"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Tra gli allori di Venezia

L’Albania e Scanderbeg sul Bucintoro, “il più superbo naviglio” al mondo

Lucia Nadin

English abstract

1 | Sadeler-Solari, Il meraviglioso Bucintoro, 1619 (collezione privata).

1. Il Bucintoro del 1606

Quello che dall’arzanà dei Veneziani, dopo quasi cinque anni di lavoro, usciva il giorno dell’Ascensione del 1606, fu uno spettacolare nuovo Bucintoro: era costato settantamila ducati, di cui ottomila erano serviti per la sola doratura. Ne aveva seguìto tutte le fasi di costruzione il doge Marino Grimani, sempre aggiornato sui lavori dal Provveditore all’Arsenale Marco Antonio Memmo. Era, il Grimani, principe splendido e raffinato, amante di festeggiamenti e banchetti, di cortei sull’acqua, di giostre navali, di teatri galleggianti; ne aveva dato prova anche con la fastosa incoronazione della moglie Morosina Morosini nel 1597 e con il “Teatro del Mondo” in Bacino San Marco. Era particolarmente attento a curare un fitto cerimoniale pubblico per rafforzare il rituale della suntuosità dogale, per esaltare l’alto prestigio della carica. Promosse la decorazione interna del Palazzo, rinnovò la Cappella rilanciando la vita musicale anche collegata agli eventi di spettacolo. In tale volontà di larga esibizione scenografica rientrò l’imbarcazione da parata con cui rinnovare nel giorno dell’Ascensione lo sposalizio di Venezia con il Mare; era una tradizione dalle origini secolari, già ribadita in una legge del 1311 che recitava “Bucentaurus Domini Ducis fiat, per Dominium”. Era dunque mezzo, il Bucintoro, per enfatizzare l’apparato mitico di una città che, proclamava, nessuno aveva mai fondato, ma che era nata dalle acque.

Non fece purtroppo a tempo il doge Grimani a vederlo perché moriva il giorno di Natale del 1605. E lo inaugurava il suo successore Leonardo Donà in un mese di maggio in verità assai critico per Venezia, su cui calava l’interdetto del papa Paolo V per i ben noti scontri giurisdizionali tra la città marciana e Roma: esplodeva una tensione che era stata gestita con fermezza e con sottile diplomazia dal Grimani, in anni in cui si andava allentando quell’alleanza tra le due potenze che aveva retto la Lega Santa per Lepanto, in anni in cui le mire dell’Austria sull’Adriatico si incrociavano con le azioni degli Uscocchi e la minaccia turca era sempre esistente, nonostante la lunga pace.

Per tutti i lavori di intaglio degli elementi decorativi del Bucintoro, la Signoria aveva, come di tradizione, tirato a sorte i nomi tra i migliori al momento conosciuti: erano stati scelti due fratelli di Bassano Marcantonio e Agostino Vanini, operanti a Padova, in contrada San Francesco. Dalla loro officina uscì la gran parte di statue, modiglioni, cartigli, san Marchi, colonnine, telamoni, mostri e dragoni, putti, intagli del soffitto, fregi di allegorie marine, quasi tutto insomma il prezioso addobbo esterno, cui corrispondeva un altrettanto prezioso addobbo interno con tessuti laminati in oro e argento, damaschi, rasi, passamanerie, cuscini di “cuori d’oro” (Urban 1998; Urban 2012). Era destinato, quel gioiello, a offrirsi alle Muse e a trasferirsi infatti nella puntuale accuratezza delle incisioni, nei solari colori del rosso e dell’oro delle pitture, nelle fioriture di versi di elogio, che nel caso non erano invenzioni di fantasia, di poetiche della meraviglia alla Marino, ma descrizioni di un oggetto reale (Nadin 2010).

Per il naviglio dogale del 1606 gli intagliatori fratelli Vanini curarono in particolare l’apparato con cui in prua si doveva aprire il racconto di Venezia Regina del Mare. La grande polena era una giovane donna che reggeva la lunga spada nella destra e la bilancia nella sinistra, era Venezia la Giusta, presenza d’obbligo anche nei navigli dogali precedenti. Dietro a Venezia, una statua altrettanto grande, assoluta novità del Bucintoro seicentesco. Sotto l’arco che reggeva lo stemma dogale, tra due Sfingi simbolo di Sapienza, da cui si apriva lo spazio protetto dal tiemo/soffitto in cui prendevano posto il doge e i governatori, era posizionato un Gigante Molosso, con una lunga asta nella destra e una spada/scimitarra al fianco sinistro, calzari, e sui fianchi corta armatura ricoperta di lamine d’argento; rappresentava

Scanderbech Prencipe dell’Albania che con le armi della Repubblica fu il flagello dei Turchi, onde avendola in vita ed in morte ricevuta per madre, grata la Repubblica, in vita con le armi e con i tesori, in morte con le statue lo riconosce per figlio.

Tale la descrizione encomiastica di Giovanni Palazzi nel 1681: Venezia e Scanderbeg, Madre per la cui salvezza dal Turco aveva combattuto il Figlio, posti simbolicamente insieme in prua del “più superbo Naviglio che avesse il mondo” (cfr. in fondo al testo alla voce Fonti Palazzi, La virtù in giocco, Venezia 1681; Donno, L’allegro giorno veneto Venezia s.d. [1624-1630]; sul Molosso, v. da ultima Bassani 2019, con bibliografia precedente). Le sue dimensioni la facevano elemento di spicco nell’insieme iconografico, non certo solo elemento di contorno entro il sovrabbondare di fregi che ornavano l’imbarcazione. Ma quale realtà della storia aveva condotto a quel vertice di racconto mitico celebrativo visualizzato in prua? Per capirne il percorso bisogna riandare a una stagione cruciale dello Stato da Mar di Venezia, condensata nelle tre parole chiave presenti nel testo di Palazzi: Albania, Turchi, Scanderbeg.

2. L’Albania veneziana

L’Albania della costa era passata sotto il protettorato veneziano a fine Trecento: alcuni punti strategici furono Butrinto nel 1386, postazione strategica di fronte a Corfù, “porta” del Golfo; Durazzo nel 1391, da sempre al centro di strade commerciali dall’Adriatico a Costantinopoli con la sua via Egnazia; Scutari nel 1396, al confine con l’area dalmata, snodo dei commerci con l’entroterra meridionale europeo. Ciò avveniva (qui si sbozzano appena gli eventi) sotto la pressione dell’espansionismo turco, che da alcuni decenni andava premendo sempre più verso l’ovest europeo e aveva bisogno dell’Albania, da secoli terra di passaggio, geo-politicamente strategica.

2 | Sadeler-Solari, Il meraviglioso Bucintoro, 1619 (collezione privata); particolare: zona di prua.

Quegli avamposti veneziani sulla costa albanese rimasero veneziani per circa un secolo e concorsero a una felice stagione di traffici verso le vie orientali della seta e delle spezie, andando pienamente a inserirsi nel Commonwealth della Serenissima. Ma, a metà Quattrocento, intervenne l’evento epocale della caduta di Costantinopoli, prima tappa di un più ampio disegno di ampliamento dell’impero turco ottomano: arrivare fin nel cuore dell’Europa attraverso la conquista dell’area balcanica, giungere in Italia fino alla prima Roma, nonché all’altare di Pietro, sconvolgere gli equilibri del Mediterraneo orientale e impadronirsi dei porti più importanti. Ecco dunque aprirsi uno scenario di sconvolgimenti dell’intero sistema europeo, di Venezia in particolare e dei suoi monopoli marittimi.

Per la terra albanese tornava alla ribalta il suo ruolo storico di confine-baluardo, quasi di nuova linea di Teodosio, e il caso volle che riuscisse a svolgerlo quel ruolo grazie all’ascesa di uno stratega militare e politico di eccezione, che fu capace di ricomporre il puzzle di un paese frazionato in tanti potentati locali, di farsi interprete delle attese dell’Europa Cristiana, di divenire interlocutore degli stati europei più direttamente minacciati dall’avanzata ottomana. Tra quelli italiani, c’era il Regno di Napoli, che nelle terre pugliesi era diviso dall’Albania da sole ottanta miglia; c’era Venezia, con i suoi traffici commerciali; c’era il Papato con le sue ansie di tutela della fede. Il Principe di Epiro Giorgio Castriota riuscì per cinque lustri a fare il miracolo, ebbe l’intelligenza di capire il quadro internazionale politico in cui inserire il ruolo del suo piccolo stato in fieri, ebbe il genio militare di saper contrastare con forze limitate gli immani eserciti turchi che ripetutamente gli si scagliavano contro.

 

Strabilianti, eccezionali, le sue azioni di guerra furono destinate a diventare presto leggendarie, a ragione fu soprannominato Scanderbeg, nuovo Principe Alessandro, colui che faceva rivivere il mito del Grande Alessandro (v. almeno Centanni 2005; dell’appellativo Scanderbeg numerose furono le varianti grafiche: ad es. Scanderbec, Scanderbech, Scandarbec, Scanderbegh). I papi lo corteggiarono denominandolo Miles e Athleta Christi, guardando a lui come appoggio di garanzia per nuove crociate. Venezia, pur guardinga di fronte al costituirsi di una nuova entità politica che si affacciava sul “suo Golfo”, ebbe tutto l’interesse a farlo rientrare nella propria strategia politica, ad appoggiarsi a lui contro la minaccia ottomana aggregandolo alla stessa nobiltà veneta.

Purtroppo anche l’astro del Nuovo Alessandro si spegneva proprio al culmine della sua ascesa, con la morte improvvisa nel 1468. I Turchi occupavano allora l’Albania fino al suo centro, poi risalivano verso nord per attaccare la strategica Scutari veneziana, che ereditava la funzione di barriera del grande Scanderbeg. Due furono gli assedi che la città sostenne, nel 1474 e nel 1478, destinati anch’essi a entrare nel leggendario, perché un pugno erano i difensori, una marea gli attaccanti. Il ricordo della forza degli scutarini assediati arriverà un secolo dopo nelle pitture di Palazzo Ducale, opera del Veronese, resterà nella memoria storica dell’Albania e ripreso ancor oggi nel romanzo I tamburi della pioggia di Kadare (sulle migrazioni di Albanesi a Venezia v. Nadin 2008).

Venezia, logorata da sedici anni di guerra che minavano traffici e commerci, preferì chiudere il fronte albanese, cedette Scutari ai Turchi, che, via terra, arrivarono ad attaccarla fino in “Patria del Friuli” con ripetute devastazioni. Terribile fu quella del 1499, quando riprese la guerra dopo un ventennio di pace. In quel finire di secolo i Turchi poterono, annotò Malipiero, quasi corer fino a Marghera e, come noto, l’immaginario collettivo legato a “Mamma li Turchi” ebbe eco, fin nelle pagine di Pasolini. Dopo Scutari Venezia dovrà cedere anche Durazzo nel 1501 e in Grecia Modone e Corone.

3. Dopo Scanderbeg, tempo di migrazioni

In questo scenario dell’Europa centro orientale e del levante mediterraneo della seconda metà del Quattrocento si inquadra un vasto fenomeno migratorio di genti che fuggono dall’avanzata turca; fuggono ripetutamente in gruppi più o meno cospicui o anche alla spicciolata, verso la vicina costa italiana, siciliana, pugliese, marchigiana, veneta. I porti che avevano fatto dialogare le sponde entro quel Commonwealth di cui sopra diventavano mete sicure cui tendere, le rotte dei traffici di merci diventavano rotte di speranza nella Italia felix (Italia felix 1988; classiche le pagine di Ducellier et alii 1992). E la morte di Scanderbeg era diventata volàno acceleratore di quel processo migratorio già d’altronde operante da vecchia data all’interno della società feudale albanese, anche alimentato da politiche esterne di ripopolamento in aree depresse falcidiate da carestie e pestilenze.

Per le città sotto il protettorato veneziano si trattava di raggiungere la Metropoli, prima le donne e i bambini, poi i sopravvissuti a battaglie e assedi. Così a Scutari, da mesi assediata, nell’autunno del 1478 arrivava la notizia che Venezia voleva chiudere il fronte di una guerra che logorava traffici e commerci, voleva venire a patti col Turco. Florio Jonima che comandava la resistenza, sapute tali intenzioni dal comes et capitaneus di Scutari Antonio da Lezze, tenne un accorato discorso per convincere i suoi concittadini a deporre le armi, a lasciare tutti insieme il paese e ripeté più volte: “Conferamus nos tute intrepideque ad beatum Marcum”, ricordando la fedele alleanza con la città marciana che avrebbe assicurato piena accoglienza. Li convinse:

Scodrenses vero urbe patriaque relicta omnes cum sarcinulis suis et supellectile ad classem Venetorum, qua ab urbe ad quinque millia passum aberat, se tuti receperunt […] et omnes pariter navigia conscendentes e portu solverunt (Barletius, De obsidione Scodrensi, Venezia 1504).

Ripercorrendo quell’evento in prefazione a una Vita di Scanderbeg, lo storico Marino Barlezio, rifugiato da Scutari a Venezia scrisse:

Insieme alla libertà, l’Epirotica fortuna e la gloria tutta in un momento cadde dalla cima. Più nessun segno della passata virtù, dell’antica nobiltà. Siamo divenuti quasi feccia delle miserie (Barletius, Historia de vita et gestis Scanderbegi Epirotarum Principis, [Roma 1510], in traduzione italiana, Venezia 1568, da cui si cita).

Papa Paolo II, il veneziano Barbo, così descriveva in una lettera al duca di Borgogna la situazione delle coste est dell’Adriatico:

Gli Albanesi, parte sono sterminati dal ferro, parte ridotti in servitù. Le città, le quali per noi avevano resistito all’impeto dei Turchi, sono cadute in loro potere. Le genti che popolano le vicine rive dell’Adriatico, atterrite dall’imminente pericolo, tremano. È lacrimevole vedere le navi dei fuggitivi riparare ai porti d’Italia, trascinando quelle famiglie meschine che, sedute sui lidi, tendono le mani al cielo, riempendo l’aria con le loro suppliche in una lingua incomprensibile (trad. di Giuseppe Faraco 1976, 196).

Partivano dunque gli scutarini verso il mare avendo con sé pochi fagotti e le cose personali più care, cominciava il loro esodo. Portavano i religiosi qualche suppellettile sacra, un calice, una croce, una immagine. Ad esempio, Alvise Grecolco, guardiano del convento francescano di Scutari trasportava una piccola statua della Madonna del pane, quella che, secondo la tradizione, si vede ancora oggi nella chiesa parrocchiale nel paese dell’entroterra in cui divenne poi parroco: a Moniego, vicino a Noale. Ovvero da Novomonte/Novo Bdro, oggi in Kossovo, seguendo l’importante snodo della via di Zenta che passava da Scutari per arrivare al mare, erano scappate all’arrivo dei Turchi già nel 1441 molte famiglie albanesi che lavoravano nelle miniere del luogo; tra le altre quella di Giorgio da Novomonte che diventerà parroco nel Bellunese, a Mel, e sarà committente di opere d’arte di gran pregio ancor oggi ammirabili (sul trasporto di reliquie sacre v. Nadin 2019a).

Ancora più accorate su quell’esodo furono le espressioni che rivolse al doge Agostino Barbarigo Marino Becichemo, profugo, giovane latinista poi futuro docente allo Studio Patavino. Degli esuli da Scutari disse:

Mira res et omnibus saeculis celebranda neminem fuisse ex primaria mediocri infimave sorte civem aut incolam qui a Turcis persuasus fuerit ut in patria vivere etiam in avito Lare suprema expectaret (Marinus Becichemus […] Antonio Calbo Dominico Trivisano et Laurentio Priolo…, Venezia, Biblioteca del Museo Correr, Cod. Cicogna 3204/20, lettera inedita riprodotta in appendice a Nadin 2008).

Quanto a sé:

Pro Veneto amisi imperio nudusque per orbem
Maestus inops errans aliena ad limina quaero
Maeoniae victum mercedis, respice quaeso
Respice me miserum claemens, miserere meorum
Natorum, lachrymae quorum sine fine cadentes
Astra petunt; profugae matris miserere senectae
O inoperum columen, profugum miserator iniquo
Fortuna inconstans
(Marinus Becichemus Scodrensis ad Serenissimum et praestantissimum Principem Augustinum Barbadicum Illustrissimum Venetorum Ducem, (Venezia, Biblioteca Marciana, Ms Lat. XIV, CLXXIII = 4574, orazione inedita in versi riprodotta in Nadin 2008).

Furono esodi continui di “massa” di intere comunità ed esodi alla spicciolata, si diceva. Il drammatico scenario apertosi con la caduta di Costantinopoli, rinnovato alla morte di Scanderbeg, poi alla cessione di Scutari, poi alla perdita di Durazzo, continuerà ancora nel Cinquecento inoltrato, fino alla caduta degli ultimi avamposti di protettorato veneziano, al nord Dulcigno e Antivari, al sud Corone e Modone, gli “occhi del Golfo”. Veneziana resterà, pur con vicende alterne, Butrinto.

Nello stipato traffico di galee, diventate nuove navi di libertà, chi scappava e si imbarcava poteva anche incrociare tra gli imprevisti la schiavitù, gestita da trafficanti e pirati. Il lungo viaggio raccontato da Sciascia attorno alla Sicilia per raggiungere “Nuovaiorche”, già lo aveva sperimentato tale Giorgio, scappato da Durazzo battuta da guerra e carestia, e portato da un legno in un lungo periplo fino a Genova e lì venduto come schiavo. Ebbe però la fortuna dalla sua parte, poté farsi riscattare e diventare il capostipite di una nobile famiglia, addirittura di un doge: la famiglia Durazzo (v. Valenti Durazzo 2012). E quanto a trafficanti e pirati sulla costa di Romagna, verso Forlì, si raccontò di un tale albanese Pietro Bianco che, lì approdato non si sa quando, aveva deciso poi di cambiare vita, da pirata farsi prete, e diventare il fondatore – addirittura – dell’attuale splendido santuario di Fornò (Buscaroli 1938)!

La realtà si rielabora nel tempo, si edulcora a volte, si reinventa, si traferisce nel leggendario. Avviene per piccole quotidiane vicende come quelle appena trascelte dalle tante adducibili dal serbatoio di scambi e incroci di genti. Tanto più ciò avviene se la rielaborazione serve ad alimentare il mito nel caso di grandi eventi o eccezionali azioni, se è funzionale a progetti politici di celebrazione della bontà e del buon governo di uno stato; così avvenne a Venezia dove maturò, si disse, il più grande laboratorio mitologico dell’occidente europeo. E Scanderbeg sul Bucintoro varato nel 1606 ne è caso emblematico.

4. Sul Bucintoro, memoria veneziana, memoria epirota

Ecco allora, riprendendo le fila del discorso iniziale, che acquista nuova simbolica sfaccettatura la statua del Molosso alle spalle di Astrea: le ripetute vittorie di Scanderbeg contro il Turco venivano sapientemente riprese a distanza di un secolo e mezzo, quando ancora era vitale la propaganda di Lepanto e della vittoria della Lega Santa, e la forza ottomana era in ripresa e si riaprivano scenari quattrocenteschi e inquietanti si facevano le prospettive di guerra con i Turchi all’attacco dell’Ungheria asburgica e della Croazia.

Il papa rilanciava il progetto di una nuova lega santa, premendo diplomaticamente su Venezia, Francia, Spagna. Venezia aveva sempre sul collo il fiato dell’armata turca, ma per tutelare gli interessi dei suoi commerci era altrettanto sempre interessata alla pace e quindi con Roma conduceva una politica di cauti impegni. La lotta al “barbaro infedele” rientrava sì nello stereotipo della pubblicistica veneziana, ma la ricerca del compromesso politico-militare continuava a ispirare la politica: all’indomani di Agnadello, nel maggio 1509, Sanudo registrava l’ipotesi allora caldeggiata che in difesa di Venezia si chiamassero addirittura gli stessi Turchi.

Dal tardo Cinquecento, all’indomani di Lepanto, le nuove fasi di aggressioni dei Turchi contro l’Occidente avevano rilanciato in tutta Europa l’interesse per antiche tappe di lotta della cristianità. Si erano moltiplicate allora le ristampe delle biografie scanderbegane, a Venezia come a Lisbona, come a Parigi a Basilea a Francoforte; nelle varie Gallerie di uomini illustri e valorosi di tutti i tempi rientrava di diritto Giorgio Castriota Scanderbeg. A Roma nel 1606, nello stesso anno di varo del Bucintoro, si stampava un poema (in seguito rielaborato): La Scanderbeide di Margherita Sarrocchi, amica di Galileo.

In terra albanese riprendevano fiato le nostalgie dei legami con Venezia, circolavano progetti e speranze, specie nelle chiuse aree cattoliche, di far rivivere una nuova stagione sotto la bandiera di Scanderbeg. Proprio mentre iniziavano i lavori in Arsenale del nuovo Bucintoro, nel 1601, dalle terre albanesi arrivano notizie di congiure e preparativi di sollevazioni contro i Turchi e a Venezia giungeva una delegazione albanese, di cui racconta Sagredo: si erano radunati “in una picciola città in Albania prossima al mare [...] nella chiesa dedicata a S. Alessandro […] i principali Vecchioni di quell’Armigera Nazione; centomila uomini”, di rito cattolico romano (un conto certo sovradimensionato) erano pronti a dar vita a una insurrezione contro i Turchi; si sarebbero messi a disposizione della Repubblica di Venezia, per rinnovare

[...] le antiche famose vittorie dell’invitto Scanderbeg; […] all’apparire dello Stendardo di San Marco sarebbero a gara accorsi a rassegnarsi per sacrificare e le vite e il sangue a riscatto della libertà (Sagredo, Memorie Istoriche de Monarchi Ottomani, Venezia 1673, 812-815).

Alle generose profferte era guardinga Venezia, che soppesava la proposta di un grande attacco congiunto veneto-albanese con molte riserve sulla capacità guerriera di popolazioni da troppo tempo asservite. Ma conta sottolineare che ancora a centocinquant’anni dalla sua scomparsa il nome di Scanderbeg si riproponeva al Senato veneziano, a garanzia di una eredità sempre da esibire da parte albanese. E conta sottolineare l’affezione allo Stato Veneto espressa da quella delegazione, pur volendo fare la dovuta tara a numeri e proponimenti. Al persino abusato ricordo del giuramento di Perasto bene si può accostare, si crede, sia pure in contesti tanto diversi e con la consapevolezza di utilitaristiche finalità, un misconosciuto 'rimpianto' albanese, albanese cattolico per la precisione, per il leone di San Marco. Tornano alla mente le parole del capo della resistenza della Scutari assediata nel 1478: “Conferamus nos tute intrepideque ad beatum Marcum”.

Porre sul Bucintoro, galleggiante Teatro della Memoria, la statua di colui che la pubblicistica corrente post Lepanto era andata esaltando come il “Flagello dei Turchi” era una abilissima mossa politica. Venezia tutelava sempre la sicurezza del suo mare, perseguendo innanzi tutto la pace, ma, se necessario, ricorrendo alle armi; l’antico grande combattente contro i Turchi, Scanderbeg, ormai divenuto eroe sovra nazionale, assicurava il secondo assunto e in quanto già vincitore per eccellenza su di essi fungeva da garante sulla riuscita di qualunque azione futura. In quel momento storico porre l’Athleta Christi sul nuovo Bucintoro era impegno, tutto teorico, con il papa e il fronte cattolico che voleva la nuova lega anti turca, era deterrente memento per le potenze europee, l’Impero e gli Asburgo, in primis, cui ricordare che l’Adriatico continuava a essere “Golfo” veneziano.

Il sottile avvedimento di giocare sul simbolico di una statua era diretto alla vecchia Europa più che alla Porta, cui erano totalmente estranee oziose questioni culturali di simboli e immagini di arte. Altrettanto, la scelta era funzionale alla politica interna propagandistica della Repubblica, perché per ogni veneziano, per ogni suddito, il Turco restava comunque il Nemico di sempre, il tradizionale ostacolo alle mire sul Levante. Il Molosso Scanderbeg ebbe dunque una parte di rilievo nella volontà di autorappresentazione mitografica di Venezia. Condivise la durata di vita di quel Bucintoro, sino alla fine fisica dello scafo maturato nell’arco di un secolo e nel racconto offerto dalla stipata simbologia della imbarcazione svolse un ruolo di spicco tanto per il popolo veneziano quanto per tutti gli illustri ospiti o visitatori che giungessero in città. Nonostante le testimonianze storiche, anche qui richiamate, sulla identità della statua gli studiosi che si occuparono del Bucintoro ne trascurarono del tutto la simbolicità, recuperata solo di recente negli studi sui rapporti tra Venezia e Albania, che parimenti hanno portato alla luce dati inediti sia sulle armi di Scanderbeg in Arsenale sia su testi teatrali che lo videro protagonista (Nadin 2019b; Nadin 2015).

Per ospiti e visitatori, dunque, la narrazione mitografica del galleggiante Teatro della Memoria, e in particolare di quella statua del Molosso, poteva continuare in stanze chiuse museali di quell’arzanà da cui era uscito.

5. Scanderbeg tra musei e teatri veneziani

Lì infatti, nelle “Sale alle Armi” era stato allestito un Pantheon per celebrare protagonisti della storia militare marittima di Venezia, con particolare riguardo ai combattenti nelle guerre contro gli Ottomani. E proprio in una di quelle sale si poteva vedere, tra altre esposte, anche la

Armatura di Scanderbeg, cioè di Giorgio Castriotto Principe dell’Albania, il quale fece guerra con l’Ottomano per 40 anni continui e la sua spada vittoriosa esiste sopra le Sale dell’Ecc.so Consiglio di X.

Scrisse Richard Lassels nel suo Voyage d’Italie:

On nous fit voir dans cet Arsenal l’épée et les armes du vaillant Scanderbeg Prince d’Albanie […].De cette épée étoit un fabre, et on l’appelle à Venise le fabre de Scanderbeg, [...] fort large, fort leger, fort peu épais et d’une longuer raisonnable, mais sa tempre est admirable, aussi bien que celle de son maître(cito dall’edizione Paris, 1682, vol. II, 281).

Dunque Scanderbeg era presente tra i Grandi del Museo dell’Arsenale di Venezia dove aveva avuto addirittura un suo fabbro personale, conosciuto correntemente come “il fabbro di Scanderbeg”, raccontava la guida che voleva di certo rendere vivace il tour utilizzando la voce di popolo. Un popolo che nei rancori anti turchi continuava a coltivare il mito di chi, alleato veneziano, era stato sempre capace di frenare l’avanzata del Barbaro.

La icona politica del Marte dell’Adriatico si rifrangeva dunque anche negli impasti umorali popolareschi di un novello Ercole/Orlando/Morgante e come tale infatti lo esaltava una commedia dell’arte così amata per decenni dal pubblico da arrivare a far concorrenza alle stesse commedie di Goldoni: Le glorie di Scanderbech con la libertà della Patria sotto Amurat Imperatore di Costantinopoli: movimentata era l’azione, con colpi di scena, castelli turchi, trombe di guerra e con uno Scanderbeg che, novello Daniele, addirittura ammansiva leoni. Un canovaccio che bene rispondeva a una politica dello spettacolo in cui si concretizzava, con tutte le ovvie mistificazioni propagandistiche, la liturgia statale della lotta contro il Turco, e dell’azione del fidato fortissimo antico alleato Scanderbeg (Nadin 2015).

6. Scanderbeg / Marte

Nel nuovo Bucintoro che venne varato nel 1728 la statua del Gigante Scanderbeg lasciava il posto a un più generico Marte, che comunque schiacciava coi piedi “il fiero nemico del cristianesimo già tante volte atterrato” (così lo descrisse l’anno dopo Luchini in La nuova regia su l’acqua nel Bucintoro nuovamente eretto, Venezia 1729).

3 | Sadeler-Solari, Il meraviglioso Bucintoro, 1619 (collezione privata); particolare: la statua di Scanderbeg.

Dunque resisteva nel nuovo Marte il ricordo di Scanderbeg e lo testimoniò Temanza: l’artigiano Michele Fanoli “lavorò molto con suo Figlio nel Bucintoro Ducale ed è tutta sua la Statua del Marte, o sia Scandarbec, che è sulla Prora” (Temanza 1963, 65). Era cambiato profondamente l’orizzonte politico di Venezia con la pace di Passarowitz che aveva concluso l’ultima grande guerra tra Impero Ottomano e Repubblica di Venezia; lo Stato da Mar si restringeva alle isole Ionie e alla Dalmazia, perse Creta e Morea. Tematiche bizantine e orientali entravano come predilette nel mondo culturale, ma i conflitti si scioglievano sempre più spesso in soluzioni lirico-musicali.

Antonio Vivaldi, che certo tante volte ebbe a vedere anche dalle finestre della sua abitazione prossima all’ospedale della Pietà il Bucintoro nel Bacino San Marco, aveva da poco composto il dramma per musica Scanderbeg, in cui la celebrazione del mitico Molosso lasciava il posto a componenti sentimentali delle varie coppie, prima quella di Scanderbeg e della moglie Donika.

Nei teatri però continuava il successo del canovaccio Scanderbech, gigante armato, tutto forza fisica, vincitore sui Turchi, e di lì a poco faceva il pieno di pubblico La Dalmatina di Carlo Goldoni, che in essa esaltava le forti azioni militari di schiavoni e stradioti e metteva in bocca alla bella protagonista Zandira, fatta schiava dai pirati e liberata dal compatriota Radovich, uno dei più travolgenti e coloriti elogi per quel

Leon generoso che dolcemente impera / Sì, quel Leone invitto che i popoli governa /
Con saper, con giustizia, e la clemenza alterna / Che sa premiare il merto, che sa punir l’audace, / che nel suo vasto impero fa rifiorir la pace.

Gli encomiastici versi goldoniani fanno tornare alla mente le parole asciutte ma colme di fiducia che avevano convinto gli assediati albanesi di Scutari a lasciare la loro città ceduta ai Turchi, per raggiungere le spiagge, imbarcarsi sulle galee, come tanti altri dalle terre balcaniche, cercare libertà e ricevere accoglienza: “Conferamus nos tute intrepideque ad Beatum Marcum”. A loro aveva risposto il Senato con una mirabile politica di integrazione ancor oggi testimone di una etica di scambi materiali e culturali rispettosi e amici tra le diversità della storia:

Le iusta e conveniente cossa dar tal expedition a questi Scutarini venuti qui, che al conspecto del nostro Signor dio et a presso tutto el mondo el stado nostro non possi iustamente esser caluniado e che loro povereti intendano per nui esserli facte quelle provision che sono rexonevele (Archivio di Stato di Venezia, Deliberazioni, Senato Mar, reg. 11, c. 38, 28 giugno 1479. Cfr. anche Plasari 2010, con bibliografia completa e aggiornata degli studi su Scanderbeg, in corso di traduzione in lingua inglese; e Plasari 2019).

A diritto dunque anche l’Albania era entrata nel crogiolo di rielaborazioni mitografiche della Serenissima, arrivando fino agli onori di quel Bucintoro che, come ebbe a dire Goethe, era come un mobile di antiquariato, per ricordare quello che i Veneziani erano o si lusingavano di essere. Il Gigante Molosso, il Marte Scanderbeg entrò nella memoria collettiva marciana portandovi il ricordo di un paese ritenuto così strategico nello Stato da Mar che, anche dopo la sua perdita, Venezia continuò a denominare Albania Veneta quel breve tratto di costa delle Bocche di Cattaro in cui si erano ristretti i confini dell’antica Albania Propria.

Nello stesso tempo, il Gigante Molosso, il Marte Scanderbeg sul Bucintoro liberava e risarciva, con la pienezza del mito, la illustre memoria epirota, quella che la contingenza della storia aveva oscurata nelle rotte di esodi in mare.

Fonti in ordine cronologico
  • Archivio di Stato di Venezia, Deliberazioni, Senato Mar, registro 11, 28 giugno 1479.
  • Marinus Becichemus Scodrensis Viris Excellentissimis et Praestantissimis Antonio Calbo Dominico Trivisano Equiti et Laurentio Priolo Sanctissimis V.R.P. Advocatoribus salutem, Venezia, Biblioteca del Museo Correr, Cod. Cicogna 3204/20, fine XV secolo.
  • Marinus Becichemus Scodrensis ad Serenissimum et praestantissimum Principem Augustinum Barbadicum Illustrissimum Venetorum Ducem, Venezia, Biblioteca Marciana, Ms Lat. XIV, CLXXIII (4574), fine XV secolo.
  • Marinus Barletius, De obsidione Scodrensi, Venezia 1504.
  • Marinus Barletius, Historia de vita et gestis Scanderbegi Epirotarum Principis, Roma [1510 ]; in traduzione italiana, Venezia 1568.
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English abstract

In 1606, a new ‘Bucintoro’, the Doge's legendary boat, a floating Theatre of Memory, was built in Venice. A large sculpture on the prow, behind that of Venice-Justice, represents Giorgio Castriota Scanderbeg, Prince of Epirus, modern Albania; it was commonly called ‘The Giant’. No one has ever investigated its meaning. In this article, the reasons for positioning it on the prow are explained both in relation to the specific historical 'post-Lepanto' period, and the new Ottoman pressure on Western Europe and the 'Stato da Mar' of Venice, and to the historical framework of economic and political connections between Venice and Albania in existence since the 14th century.

keywords | Albania; Venezia; Scanderbeg; Bucintoro.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo: Lucia Nadin, Tra gli allori di Venezia. L’Albania e Scanderbeg sul Bucintoro, “il più superbo naviglio” al mondo, “La Rivista di Engramma” n. 174, luglio/agosto 2020, pp. 231-247. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.174.0008