"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

194 | agosto 2022

97888948401

Su Medea. Un processo di riabilitazione al tragico

Riflessioni dell’autrice-attrice di Medea per strada 

Elena Cotugno

English abstract

§ In questo stesso numero di Engramma, il testo integrale della drammaturgia di Medea per strada.

Elena Cotugno è Medea in Medea per strada.

Nella preparazione di Medea per Strada prima della ricerca sul campo c’è stato il mito. Partire dalla Medea di Euripide è stato molto utile per me per prendere le distanze dalle ‘Medee’ della nostra attualità. Pensare che stessi raccontando la Medea del mito greco e non una schiava del sesso dei nostri giorni ha reso possibile la costruzione di un personaggio lontanissimo dai cliché che i nostri pregiudizi e il nostro immaginario possono concepire. Questo perché l’eroe di un mito è immortale, è un disegno senza particolari, un’icona nella nostra testa senza tratti definiti. Tutti sappiamo chi è Medea ma essa non ha un volto preciso. Molte attrici l’hanno interpretata, molti l’hanno ritratta ma essa resta parte viva del nostro immaginario. 

Questo mi ha permesso di lavorare con distanza dal personaggio: non ero io ma vedevo la sua figura da fuori, la oggettivizzavo. È stato così possibile costruire gli aspetti più originali di essa, non lo stereotipo di una donna sfruttata, ma l’essenza di una donna forte che perde la sua identità. La questione dell’identità è molto presente nella Medea di Euripide e di conseguenza anche in Medea per strada. Così come Medea ha mille volti e nessun volto, anche le schiave davanti alle quali passiamo sulla statale non hanno volto; esse sono una sfilza di corpi, una squallida icona della nostra società, nemmeno i clienti le conoscono personalmente – non hanno nome, non hanno storia (si veda, sul tema la recensione di Marilù Ardillo edita su “Vita”).

Uno dei momenti che considero punto di non ritorno del percorso di ricerca con le associazioni che si occupano di tratta di persone e di sfruttamento sessuale è stato quando, dopo aver incontrato le ragazze una per una durante l’unità di strada, ripercorrendo da sola la statale che facevo sin da bambina nel mio paese, mentre quella sfilza di corpi scorreva fuori dal finestrino, mi sono accorta che conoscevo il nome di ciascuna di loro. Il fatto di aver compiuto un passo verso quella tragedia immane di corpi sfruttati aveva reso quei corpi persone, con un nome, una storia, un segreto. Improvvisamente non era più ‘la tragedia dello straniero’: adesso era la tragedia di Joy, di Blessy, di Duina, di Dona, di Anna, di Paola.

Togliere l’identità a una ragazza del resto è tra le prime cose che gli sfruttatori fanno. Se non sai più chi sei, se dimentichi la tua provenienza, se rinneghi la tua famiglia, se non hai facoltà di decidere dove andare, con chi stare, cosa mangiare, cosa comprare, l’unica cosa che riesci a vedere è la possibilità di salvezza nel tuo sfruttatore – un circolo vizioso dal quale da soli non si esce. 

Medea non fa altro che rivendicare la sua identità. Lei è una maga, di discendenza divina figlia di una ninfa. Quando sente che quella privazione la sta portando alla perdita di sé stessa, compie un atto estremo, al quale tutti danno il nome di vendetta. Per me è solo una conseguenza. L’uccisione dei figli, che molti ritengono centrale nel mito, per me è soltanto un effetto delle prove alle quali l’eroina è stata sottoposta. Ciò che è invece il fuoco della tragedia è la perdita di sé stessa, dell’identità, della forza, del libero arbitrio, della libertà.

Siamo una società che non è più abituata a esperire la tragedia. La nostra capacità di soffrire e di provare dolore è anestetizzata dalla foga di consumare il dolore stesso in poco tempo, per poi tornare a correre, a lavorare, a produrre e quindi consumare. Ormai il tempo che ci concediamo per riflettere sui problemi e per provare dolore è lo stesso tempo che ci mettiamo a scrollare le immagini su Instagram. In questo modo non c'è il tempo di metabolizzarlo, il dolore. Poiché la società contemporanea si organizza attraverso dinamiche diverse da quelle dell’antichità, sarebbe opportuno oggi trovare il nostro modo di convivere con le tragedie.

Quando con Medea per strada abbiamo iniziato il lavoro di ricerca sul campo con le associazioni mi è sembrato che stessi sperimentando un modo personale di relazionarmi ad alcune problematiche sociali e che queste fossero in realtà vere e proprie tragedie. L’unica differenza era che si trattava di tragedie reali, perché non erano scritte e narrate ma accadevano sotto gli occhi di tutti, solo che nessuno se ne accorgeva. Quello che voglio dire è che siamo abituati a sentir raccontare in termini consumistici i fatti tragici che avvengono nella quotidianità, ma non siamo abituati a viverli.

La differenza tra il raccontare e il vivere definisce la distanza che ognuno di noi ha con una tragedia. Il modo in cui il nostro corpo e la nostra anima esperiscono l’accaduto cambia a seconda della distanza personale dal fatto stesso. L’invasione dell’Ucraina non può riguardare veramente noi occidentali perché viene soltanto letta sui giornali. Al contrario, la morte di un figlio soldato provoca una reale sofferenza se ci riguarda personalmente. Tutto dipende dalla distanza. E oggi la gente fa di tutto per mantenerla. La verità è che cerchiamo in tutti i modi di voltare gli occhi dalle tragedie che il mondo ci mostra. 

Bisogna iniziare a chiamare le cose con il loro modo: la povertà, lo sfruttamento, le umiliazioni, la violazione dei diritti umani, l’abbandono, la vecchiaia, il degrado, le malattie, sono tragedie e sono tutt’altro che scomparse. Con La Città dei Miti tutto quello che facciamo è cercare di riabilitare la società a esperire la tragedia, tornando a posare lo sguardo su quello che ci succede attorno, che ci spaventa e ci fa paura, risvegliando una consapevolezza soffocata da anni di abitudine all’indifferenza e soprattutto a sentire proprie le tragedie della società in cui viviamo, che in poche parole vuol dire tornare a sentirsi parte di una comunità.

Lo studio dei miti classici greci è oggi la chiave per compiere questa riabilitazione. I miti di Medea, Eracle e Filottete, così come altri, ci raccontano le parabole di eroi alle prese con il proprio cimento, molto simile a quello degli eroi contemporanei che La Città dei Miti presenta come ‘Eroi del basso’. Questo racconto funge da filtro e allo stesso tempo da lente d'ingrandimento della la realtà; crea la giusta distanza tra noi e la tragedia e quindi aiuta a vederla, anzi, a rivederla, nella sua interezza, nella sua gravità, oggettivizzandola. Il confronto con il reale invece la rende immediata, vicina, presente, attuale. È la stessa necessaria dinamica di cui parla Orhan Pamuk ne La valigia di mio padre, l’incessante ricerca di sintesi tra racconto soggettivo e oggettivo, tra personale e assoluto, tra reale e immaginario. La giusta combinazione di questi elementi riattiva il mito classico e fa luce sulla tragedia nella contemporaneità.

Così come noi attori, attraverso la ricerca sul campo, abbiamo dovuto imparare a relazionarci con le problematiche sociali che studiavamo e a cambiare il nostro sguardo opacizzato dall’indifferenza, abbandonando ‘l’abitudine all’abitudine’, anche il pubblico è portato a compiere un’esperienza di riabilitazione al tragico, riscoprendo quella sensazione di vicinanza all’eroe e di prossimità alla sua sofferenza.

Questa prossimità d’animo ne La Città dei Miti è anche fisica poiché, mentre si assiste a ciascuno dei lavori della trilogia, ci si ritrova incredibilmente vicino all’eroe, a pochi metri di distanza da esso e a pochi metri di distanza dagli altri spettatori, quasi parte della vicenda, a stretto contatto con le realtà in cui essa avviene. In Medea per esempio, sul furgoncino la prossimità tra i viaggiatori è quasi totale: si viaggia gomito a gomito, posso toccare il ginocchio di qualcuno o mettere la mia mano sulla spalla di qualcun altro, guardarlo dritto negli occhi, leggere la sua anima, condividere le mie paturnie, farmi prestare un fazzoletto per asciugare le lacrime, scherzare, ridere assieme. Non c’è distanza, non c’è dunque convenzione attore/spettatore, impossibile l'indifferenza verso quella donna abusata, logorata, disgraziata, e impossibile anche la mia indifferenza nei confronti di uno sguardo, di uno spettatore a disagio, di un sorriso, di una lacrima. Stiamo convivendo questo spazio ristretto, questa tragedia, e dobbiamo trovare il modo per arrivare insieme fino alla fine, anche se la fine sappiamo già qual è. E proprio stare insieme, ci riabilita e dà la forza di farlo. 

Ringraziamenti

Desidero ringraziare tutte le associazioni che hanno aiutato Medea a percorrere i suoi chilometri:
Oasi2 San Francesco Onlus, Trani;
Ufficio Servizi Sociali, Barletta;
Cooperativa sociale Casa Raab, progetto Atuttotenda, Lecce;
Caritas Ambrosiano, Milano;
Ufficio Accoglienza, Comune di Verona;
Rete Primo Marzo, Chieti;
Associazione On The Road, Pescara;
Comunità San Benedetto al Porto, Genova;
Cooperativa Parsec, Roma;
Cooperativa Dedalus, Napoli;Cooperativa Sociale Girasoli, Corato;
Ce.St.Ri.M Onlus Centro Studi e Ricerche sulle Realtà Meridionali, Potenza,
Rete territoriale del progetto Oltre la Strada, Modena;
Cooperativa Sociale Il Calabrone, e il gruppo di incontro Colazione da Tiffany, Brescia;
Mensa della Parrocchia di Santa Rosa, Lecce;
Associazione Progetto Arcobaleno, Firenze;
Generation Famme, Évry Courcouronne.

English abstract

Elena Cotugno, writer and actor of Medea per strada (Medea on the Streets), discusses how transcending myth leads to the rehabilitation of tragedy as a way of understanding the reality of our lives.

keywords | Teatro dei Borgia; La Città dei Miti; Medea per Strada; Elena Cotugno; tragedy.

Per citare questo articolo / To cite this article: E. Cotugno, Su Medea. Un processo di riabilitazione al tragico. Riflessioni dell’autrice-attrice di Medea per strada, “La Rivista di Engramma” n. 194, agosto 2022, pp. 39-43 | PDF dell’articolo 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.194.0006