"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

177 | novembre 2020

97888948401

L’indimenticabile Gertrud Bing

Kurt W. Forster, traduzione di Giulia Bordignon

 Testo originale inglese | English abstract

Nel 1959, da giovane studente di Zurigo vissuto per un po’ di tempo lontano da casa solo a Berlino e Monaco, avevo fatto i bagagli diretto a Londra per l’estate. Stavo preparando la tesi sul pittore fiorentino Jacopo Pontormo e avevo una certa familiarità con l’Italia, ma conoscevo molto meglio Londra, dove ero stato mandato l’ultimo anno delle superiori per rimediare a continui brutti voti in inglese. Come per tanti miei coetanei, solo la lingua francese mi sembrava promettere una vita intellettuale a cui aspirare, in un paese di montagna che ospitava vecchi hotel e gallerie ferroviarie. A partire dal mio primo soggiorno a Londra nel 1954, appena finiti i razionamenti postbellici, ero riuscito a giustificare altri viaggi di ritorno in Inghilterra a mio padre, che sospettava qualche britannico sotterfugio nell’attrazione che avevo fin da subito provato per l’isola universalmente stimata per la sconfitta della Germania. Già durante il mio primo viaggio, nel giro di pochi giorni Londra aveva completamente stravolto la mia visione adolescenziale della cultura: mi aveva fatto abbandonare l’infatuazione per la Francia, per farmi invece rivolgere alla poesia di T.S. Eliot e ai programmi dei concerti alla Wigmore Hall. Con il mio budget non potevo permettermi più delle Lyons Tea Houses [n.d.t.una catena di grandi sale da tè, popolare a Londra fino agli anni Settanta], ma i musei erano immensi e a ingresso gratuito: lì le caffetterie erano anche peggio, ma le istituzioni museali facevano totale affidamento sulle opere esposte. I dipinti di cui ero innamorato erano i Pontormo che allora si trovavano ancora a Henfield (Sussex), Totes Meer di Paul Nash, e il Giardino marocchino di Matisse alla Tate. E dove altro si sarebbero potuti trovare un tavolo per lo studio, una ricchissima biblioteca, e gli immensi tesori della British Library dietro l’angolo, se non al Warburg Institute da poco trasferito in Woburn Square?

Lì, a uno degli austeri tavoli di lettura, avevo potuto mettermi in attività, accumulare libri (lasciando al loro posto sugli scaffali un cartoncino con il mio nome) e studiarli con cura, copiando tutto a mano. Non c’erano macchine per le fotocopie. L’impegno tutto personale della trascrizione trovava un corrispettivo nelle ampie sale aperte in cui, per andare alla ricerca di qualsiasi libro si intendesse esaminare, era necessario un filo di Arianna: i piani dell’Istituto – fatta eccezione per il seminterrato con le consuete collezioni di riviste – risucchiavano in un labirinto senza fine. Dopo un’iniziale sensazione di urgenza, il tempo rallentava al ritmo del girare delle pagine e poi a quello del lento spostarsi da uno scaffale all’altro, per scadere infine all’ora di chiusura, quando si doveva dare la buonanotte alla propria postazione di studio.

Ero al Warburg Institute da un paio di settimane, quando aveva preso piede dentro di me la sensazione di non farcela: non sarei mai riuscito a finire il mio lavoro prima di tornare a Zurigo in autunno. Tutto era organizzato ai fini dell’efficienza: stavo in un alloggio per studenti in Tavistock Road, non perdevo un attimo di tempo durante gli orari di apertura dell’Istituto, trascorrevo i fine settimana nei musei e le sere ai concerti. Ma solo venendo alle prese con i problemi del Manierismo – così come erano dibattuti allora, decenni dopo essere stati posti nel primo dopoguerra – le dimensioni del mio tema di ricerca avevano cominciato a diventarmi chiare. Mi sentivo in alto mare. Non volevo adottare i termini con i quali l’idea di “arte manierista” aveva preso forma, ma mi rendevo conto che erano necessarie altre parole per plasmare un’interpretazione storico-artistica in grado di dare spazio a ciò che era stato erroneamente etichettato come manifestazione di “distorsione”, “alienazione” e “ansia”: erano questi i termini usati per spiegare i tratti incongrui e bizzarri dell’arte e dell’architettura nell’epoca di Pontormo (1494-1556), sia in Italia che nel Nord Europa. Da sempre affascinato da Albrecht Dürer (le cui xilografie, durante la mia giovinezza, comparivano regolarmente tra le pagine della stampa popolare), mi ero imbattuto in un saggio sulla divinazione pagana nell’età di Lutero, Heidnische Weissagungen zu Luthers Zeiten. Ero rimasto senza parole, e avevo cominciato a interrogarmi sui risvolti astrologici nell’arte fiorentina, scoprendo che Cosimo I aveva un astrologo di corte e che in molti erano rimasti soggiogati dalla fede superstiziosa nelle congiunzioni astrali legate al manifestarsi di importanti eventi storici.

Proprio mentre mi stavo perdendo in queste divagazioni, una mattina tardi, una signora si era chinata accanto a me, dicendomi vicino all’orecchio: “Na, Junger Mann, was machen Sie hier?” (“Allora, giovanotto, che sta facendo qui?”). Da anni nessuno si rivolgeva più a me in modo così diretto e inatteso, e mi ci era voluto un attimo di tempo per rispondere. Quella signora era Gertrud Bing, allora impegnata nei suoi ultimi mesi di direzione del Warburg Institute. Di lei mi aveva parlato lo studioso che mi aveva permesso di accedere all’Istituto come lettore fornendomi anche del tesserino di riconoscimento, ma nella mia ignoranza del Warburg Institute e della sua storia non sapevo nulla di Bing – non avendo mai nemmeno sentito nominare Warburg in tutti i miei anni da studente a Berlino, Monaco e Zurigo – né tantomeno avevo preso nota della sua edizione delle Gesammelte Schriften di Warburg che, prima di scovare il saggio sui prodigi astrologici in volantini e pronostici, era stato per me un libro avvolto da un sacrale mistero. Capelli corti ma folti, occhi vividi dietro gli occhiali tondi, con la sua andatura Bing emanava un’energia giovanile mentre si allontanava disinvolta. Da allora non avrei più mancato di prestare ascolto, anche da lontano e da un piano all’altro, a quello che mi sembrava il gioioso risuonare dei suoi passi.

Bing era in attesa di sentire i miei progetti, e io avevo farfugliato per un po’ fino a quando non mi aveva chiesto di andare nel suo ufficio, dandomi la possibilità di riordinare i miei pensieri: avevo sostenuto in modo vago di essere interessato all’antropologia del Manierismo, al milieu di quei pittori fiorentini e alla loro vita appartata, allo spirito saturnino di quel Pontormo criticato da Vasari per il comportamento e le inclinazioni da misantropo. Quando avevo menzionato lo studio di Warburg sulle Heidnische Weissagungen, il viso di Bing si era illuminato – in modo sorprendente per un volto la cui luminosità già era palpabile – e, anziché insistere sul tema, aveva rapidamente aggiunto che avrei dovuto perseverare nei miei interessi di ricerca. La nostra conversazione si era conclusa su questa gentile nota di incoraggiamento, che in precedenza non avevo mai ricevuto da nessuno dei miei docenti universitari. Solitamente i loro commenti erano da considerarsi ‘correzioni’ e ‘istruzioni’, mentre Bing aveva manifestato uno spirito affatto diverso: le sue parole avevano una sfumatura di sorpresa (per il fatto che io avessi menzionato quel saggio di Warburg) e il suo incoraggiamento suonava proprio come se avesse detto: “Non mi aspettavo che mi avresti parlato di questo, ma visto che lo hai fatto, tirane fuori qualcosa di buono”.

Le parole di Bing nascevano da una profonda comprensione degli interessi ricerca e, in modo forse ancor più straordinario, da una sottile sensibilità per la relazione sempre problematica tra ricerca e vita. Se oggi posso dire di aver pubblicato – cinquant’anni dopo l’estate del 1959, nell’autunno del 1999 – l’edizione inglese degli scritti di Aby Warburg (The Renewal of Pagan Antiquity. Contributions to the Cultural History of the European Renaissance, introduzione di Kurt W. Forster, traduzione di David Britt, Los Angeles, Getty Research Institute, 1999), ho la sensazione che si sia trattato, più che un risultato personale, del compiersi di una profezia mai pronunciata. Questa edizione – il volume fino a quel momento più consistente della serie Texts & Documents a cui avevo dato inizio al Getty Research Institute – è stata per me un modo di fare i conti con quella lontana estate, quando era avvenuto uno di quei rarissimi incontri che non solo mettono in corrispondenza due menti, ma mettono anche in congiunzione due percorsi di esplorazione scientifica. Se si potesse immaginare una sorta di ‘gioco della campana’ disciplinare nella storia della Kulturwissenschaft – un senso di concatenazione tra l’ultimo soggiorno di Warburg a Roma e la sua conferenza alla Biblioteca Hertziana nel 1929, passando per la conclusione della direzione dell’Istituto Warburg da parte di Bing nel 1959, fino all’edizione inglese di quelle ricerche misconosciute – ciò che ne salterebbe fuori sarebbe un mix tra l’incoraggiamento di Bing nei miei confronti (dopo tanti scoraggiamenti, ovviamente) e il senso di ‘affare in sospeso’ nei confronti di Warburg della stessa Bing.

Il rispetto che ho provato per Gertrud Bing mi fa venire in mente un’altra esperienza di gioventù che mi ha dato la sensazione di essere baciato dalla fortuna: alle superiori avevo optato per il liceo e, sin dall’inizio, ero stato affascinato dalla mia insegnante di latino Marie-Louise von Franz. La scuola si trovava tra la villa di C.G. Jung a Küsnacht e la sobria casa sul lago di von Franz, che di solito arrivava per le lezioni in una vecchia Balilla decapottabile con la quale si fermava a pochi centimetri dall’edificio scolastico, per poi correre di sopra, piazzare il libro sulla cattedra e iniziare la lezione con tono distaccato, ma con infinita pazienza per i nostri incerti tentativi nel mettere insieme le frasi in latino, o più spesso nel suddividerle, alla ricerca del verbo reggente capace di dare ordine e significato. Ogni volta che è stata menzionata, Gertrud Bing è sempre comparsa in veste di assistente di Warburg e collega di Fritz Saxl – con un’ingiusta qualifica del suo vero ruolo – in modo non dissimile dal contributo sostanziale che Marie-Louise von Franz ha dato al lavoro di Jung, inclusa la sua biografia del ‘maestro’. Marie-Louise von Franz era parecchio più giovane di Gertrud Bing ma aveva una personalità altrettanto forte, con una mentalità molto pratica e tuttavia sapiente nel comprendere la natura umana. Mi aveva fatto capire come l’ambiente borghese in cui ero cresciuto mi avesse impedito di vedere certe cose, anche dentro me stesso, e che dovevo affrontare la questione facendo qualcosa a riguardo, proprio come molti anni dopo, con la stessa tempestività, Bing mi avrebbe allertato su possibilità di ricerca che nei miei studi – di stampo convenzionale nel dopoguerra, con professori come Hans Sedlmayr (Monaco), Gotthard Jedlicka e Peter Meyer (Zurigo) – erano rimasti come vuoti da colmare. Bing, allontanandosi per un attimo dalle sue responsabilità e rivolgendo con generosità alcune parole a un perfetto sconosciuto, non solo aveva cambiato il modo in cui mi stavo occupando degli ‘affari miei’, ma mi aveva anche virtualmente consentito di non fidarmi del modo in cui nella ricerca storico-artistica ci si occupava degli ‘affari di ordinaria amministrazione’. Ci è voluto del tempo per correggere la rotta, soprattutto negli Stati Uniti, dove per altro un’élite di storici dell’arte emigrati dall’Europa ha gettato le basi di un ambito di ricerca che ancora oggi si trova a fronteggiare delle sfide.

English Abstract

In this text, Kurt W. Forster recalls first meeting Gertrud Bing as a young student from Zurich when he visited the Warburg Institute in London. His personal recollection of this important encounter is also accompanied by his recollection of another - with Marie-Louise von Franz, a pupil and collaborator of C. G. Jung, a woman whose personal profile is comparable to that of Bing.

keywords | Gertrud Bing; Warburg Institute; Marie-Louise von Franz.

Per citare questo articolo/ To cite this article: K.W. Forster, L'indimenticabile Gertrud Bing, “La Rivista di Engramma” n. 177, novembre 2020, pp. 173-177 | PDF of the article