"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

192 | giugno 2022

97888948401

L’ultima immagine

Presentazione del volume di James Hillman, Silvia Ronchey, Rizzoli, Milano 2021

a cura di Daniela Sacco

English abstract

Per gentile concessione dell’Editore e della coautrice del volume, Engramma presenta, in questo numero dedicato al tema “Testo con figura”, due estratti tratti da L’ultima immagine, dove Silvia Ronchey restituisce il dialogo sui mosaici di Ravenna intercorso con James Hillman a partire dal 2008 e chiusosi con la sua morte nel 2011. Pubblichiamo i primi due paragrafi della Introduzione di Silvia Ronchey e il capitolo Che cos’è un’immagine? (© 2021 James Hillman / Published by arrangement with Agenzia Santachiara)

dalla Introduzione al volume


Silvia Ronchey

Il punto sull’immagine

“Voglio che sia il mio ultimo libro, e voglio
che esca dopo la mia morte”.
James Hillman

Nel 2008 James Hillman ha un progetto: discutere in un libro le sue idee sull’immagine, presenti in nuce in più passati scritti, ma ancora prive di una sintesi a suo avviso soddisfacente; ispirarsi, nel farlo, all’epifania delle immagini bizantine di Ravenna, che hanno illuminato i “secoli bui” del crollo dell’impero romano d’occidente, ma che Hillman non ha mai visto di persona; registrarne in diretta e in loco l’impatto immediato sulla sua psiche; dare all’intera agnizione la forma di un dialogo, destinato a “fare il punto sull’immagine”; e così “saldare l’ultimo conto sospeso con Jung”, che proprio a Ravenna ha avuto la famosa visione di cui lungamente tratta nei suoi Ricordi.
Nel settembre di quell’anno Hillman organizza il viaggio in compagnia della moglie Margot, pittrice, cui lo accomuna una tenace militanza a favore della bellezza e dell’arte, e di una bizantinista, chi scrive, cui lo lega una consuetudine al dialogo già collaudata in due precedenti libri[1]. Il programma è incontrare le immagini di Ravenna con occhio puro: una forzata tabula rasa che affranchi la visione dalla semplice erudizione, che la renda immemore dei dettagli storici e iconografici, indifferente a simbologie e dottrine religiose, alla ricerca di una percezione immediata, esclusivamente psicologica.

L’intero soggiorno a Ravenna, ogni impressione, commento, battuta, scambio, sono documentati in una registrazione ininterrotta. Come previsto da Hillman, a contatto con quelle immagini “nuove” e potenti le sue idee vanno snodandosi e sondandosi, contraddicendosi e capovolgendosi, per poi ridefinirsi, stabilizzarsi e precisarsi lungo le battute di un lungo dialogo. Esiste un precedente: i due primi libri sono nati più o meno allo stesso modo. Hillman si fida dunque del metodo. Ma in questo caso c’è un tema preciso, ed è dei più importanti: vuole che da questa pratica di anima e intelletto emerga e prenda forma una finale e chiara “teoria dell’immagine”. Tutto va come previsto, salvo la vita. Ci si congeda, in quel settembre 2008, con l’intenzione di riprendere il lavoro dopo la prima sbobinatura. Ma nell’inverno successivo a Hillman viene diagnosticata una grave malattia. Passa i tre anni successivi a combatterla; senza successo.

Nell’ottobre 2011, una mail di Margot comunica il desiderio di Hillman di concludere il lavoro. “Voglio che sia il mio ultimo libro, e voglio che esca dopo la mia morte” dichiarerà. Nella casa di Thompson, Connecticut, le parole “alleviano il dolore come i cuscini” che gli vengono continuamente risistemati nel letto dal quale, come sa bene, non si rialzerà più, e che è stato portato in salotto, al centro della casa, di fronte alla grande vetrata aperta sull’abbagliante autunno del New England. Su un tavolino, a disposizione di chi voglia leggerle, una raccolta di poesie giapponesi sulla morte scritte da monaci zen o da autori di haiku. “Una radiosa gradevole / giornata d’autunno per viaggiare / incontro alla morte”.

Immerso nella bellezza delle radiose giornate d’autunno Hillman si fa rileggere e riassumere ripetutamente il materiale del 2008, cospicuo ma ancora magmatico e da elaborare; registra, con strenuo sforzo e implacabile lucidità, la parte conclusiva del dialogo; e affida a chi scrive un lascito in più sensi estremo, perseguito con fermezza e stoicismo e predestinato a vedere la luce, dopo un lungo e minuzioso lavoro di revisione e interpretazione, nel decimo anniversario del giorno in cui sulla sua esistenza terrena è calata l’ombra.

Il Crollo

È l’idea da cui voglio partire. Essere qui,
a Ravenna, nel momento della più acuta
fantasia di crollo del nostro tempo,
immaginandoci nel quinto secolo.

Ravenna è, per Hillman, un luogo della storia e della geografia della psiche. Per aprire l’anima all’introspezione e alla ricerca psicologica sull’immagine non è stata scelta a caso l’ultima capitale dell’impero romano d’occidente. La città di Galla Placidia, di Teodorico e di Giustiniano accosta il “buio” della caduta alla luce delle immagini che “gli esseri umani di allora hanno usato per contrastare l’ansia della fine in quel momento di gigantesca distruzione”. Per una di quelle coincidenze, o sincronicità, che ricorrono nei momenti in cui l’anima si schiude, la visita a Ravenna e l’esplorazione delle immagini del mondo psichico in cui gli esseri umani hanno cercato salvezza nella congiuntura di quello che Hillman chiama, in italiano, “il crollo”, si trova a essere, nel settembre 2008, contemporanea a un altro crollo, quello di Wall Street: al precipitare delle quotazioni delle borse mondiali, innescato dal fallimento di Lehman e che giorno dopo giorno si aggrava fino a mettere in pericolo la stabilità delle economie mondiali. 

Se fin dal concetto iniziale del libro, quindi, Hillman sceglie Ravenna perché ha in mente un parallelismo tra la caduta del mondo antico, travolto dalla devastazione barbarica, e il crollo del mondo prossimo venturo, derivante dal suo modello economico e dalla distruzione ambientale che comporta, nel corso del mese il parallelo simbolico diventa inopinatamente attuale, quasi fattuale. E il pensiero che ne deriva, profetico.
L’ansia per la distruzione del pianeta è presente fin dall’inizio nella speculazione di Hillman, con decenni di anticipo rispetto alla percezione ormai universale della sua gravità, coincisa in parte con la pandemia da Covid-19, e al dilagare del paradigma verde nel vocabolario politico, finanziario, pubblicistico, pubblicitario. Un linguaggio di cui peraltro Hillman diffidava. Voleva attivare in noi un altro tipo di codice, più profondo: quello che si trasmette alla psiche grazie al lavoro sull’immagine. All’emergenza ecologica vedeva associata una distruzione di anima (e di immagine) che non poteva non trasmettersi alla psiche collettiva. L’accelerazione dei cambiamenti climatici, i conseguenti disastri ambientali e la crescente sofferenza di milioni di esseri viventi, l’estinzione di intere specie animali e vegetali, fanno ammalare sempre più gravemente, insieme al mondo, la sua anima: l’anima mundi, di cui l’anima umana è parte. Ed è alla patologia dell’anima del mondo che si è sempre rivolta la cura di Hillman.

È con una visione verde che questo libro si apre (e si chiude). Se la domanda iniziale è: che cosa possiamo imparare da quel momento, dal crollo dell’impero romano d’occidente, dall’arrivo dei barbari?, la risposta è, fin dall’inizio: possiamo imparare a usare la Grande Immagine Verde, il mondo naturale. Ma la Via Verde che Hillman profeticamente addita è anzitutto intrinseca alla psiche. Salvare il mondo dalla caduta è una fantasia (nel senso letterale greco, già junghiano, di phantasia, immagine interiore) che ognuno di noi, imparando a depurare la psiche dalle immagini devianti – mediatiche, pubblicitarie, consumistiche, propagandistiche – che pervadono il mondo contemporaneo, può attivare individualmente dentro di sé, e solo allora attuare collettivamente fuori di sé.
Nei mosaici bizantini di Ravenna Hillman trova, di quest’ipotesi, una conferma visiva, soggettiva quanto psicologicamente persuasiva. Il verde, in effetti dominante nell’iconografia di questi “secoli bui” d’occidente che attingono all’oriente, lo colpisce come “una sacra visione che dà valore al mondo”, che fluisce sotterranea per tutta la storia dell’umanità, ma che prorompe come immagine di salvezza futura nei momenti in cui la fantasia archetipica di tracollo domina la psiche. Soprattutto lo colpisce la ricorrente epifania, nelle absidi, di un “globo blu” stagliato nel verde: alla sua lettura psicologica appare emblema del caelum, che, in un capovolgimento ab extra ad intra, è in realtà l’immagine del globo terrestre; del suo prezioso, acquoso, azzurro mondo; e della nostra anima, quando incontra l’anima del mondo.

Che cos’è un’immagine? (Ravenna, settembre 2008, un caffè)

Silvia Ronchey e James Hillman

Silvia Ronchey | Che cos’è un’immagine?

James Hillman | Eccoci alla domanda fondamentale. Se capissimo cos’è un’immagine, ci libereremmo da ciò che oggi pensiamo siano le immagini. Che non sono immagini vere, intere: sono immagini fratturate, immagini vicarie, disperse, frantumate, come se ci trovassimo davanti a un mosaico scomposto. Abbiamo centinaia di tessere, nessuna delle quali è l’immagine. Tutte testimoniano l’esistenza di un’immagine dalla quale sono cadute. Tutte recano in sé la possibilità di essere in qualche modo messe insieme, come facevano i grandi mosaicisti. Come facevano? Come riuscivano a trarre da quelle centinaia di pezzetti di pietra un’unica figura [in latino nel testo], così imponente, commovente, bella, spirituale? Il fatto è che avevano dentro di sé un’immagine. Era l’immagine interiore che creava ciò che scorgiamo come entità visibile. Vorrei ricordare en passant che Michelangelo parla di questo quando usa il termine “immagine del cuor”.

R | Stai citando una delle poesie di Michelangelo, che ricorre spesso nei tuoi libri, a partire dalla Re-visione della psicologia[2]: “Amor, la tua beltà non è mortale: / nessun volto fra noi è che pareggi / l’immagine del cor, che ’nfiammi e reggi / con altro foco e muovi con altr’ale”[3].
H | È un’immagine che è del cuore o che è nel cuore. Come se l’artista, nel fare un ritratto, nello scolpirlo, attingesse l’immagine dal cuore dell’individuo che stava rappresentando. Cosicché, diciamo, la faccia visibile, la sembianza che ne risultava, era in realtà il carattere o l’essenza dell’anima. Credo quindi che la vera immagine sia quella della forma interiore, della forma psichica, della forma dell’anima. Una forma che tenendo insieme le varie visibilità dà profondità al visibile, lo fa diventare visibilità dell’anima. Ed è qualcosa che abbiamo perso. Abbiamo confuso l’immagine con il visibile.
R |  Con la parvenza: l’eidolon
H | … se vogliamo dirlo con Platone. Pensiamo alle immagini nella loro sola manifestazione materiale, come se coincidessero con la parvenza visibile, mentre la mente antica riusciva a vedere la figura [in latino nel testo] dietro le tessere del visibile. L’immaginazione degli antichi era connessa al cosmo. Riuscivano a leggerlo. A scorgere nel cielo figure invisibili all’occhio.
R |  Nessuna immagine è immediata.
H | Immediata? Che cosa intendi?
R | Non mediata. Siamo noi a crederla immediata. È il concetto platonico secondo cui l’immagine che percepiamo è in realtà una copia. L’icona – eikon (εἰκών), la parola più nobile usata nella lingua dei greci, Platone incluso, per designare appunto l’immagine –, che sia un mosaico o un’immagine sacra, non è nel disegno, non è nella sua percezione immediata.
H | Come diceva Plotino: “Se qualcuno disprezza le arti col pretesto che creano imitando la natura, bisogna rispondergli anzitutto che anche le cose della natura imitano qualcos’altro. Bisogna fargli capire bene, quindi, che l’opera dell’artista non è semplicemente imitare ciò che è visibile, ma è elevarsi fino alle ragioni ultime da cui la natura scaturisce”[4].
R | L’immagine sta sempre dietro ed è fatta di un altro materiale.
H | Ed è appunto quella che Michelangelo chiama “immagine del cuor”.
R | E che già per Plotino, che hai appena citato, era un’immagine interiore. Nella Re-visione della psicologia parli infatti del “pensiero neoplatonico di Michelangelo”[5] e sottolinei in lui l’influsso della tradizione platonica[6]. Come dicevi, è l’immagine interiore a creare ciò che scorgiamo come entità visibile.
H | Per Plotino l’artefice di un’immagine nel crearla non deve “gettare lo sguardo su alcun modello sensibile, ma immaginare”.
R |  Nel caso di una divinità, “immaginarla come sarebbe se acconsentisse ad apparire ai nostri occhi”[7], e cioè secondo una verità interiore che è un riflesso dell’intelligibile, il quale è peraltro, in termini platonici, l’unica realtà.
H | Quindi occorre fare attenzione alle parole. Usare la parola immagine solo per quella che ho chiamato in latino figura, e contrapporla alla facies, alla faccia. Michelangelo non si limitava a riprodurre la faccia di qualcuno. Ne evocava l’immagine, ossia, per così dire, rappresentava l’essenza della persona.
R |  E così facendo si riaccostava alla dottrina platonica e neoplatonica, da cui l’arte occidentale, nel suo accentuare e perfezionare il realismo naturalistico, si era già molto prima di Michelangelo allontanata, e che era stata invece portata alle estreme conseguenze a Bisanzio. Se guardiamo le icone bizantine vediamo, come si diceva prima, questa sorta di naïveté, un’immagine dall’apparenza molto elementare, che spesso da noi oggi viene percepita come un’arte meno avanzata, meno perfetta, per la semplicità del disegno, ma la cui imperfezione è voluta, perché…
H | … perché ciò che importa veramente è ciò che sta dietro e che non è visibile. Non visibile attraverso gli occhi.
R |  Il che richiede una grande disciplina. Ma è questo il retto sguardo con cui guardarla. Lo sguardo teorizzato dai teologi e dai filosofi bizantini, secondo cui l’immagine dev’essere una via per riattivare il contatto con la nostra anima, per attivare una diversa energia psichica.
H | Risvegliare un altro occhio per vederla. O per esserne visti.

Note

[1] L’anima del mondo, Rizzoli, Milano 1999, 20012, e Il piacere di pensare, Rizzoli, Milano 2001, 20042.
[2] Cfr. J. Hillman, Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano 1983 [Re-Visioning Psychology, Harper & Row, New York 1975], pp. 54-58: “Immaginare col cuore si riferisce a un modo di percezione che non si arresta ai nomi e all’aspetto fisico, ma penetra fino a un’immagine interiore personizzata, va, cioè, dal cuore al cuore. […] Mentre il Rinascimento scientifico (Bacone e Galileo) insisteva sul primato della percezione sensoriale, l’immagine del cuor di Michelangelo intendeva dire che la percezione è subordinata all’immaginazione. Spingendosi all’interno e al di là di ciò che vede l’occhio, l’immaginazione giunge alla visione delle immagini primordiali”. Per lo spunto fornito dal saggio di J. Gantner, L’immagine del cuor, «Eranos», 35, 1966, pp. 267-272, e un parallelo con il sufismo, dedotto da Corbin, cfr. ivi, n. 27. Sulla questione cfr. da ultimo J. Hillman, From Types to Images, a cura e con un’introduzione di K. Ottmann, Spring Publications, Thompson Conn. 2019, p. 56: “È la tua immagine che ti consegna alla mia immaginazione, l’immagine di te che hai nel cuore, come avrebbero detto Michelangelo, i neoplatonici, Henry Corbin. […] Vederti come sei è un immaginare, come dice Lavater, la struttura, l’immagine divina in cui la tua essenza è formata.” (“You are given to my imagination by your image, the image of you in your heart as Michelangelo, as Neoplatonism, as Henry Corbin would say. […] To see you as you are is an imagination, as Lavater says, of structure, the divine image in which your essence is shaped.”); sull’«immagine del cuor» e il suo significato cfr. anche ivi, p. 146; J. Hillman, Psicologia archetipica, “Enciclopediadel Novecento”, 1981, p. 814, rist. in J. Hillman, Psicologia archetipica, Treccani Libri, Roma 2021, p. 61.
[3] Michelangelo, Rime, 49, in M. Buonarroti, Rime, Milano 1987, p. 93.
[4] Plotino, Enneadi, V, 8, 1. Il pensiero di Plotino è fondante in Hillman e ampiamente sviluppato nelle sue opere, a partire dalla conferenza (1973) su Plotino, Ficino e Vico precursori della psicologia archetipica (trad. it. in J. Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi, Milano 2002). Qui non solo il concetto di anima mundi, ma anche e soprattutto l’idea che la coscienza dipenda dall’immagine o dall’immaginazione (“quando funziona correttamente, fa da specchio [Enneadi, I, 4, 10; IV, 3, 29], cosicché attraverso di essa ha luogo la riflessione della coscienza”) sono accostati alle analoghe intuizioni del pensiero di Jung: l’idea di psiche collettiva, ma soprattutto l’idea che «ogni processo psichico è un’immagine e un atto immaginativo senza cui non potrebbe esistere alcuna coscienza». Per Jung “l’essere psichico è, in verità, l’unica categoria dell’essere di cui abbiamo conoscenza diretta, giacché nulla può essere conosciuto se non appare come immagine psichica. […] Se il mondo non assume la forma di un’immagine psichica, esso è praticamente non esistente”. Idee e intuizioni junghiane che hanno sviluppo autonomo nella psicologia archetipica hillmaniana e nella sua analisi dei processi immaginali del mito: cfr. J. Hillman, Plotino, Ficino e Vico, cit., pp. 22-26. Nell’Introduzione alla Re-visione della psicologia (cit., p. 17), Hillman scriverà: “Mio scopo in questo libro è l’elaborazione di una psicologia dell’anima che abbia come suo fondamento una psicologia dell’immagine. Ciò che propongo è […] una psicologia che abbia il suo punto di partenza […] nei processi dell’immaginazione”; e in Psicologia archetipica (cit., p. 92): “L’atto del “fare anima” consiste nell’immaginare”. Sull’immagine artistica come specchio cfr. J. Hillman, Re-visione della psicologia, cit., pp. 53-54, in cui cita questo passo di Plotino: “Gli antichi saggi, che cercarono di ottenere la presenza degli esseri divini erigendo templi e statue, dimostrarono di aver ben visto nella natura del Tutto: intuirono che, pur se quest’anima è docile ovunque, è tanto più facile ottenerne la presenza là dove venga escogitato un ricettacolo acconcio, un luogo particolarmente atto a ricevere una qualche porzione o fase di essa, qualcosa che la riproduca o la rappresenti e che riesca, come uno specchio, ad afferrare un’immagine di essa”. Sull’immagine artistica come tensione verso l’archetipo cfr. ivi, p. 197, dove Hillman si rifà al concetto plotiniano di “ritorno” (epistrophe, ἐπιστροφή), “l’idea che tutte le cose bramano ritornare agli originali archetipici di cui sono copie e da cui procedono”. Cfr. da ultimo J. Hillman, From Types to Images, cit., p. 147, in cui si richiama il passo, affine a quello citato nel testo, di Enneadi, III, 8, 2: “Plotino afferma che ciò che gli artisti fanno non è diverso da ciò che fa la natura. Entrambi danno forma alla materia basandosi su un’immagine innata. Nel caso degli artefici, dev’esserci qualcosa racchiuso in loro, un’energia fattiva che non proviene da loro, eppure guida le loro mani in tutto il processo creati vo. […] Quest’energia fattiva che alberga in loro […] deve esistere nella natura non meno che nell’artista”. (“Plotinus says that what artists do is no different from what nature does. Both shape their material according to an innate image. In the case of workers in such arts there must be something locked within themselves, an efficacy not going out from them and yet guiding their hands in all their creation. […] This indwelling efficacy […] must exist in Nature, no less than in the craftsman.”); e ivi, p. 89: “Il contesto ultimo dell’immagine è l’anima mundi, l’anima del mondo” (“The ultimate context of an image is the anima mundi, the soul of the world”). Vd. anche J. Hillman, Psicologia archetipica, cit., p. 55 et al.
[5] J. Hillman, Re-visione della psicologia, cit., p. 57.
[6] Ivi, p. 54.
[7] Plotino, Enneadi, V, 8, 1. Cfr. G. Dagron, Décrire et peindre. Essai sur le portrait iconique, Gallimard, Paris 2007, p. 25, dove questo passo di Plotino è analizzato in rapporto alla dottrina dell’icona bizantina; vd. anche ivi, p. 244, n. 23.

English abstract

By kind permission of the publisher and co-author, this issue of “Engramma” devoted to “Text and Image” publishes two excerpts from Silvia Ronchey’s L’ultima immagine. The volume reports Ronchey’s dialogue with James Hillman on the mosaics in Ravenna. Started in 2008, the conversation ended in 2011, with Hillman’s death. “Engramma” reproduces the first two paragraphs of Ronchey’s introduction and the chapter “Che cos’è un’immagine?” [What is an image?].

keywords | James Hillman; Silvia Ronchey; Galla Placidia Mausoleum.

Per citare questo articolo: D. Sacco (a cura di), L’ultima immagine. Presentazione del volume di James Hillman, Silvia Ronchey, Rizzoli, Milano 2021“La Rivista di Engramma” n. 192, giugno 2022, pp. 155-163 | PDF di questo articolo
To cite this article: D. Sacco (a cura di), L’ultima immagine. Presentazione del volume di James Hillman, Silvia Ronchey, Rizzoli, Milano 2021, “La Rivista di Engramma” n. 192, giugno 2022, pp. 155-163 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.192.0007