"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

194 | agosto 2022

97888948401

Teatro dei Borgia. Riflessioni sul metodo

Conversazione con Gianpiero Alighiero Borgia

a cura di Daniela Sacco 

English abstract

Gianpiero Alighiero Borgia ed Elena Cotugno al lavoro in Medea per strada.

Daniela Sacco | Il titolo del progetto La Città dei Miti di Teatro dei Borgia (d’ora in poi TB nel testo) chiede di tornare ad interrogarsi sull’attualità del mito, il valore della cultura classica nella realtà contemporanea, e soprattutto, trattandosi di teatro, nella nostra quotidianità. È con questo intento che è nato il Seminario organizzato a Trani nel maggio 2022, in occasione della presentazione della trilogia dedicata ai miti nella città pugliese. Bisognerebbe domandarsi se si tratta di una questione oziosa, o ancora necessaria. Ha senso porsi ancora questa domanda? Se torniamo costantemente a porcela dipende probabilmente dal fatto che forse prevale ancora una visione antiquata e passatista del mito e del suo legame con la tradizione classica. È perché non si vede il mito in azione nella nostra quotidianità, nella zona liminale tra natura e cultura, in quello che ci circonda e che ci attraversa, toccando congiuntamente la dimensione più personale, privata, e quella collettiva, pubblica. Credo che il teatro, più di altre forme d’arte, abbia proprio questa funzione, possa cioè aiutare a vedere in trasparenza la presenza – perché a teatro è sempre di presenza che di deve parlare – del mito, della tramatura che, come il codice del DNA informa i nostri corpi, fa relazione con quanto ci circonda e attraversa le nostre vite. Questo non significa che bisogna fare piazza pulita dell’erudizione, al contrario, lo sguardo va sempre educato, allenato, i codici devono essere riconosciuti e decrittati prima di essere smontati. L’erudizione quando non è fine a se stessa ma a servizio della vita è una risorsa, un thesaurus a cui attingere continuamente.

Gianpiero Alighiero Borgia | Inizierei dall’aspetto più semplice e che conosco meglio della questione, quello che riguarda direttamente e personalmente il lavoro della compagnia e mio: cioè a cosa sono serviti a noi i Miti Greci. Da principio il progetto si intitolava Trasporto dei miti, questo titolo da una parte tradiva l’ambizione nostra e la presunzione tutta contemporanea di attualizzare alcuni miti classici, cioè di lavorare sul linguaggio delle mitografie mediante le quali ci erano pervenuti, affinché divenisse fruibile e comprensibile al nostro pubblico, ma dall’altra già intuivamo un potere superiore, una forza del contenuto di quei racconti, capaci appunto di trasportarci altrove. In effetti la storia del progetto potrebbe essere sintetizzata nel racconto di un viaggio: quello che inizia con l’illusione di rinnovare i miti e che finisce nella consapevolezza che sono i miti a rinnovare te. Affrontando questo percorso il ‘trasporto dei miti’ è divenuto un intervento artistico in ambito politico e un progetto quinquennale di ricerca teatrale sull’attivazione del mito, che ha preso nome di La Città dei Miti, la trilogia di lavori su Eracle, Filottete e Medea.

D.S. | Difatti il concetto, come ha ben visto Gerardo Guccini, di “riattivazione del mito”, è molto più interessante del processo di “riscrittura del mito” tanto diffuso a teatro (v. in questo stesso numero la lettura di Gerardo Guccini, Per strada con Medea. La notte che ho visto e altre percezioni), ma oramai un’espressione abusata, e che soprattutto rimanda ad altra cosa, un lavoro che privilegia il testo, e una visione letteraria, astratta, del mito – il mito come fabula, come narrazione, come altrove leggendario a cui ci si può ricondurre. Ma questa visione del mito non mi risulta essere indicativa dei vostri lavori. Il testo è importante, ma il mito, direi, è finalmente possibile vederlo incarnato, vederlo in azione. Bisognerebbe privilegiare, nel teatro, il significato di mito che la Psicoanalisi ha permesso di riscoprire: i miti come modelli di comportamento. Parlate, ad esempio in riferimento a Medea per strada, di “esperienze che attraversano”, dovremmo quindi parlare di una dimensione immanente del mito piuttosto che trascendente. Rivendicate però ugualmente il valore trascendente del mito … non so però se questo è il termine più corretto o adatto al caso vostro, forse userei la parola auctoritas, e parlerei di auctoritas del mito, come ci si riferisce all’auctoritas del classico, nel senso di autorevolezza, ma senza che questa autorevolezza ponga una vertiginosa distanza. Riflettendo sulla scelta delle parole che compongono i titoli, o che sono incastonate come pietre preziose nella drammaturgia dei vostri spettacoli, è chiaro che l’inserimento di un nome, di una figura, di una parola connotata dall’appartenenza alla tradizione classica fa la differenza. Fa la differenza usare un nome piuttosto che un altro, ad esempio Medea piuttosto che ‘Bogdana’, perché questo nome non è mai neutro, indifferente, è piuttosto carico di senso, di significato, di memoria, fa risonanza, evoca mondi, universi stratificati nel nostro immaginario.

G.B. | Anticamente, nella polis greca, assistere a una tragedia era un rituale collettivo: l’evento teatrale avveniva in una dimensione emotiva e conoscitiva estremamente più profonda e totalizzante rispetto a oggi. I personaggi e le vicende appartenevano a un territorio di mezzo, il mito appunto, tra la religione e la finzione, il credo e la narrazione, la natura e la cultura. Nel plot erano condensati i temi etici, civili, religiosi più significativi dell’epoca, in quello che tuttora rimane il più intenso rito di elaborazione di una coscienza collettiva nel mondo occidentale. Come dare forma a qualcosa di simile oggi, con i mezzi del teatro? È la questione che ci siamo posti da principio e, incardinando il progetto in un orizzonte d’indagine, lo abbiamo sviluppato lungo un preciso itinerario creativo. Quando incontriamo il pubblico, condivido sempre alcune idee con i partecipanti, tra queste un’immagine utile a chiarire i confini che delimitano il nostro campo di ricerca: è quella di un triangolo scaleno, che ha lati e gli angoli diversi:
– il primo lato del nostro triangolo è l’individuazione di un’analogia tra un personaggio della mitologia classica e un suo corrispettivo contemporaneo, un’icona urbana, metropolitana, mediatica (Medea/prostituta straniera; Eracle/genitore separato; Filottete/malato abbandonato);
– il secondo lato è costituito da una tematica socio-politica cogente, sentita come urgente dalla compagnia e magari ignorata, rimossa, negata dalla comunità che la tratta come nelle case sporche si fa con la polvere nascondendola sotto il tappeto;
– il terzo lato è la progettazione e realizzazione di una performance di teatro d’arte che rompa il meccanismo canonico scena/platea, che ricerchi una modalità esperienziale per gli artisti e per gli spettatori/partecipanti, il più possibile analoga, quanto meno per intensità, a quella dello spettatore tragico dell’antichità.

Tutto quello che sta in questo triangolo è diventato La Città dei Miti. Delimitare il campo della ricerca, stabilire i confini della superficie, obbliga ad un’esplorazione verticale. Questa è l’attivazione del mito ed è reciproca: il mito attiva noi come artisti e noi riattiviamo il mito al cospetto degli spettatori/partecipanti. Almeno ci proviamo, e quando ci riusciamo è un’esperienza teatrale che si compie nel reale.

Rispetto all’importanza del testo classico e alla sua auctoritas, mi viene da sottolineare innanzitutto un aspetto per me decisivo, il suo multiforme ruolo di tramite: il confronto sistematico con il classico è una parte essenziale della palestra che fa l’attore, la persona, l’artista. L’allenamento al classico è un allenamento ad un certo tipo di analisi, di complessità e di profondità che determina il contenuto umano, attraversare questo tempo, definisce il peso specifico del performer che hai di fronte; nell’immediato di un lavoro specifico poi, il testo non è il mito, è il tramite mediante cui lo possiamo contattare. Poi il testo classico ha auctoritas perché è ancora nel pieno della sua giovinezza, con le difficoltà che ci pone, mostra di avere ancora tanto da dirci. Diversamente da Facebook che si consuma rapidamente, come la vita dei cani, quella del classico è la vita della sequoia che dopo duemila anni è ancora nel pieno della sua giovinezza. La scelta dei nomi di Medea, Eracle e Filottete induce lo spettatore a guardare oltre, oltre la superfice, a guardare in verticale.  

D.S. | Un’esplorazione verticale: è infatti il reale, direi anche “l’umano troppo umano”, che chiede di elevarsi. Questo perché accanto all’auctoritas, che evidentemente stimola ed eleva l’immaginario, c’è la capacità del mito di gravitare verso il basso, di essere piuttosto in funzione di un discorso anti-eroico. Tra i miti se ne è spesso privilegiato uno che ha riflesso perfettamente la società occidentale: il percorso dell’eroe, del guerriero-maschio in lotta contro il drago, per la conquista del tesoro e tutto proteso alla vittoria. Ma oggi è tempo di altri miti, e soprattutto il mito lo vediamo questa volta al servizio della debolezza, del fallimento, della fragilità, della “minorazione”, come scriveva Gilles Deleuze in riferimento a Carmelo Bene… (Deleuze [1978] 20062). I vostri Eracle, Filottete e Medea hanno poco a che vedere con quel percorso eroico di cui ci stiamo progressivamente sbarazzando. I miti e gli archetipi che fanno risuonare sono difettosi, imperfetti, malati. Perciò James Hillman parlava di “infirmitas dell’archetipo”: il mito dà espressione alla malattia, alla patologia, all’anormalità, a tutto quel male che il sommum bonum che è il Dio della religione cattolica non può, per sua costituzione, contenere, rappresentare. Infatti, “Se Dio è morto”, dice Hillman, “è stato perché era troppo in buona salute!” (Hillman [1974] 1991).

G.B. | Aristotele nella Poetica afferma la superiorità dei personaggi tragici su quelli della commedia. Per superiorità, molto probabilmente, il filosofo si riferiva non alla posizione sociale (divinità, re o regine) ma alla statura morale, ai dilemmi eccezionali che si trovano ad affrontare. Il nostro processo di creazione si muove verso un'umanità emarginata: prostitute, poveri e malati, ma il fine dei lavori non è la denuncia sociale, piuttosto, come dicevamo, la ricerca sull’attivazione del mito, la cui componente tragica può esplodere solo calando il racconto in una situazione estrema. Per questo gli attori di TB svolgono una costante ricerca sul campo, per riaccendere  il legame tra l’auctoritas del mito e la contingenza umana, reale, della città in cui il progetto interviene.

I nostri eroi sono figure extra-ordinarie ma, a differenza del racconto hollywoodiano o ateniese, non spiccano al di sopra dell’uomo comune. Essi vivono ai confini: nelle periferie, nei sobborghi, negli inferi della società. Li incontriamo sui mezzi pubblici, li scorgiamo oltre i finestrini, sono un ‘Quinto Stato’ a cui ci avviciniamo con dei primi piani, dai quali emergono storie che rompono l’assuefazione della consuetudine. Il ribaltamento del cliché dell’Eroe occidentale lo iniziano i grandi tragediografi greci, inaugurano la splendida arte della problematizzazione che è il teatro. Medea è già straniera; nell’Eracle Euripide rinuncia al racconto delle prove per presentarci ‘il Provato’; Filottete è l’escluso per antonomasia. Il teatro contemporaneo deve portare questo lavoro alle sue estreme e odierne conseguenze. I nostri eroi non sono più nemmeno proletari, sono fuori. L’indagine su di loro è simboleggiata dal triangolo scaleno perché è un’indagine sull’umano, territorio in cui nulla è uguale e perché è un progetto contro l’assuefazione alla disuguaglianza come portato inevitabile del dominio neoliberista.

D.S. | Il teatro ha da sempre avuto un rapporto privilegiato con la città, sin dalla sua origine che è stata possibile nel contesto della polis greca. Ripensare il mito, e i miti nella città significa anche riflettere, con uno sguardo rinnovato, sulla relazione che lo lega inscindibilmente con il teatro-la tragedia e con gli spazi del potere. Se il cuore del mito-teatro è sempre la città, ora l’agorà teatrale è idealmente lo spazio decentrato, periferico, lontano dai palazzi, dai luoghi del potere. Qui il mito, liberato dai meccanismi della rappresentazione autoreferenziale, torna finalmente ad essere affamato di comunità, cerca nuovi occhi su cui riflettersi, luoghi dove essere evocato, ambienti dove il senso di appartenenza è veicolato da emozioni e immagini, e soprattutto urgenze. La vera politica è tra i margini, nelle zone liminali, straniere, escluse dalla governance. Ed è sempre in questi spazi che il teatro non solo riconquista il suo valore politico, ma proprio perché si alimenta del vissuto e della rappresentazione dell’altro, riconquista anche il suo valore etico. In questa visione rinnovata del mito, non c’è pathos che non faccia i conti con l’ethos.

G.B. | La Città dei Miti è un’azione d’arte politica che attraversa la città in termini urbanistici, sociali, etici, civici. Accompagna gli spettatori nei luoghi dell’emarginazione, illuminando angoli del panorama urbano attraverso il cono di luce del Mito. La Città dei Miti cerca un confronto con l’umanità emarginata, richiama lo sguardo assuefatto e indifferente del consesso dei civili sulle condizioni umane più estreme. L’itinerario parte con l’Eracle all’interno di una mensa per i poveri, poi i partecipanti raggiungono la residenza per anziani di Filottete, infine, il tratto conclusivo è con Medea lungo le strade della prostituzione.

L’intero percorso assume le caratteristiche di un’esperienza collettiva, “una giornata a teatro” durante la quale è possibile partecipare a momenti di emotività intima e condivisa: una piccola comunità si raccoglie attorno a dei temi non per riflettere, ma per immergersi in un rito di rivivificazione degli stessi, grazie al lavoro degli attori che si fanno portatori delle esperienze vissute durante la ricerca sul campo. Frequentiamo i luoghi del disagio e le persone che li abitano come operatori e utenti. Per noi è stato da subito molto importante frequentarli nella fase creativa o di ricerca sul campo. Ma abbiamo gradualmente compreso che lo è anche per loro. Sono comunità nelle quali si innestano meccanismi routinari e di assuefazione che noi andiamo a rompere con la nostra permanenza e con il nostro lavoro. Anche il rapporto che c’è tra la Città e queste piccole comunità diviene spesso routinario, sono piccoli ghetti confinati dietro le mura dell’indifferenza e dell’assuefazione dei Civili. Quando al termine della fase creativa torniamo in questi luoghi con il nostro lavoro, facendo varcare le porte al pubblico/partecipante, per qualche giorno si riaprono alla città, per qualche tempo i civili, partecipando alla nostra esperienza, riaprono il loro sguardo. Si partecipa a un baccanale civile, durante il quale si riesumano antichi rituali, ci si confronta con problemi etici, si chiariscono e rinsaldano i rapporti tra i membri della comunità. Poi tutti insieme ci si stringe attorno al vero oggetto di culto: lo stare insieme.

D.S. | La dimensione partecipativa è essenziale. Soprattutto quando lo guardo si rivolge a ciò che è estraneo, a ciò che rifiutato, che è scartato dalla società dominante; non è sufficiente osservare a distanza per poi replicare, fornire una rappresentazione di quanto si è creduto di capire, di catturare. Perché si replicherebbe ancora una volta sotterraneamente lo stesso rifiuto oggettivante. L’altro non è un oggetto da studiare, ma un soggetto con cui entrare in relazione. Il processo creativo, per essere realmente tale, non può prescindere dalla relazione con l’altro, dalla sua frequentazione, e dalla trasformazione che la relazione genera rispetto ai due o più poli del dialogo. Per questo il processo creativo, e tutto quello che ruota attorno ad esso, diventa più importante dell’esito, di quel prodotto a cui invece tende la mentalità consumistica dominante rispetto alla quale si cerca di fare la differenza.  Il valore politico ed etico del lavoro si misura nei limiti di questo spostamento di prospettiva, così come la responsabilità dell’artista è chiamata in causa. Questa responsabilità la si legge proprio quando introduci lo spettacolo, spieghi al pubblico, alla comunità quello che è stato fatto, le scelte, le intenzioni.

G.B. | Nel nostro percorso il fatto spettacolare è l’apice di un processo in cui il prima, il durante e il dopo sono solo meno evidenti non meno importanti. La preparazione del momento spettacolo avviene attraverso esperienze sul campo compiute dagli artisti, fatte di interviste e azioni di volontariato in contatto diretto con le realtà istituzionali e associative che operano negli ambiti approfonditi. Tocchiamo con mano, osserviamo, comprendiamo, vampirizziamo aneddoti e costruiamo urgenza espressiva. Questo approccio è divenuto metodo.

Il primo dei lavori a cui ci siamo dedicati è stato Medea per strada, uno spettacolo che ci ha attraversato come un’esperienza. Avevamo provato a leggere e a raccontare, oltre la superficie, la storia di alcune migliaia di esseri umani partiti dai loro paesi con un sogno che all’arrivo in Italia si è rivelato un incubo. Nel grande mare del tema delle migrazioni, avevamo messo a fuoco il fenomeno che riguarda quelle donne, sconosciute eppure in qualche modo familiari, quasi elementi di un arredo urbano cui siamo assuefatti, che ‘lavorano’ sulle nostre strade. Donne partite alla ricerca di una vita migliore che si sono ritrovate schiave nel racket della prostituzione. Proponevamo al pubblico un'esperienza, concepita e realizzata, su uno scalcinato furgone Iveco del 1994, per soli 7 spettatori per volta. Mentre il furgoncino percorreva le vie della città, Elena Cotugno snocciolava la storia di una migrante, scappata dal proprio paese, arrivata in Italia e finita a prostituirsi per amore di un uomo da cui si crede ricambiata e da cui ha due figli. Tanto in fase creativa, quanto durante la lunghissima circuitazione, in ogni città toccata dal progetto, Elena contattava e contatta le associazioni che si occupano di tratta e prostituzione, viaggia con loro attraverso quei luoghi, svolge azioni di volontariato con le unità di strada, raccoglie storie, osserva come il fenomeno cambi pur restando sempre fedele agli stessi rituali: il reclutamento, il debito, il ricatto.

Con Christian Di Domenico abbiamo creato un parallelismo tra l’Eracle e una figura iconica della società contemporanea: il forgotten man, il marginalizzato, il senzatetto. In particolare nella folla degli invisibili, dei dimenticati, abbiamo approfondito le vicende dei genitori separati e le loro vicissitudini economiche, sociali, psicologiche. È stata dapprincipio di grande ispirazione l’esperienza di Father for Justice, un’associazione molto attiva fino a una decina di anni fa nel Regno Unito, che lottava per i diritti dei padri separati. Erano dei signori spesso sovrappeso e calvi, che vestiti da supereroi Marvel protestavano arrampicandosi ai grattacieli. Poi con lo stesso metodo di Medea abbiamo avviato un percorso di ricerca sul campo, fatto anche qui di incontri, interviste e azioni di volontariato in collaborazione con le Caritas, il Bistrò Popolare di Brescia, I Gatti Spiazzati di Milano nei luoghi di contrasto alle povertà, ed è lì che poi torna la performance immersiva.

Per Filottete dimenticato l’orizzonte di ricerca è stato l’abbandono familiare, che spesso segue il manifestarsi di una malattia neurodegenerativa incurabile. Qui con lo stesso approccio degli altri lavori abbiamo indagato la DLB (demenza a corpi di Lewy). I sintomi precoci della DLB che fanno pensare a Filottete sono le somatizzazioni, allucinazioni dolorose prive di un corrispettivo fisiologico, gli sbalzi di umore, le allucinazioni lillipuziane che consistono nella visione di piccole moltitudini simili ad eserciti. I primi ad accogliere Daniele Nuccetelli per il lavoro di ricerca sul campo sono stati gli operatori del “Centro Diurno Integrato per il supporto cognitivo e comportamentale” di Villa Nappi, a Trani, che rivolge la sua attività alle persone affette da qualunque tipo di demenza e ai loro familiari. In seguito la collaborazione si è estesa al dipartimento di Neurologia dell’Università di Chieti, guidato dalla dottoressa Laura Bonanni, dove abbiamo potuto assistere a visite e laboratori.

Quando gli attori incontrano poi il pubblico, dopo un percorso di questo tipo, sanno di cosa parlano nel senso più alto e profondo del termine. Escono dalla dimensione meramente interpretativa alla quale non mi piace che sia ridotto il ruolo dell’attore ed assumono quella creativa, artistica, autorale. Cerchiamo così di costruire un nostro rito, che sospenda per qualche ora il tempo del mercato, che, come dice Byung Chul Han (Han [2000] 2016), conquista ogni spazio del vivere. Il tempio è sacro perché non è in vendita, diceva Mircea Eliade. In qualche modo cerchiamo di fare quello che il teatro dovrebbe fare sempre, oscillare tra la profanazione del sacro e la sacralizzazione del profano. Nel tempo del dominio neoliberista, è più spesso necessario spingere verso il secondo polo.

D.S. | Questo progetto evidentemente vi chiede di fare i conti, rispetto al lavoro maturato fino ad oggi, con quanto vi precede e con quanto intravvedete all’orizzonte. Lo scarto rispetto alla tradizione su cui dall’inizio vi siete basati, il guadagno, soprattutto dal punto di vista metodologico, che potrete investire nel futuro.

G.B. | Insisto sempre nel dire che il nostro è un tentativo di Teatro d’Arte in ambito politico. Cerco allora di chiarire qual è il nostro concetto di Teatro d’Arte: è un teatro fatto di saperi che, per ragioni di senso e urgenza artistici, si cimenta con i confini di quei saperi, progettando e sperimentando approcci, tecniche, metodologie, nel tentativo di spostare quei confini e correndo il sistematico rischio del fallimento. TB e gli artisti che vi lavorano si sono formati nel solco della tradizione stanislavskijana, per come ci è stata tramandata e trasferita soprattutto da Anatolij Vassil’eav e Jurij Alschitz. Senza entrare troppo nei tecnicismi, il principio di fondo di questa tradizione è concepire la preparazione e la performance d’attore, come processo di attivazione del suo subconscio. Le tecniche analitiche, i training, le pratiche sceniche che ne sono conseguite, banalizzo e generalizzo, sono pratiche di allontanamento dal reale, dal razionale, dal tangibile, finanche dal verosimile. L'idea retrostante è quella che reale e razionale zavorrino l’attore, ancorandolo alla sua adultità. Credo che alla base di questa idea ci sia anche l’abitudine alla frequentazione della metafora che c’è in Russia e in quei paesi nei quali qualche forma di censura sopravvive nei secoli. Ad ogni modo di questa concezione ereditiamo e condividiamo il principio, che in termini meno novecenteschi si può sintetizzare così: l’attore va in scena per ingaggiare la propria sfera ludica, istintiva, immaginifica, creativa, emotiva, in rifrazione con quella degli spettatori partecipanti. I confini che cerchiamo di muovere a questo punto sono due:
– perché lo fa, quali sono l’origine e il fine del suo gesto artistico;
– come lo fa, quali sono le prassi metodologiche che applica.

Il primo confine tocca la sofferenza personale che provo nel vivere il teatro nel mio Paese: trovo che in Italia la cultura teatrale sia marginalizzata, che la produzione artistica teatrale sia ignorata dal dibattito pubblico. Non ci sono teatranti star, non ci sono teatranti che accedono al mainstream. Sono cresciuto quando ancora capitava di vedere Eduardo De Filippo, Carmelo Bene, Vittorio Gassmann ospiti in tv, o Strehler e Ronconi occupare le terze pagine dei giornali. I motivi sono sicuramente tanti: l’eccesso di ricerca sui linguaggi, la frammentazione dei processi industriali, la parcellizzazione dei percorsi formativi, l’approccio museale e ministeriale, ma in sostanza quello che voglio dire è che noi teatranti siamo finiti ad abitare in un nostro ghetto. Da artista sento che dobbiamo trovare il coraggio di guardare cosa c’è al di fuori del ghetto per nutrirci e la forza di gridare abbastanza forte perché ci sentano anche là fuori. Da cavaliere del teatro, devo difenderne le effigi, i simboli, i saperi, i mestieri e riportarli al centro della comunità. Da qui nasce il nostro articolato e complesso rapporto con il reale come campo d’indagine, con il mito come attraversamento analitico e con il politico come territorio d'azione. Non chiamare i nostri Eroi Pasquale, Johnny o Bogdana, ma Eracle, Filottete e Medea, vuole anche dire esibire con orgoglio le bandiere del Teatro.

Il secondo tema riguarda lo sviluppo di un metodo di lavoro coerente con il principio centrale della nostra tradizione di lavoro sull’attore, ma capace di confrontarsi con nuovi territori e ambizioni. Da qui l’idea e la prassi di quelli che chiamiamo ‘ricerca sul campo’ e ‘attore reporter’. Con la tradizione condividiamo il principio di fondo, alcune tecniche di analisi drammatica del mito e della tragedia classica di riferimento e alcune tecniche improvvisative che applichiamo con gli attori e il drammaturgo nell’avvio del progetto, ma poi inizia un viaggio nuovo: individuati i tre lati del famoso triangolo scaleno (l’analogia tra l’eroe della classicità e l’icona urbana contemporanea, il tema sociopolitico e un’ipotesi di progetto di performance) inizia il percorso descritto precedentemente.

Qui ci sono più aspetti rilevanti: il primo è che l’attore lavora appunto come un reporter, fa indagine, si documenta, acquisisce informazioni, compara approcci, insomma diventa un esperto della materia; il secondo è che entra in contatto emotivamente con persone che da più punti di vista attraversano il tema di cui si occupa; il terzo è che gradualmente sviluppa una propria visione del fenomeno e una propria urgenza espressiva. Perciò partecipa attivamente e dialetticamente alla dinamica creativa, ne diventa co-autore. Si riempie di un racconto personale verso cui è stato spinto in origine dal mito e che per l’incontro con il pubblico ri-oggettivizza proprio grazie al mito, in un incessante pendolo che oscilla tra distanza e prossimità, tra mito e realtà. Questa ricerca sul campo è sempre attiva, anche dopo anni di repliche: gli attori continuano a caricare la propria urgenza espressiva indagando il reale, rubano aneddotica che ricontestualizza il racconto in ogni città, aiutano a scegliere i luoghi e sono essi stessi parte dell'intervento politico nella comunità di riferimento.

La città che scorre dietro i finestrini di Medea, il pane che il pubblico assaggia alla mensa di Eracle, la televisione in diretta dell’ospizio di Filottete, sono il modo in cui il reale, oltre che essere campo d’indagine, diviene territorio d’azione e sintagma del nostro discorso poetico.

Riferimenti bibliografici
  • Deleuze [1978] 20062
    Gilles Deleuze, Un manifesto di meno, in C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, Macerata 20062, 85-123.
  • Han [2000] 2016
    Byung Chul Han, Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, Milano 2016.
  • Hillman [1974] 1991
    James Hillman, La vana fuga dagli dei, Milano 1991.
English abstract

Scholar Daniela Sacco proposes a conversation with Gianpiero Borgia, artistic director of the Teatro dei Borgia, to reflect on the topicality of myth in the context of drama and the theatre. The conversation focuses on the reactivation of myth in the project La Città dei Miti with the staging of Heracles, Philoctetes, Medea; it also delves into the political and ethical value of the project, as well as into the methodological assumptions the theatre company puts into practice.

keywords | Teatro dei Borgia; Medea; Heracles; Philoctetes; Actuality of Myth.

Per citare questo articolo / To cite this article: Teatro dei Borgia. Riflessioni sul metodo. Conversazione con Gianpiero Alighiero Borgia, a cura di D. Sacco, “La Rivista di Engramma” n. 194, agosto 2022, pp. 11-22 | PDF dell’articolo 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.194.0002