"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

192 | giugno 2022

97888948401

Un dragonesco Giorgio nella cattedrale della Recherche

San Giorgio di Mantegna nel Cahier 46 di Sodome et Gomorrhe

Chiara Italiano

English abstract
1. Albertine: un Verde Giorgio?

1 | Andrea Mantegna, San Giorgio, datazione incerta (1446-60?), Gallerie dell'Accademia di Venezia.

Scrivendo la Recherche, un’opera in cui “il cielo si spopola, [e] il sacro rifluisce sulla terra” (Girard [1961] 2009, 56), Proust pensa a un’opera architettonica complessa, ricca, elaboratissima: una cattedrale, come scrive lui stesso a Jean de Gaigneron nel 1919 (Proust [1871-1922] 1990, 359). E se ogni cattedrale ha le sue nicchie e le sue cappelle, dovremmo allora aspettarci altrettanto dalla Recherche, da questa cattedrale di carta pervasa da un peculiare senso del divino, che si incarna, in particolare, in figure femminili, e prende forma fondamentalmente in una trinità dolce e tremenda, composta dalla nonna, dalla madre e da Albertine. E ad Albertine vogliamo qui dedicarci, o meglio, a quella nicchia, all’interno della vasta cattedrale proustiana, che è consacrata a un volto tra i tanti che la fanciulla in fiore, la dea del Tempo, assume nella Recherche.

Albertine è una revenante che si fa immagine del desiderio e di una ricerca pressante, sfibrante, infinita, e volta al fallimento, quella del Vero. Dal secondo volume della Recherche fino alla fine dell’opera, il corpo di Albertine è nodo dell’indagine gelosa, della volontà di possesso, ma è anche segno di un mutamento infinito: Albertine è vita, la vita. Immobilizzare Albertine, cristallizzarla, è l’aspirazione del Narratore, da una parte, ma è anche il principio del suo disamore. Come una farfalla perde almeno parte del suo fascino se inchiodata in una teca, Albertine, una volta prigioniera del Narratore, comincia a perdere l’aura che ha fatto di lei la rosa prediletta e colta dal magnifico bouquet delle fanciulle in fiore.

Tra i mille volti di Albertine, ce n’è uno che raffigura il segno del rinnovamento infinito, della infinita metamorfosi, e per coglierlo dobbiamo volgerci a due spie che l’autore cela nei suoi Cahiers, e che insieme compongono le fondamenta di un mito antico, che si rinnovella nel Medioevo e che giunge intatto fino al Novecento: quello del drago e del suo uccisore. Fondamentale, per giungere a questo disvelamento, è il passaggio attraverso il mondo dell’arte, che rifluisce in tutta l’opera proustiana. Qui, in particolare, sarà una figura del Mantegna a illuminare una nicchia segreta nella penombra di questa cattedrale.

Nel Cahier 46 (paperole du f° 58 v°), relativo a Sodome et Gomorrhe (André 2009), il Narratore descrive il ritorno a Balbec, paese utopico sull’oceano e luogo del primo incontro con le fanciulle in fiore. Albertine esce in bicicletta e corre per le vie di Balbec nonostante la pioggia:

Ce caoutchouc matière à la fois souple et qui semble durcie partout où elle fait de belles cassures, lui faisait aux genoux de nobles jambards qui semblaient en métal, comme dans le St Georges de Mantegna, mettait sur sa tête un bonnet aux longues cornes de même qu’il faisait courir des espèces de serpents autour de sa poitrine profondément cachée comme sous une armure, sous un couvert impénétrable.

Albertine, avvolta nel caucciù per proteggersi dalla pioggia, è immagine fuggevole, in movimento – caratteristica della ninfa antica e di queste moderne ninfe proustiane, attratte dalla velocità, dalla bicicletta, dall’automobile (Stella 2017). Se il povero caucciù diventa prezioso metallo, chi lo indossa si trasfigura in una figura ibrida e fascinosa: un San Giorgio dai serpenteschi capelli. In questa descrizione, uno degli elementi più caratterizzanti di Albertine è la velocità. Se “le [raffigurazioni] più antiche […] rappresentano generalmente Giorgio isolato, a piedi”, l’attributo del cavallo “fa, invece, il più delle volte, parte della scena della lotta contro il drago e compare con maggiore frequenza nelle opere d’arte che illustrano i cicli e i fatti della vita” (Celletti 1965, 526). L’iconografia rinascimentale contempla vari San Giorgio in movimento. Si pensi, uno su tutti, al capolavoro di Paolo Uccello, nel quale “il santo sembr[a] sospinto dal ciclone alle sue spalle” (Borsi 1999, 44-45). La scelta dell’autore invece ricade su un San Giorgio statico, immobile nella sua vittoria contro il drago, il San Giorgio di Mantegna, dal viso efebico e dai bei riccioli che circondano il volto tenero, quasi infantile, la cui morbidezza si contrappone alla durezza della corazza. Antoine Compagnon, interrogandosi sulla scelta del San Giorgio di Mantegna quale modello per Albertine, è giunto alla conclusione che sia stata l’androginia di questo San Giorgio a renderlo perfetto per la pagina proustiana. Lo studioso ricorda inoltre che Proust ha potuto vedere dal vivo il San Giorgio di Mantegna a Venezia nel 1900 (Compagnon 1989, 109-126; ma si veda anche, in generale, Manca 2006).

Torniamo però per un momento a osservare l’immagine. Il fanciullo di Mantegna sembra aver dimenticato la brutalità del combattimento, benché abbia ancora una lancia spezzata nella mano destra, e soprattutto nonostante il fatto che il drago giaccia morto ai suoi piedi. Il suo sguardo si perde alla sua sinistra, a guardare qualcosa che ci è precluso. Gli occhi di questo San Giorgio poco più che adolescente sfuggono: in effetti, sono gli occhi di Albertine, il cui oggetto, il cui focus, è sempre l’altrove: “Son moi […] s’échappait […] à tous moments, […] par les issues de la pensée inavouée et du regard” (Proust [1923] 1954, 70).

Un esempio tra i molti possibili in questo senso è l’episodio dello specchio presso la sala da ballo del Casino. Il Narratore vede entrare nella sala due ragazze che hanno la reputazione di gomorrite, e immediatamente spia la reazione di Albertine, la quale, contrariamente ai timori del Narratore, si siede in modo da dar loro le spalle. Ma quando il Narratore dice ad Albertine che sembra che le due non li abbiano mai guardati, lei presa da “étourdiment” risponde che in realtà non hanno fatto altro, e all’obiezione, apparentemente inoppugnabile, del Narratore: “Mais vous ne pouvez pas le savoir, […], vous leur tourniez le dos”, Albertine indica uno specchio, “[…] sur laquelle je comprenais maintenant que mon amie, tout en me parlant, n’avait pas cessé de fixer ses beaux yeux remplis de préoccupation” (Proust [1922] 1954, 803). L’occhio del Narratore non può accedere a quell’altrove se non quando Albertine, sotto l’effetto dell’“étourdiment”, glielo concede. Nel tempo, questa consapevolezza da parte del Narratore cresce:

Les yeux d’Albertine appartenaient à la famille de ceux qui […] semblent faits de plusieurs morceaux à cause de tous les lieux où l’être veut se trouver – et cacher qu’il veut se trouver – ce jour-là? Des yeux, par mensonge toujours immobiles et passifs, mais dynamiques, mesurables par les mètres ou kilomètres à franchir pour se trouver au rendez-vous voulu, implacablement voulu, des yeux qui sourient moins encore au plaisir qui les tente qu’ils ne s’auréolent de la tristesse et du découragement qu’il y aura peut-être une difficulté pour aller au rendez-vous. Entre vos mains mêmes, ces êtres-là sont des êtres de fuite. […] il faut calculer qu’ils sont non pas immobiles, mais en mouvement, et ajouter à leur personne un signe correspondant à ce qu’en physique est le signe qui signifie vitesse (Proust [1923] 1954, 91-92).

Gli occhi di Albertine, “immobiles et passifs”, nascondono i movimenti del desiderio, e la loro immobilità apparente è in realtà fuga, o, meglio ancora, velocità. Ripensando al San Giorgio del Mantegna, all’immobilità del suo corpo, e a quello sguardo in tralice, non rivediamo forse Albertine e la sua sempiterna tentazione per l’altrove?

C’è un altro dettaglio dell’opera di Mantegna che riflette in qualche modo la natura di Albertine: il decoro che si trova sulla parte superiore del quadro, una ghirlanda di foglie e di frutti. Tale motivo ornamentale ricorrente sembra riallacciarsi perfettamente alla natura stessa di San Giorgio. Come  ci ricorda Iacopo da Varagine nella Legenda aurea (LVI, 1) con la sua paretimologia, Georgius dicitur a geos quod est terra et orge quod est colere, quasi colens terram, id est carnem suam. Sempre secondo Iacopo da Varagine, il santo ha una speciale relazione con il colore verde: beatus Georgius fuit altus despiciendo inferiora et ideo habuit virorem puritatis (LVI, 4). Perciò, più di ogni altro, il santo uccisore del drago è il santo che appartiene al mondo della vegetazione. A esso si lega indistricabilmente una figura del folklore, il Verde Giorgio, presa in esame da Frazer ([1890] 1959), in primis, e in seguito da altri studiosi, come David Scott Fox (1983, 47-56), Mall Hiiemäe (1996) e Gary Varner (2006). Nell'immagine mantegnesca di San Giorgio si crea in effetti la tempesta perfetta tra l’ornamentazione a festoni vegetali di classica memoria e il gioco paraetimologico inventato da Jacopo da Varagine. Celebrato tra il 23 e il 24 aprile, San Giorgio diventa il santo della primavera e della fertilità (Toschi 1964 42, 61-70; Roda 1991). Importante, in questo senso, il racconto di Carlo Emilio Gadda, San Giorgio in casa Brocchi, in cui San Giorgio, “trionfante luce di giovinezza”, è una creatura mitica che rappresenta il rifiorire della vegetazione e, al tempo stesso, della sensualità (Gadda [1931] 2007, 657). Albertine è, a suo modo, un Verde Giorgio, una figura della vegetazione, che a tratti si trasforma in una forma di vita vegetale, come nel sonno (Proust [1923] 1954, 70). Certo, la sua primavera non è fertile. Come nota Compagnon, il caucciù è “matière au demeurant stérile, […] et en ce sens emblématique de l’androgyne” (Compagnon 1989). Come per alcune vergini guerriere (pensiamo alla Clorinda tassiana, alla Pentesilea di Kleist, tra l’altro entrambe straordinarie fanciulle in fiore), il ventre, fasciato dall’armatura, è destinato a non germinare. Non è forse questo, a suo modo, anche il caso di San Giorgio, riviviscenza pagana di un dio della vegetazione che, nella trasposizione di un cristianesimo che ha perduto l’orizzonte delle origini, mantiene la sua purezza pur diventando emblema della fecondità (et ideo habuit uirorem puritatis)?

Ecco perciò che attraverso Mantegna giungiamo a scorgere un’Albertine vitalissima, androgina, sfuggente. Dicevamo però che tra gli elementi che vanno a formare l’iconologia di Albertine vi è la bicicletta (lo abbiamo visto nello stralcio del Cahier 46), e tra quelli tipici del San Giorgio vi è il cavallo. Questo intreccio si ritrova nella Recherche, ma per giungervi occorre fare un passo indietro.

Una fondamentale menzione del santo guerriero si trova nel primo volume della Recherche. Albertine non fa ancora parte del racconto, ma la sua presenza è, potremmo dire, in filigrana. La grande protagonista è Odette, amante e moglie di uno dei protagonisti della Recherche, Swann; Odette è una sorta di Albertine primigenia, la cui vita sotterranea diventa l’ossessione di Swann. In una descrizione delle passeggiate in carrozza di Odette, il Narratore descrive un groom “gros comme le poing et aussi enfantin que Saint Georges” (Proust [1913] 1954, 425). Di nuovo, San Giorgio è visto come una creatura infantile e androgina. Qui però viene introdotto il legame con il cavallo, poiché questo san Giorgio è il groom di Odette. Per trovare il segno del cavallo quale elemento ultimo di Albertine, dobbiamo però aspettare che il suo caoutchouc venga sostituito da ben altro manteau, quello pregiato, favoloso, di Fortuny. Questa nuova veste è il simbolo della prigionia di Albertine, non più fanciulla in fiore che si profila sul mare di Balbec, menade in bicicletta, ma ninfa incatenata, dedita ai lavori domestici (“dessin et […] ciselure”, Proust [1923] 1954, 68), appesantita dalla veste e preziosa dell’artista-artigiano donatagli dal Narratore. Per sottrarsi alla reclusione cui l’amante la costringe, Albertine, a un certo punto dell’opera, si fa “fugitive”, e riacquista così il dinamismo e la velocità che caratterizzavano il suo profilo di fanciulla in fiore. Ed è proprio in seguito a questa fuga che Albertine diventa un vero San Giorgio. Dopo la fuga, Albertine scrive al Narratore dicendogli di essere pronta a tornare e pregandolo di riprenderla con sé. Ma la lettera giunge in ritardo, e nel frattempo arriva un telegramma che ne annuncia la morte: “Elle a été jetée par son cheval contre un arbre pendant une promenade” (Proust [1925] 1954, 476). Indubbiamente dietro a questa scena vi è la presenza di Ippolito – Fedra è citata a distanza di poche pagine. Pure, se Albertine è un San Giorgio, ecco che nel momento supremo assume uno degli elementi più caratterizzanti del santo, il cavallo. Albertine, creatura arborea, vegetale, muore nello schianto contro un albero e, come per il San Giorgio di Paolo Uccello, vediamo il culmine e la fine del suo esistere nel turbine di una folle velocità.

La figura tradizionale di san Giorgio non muore nella morte. Egli risorge tre volte, nel racconto della Legenda aurea, nonostante le terribili torture inflittegli. Lo stesso, in un certo senso, possiamo dire di Albertine, la cui vita poetica prosegue dopo la morte a cavallo. Albertine ritorna nei pensieri del Narratore soprattutto a Venezia, e risorge in lui in tre momenti peculiari. Il primo, nella lettera dell’agente di cambio, in cui una frase dell’agente ricorda al Narratore quello che una inserviente dei bagni di Balbec aveva detto di Albertine (“C’est moi qui la soignais”, Proust [1925] 1954, 641). Il secondo momento coincide con la vista, a San Giorgio degli Schiavoni (un luogo parlante per una San Giorgio rediviva), di un’aquila stilizzata simile a quella che decorava un anello di Albertine. Infine, Albertine risorge davvero in un telegramma che giunge al Narratore, e in cui si legge: “Mon ami, vous me croyez morte, pardonnez-moi, je suis très vivante, je voudrais vous voir, vous parler mariage, quand revenez-vous? Tendrement. Albertine” (Proust [1925] 1954, 641). Si tratterà di un errore. La firma non è quella di Albertine, ma di Gilberte. Quel che importa, però, non è la realtà della biografia fantastica di Albertine, ma la sua realtà poetica. Albertine, morendo, non muore: permane quale creatura “très vivante” nella nicchia della cattedrale della Recherche.

2. Albertine e la testa di Medusa

San Giorgio spesso ha il suo cavallo, ma ancor più spesso ha il suo drago, che lo accompagna già nelle vicende narrate da Iacopo da Varagine e che potrebbe essere trasposizione immaginifica di quel Dadiano imperatore, malvagio come un draco, descritto nel palinsesto greco 954 di Vienna del V secolo (Collins 2018, 52). Il drago è doppio necessario del cavaliere, se è vero che serve un drago per uccidere un drago (Propp [1946] 2012, 380; 440-444). Le due figure perciò non incarnano necessariamente due forze contrapposte, anche se di fatto questa è la lettura generalmente corretta e convenzionale, quella che la tradizione ha maggiormente assorbito. Ma non va sottovalutato il fatto che chi si scontra, chi è nemico, ha spesso un soggiacente carattere somigliante che si distrugge nel combattimento e nella vittoria contro l’altro. Questo è evidente nel personaggio di San Giorgio, perlomeno così come viene raffigurato nell’ambito anglosassone e, in particolare, in The Faerie Queene di Spenser (Italiano 2020). Se pensiamo al Perseo con la testa di Medusa di Cellini, antico Giorgio con il suo antico drago, non possiamo non notare l’impressionante somiglianza dei volti dei due. E se riprendiamo il Cahier 46, abbiamo un ulteriore conforto rispetto a quanto detto:

Ce caoutchouc matière à la fois souple et qui semble durcie partout où elle fait de belles cassures, lui faisait aux genoux de nobles jambards qui semblaient en métal, comme dans le St Georges de Mantegna, mettait sur sa tête un bonnet aux longues cornes de même qu’il faisait courir des espèces de serpents autour de sa poitrine profondément cachée comme sous une armure, sous un couvert impénétrable.

Albertine, la menade Albertine, ha un aspetto in parte gorgonico, nel suo impermeabile di caucciù, e questo dato si rafforza se confrontato con un altro stralcio del Cahier 46, in cui si descrive Albertine “enveloppée dans un caoutchouc comme dans la tunique de Méduse” (f° 58 v°). Il mito greco non sembra svelare alcunché riguardo alla tunica di Medusa: e infatti Compagnon parla in questo caso di lapsus. Tuttavia è suggestiva l’idea che l’impermeabile di caucciù, che abbiamo visto essere icona del santo, si faccia improvvisamente segnale del serpente che è Albertine, come possiamo osservare di nuovo nei manoscritti proustiani. Tornando a La Prisonnière, e ai mutamenti di Albertine da menade ciclista a donna di casa, si legge: “Albertine était en train de faire peau neuve” (Proust [1923] 1954, nt. p. 1069). Se la metamorfosi è la chiave per comprendere Albertine, il serpente, colui che cambia pelle – come Albertine cambia manteau, dal caucciù ai tessuti di Fortuny – ne è segno ideale.

La scrittura proustiana è in buona parte sotterranea, come evidenziano i Cahiers e come si può vedere dalla tessitura dei personaggi. Dicevamo all’inizio che Albertine è parte di una trinità: può allora avere un certo interesse il fatto che nel testo della Recherche la sola accezione di Medusa si ritrovi in riferimento a uno di questi tre vertici: non Albertine (il frammento dei Cahiers non è stato inserito nel corpus del romanzo), bensì la nonna.

Tra la nonna e Albertine vi è da subito ostilità. La nonna vorrebbe che il Narratore, nella vacanza a Balbec, si dedicasse alla scrittura e a stringere amicizie con gli intellettuali del luogo. L’amicizia con Albertine, quindi, è dal principio vista come un ostacolo alla salute e al lavoro del nipote. E il Narratore, davanti alle fanciulle in fiore, e ad Albertine, dimentica la nonna: “[…] ces jeunes filles éclipsaient pour moi ma grand’mère” (Proust [1918] 1954, 833). La presenza della nonna e quella di Albertine si sovrappongono e si intersecano. Quando il Narratore tornerà a Balbec, dopo la morte della nonna, sarà Albertine in qualche modo a supplire alla grande assente. E la morte della nonna sembra essere preludio di quella della fanciulla in fiore, poiché entrambe sembrano ricongiungersi nell’assenza. Prima di morire, la nonna deve affrontare la malattia – che si manifesta per la prima volta durante il primo soggiorno a Balbec, proprio in concomitanza con l’apparizione di Albertine. L’ultima apparizione della nonna da viva è questa:

Quand, quelques heures après, j’entrai chez ma grand’mère, attachés à sa nuque, à ses tempes, à ses oreilles, les petits serpents noirs se tordaient dans sa chevelure ensanglantée, comme dans celle de Méduse. Mais dans son visage pâle et pacifié, entièrement immobile, je vis grands ouverts, lumineux et calmes, ses beaux yeux d’autrefois […]. (Proust [1920] 1954, 334)

La visione della nonna non è pietrificante, forse (ma si noti il dettaglio dello sguardo, che è elemento meduseo per eccellenza), pure è gorgonica, in quanto pre-visione di morte. Dopo un apparente miglioramento dovuto all’applicazione delle sanguisughe, il Narratore viene svegliato dalla madre nel cuore della notte. La nonna agonizzante si è tramutata in “bête”, irriconoscibile. Solo la morte ne farà una sorella di Albertine: una “jeune fille” (Proust [1920] 1954, 345).

Albertine era invisa alla nonna perché privava il Narratore del tempo per la scrittura. Ma è proprio nel Temps retrouvé che il Narratore si rende conto di quanto invece abbiano entrambe contribuito all’opera che verrà: “En me faisant perdre mon temps, en me faisant du chagrin, Albertine m’avait peut-être été plus utile, même au point de vue littéraire, qu’un secrétaire qui eût rangé mes paperoles” (Proust [1927] 1954, 909). Le due “jeunes filles”, la nonna, con le sue spinte verso i libri e l’arte, e Albertine, con il suo vitalismo e la sua imprendibilità, con le sue bugie e i suoi sguardi in tralice, hanno portato il medesimo contributo all’edificazione della futura cattedrale, e in essa si congiungono, immemori, eterne.

La “roue mythologique” di Albertine (Proust [1925] 1954, 488) percorre strade diverse. Il nucleo tematico di Giorgio e il drago è un sentiero difficile, che ci permette di attraversare l’Antico e di giungere al moderno, confermando a noi stessi che il pensiero, mutando, non muta, ma, come Albertine, è sempre vivo e vivificante.

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English abstract

Albertine is one of the most fascinating and mysterious characters of Proust’s Recherche. One aspect of her complex personality appears in Cahier 46, where she is compared to Mantegna’s Saint George. This comparison may represent an interesting key to delve into the depths of the Proustian character. As a matter of fact, Mantegna’s Saint George has two main features connecting him to the jeune fille en fleurs. One is his distant, faraway look, the other the vegetal and natural elements. While Saint George has both an enemy and a companion always with him – the dragon – Albertine, who can be viewed as a new Saint George, also possesses the essence of a dragon, or better of a Medusa. The interconnections between these two aspects are the focus of the present contribution.

keywords | Proust; Recherche; San Giorgio; Mantegna; Medusa.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo: C.Italiano, Un dragonesco Giorgio nella cattedrale della Recherche. San Giorgio di Mantegna nel Cahier 46 di Sodome et Gomorrhe, “La Rivista di Engramma” n. 192, giugno 2022, pp. 61-72 | PDF di questo articolo
To cite this article: C.Italiano, Un dragonesco Giorgio nella cattedrale della Recherche. San Giorgio di Mantegna nel Cahier 46 di Sodome et Gomorrhe, “La Rivista di Engramma” n. 192, giugno 2022, pp. 61-72 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.192.0005