"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

“San Rocco”, 2010/2019

Paolo Carpi

English abstract

“San Rocco”, copertine dei numeri 0 (Summer 2010), 1 (Winter 2010), 2 (Summer 2011), 3 (Winter 2011).

“San Rocco” era una rivista di architettura, nata nel 2010 e morta nel 2019. Quando studiavo storia dell’architettura all’università, il mio esercizio preferito era quello delle date di nascita e di morte degli architetti (dicevo: “giochiamo a nato/morto?”). Da anni medito di realizzare un’opera d’arte basata solo sulle date di nascita e di morte di personaggi storici. Ma nel caso di “San Rocco”, più che quando, credo che sia significativo dire come la rivista è nata e anche come è morta (dato che in realtà non è del tutto morta). La nascita e la morte sono i momenti più intimi della vita, anche di quella di una rivista: tra quei due momenti c’è l’unica cosa veramente importante, cioè la rivista stessa, che può sempre essere presa in mano, sfogliata, letta e quindi facilmente giudicata dal pubblico. La nascita e la morte, invece, si sottraggono allo sguardo e allora, forse, parlarne può essere di qualche utilità.

Società in Nome Collettivo

Il n. 0 di “San Rocco” è stato presentato a Venezia il 27 agosto 2010, ma prima che come rivista, “San Rocco” era nata come società. La “San Rocco s.n.c. di Ghidoni Matteo & C.” è stata fondata nel più convenzionale dei modi – nello studio di un commercialista di Vicenza – l’1 ottobre del 2009, da quindici persone, tutte italiane e di età compresa tra i 30 e i 40 anni. Ad eccezione di due fotografi, tutti gli altri soci facevano già parte di ulteriori entità collettive: 2a+p/a, baukuh, Pupilla Grafik e Salottobuono. Anche Office KGDVS e Atelier Kempe Thill parteciparono al concepimento, alla gestazione, alla realizzazione e alla promozione della rivista, senza entrare nella società. Tutte le decisioni fondamentali sulla rivista erano già state prese ancor prima di fondare la società, in una riunione che si svolse a Venezia intorno alla primavera del 2009: il nome, la durata limitata a 5 anni, i temi dei 20 numeri previsti, il meccanismo del call for papers, il fatto che sarebbe stata cartacea e in inglese – quello che a posteriori avremmo chiamato “primo piano quinquennale”.

L’idea di fondare una rivista risale ad un periodo ancora precedente, quando ci capitava di parlarne al bar, all’università, durante delle gite o a margine di concorsi fatti a più mani. A quel tempo era fin troppo facile accorgersi del vuoto lasciato dall’editoria di architettura tra le riviste commerciali – che galleggiavano sulla superficie patinata dell’attualità – le riviste accademiche – immerse in profondità a cui pochi potevano o volevano scendere – e le riviste “sperimentali” – attratte dalla periferia della disciplina, se non da ciò che stava oltre i suoi confini. Invece di ritagliarci un angolino in cui pascolare beatamente, abbiamo deciso di metterci nel mezzo di questa prateria abbandonata per dire, con il tono e il volume imposti da quel vuoto, poche cose che ci sembravano importanti e di interesse generale. Ne scegliemmo 20: 20 temi di cui prima volevamo affermare l’importanza e su cui dopo – subito dopo – volevamo aprire una discussione, ovvero accumulare opinioni. Per noi, “San Rocco” era il luogo in cui riflettere su cose che apparentemente non interessavano a nessuno, ma solo apparentemente. 

Molte delle persone con cui avevamo parlato della rivista e che non erano al tavolo con noi quando la fondammo, furono nominate come possibili collaboratori, sostenitori, sponsor o lettori. Eravamo sicuri che attorno a quel tavolo avremmo potuto essere molti di più, che la rivista avrebbe interessato molte altre persone. In un certo senso, abbiamo fondato “San Rocco” per conoscere le persone che in quel momento non c’erano. “San Rocco” è servita per contarci. Al momento della fondazione, i soci della “San Rocco s.n.c.” versarono il capitale appena sufficiente per stampare 800 copie del n. 0, da usare per raccogliere adesioni e per cercare un editore, che non trovammo. Nostro malgrado, “San Rocco” sarebbe stata una rivista auto-prodotta, ma non per questo avrebbe dovuto essere auto-referenziale. La rivista che avevamo in mente era innanzitutto un oggetto, un prodotto: in quanto tale, si sarebbe dovuta confrontare con il mercato e noi non avevamo nessuna intenzione di sottrarla a quel confronto. Avevamo deciso di metterci nelle condizioni di avere bisogno di un pubblico e questa scelta condizionò il nostro modo di fare la rivista.

Organizzazione

La “San Rocco s.n.c.” costituì la fondamentale base giuridica della rivista, ma non la sua base organizzativa. “San Rocco” era fatta dai producers, che coincidevano solo in parte con i soci della società. Tutti i producers – chi più, chi meno, anche a seconda dei periodi – partecipavano alle riunioni di redazione nelle quali venivano selezionati gli articoli da pubblicare, veniva discusso il tema del numero successivo, venivano pianificate le attività collaterali della rivista e si prendevano le decisioni di carattere economico. Mentre i producers lavoravano dietro le quinte, i contributors – gli autori degli articoli – erano i protagonisti della rivista. I contributors di “San Rocco” erano un gruppo davvero eterogeneo: architetti, storici dell’architettura, critici, accademici vari, studenti, artisti. Le loro età e provenienze geografiche erano le più disparate. Alcuni erano famosi, altri erano sconosciuti. Spesso i producers vestivano anche i panni dei contributors. La rivista, gli studi, i soci della s.n.c., la redazione, i producers e i contributors (senza contare gli sponsor, i donors, i friends e gli inserzionisti) costituivano delle scatole cinesi, un sistema intricato di sottoinsiemi che rendeva “San Rocco” una nebulosa indecifrabile. Anche se questa opacità non era il frutto di un piano studiato a tavolino, la nebbia che avvolgeva la paternità di “San Rocco” era significativa: il piano quinquennale era stato stabilito a priori e a tutti noi interessava solo che il piano venisse attuato, non chi lo attuasse. I producers erano gli anonimi operai di “San Rocco”.

All’interno della rivista non è mai esistita alcuna gerarchia. I rapporti di forza che esistevano (eccome) all’interno della redazione non derivavano dalle rispettive cariche ufficiali ma dalla forza propositiva, dalla lucidità e dalla capacità dei singoli di convincere gli altri. Naturalmente, ognuno di noi si è preso la responsabilità degli articoli che ha firmato ma la rivista nel suo complesso è sempre stata il frutto di una responsabilità condivisa. “San Rocco” era un progetto collettivo: l’organizzazione che ci eravamo dati era collettiva e i nostri obiettivi erano comuni. Nessuno di noi si è mai preoccupato di far valere pubblicamente il proprio ruolo reale all’interno della redazione. La collegialità di “San Rocco” è forse la sua caratteristica principale, che incarnò e dalla quale discesero tutte le altre. Del resto, se quel che abbiamo fatto ha avuto un senso, è stato proprio questo: affermare che l’architettura è un sapere pubblico, condiviso, collettivo. Per “San Rocco” l’universalità era sia una premessa che un obiettivo dell’architettura.

Disparatezza

Lo sforzo maggiore di “San Rocco” – e forse anche il suo maggior merito – è stato quello di sostenere l’universalità dell’architettura con leggerezza. Nell’editoriale del n. 0 avevamo scritto: “San Rocco is serious” e “San Rocco is not serious”. Come è abbastanza evidente sfogliando i vari numeri, ci siamo sforzati di includere nella rivista tutta l’architettura possibile. Una volta un architetto, Giovanni La Varra, si disse molto colpito dalla disparatezza che ne risultava, avvertendoci del pericolo di sconfinare nell’eclettismo (ma su questo punto andatevi a leggere le ultime righe dell’ultimo articolo di “San Rocco” n. 4). Altre volte ci è stato rimproverato di aver assemblato questo “mondo disparato” a discapito della precisione e ogni tanto anche della correttezza. In effetti, pur di includere, talvolta abbiamo dovuto fraintendere e questa nostra tendenza al fraintendimento – per la verità più sbandierato che realmente praticato – è stata scambiata da alcuni per banale ignoranza. Ma il fraintendimento è una pratica tipicamente architettonica: fare architettura significa essere pronti ad usare per i propri fini qualsiasi architettura esistente, al di là dei suoi presunti significati originali (e in questo Grassi, con la sua tendenziosa traduzione di Tessenov, è stato ancora una volta maestro). In fondo si tratta sempre di costruire la nostra città con quel che c’è, anche se quel che c’è era stato costruito per qualcos’altro. Per questo era così importante avvertire che “San Rocco is written by architects”, gente che di mestiere manipola la realtà.

Almeno in architettura, universale e collettivo, anonimo e aperto, complesso e rigoroso, eterogeneo e unitario vanno a braccetto. In “San Rocco”, “a magazine about architecture”, abbiamo cercato di adottare e fare emergere i meccanismi e le regole del nostro oggetto di interesse, dando alla rivista una struttura coerente con i suoi presupposti teorici e strumentale al raggiungimento dei suoi fini: costruire una teoria dell’architettura che considerava (e considera ancora) tutto il patrimonio dell’architettura, tutte le architetture prodotte nella storia, come materiale di discussione e di lavoro immediatamente disponibile e attuale, ovvero come patrimonio interamente pubblico e comune. Certo, il nostro punto di vista su questo patrimonio era particolare e discutibile, perché pretendeva di vederlo come un’opportunità, come una risorsa da usare e da spendere più che come un bene da interpretare correttamente e da custodire sotto una campana di vetro.

“San Rocco” era fatta da architetti, non da storici, teorici o scrittori professionisti. L’inadeguatezza di “San Rocco” di fronte alla costruzione di una teoria determinò la sua strategia per costruirla. Il call for papers era lo strumento principale di questa strategia: il tema di ogni numero era inquadrato da un editoriale e sviluppato attraverso una serie di casi. Il pragmatismo e l’ambiguità dei singoli casi architettonici attribuivano una certa concretezza alle affermazioni squisitamente teoriche dell’editoriale e anche quella complessità che è intrinseca nel fatto stesso di parlare di architettura. Viceversa, le parole dell’editoriale attribuivano un’unità altrimenti impalpabile all’eterogeneità dei casi. Raramente i casi esposti nel call for papers si tramutavano in articoli. Di solito i contributors attingevano dal proprio deposito personale di casi e ne proponevano di nuovi e imprevisti. Il call for papers era una macchina per accumulare un patrimonio comune. La veste grafica di “San Rocco”, scarna e rigorosa, era fatta per tenere a bada – letteralmente per ingabbiare – la disparatezza dei contributors, degli articoli e dei loro soggetti. Era una cornice robusta e discreta in grado di accogliere con disinvoltura fumetti da sbellicarsi dalle risate e pagine autenticamente drammatiche, tabelle e saggi fotografici, articoli lunghissimi e cortissimi. In “San Rocco” c’era un po’ di tutto, ma tutto era ricondotto con cura a quell’unità che – almeno secondo noi – gli era propria.

Cover

La tendenza di “San Rocco” ad occultare i nomi, la sua avversione programmatica alle firme e agli autori, ha trovato una manifestazione esplicita nella copertina della rivista. Alla riunione con le prime bozze di impaginazione ci fu una discussione molto accesa sull’opportunità di omettere la testata. Una evidente consuetudine pretendeva – e presunte ragioni commerciali suggerivano – che in copertina comparisse il nome della rivista, possibilmente a caratteri cubitali. Nessuno di noi aveva una particolare avversione per le consuetudini, né per i risvolti commerciali della nostra impresa. L’eliminazione della testata dalla copertina non fu un gesto rivoluzionario. La scelta fu fatta semplicemente perché senza testata la copertina era palesemente più bella. Le assonometrie nere in campo bianco avevano una forza che una scritta avrebbe compromesso e avevano anche una chiarezza a cui il nome della rivista – con quel sapore da presepe – non poteva certo contribuire. La scelta di eliminare il nome della rivista dalla copertina fu una scelta forte, quasi iconoclasta, e fu proprio questo a convincerci: era chiaro che se volevamo usare “San Rocco” per affermare una precisa – nuova quanto vecchia – idea di architettura, sarebbe stato necessario essere radicali. Se volevamo che “San Rocco” assumesse il ruolo della rivista di tendenza (minuscolo), dovevamo essere disposti a immolare qualcosa sull’altare delle apparenze. Tutte le nostre idee dovevano materializzarsi nel nostro prodotto perché i nostri obiettivi potevano essere raggiunti solo collettivamente e per questo era indispensabile esibirli.

Dopo avere scartato una serie di ipotesi tipografiche molto raffinate, decidemmo che in copertina doveva esserci una cosa rudimentale come l’assonometria egizia di un edificio, nera. Col passare del tempo, queste assonometrie sono diventate il marchio di fabbrica di “San Rocco”. In quanto marchio di fabbrica, non appena la rivista cominciò ad avere un certo successo, le assonometrie nere cominciarono a spuntare un po’ ovunque come funghi, quasi avessero acquisito l’aura del toccasana, il potere della bacchetta magica che trasforma le zucche in carrozze, un po’ come i timpani che comparvero sui centri commerciali degli anni ’90. Per quel che può valere dirlo, per noi le assonometrie nere avevano due obiettivi. Primo: dare alla rivista un’immagine super riconoscibile e brutalmente seducente. Secondo: uniformare i pezzi del mondo disparato, mettendo su un unico piano edifici completamente diversi tra loro. Attraverso le assonometrie nere la piramide di Snefru, gli Uffizi, il Pacific Design Center e il centro parrocchiale di Pieve Emanuele tornarono a far parte di quel mondo al quale in realtà erano sempre appartenuti e che per noi coincideva con la definizione di architettura.

Nate per assolvere questi due compiti specifici, le assonometrie nere diventarono dei disegni convenzionali, pronti ad assolvere compiti diversi da quelli per i quali li avevamo codificati. Noi, che ci eravamo posti l’obiettivo di riconsiderare l’architettura in quanto deposito di cose realizzate con la consapevolezza che saranno riutilizzate – chissà quando, da chi e come – non avremmo potuto che gioire del desiderio di appartenenza che la diffusione di quei disegni esprimeva, anche se si trattava di un desiderio modaiolo, superficiale e conformista. Del resto, noi stessi non avevamo esitato a usare le assonometrie nere per fare delle magliette super hipster. In fondo si trattava solo del modo più commerciale di fare la cosa che ci eravamo sforzati di fare fin dall’inizio attraverso le presentazioni, le mostre, la “Summer School San Rocco” (SSSR...!) e il Book of Copies: allargare con ogni mezzo la nostra community. Nelle interviste e nelle presentazioni dicevamo spesso che “noi stessi siamo i lettori ideali di San Rocco”. L’obiettivo di “San Rocco” è sempre stato quello di allargare il più possibile il significato di “noi”.

Le ciabatte di Prada

“San Rocco” cominciò a morire proprio nel periodo in cui ci accorgemmo che – fatte le dovute proporzioni – le assonometrie nere cominciavano ad apparire a sproposito un po’ ovunque, come le ciabatte di Prada al bazaar di Instanbul. A quel punto, ci rendemmo conto che “San Rocco” era riuscita ad aprire uno spiraglio attraverso cui era di nuovo possibile vedere al di là dello spazio angusto in cui l’architettura stava soffocando, schiacciata tra il “funzionalismo ingenuo” e le cabine dell’Elba, tra il green washing e le atmosfere, tra i render e gli schizzi. In quel nuovo orizzonte, frasi come “my concept is... m&m’s” apparivano in tutta la loro stupidità, il contesto smetteva di essere una preoccupazione da sfigati, sistemi di rappresentazione consolidati da secoli tornavano a brillare. L’abate Laugier veniva finalmente riconosciuto come un pericoloso ciarlatano e cominciava ad essere chiaro che copiare non è disdicevole e che dichiarare la genealogia dei propri progetti è solo una questione di umiltà e di buona educazione. Bene inteso: tutto ciò non fu un miracolo di “San Rocco”. Solo, “San Rocco” fu uno degli strumenti con cui certe posizioni teoriche riuscirono ad acquisire la massa critica necessaria per emergere e per essere attraenti.

Quando i segni del successo della rivista cominciarono ad essere evidenti, iniziammo a pensare che “San Rocco” avesse assolto il suo compito storico. Dopo più di 5 anni di lavoro, ma meno di 20 numeri della rivista, era giunto il momento di tenere fede alla promessa che avevamo fatto nel n. 0: “San Rocco will not last forever”. Non è facile rinunciare ad un prodotto le cui vendite sono in crescita, ma “San Rocco” non era un brand di moda e il fatturato non era la nostra prima preoccupazione. Così, intorno al 2019, quando iniziammo a considerare compiuto il nostro primo piano quinquennale, decidemmo di pubblicare l’ultimo numero della rivista e allo stesso tempo di lanciare il secondo piano quinquennale. Entrambe le iniziative erano indizi del fatto che “San Rocco” non sarebbe del tutto morta. Il secondo piano quinquennale rappresentava un tentativo di compiere un passo avanti nella scala evolutiva dei prodotti editoriali, dalla rivista ai libri. Le informazioni relative alle tre collane che abbiamo immaginato sono facilmente reperibili sul sito web di “San Rocco”. A rigore, il secondo piano quinquennale è ancora vigente e una schiera di autorevoli autori non aspetta altro che si palesi un editore desideroso di sfruttare il potenziale economico di quel che c’è sulle punte delle loro penne.

Insieme al 2nd five-year plan, il 26 giugno 2019 presentammo “Muerte” alla Triennale di Milano. Il call for papers dell’ultimo numero della rivista era abbastanza divertente perché era finto – trattandosi appunto dell’ultimo numero. Al posto di un vero call for papers pubblicammo quello che chiamavamo “il call dei call”: una lista molto rozza di tutti i numeri di “San Rocco” che avevamo pensato di pubblicare e che avevamo deciso di non pubblicare. Come scrivemmo nelle righe che la introducevano, con un po’ di buona volontà sarebbe ancora possibile estrarre da quella lista un’altra ventina di numeri di “San Rocco”. Naturalmente, non ci offenderemmo se qualcuno – chissà chi, chissà quando, chissà come – volesse davvero raccogliere quel nostro invito a dare vita ad un’odiosa “San Rocco” 2.0. Del resto, non è un caso che le ultime parole dell’ultimo articolo dell’ultimo numero della nostra “San Rocco” siano “yet never finished”.

“San Rocco”, copertine dei numeri 4 (Summer 2012), 5 (Fall 2012), 6 (Spring 2013), 7 (Summer 2013). 

English abstract

The article retraces the editorial history of “San Rocco” magazine, outlining its ideas, along with its curatorial and philosophical inclinations towards architecture and the way that architectural projects are presented.

Keywords | “San Rocco”; Architectural Magazine; Axonometry.

Per citare questo articolo / To cite this article: Paolo Carpi, “San Rocco”, 2010/2019, “La Rivista di Engramma” n. 188, gennaio-febbraio 2022, pp. 297-305 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.188.0014