari 2016.
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  • L. Peppe, Il processo di Paolo di Tarso: considerazioni di uno storico del diritto, Lecce 2018.
  • B. Santalucia, Sul processo di Paolo di Tarso a Roma, in E. Chevreau, C. Masi Doria, J.M. Rainer (a cura di), Liber amicorum. Mélanges en l’honneur de Jean-Pierre Coriat, Parigi 2019.
Sul processo a Apuleio
  • L. Pellecchi, L’accusa contro Apuleio: linee retoriche e giuridiche, in Eparcheia, autonomia e civitas romana. Studi sulla giurisdizione criminale dei governatori di provincia (II sec. a.C. – II sec. d.C.), a cura di D. Mantovani e L Pellecchi, Pavia 2010, 171-195.
  • F. Amarelli, F. Lucrezi, I processi contro Archia e contro Apuleio, Napoli 1997.
Sui processi a Orazio e Appio Claudio
  • M.T. Fögen, Storie di diritto romano. Origine ed evoluzione di un sistema sociale, trad. it., Bologna 2005.
  • C. Pelloso, Provocatio ad populum e poteri magistratuali dal processo all’Orazio superstite alla morte di Appio Claudio decemviro, “Studia et Documenta Historiae Iuris” 82 (2016), 219-264.
English abstract

The series The great trials of history, published by Corriere della Sera, proposes forty-five volumes, concerning remarkable personalities of history, whose name gives the title to each book, examined by the specific point of view of the trials in which they have been protagonists. Eight of them focus on trials of the classical Antiquity and show, here more than elsewhere, the heuristic potential of classicism, in order to unveil the basic inner workings of the political relationships’ development between individuals and institutions in the former societies, through that formidable anthropotechnique represented by the trial.

key words | Antiquity’s Trials; Roman Law; Greek Law; Socrates; Themistocles; Catiline; Verre; Jesus; Paul of Tarsus; Apuleius; Horatius and Appius Claudius

Per citare questo articolo: Gli antichi a processo. I volumi dedicati ai processi in Grecia e a Roma nella collana “I grandi processi della storia” del Corriere della Sera, a cura di B. Biscotti, “La Rivista di Engramma” n. 170, dicembre 2019, pp. 111-121 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2019.170.0006