"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

194 | agosto 2022

97888948401

Medea per strada

Testo integrale della drammaturgia

Fabrizio Sinisi, Elena Cotugno

English abstract

§ Scheda di presentazione
§ Testo integrale della drammaturgia 

Scheda di presentazione

Medea prova a raccontare un’odissea, come in fondo ogni mito greco racchiude un’odissea: la storia di una donna che viene dall’Europa dell’Est, costretta ad emigrare e poi, arrivata in Italia, viene selvaggiamente sfruttata sul mercato della prostituzione. Il corpo dello straniero diventa il mezzo con cui lo straniero deve scontare la sua colpa di esistere, il debito che ha nei confronti di chi lo ospita. Medea diventa il capro espiatorio per eccellenza, un luogo di saccheggio. Insieme ad Elena, abbiamo tracciato una mappa che non fosse solo geografica e linguistica, ma antropologica e sociale – lo sviluppo di un meccanismo drammaturgico che facesse ruotare la migrazione intorno al tema del sacrificio, facendoli reagire reciprocamente (vedi, in questo stesso numero di Engramma, le riflessioni dell’autrice/attrice Elena Cotugno, Medea. Un processo di riabilitazione al tragico).

Medea per strada da Euripide
con Elena Cotugno
parole di Fabrizio Sinisi e Elena Cotugno
ideazione e regia Gianpiero Alighiero Borgia
produzione Teatro dei Borgia, coproduzione CTB (Centro Teatrale Bresciano) e Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
Medea per strada ha debuttato a Corato con il titolo Medea sulla statale il 23 novembre 2016 (“Terre promesse. Tu non conosci il sud”, rassegna di Teatro dei Borgia).

Elena Cotugno in Medea per strada.

Medea per strada

testo integrale della drammaturgia

[In corsivo la drammaturgia agita, in tondo il testo detto].

[Il pubblico acquista il biglietto in teatro e viene accompagnato al mezzo dal personale del teatro. Trova ad accoglierlo l’Autista, un maschio con marcato accento popolare, che informa che il lavoro si svolge su un furgone in movimento per soli sette spettatori, ci sono tre posti sul fondo e due per ciascuno sui lati, ci sono le cinture. È preferibile non scendere in corsa e, in caso d’emergenza chiedere a lui di fermarsi. La durata del lavoro dipende dal traffico e in ogni caso al suo termine, saranno riaccompagnati in teatro. Non c’è aria condizionata, ma possono utilizzare liberamente i finestrini. Il portellone si serra bruscamente. Il furgone parte. Dopo pochi minuti, ad un rallentamento, si ode battere esternamente sul portellone. Il furgone si ferma, l’autista scende e apre il portellone. Sale una donna, piena di borse, che inveisce contro l’autista con accento straniero. Il portellone si chiude, il furgone riparte lungo le vie della città].

[Battendo con le mani sul finestrino del furgone]. Fammi salire. Devi dire a quello che non passiamo, che si deve togliere [alludendo ad una macchina parcheggiata in doppia fila che impedisce al furgone di passare]. Come se la strada è la sua. [All’autista]. E non gli dici niente? Che non mi ha visto? Che sono trasparente? Gli devi dire che se ne deve andare, come dobbiamo fare? Ma che casino, proprio non si capisce niente. Non si capisce niente.

[Sale sul furgone].

Guarda! guarda! Che casino! Tutti così fanno! Tutti così! Tutti uguali, ma che è? Veramente! Ma io non lo so!? Come si fa!? Come dobbiamo fare, come dobbiamo? [Gridando dal finestrino, al signore parcheggiato in doppia fila]. Sei andato a prendere il caffè!? Bravo! Bravo! Ma guarda, pure in questa città non si capisce niente! Tutti pazzi! Tutti pazzi! Io mi sono stancata che questi pensano che io devo stare tutto il giorno ad aspettare loro! Mi hanno rotto le scatole, mi hanno rotto! Scusa eh, scusa che grido, ma è normale! Ma che cosa, questi pensano che uno non ha niente da fare, ogni giorno pensano così e invece non è vero! La gente deve lavorare, la gente deve camminare, ha bisogno che le cose funzionano. Io sono stata in tanti posti e non ho ancora visto un posto dove tutto funziona. [Rivolgendosi a qualcuno dei passeggeri]. Tu sei di qua? Funziona tutto qua? Non funziona niente, non funziona! Vuoi prendere pullman ma il pullman non funziona, vuoi prendere il treno ma il treno non funziona. Vuoi andare in giro con la macchina?! Io non ce l’ho la macchina. Tu ce l’hai la macchina? Scusa eh, che grido. [Ride]. Ahahahaha! No, non ce l’ho con te. Ce l’ho con tutto questo. È normale, che vuoi ? Che vuoi? [Rivolta ad un altro passeggero]. Tu sei di qua? Mi viene di gridare! Tu quando sei arrabbiata non ti viene di gridare? Allora c’è chi sta zitto pure. Non c’è bisogno di gridare. Non è che devi gridare per forza! Dipende, dipende: c’è chi sta zitto, c’è chi grida. Dipende da cosa, da come, dalla persona. Io lo so che parlo assai, lo so, lo so, scusami. Non parlo più! Mi sto zitta! Adesso non parlo più. Che lo so che sono chiacchierona, che vuoi? Ma tu puoi parlare! Non è che devo parlare solo io. Dai mi sto zitta, mi sto zitta! Va bene, tu puoi dire! Oppure c’è chi sta zitto. C’è chi parla. Tu puoi aprire finestrino se fa caldo! Dai fai entrare un poco d’aria. È arrivato subito il caldo quest’anno! Mamma mia! Dai mi sto zitta non parlo più!

È colpa mia. La gente dice che sono chiacchierona. E che non lo so che sono chiacchierona? Lo so, lo so. Che vuoi, è così. Tu sei di qua? Scusa posso chiederti? Di dove sei? [Arriva una risposta]. Ah conosco, conosco. Canosa ti piace? Ah bello. Io ho visto tante città. Bari. Conosci Bari? Tanti anni ho vissuto a Bari. Anche lì il casino uguale, ma è normale! Io dico che quando uno ha lo stipendio, non gli importa niente. Allora se tu hai lavoro e hai stipendio non ti importa niente di nessuno; vai a casa la sera e tutto è pronto. Posso chiedere se hai stipendio tu? Tu conosci Bari? Tu sei di Bari? Io sono stata tanti anni a Bari, quasi 10 anni! Tanto tempo. Ma che vuoi?! Io volevo tornare a casa mia. Io non sono italiana, sono di Romania. Sei stata alla Romania? È bella, è bella. Tanti anni che non torno a casa mia. Quando stavo a casa mia, stavo bene. Lo sai tu! Eh! Mio padre che diceva va in Italia! Guarda l’Italia! Italia bella! È bella l’Italia! È bello a mangiare! È buono mangiare! Dai scusa, scusa, Madonna santa! Mi sto zitta proprio! Hahaha!! non parlo più, non parlo. Questa città non mi piace.

Ti dico la verità, non mi piace. Non mi piace proprio, non mi trovo bene. Io sono stata in tanti posti: sono stata a Roma, sono stata a Milano, sono stata a Genova. Ma questa città proprio non mi piace! Che ci posso fare?! Quando ero piccola stavo a Bucarest. Conosci? Sei stata? Come dicono italiani?! B-U-C-A-R-E-S-T! Dite così voi? B-U-C-A-R-E-S-T. Bucarest! [Lo dice con la pronuncia rumena]. Scusa non grido! Non rido per te. Bucarest! Ma normale, io dico tante cose male in italiano. Pure a te viene da ridere come parlo. Ma è tanto tempo che non vado a Bucarest. Quando ero piccola, da bambina, mio padre faceva il professore. Insegnava a scuola. Era bravo! Era bravo. Aveva stipendio! HaHahaha! Ma che vuoi, c’era il governo. Pazzo! Pazzo! C’era Ceausescu al governo, c’era. Mio padre non piaceva Ceausescu, e Ceausescu non gli piaceva mio padre. Ahahaha! Allora quelli del governo venivano da mio padre e dicevano: tu non puoi dire le cose come pensi, non puoi dire tutto quello che ti viene in mente. Devi dire: così, così, così… Non puoi dire le cose come ti vengono in mente quando fai la lezione agli studenti. Devi dire: così, così, così. E mio padre diceva: perché non posso parlare?! Perché non posso dire le cose come la penso?! Ma chi sei tu che devi dire a me cosa posso dire e che cosa non posso dire, chi sei tu? Allora sono venuti: se tu continui ti ammazziamo! Ehhh ti ammazziamo! Allora sai che cosa ha fatto mio padre? Ha preso a me e miei fratelli ed è scappato, la notte. Io ero piccolina, 6 anni. Mi ricordo, mi ricordo… Ci ha messo il cappello, ci ha messo il cappotto e siamo scappati!

Che era pericoloso! Ed io ho detto a mio padre che facciamo Dudok? Dudok? Tu non conosci Dudok? Dudok è attore di Romania, pagliaccio che faceva la televisione per bambini. Si metteva il cappello, il cappotto e faceva così. [Mima con le mani un gesto come se avesse delle maniche troppo lunghe]. Era gioco che facevo con mio padre: che ci mettiamo il capello, ci mettiamo il cappotto… così: Carnevale! Allora lui ha detto stai zitta cretina che questa non è gioco! Qua stiamo a scappare, è pericoloso! Se ci ferma qualcuno, se ti ferma la polizia devi dire che sei zingara! Non devi dire niente! Devi stare zitta!

Siamo andati a Cocora. Cocora, conosci? Paese piccolino. Piccolo paese, paese piccolino. A Bucarest c’è pullman, a Cocora non c’è niente: una strada, due strade e casa mia. Mio padre non ha fatto più il professore, ha finito. Aveva il giardino, la pecora, gallina… Mi ha insegnato tante cose… tante cose: questo uovo, questo pollo, questo pulcino, questo no… Tante cose… Questo maiale! Ammazzare maiale! Hai fatto tu? Io ho fatto! Io so fare! Ammazzare maiale! Io so fare tutto! Non è cosa bella, certo, ma normale, tutto si può fare, tutto si può fare. Allora ti dico una cosa che faceva mio padre: allora, si metteva tutte le sere seduto a tavola nella cucina a Cocora, così, lui, seduto, a capotavola. Tutti i fratelli e me, così, attorno al tavolo e si metteva a fare lezione a noi, come maestre. Ci diceva poesie, un poco di italiano… Aveva foto di nonno, di suo padre, così, gigante, nella cucina. La foto di suo padre che era morto come eroe della guerra. Allora, io ti dico questo fatto, ti giuro che è vero! Tutte le sere tutti in piedi davanti alla foto del nonno, tutti a cantare inno nazionale di Romania liberata. Tutte le sere ti giuro! Che tu non credi? Che mica tu tutte le sere ti metti a cantare l’inno italiano a casa tua. Tu sei italiana? Allora! Hahaha! Tutte le sere ti alzi a casa tua e ti metti a cantare l’inno italiano. Eh mio padre: tutte le sere! Pazzo proprio! Che era una canzone che non si poteva cantare perché se ti sentivano ti ammazzavano. Adesso è inno, prima era canzone di liberazione che non si poteva cantare! Ti ammazzavano proprio! Tutte le sere.

[Canta l’inno nazionale rumeno a gran voce].

Scusa! [In relazione a qualcuno del pubblico]. Questo mo dice: questa è pazza proprio!

[Canta ancora un po’…].

Scusa! Scusa! Che io non finisco più se comincio a cantare, non finisco più. È normale: che ce l’ho nel cervello.

[Canta…].

Ti ho detto che non mi fermo più, non mi fermo! Che vuoi? Dai, dai, dai, basta, basta, scusa, Ahahaha! Madonna santa Io ho sentito inno italiano, non ci ho capito niente, non so di che cosa parla, so di che cosa parla inno di Romania: parla di liberazione. Ho sentito, ho sentito quello italiano. Tu conosci l’inno?! Allora fammelo sentire?

Perché secondo te io sono brava a cantare? Hai visto come ho cantato? Dai fai sentire, tu sei italiana, è importante cantare in italiano inno italiano. Dai fai sentire a me. Io non ho mai visto italiano che canta inno italiano, ti faccio fare brutta figura quando torno in Romania perché dico che italiani non vogliono cantare inno italiano. Vi faccio fare brutta figura. Canta, canta!

[A volte, spesso, succede che il pubblico si metta a cantare l’inno nazionale italiano. Se a bordo c’è qualcuno di altre nazionalità, è libero di cantare il proprio inno di riferimento].

Vai in Italia, vai in Italia, diceva mio padre… e sono venuta in Italia. Ho detto: guarda che per andare in Italia ci vogliono soldi, il viaggio è lungo, tu fai dalla Romania: Bulgaria, Macedonia, Albania e ad Albania prendi nave. Chi deve pagare questi soldi? E lui ha detto, tutto si può fare. Era un uomo tremendo, se diceva una cosa bisognava fare come diceva lui, non potevi fare niente, aveva deciso così: e ha trovato soldi. Ha detto, c’è amico di tuo fratello, lui può pagare viaggio. Ha deciso il giorno, questo giorno tu parti. Ho preso furgone, furgone di merda. Scusa, si può dire?! Si può dire che furgone di merda? Si può dire?

Non c’ero solo io, c’erano altre persone, tutte schiacciate, non ti potevi muovere, non potevi muovere le gambe. Io ho detto chi ha pagato qua? Chi ha pagato questa schifezza? Chi? Vai! Vai! Vai! Diceva mio padre. Ha pagato amico di tuo fratello, quando vai in Italia che ti metti a lavorare gli dai i soldi indietro. Ho fatto, ho fatto. Furgone di merda; che tutto puzzava, i vestiti puzzava, scarpa puzzava, bocca puzzava, i capelli puzzava, tutto puzzava! Quello che guidava uno stronzo eh, scusa! Posso dire parolaccia? Tu dici parolaccia?

Quello stronzo che guidava non si è fermato per un sacco di tempo! Che c’era quelli che dovevano fare i bisogni eh… che credi, è normale. Si è fermato dopo un sacco di tempo a un parcheggio: dai tutti a fare i bisogni, dice. Poi tutti velocemente sopra che questo parte e ti lascia in mezzo alla strada! Ma tu lo sai se ti lascia solo in mezzo alla strada? Se ti lasciava là che facevi? Morto, ti dico io!

Schifezza! Schifezza! Arrivati in Albania ci siamo fermati a stazione di benzina. Hotel Juko Petrol, mi ricordo. Ci hanno fatto scendere e io ho detto: in albergo, ci riposiamo, domani mattina ripartiamo di nuovo. Si avvicina un tizio che non conoscevo, italiano, con capelli rossi; mi guarda così, con la sigaretta in mano, ti giuro! Mi guarda così. E dice: sei bella! Ma tu sai che cosa ha risposto io? Gli ho risposto: grazie, ricambio con piacere. Hai capito? Grazie, ricambio con piacere! Questo si è piegato in due dalle risate perché sul vocabolario era scritto che se uno ti dice una cosa bella tu devi rispondere: grazie, ricambio con piacere. E questo si è piegato in due dalle risate, lui rideva come un pazzo! Mi ha detto dai vieni, ti porto all’albergo, e mi ha portato all’albergo. Arriva un altro che non conoscevo, che io pensavo che era uno dell’albergo, che lavorava là. Mi porta in camera, apre e fa: questa è la camera, poi mi dice: ce l’hai il cellulare? Sì ce lo dico io, e lui: fai vedere. Io prendo il cellulare e glielo faccio vedere, quello prende il cellulare mio e se lo mette nella tasca. Io mi metto a gridare come pazza: aiuto, aiuto! Al ladro, al ladro! E questo mi dà uno schiaffo in faccia che mi fa cadere a terra e non mi fa capire niente. Prende la borsa mia e tira fuori tutte le cose dalla borsa, prende il documento mio e se lo mette in tasca, e io dico ti prego no documento come faccio io senza documento, questo mi schiaffa in faccia che mi fa cadere di nuovo, va alla porta, esce e chiude la porta, io vado alla porta, la porta non si apre, vado alla finestra e il furgone non c’è più, non c’è più nessuno, da sola! Da sola in un paese che non conosco, che fai?

Non puoi fare niente, non puoi fare. Vado alla porta, mi metto a battere i pugni fortissimi “Aiuto! Aiuto! Per favore! Aiuto! Per favore!”
Mi metto a gridare come una pazza e dopo un sacco di tempo che stavo a gridare arriva quello di prima, quello con i capelli rossi che aveva detto: “Sei bella”, che mi aveva fermato. “Che è successo? Che è successo?” “Mi hanno rubato! Mi hanno rubato il cellulare! Mi hanno rubato il documento! Mi hanno rubato tutto! Aiuto! Aiuto! Per favore! Madonna!”.

Facevo così casino che questo sfonda la porta, entra in camera, viene e dice: non ti preoccupare stai tranquilla che sistemiamo tutto, sistemiamo! Chi ti ha rubato? Chi ti ha rubato? Io gli dico il fatto, di questi che mi hanno rubato così e così… Lui dice: io conosco a questi! Questi (sono) delinquenti! Questi (sono) ladri che rubano alla povera gente, io conosco! Stai qua! Non ti muovere, vado a parlare con questi, vado io a parlare che conosco loro. Vediamo se mi danno il documento, vediamo, vediamo… Tu sta qua, Non ti muovere, che se questi vedono che sei uscita pensano che tu vuoi andare dalla polizia, ti ammazzano! Chissà cosa ti fanno! Non ti muovere di qua!

È andato, è andato a parlare.

Mi ha lasciato là ad aspettare, che dovevo fare? Che dovevo fare? Da sola, in paese che non conosco. Che dovevo fare? È andato. Meno male! Meno male che stava lui! Che fai in un paese che non conosci? Da sola senza soldi, senza documenti…

Questo è tornato dopo un poco e mi ha portato la pizza e la birra. Tu sei andato a parlare con questi? Sono andato, sono andato. Hai fame? Mangia. E mi sono messa a mangiare, perché avevo tanta fame. Lui ha detto, io ho parlato con questi, e questi dicono che non sanno se ti danno documento perché non si fidano. Adesso vediamo, tu stai qua e non ti muovere! Non uscire, io vado a parlare e vediamo se in questi giorni ti danno un documento che sennò non puoi partire. E mi sono messa a mangiare e lui si è messo a parlare. Madonna che chiacchierone! Che se sapevo che un uomo italiano così chiacchierone. Tu ce l’hai il fidanzato? Ma è italiano? A lui gli piaceva a dire le barzellette, come dei proverbi di casa sua, che lui era di Bari, e gli piaceva a dire i proverbi: “Rossi e cavalli stellati, uccidili appena nati…” che vuol dire mo?

Si metteva a ridere come pazzo. A me non mi faceva ridere per niente che non capivo, io gli dicevo poesie e canzono in rumeno e questo non capiva niente. Io non lo capivo a lui, lui non mi capiva a me: che coppia proprio! Ci mettiamo a parlare, meno male che stava a lui! Che dovevo fare? Mi portava da mangiare, mi portava tutto quello che mi serviva perché non potevo uscire. Meno male che stava lui! Due settimane nella camera di Juko Petrol ad aspettare; e lui veniva, qualche volta si fermava a dormire, che vuoi che mi guardi così? Tu sei stata innamorata! E allora mi puoi capire, che vuoi? Un uomo bello, italiano, con i capelli rossi, i denti bianchi in mezzo alla faccia rossa, rideva sempre, con la camicia bianca, le spalle grandi. Si fermava e prima di mettersi a dormire mi dava i baci diceva, come sei bella, sei bella, belle gambe, belle braccia, bella bocca, e si metteva a dormire e io lo guardavo e dicevo, ma chi lo conosce a questo, che mi dice “ti porto in Italia”, chi lo conosce? E mi stendevo con la guancia sul bordo di materasso e mi mettevo a contare scarafaggi. Quattordici erano, ma raramente uscivano tutti insieme, si davano il cambio si davano! Ahahaha!

Che io conto tutto io, io! Conto tutto, io so tutto. Che se tu conti, non te ne vai con la testa!

E quando lui si svegliava che accendeva la luce si nascondevano dentro i muri, non si facevano vedere da lui! Ahahaha! E lui si metteva di nuovo a fare il pagliaccio, a dire barzellette e io dicevo, tu sembri Dudok! Chi cazzo è Didok? E io, Dudok è attore di Romania, pagliaccio che faceva la televisione per bambini. Si metteva il cappello, si metteva il cappotto e faceva così. E lui si metteva il cappello, si metteva la giacca e faceva pagliaccio per tutta la stanza che agitava le braccia così. Era bello. E io mi mettevo a cantare canzoni in rumeno. Che coppia! Che coppia!

[Tira fuori dalla borsa una cassa bluetooth e mette su una canzone rumena con il telefonino. La canzone è “Cea mai frumoasa zi” di Alexandru Andries].

Ti dà fastidio se sento musica? Tu sei stata innamorata? E non mi vuoi cantare la canzone d’amore?

[Fa partire la musica dalla cassa. La canzone viene ascoltata in silenzio mentre il furgone esce dalla città, verso la periferia. Lei resterà in silenzio. Chi è a bordo può ascoltare, parlare, fare insomma tutto ciò che sente più consono al momento. Lei interromperà il silenzio sul finire del brano].

Una mattina lo vedo arrivare con un tizio, che non conoscevo, italiano, che li vedevo affacciati alla finestra a bere la birra, e lui dice, questo è Gianni; Gianni è amico mio; Gianni dice che sei bella; è vero che sei bella; adesso vi faccio fare un poco d’amicizia. E lui si va a sedere alla seggiola di plastica così, e si mette a guardare. Gianni non dice niente, e senza parlare si alza, si sbottona il pantalone, si toglie tutto, calzini, mutande… e viene verso di me.

Quando sei straniero… che stai in un paese che non conosci, stai in mezzo alla strada e occupi uno spazio. E pensi che siccome sei straniero devi pagare debito. E il debito non è una cosa che hai fatto, ma spazio che occupi. [Si sfila i pantaloni]. E io ho pagato debito, ho fatto quello che dovevo fare, pure Gianni ha fatto quello che doveva fare; poi si è vestito di nuovo: scarpe, calzini, mutande, e se ne è andato.

E lui è stato tutto il tempo seduto alla seggiola di plastica così, a guardare. E quando Gianni se n’è andato, si è alzato veloce, è venuto da me, mi ha abbracciato e mi ha detto, io ti amo, ti amo. Non ti preoccupare, io ti porto all’Italia. Io ti sposo e ti porto all’Italia. Ti amo, ti amo.

[Al pubblico]. E io ti giuro che il giorno dopo, siamo partiti all’Italia.
 
[Con il cellulare, fa partire dalla cassa The Greatest di Sia, ad alto volume. L’attrice indosserà sette o otto paia di mutandine da sotto i pantaloni che si è appena sfilata. Durante la musica si sfila tutte le mutandine una ad una. Poi prende dalla borsa un flacone con dosatore, con dentro del detergente, una scatola di latta e posa tutto sul tavolino allestito alla sua destra].

Quando sono arrivata in Italia lavoravo dalle 9 della mattina fino alle 5, le 6 del pomeriggio, a volte la notte; i clienti andavano e venivano, erano tanti, io contavo, [prende la scatola di latta, la apre mostrandola al pubblico, è piena di preservativi]. con questi contavo: vedi quanti c’hai la mattina e quanti c’hai la sera, e hai contato. Io conto tutto, io so tutti; che se conti non te ne vai con la testa! C’erano ragazze come a me che venivano da Romania, Albania, Bulgaria, Ucraina, che avevano fatto il viaggio col furgone, e poi c’erano ragazze che venivano d’Africa che avevano fatto viaggio nel mare, ma prima di arrivare al mare c’è il deserto; il deserto è grande come al mare, stessa cosa; qualcuno rimaneva nel deserto, qualcuno arrivava, al mare. Bambine, senza documento, senza niente, che quando arrivava assistente sociale o polizia che chiedeva, chi sei? Come ti chiami? Quanti anni hai? Si giravano dall’altra parte e non rispondevano, si mettevano a cercare clienti, che se c’è il cliente vuol dire che stai a lavorare a nessuno ti può dire niente, se c’hai il cliente è come se non esisti, come se non ci sei, il cliente è la cosa più importante di tutte! Stavano le ragazze di Romania che quando arrivava Natale e Pasqua se ne tornavano a casa loro a trovare i figli, se ne trovavano, che io dicevo sempre ma che gli dicono queste ai figli quando tornano a casa? Che fa mamma all’Italia? E risposta sempre la stessa: la badante! Città intere di badanti!

[Mentre lei parla il furgone si ferma su uno slargo, parcheggiando perpendicolarmente al flusso stradale].

Io, per mio furgone sopra la statale, pagavo 250-300 euro al mese; che stavano africane che quelle non ce l’avevano il furgone, non c’avevano niente, occupavano posto in mezzo alla strada, e per posto sopra al marciapiede pagavano 300-350 euro al mese. Che stavano vicino alle brasiliane che c’avevano la casetta quelle, ma per posto nella casetta sopra la statale, pagavano tanto: 400 500 euro al mese. Stavano vicino a una che si chiamava Duina, di Romania come a me, che le controllava a tutte quella strega: dove andavi, che facevi, come ti vestivi, se lavoravi, se non lavoravi. Pure a me mi controllava quella! Ma io c’avevo Liliana, l’amica mia, signora rumena grande: 60 anni. Stava da tanto tempo, c’aveva motorino e andava, veniva, faceva come voleva e diceva ancora due anni per pagare il debito del negozio di mio marito in Romania e poi me ne torno a casa mia; e tu pensi che quella se n’è tornata a casa sua? Le ho viste io quelle grandi, 60-70 anni, che aspettavamo il giorno che se ne dovevano tornare a casa loro… se ci arrivano a 60 anni.

Tutte quante c’avevano il protettore e tutte quante c’avevano paura del protettore. Tu credi che io c’avevo paura del protettore mio? Io non c’ho paura di niente! Di niente c’ho paura io!

[Apre il portellone, scende in strada, passeggia sul ciglio. Dopo poco, siede sul gradino del portellone]. 
 
Il protettore mio era il mio fidanzato: il Rosso. Eh che vuoi? Che quando siamo arrivati all’Italia mi ha portato nella casa nuova, a Bari; una casetta piccolina, con le scale altissime, le pareti verdine, le finestre piccolissime con la retina marrone, e ha detto questa casa tua adesso [come a voler correggere le parole di lui]. Questa casa nostra!

Era bravo, era bravo; Liliana diceva lui imbecille, palle mosce! Ma stai zitta cretina, che dici, che ne sai; è così, è così, diceva lei. Ma stai zitta lui è mio fidanzato, lui mi sposa. Allora lei diceva lui palle mosce e pure bugiardo!

[Pausa. Rivolta al passeggero più vicino, guardandolo in faccia]. A te piace il sole? A me mi piace il sole.

Che io vengo dalla campagna, vengo! A Cocora fa freddo in inverno, che credi? Quando pensi che è ancora estate… già inverno, quando pensi che è ancora giorno...già notte, quando dici vedi il fiore è nato… già morto, stecchito di freddo proprio.

[Rivolta al passeggero di prima, guardandolo in faccia]. Ti voglio far vedere una cosa, una cosa bella, vuoi? Se non la vuoi vedere non te lo faccio vedere ma è una cosa bella, che ho fatto io. Ma tu mi devi dire se non ti piace, non è che ti deve piacere per forza; tu me lo puoi dire se non ti piace, io non mi offendo; devi essere sincero, va bene? E se ti piace facciamo vedere pure agli altri.

[Apre la borsa e tira fuori un taccuino: è pieno di disegni molto marcati che rappresentano un bambino neonato. Lo mostra al passeggero]. Ho fatto io questo, ti piace? [Rivolta agli altri]. Che si vede che non gli piace, è sicuro che non gli piace. [Il passeggero risponderà qualcosa. Lei con orgoglio]. A me mi piace disegnare. Facciamo vedere agli altri? [Mentre il taccuino passa di mano in mano e anche gli altri guardano il disegno, lei, indicandolo e rivolta al passeggero]... Mio figlio.

Che le altre ragazze dicevano che non te lo fanno tenere! Chiama assistente sociale che ti fanno abortire! [Si porta l’indice alla tempia]. Lui diceva che cazzo hai combinato? E io, ma non è successo con nessuno di quelli, è successo con te. Che ne sai cretina, che ne sai? Lo so e basta. Poi mi ha chiesto pure lui se volevo abortire, a che mese stai? Al quarto. E si è messo a guardare fuori dalla finestra, non parlava, che io ho detto questo mi ammazza adesso, questo mi spacca proprio! Ma te l’ho detto: era bravo. Infatti mi guarda mi fa, e va bene se te lo vuoi tenere questo bambino tienilo, ma sono fatti tuoi, non ne voglio sapere niente, e continui a lavorare fino all’ultimo giorno! Ma io presto avrò un pancione, grosso, grossissimo pancione. E si è messo a ridere.

Con tutti i pervertiti che stanno vedi che con la pancia i clienti diventano di più… c’aveva ragione. Non mi sono messa più a contare però. Basta non conto più.

[Prende il taccuino, volta qualche pagina; lo fa vedere al passeggero e questa volta sono raffigurati due bambini invece di uno].

Due.

[Prende il cellulare e mette su “Tacerile din piept” di Alexandru Andries. Il furgone riparte. Il taccuino viene fatto girare, mentre la musica va].

Gemelli: due piccoli Barbari. [Ride forte]. Si dice così? Maschi, bellissimi, bianchissimi, pelati, selvaggi fin dal primo giorno. Che li ho portati a casa nostra, nella casetta, e i bambini dopo poco cominciano a diventare rossi! [Ride forte]. Rossissimi! Uguale a lui: stessi capelli, stessi occhi, stessa bocca. Che quando li ha visti che doveva dire? Erano i suoi!

Allora è arrivato un giorno e ha portato una grossa culla gialla, bruttissima, che aveva trovato non so dove e dice ecco vedi come sono carini qua dentro? Come stanno bene, da qua non scappano, c’è pure retina, come gabbia. E io gli ho detto, beh, c’abbiamo i bambini, c’abbiamo la casa, ci vogliamo bene, che facciamo, ci sposiamo? E lui ha detto che vuoi fare? A questi due gli devi dare da mangiare; e c’aveva ragione. E ho fatto, ho fatto. Mi sono messa a lavorare e lui veniva, stava con i bambini, era bravo, era! Li faceva ridere, si metteva a dire le barzellette e i bambini ridevano, ma di più di come ridevo io: capivano meglio, erano nati qua loro, non erano stranieri come a me, erano come a lui, uguali. I bambini sono della madre: non è vero! I bambini sono del padre, perché è il padre che dà la casa, il padre che dà il nome. E loro ridevano come a lui, stesso sorriso, stesse labbra, stavano bene con lui. E così io mi potevo mettere a lavorare, mi ero messa a contare tutto di nuovo. Oggi quindici clienti, oggi venti clienti, tutto contavo, che se conti non te ne vai con la testa. Oggi sei barzellette, oggi quattro barzellette, oggi tre sorrisi, oggi due baci ai bambini, un bacio a me, e lui veniva. Oggi dieci minuti, oggi cinque minuti con l’occhio all’orologio, alla macchina… Il conto scendeva, sempre di meno e Liliana che diceva, le corna ti mette! Le corna! Ma stai zitta cretina, che dici? Lui è il padre dei miei figli, lui ha dato la casa, lui è mio! È così, diceva lei, è così; gli uomini sono traditori, è normale; se non è così mi taglio un dito, la mano mi taglio, il braccio!

Allora sai che ho fatto un giorno? Ho chiuso i bambini a chiave a casa e l’ho seguito.

Salgo sul motorino dietro a Liliana, lui guida col braccio da fuori al finestrino, la testa rossa, di fuoco proprio; arriva vicino all’Università e parcheggia; entra in un negozio piccolissimo, una profumeria, e che è tipo da profumeria quello? Si vede che lo conosce perché entra veloce, come se sa. Liliana dice, vai a vedere, là dentro c’ha la donna. Io scendo dal motorino con il casco in testa e mi nascondo dietro la vetrina e là, dentro, la vedo: la donna; bionda, con queste labbra grosse come due gommoni, due vermi; io ho le labbra piccole e graziose. Chi è questa? Che c’entra con noi? Questa parla, parla… Gli mette la mano qua, sul braccio: questo braccio di lui è mio. Poi gli dà un bacio qua, tra collo e orecchio: questo punto di lui è mio, lui è tutto mio, lui è padre dei miei figli, lui ha dato la casa, che c’entra questa con noi? Chi la conosce? Loro escono dal negozio, io torno sul motorino dietro Liliana, loro vanno al Bar: si siedono, si guardano, si baciano, si tengono per gli occhi, e Liliana che dice, se li vuoi vedere scopare devi venire stasera. No grazie; poi mi fa, eh questi traditori li dobbiamo ammazzare tutti, peccato che li amiamo così tanto; e io dico che proprio per questo dobbiamo, proprio per questo.

[Si toglie le scarpe e le ripone nel borsone accanto a lei con il quale è salita sul furgone all’inizio. Dallo stesso borsone prende dei pantaloni militari da uomo, piegati con estrema cura come se fosse una bandiera nazionale. Con altrettanta cura apre il fagotto, rivelando i pantaloni militari; se li poggia sulle ginocchia e li accarezza con la mano, come a voler eliminare alcune grinze. Poi molto lentamente li indossa. Il furgone continua la sua corsa, verso il ritorno].

Che non devo parlare per forza io. Mi sono stata zitta, mesi; non ho parlato, non ho detto niente; Questo veniva, io lo guardavo, lo controllavo. Un giorno arriva e si siede sulla seggiola di plastica, e mi fa: ti devo parlare. E io zitta. Poi lui fa: sai, ho una certa età, ho bisogno di mettere su una famiglia, una famiglia vera. E insomma mi sposo; con una italiana, di qua, tu non la conosci; ma tu i bambini te li puoi tenere, sono tuoi, tra poco vanno a scuola, ti passo qualcosa; e quando mi sposo vado a vivere in un altro paese, non vivo più qua; e poi cambio mestiere, faccio un altro lavoro. Allora parlo, e dico: quella vacca italiana ti ha fatto cambiare pure mestiere? Ma chi sei tu? Non ti riconosco, chi sei? Scommetto che quando sei sposato con quella non sei nemmeno più rosso diventi nero, o che so io; a me mi piacevi rosso; rosso eri bellissimo. Ma che dici, fa lui, che dici? Si alza, va alla porta, guarda i bambini per l’ultima volta e se ne va. Ti giuro che è stata l’ultima volta che l’ho visto.

[Dal borsone prende delle scarpe Converse All Stars sporche e consunte e le indossa]. 

Che dovevo fare? Che dovevo fare? Mi sono messa a guardare i bambini che stavano a giocare; uguali a lui i bambini: stessi occhi, stessi capelli… I bambini sono della madre? Non è vero, i bambini sono del padre; perché è il padre che dà la casa, è il padre che dà il nome. Tu a tua madre la ami? È naturale, è normale; come cane ama padrone. Ma amare il padre è la scelta totale. Dai bambini venite, giochiamo insieme, e mi sono messa a giocare con loro. Abbiamo fatto Dudok: ci siamo messi il cappello, si sono messi il cappotto, ci siamo messi a fare il Carnevale. Poi li ho vestiti da Zingari, che non è stato facile con quella pelle da scozzese ubriaco; e gli ho fatto vedere come si fanno elemosina: [Come facendo le elemosina] “Per favore bella signora, un euro per questi miei bambini”. [Ride]. E i bambini vedevano me e facevano pure loro [Imitando la voce dei bambini]: “Bella signora per favore un euro per questi bambini”. Dai, bambini, usciamo! Andiamo fuori! E siamo usciti in strada e ci siamo messi a fermare le persone veramente: “Bella signora un euro per questi bambini”. Li guardavo camminare, con il loro sorriso, un sorriso buono come a lui, come al padre e pensavo, niente di così buono può venire fuori da me. Lui non è cattivo: è un poveraccio, un pappone del sud, un uomo che non sa fare discorsi e i bambini sono come a lui, sono buoni.

[Dalla scatola di latta che contiene i preservativi, prende un dischetto di quelli che servono a togliere il trucco; con il flacone dosatore lo copre con un po’ di detergente struccante e inizia a struccarsi il viso: via il rossetto, via il phard, via la matita nera e il mascara. L’azione durerà per tutta la scena che segue].

Mi ricordavo alla perfezione dov’era la profumeria, entriamo e la donna è dietro al bancone; ride, poi alza la testa, mi guarda e in due secondi e mezzo mi riconosce: “Zingara con figli mendicanti nel mio negozio”.

Non c’ho niente, dice lei, ve ne dovete andare. E io, bella signora per favore un euro per i miei bambini, e i bambini dietro di me, pure loro, bella signora per favore un euro per questi bambini. Ho detto che ve ne dovete andare, fa lei, non c’ho niente.

Allora mi avvicino, apro la borsa e tiro fuori il coltello, quello grosso che c’ho nel furgone per quelli pericolosi; quella vede il coltello e fa, ti prego, ti prego non mi fare male, ti do i soldi ma non mi fare male! Chiudi la saracinesca, grido io; quella va a chiudere, i bambini dietro di me: non si sono accorti di niente, ti giuro.

Quella chiude la saracinesca, la guardo da vicino: e tu mi hai lasciato per questa? Per una donna così, con questo sorriso scemo, senza cattiveria.

Come ti chiami, dico io, e lei, Manuela, e io mi metto a ridere, che non so perché mi fa ridere che questa si chiama Manuela. Allora la guardo, i bambini dietro di me, di niente si sono accorti, ne prendo uno e glie lo metto davanti, lei lo guarda e io dico il suo nome, il nome di lui; quella apre gli occhi, capisce tutto. Allora io prendo il bambino, me lo porto davanti alla pancia, con una mano tengo ferma la testa e con l’altra gli taglio la gola; poi prendo l’altro bambino, me lo porto davanti alla faccia, con una mano tengo ferma la testa e con l’altra gli taglio la gola, e quelli vanno giù veloce, che ti giure non si sono accorti di niente, di niente si sono accorti, che io lo so come si fa, lo so come si passa la lama; poi prendo il coltello, prendo lei dai capelli…

[L’attrice avrà indossato una parrucca dall’inizio. L’azione sarà breve: con un gesto rapido della mano si toglierà la parrucca e la terrà come uno scalpo, e con l’altra si passerà il dischetto struccante sotto il mento, da un orecchio all’altro, con un gesto che imita uno sgozzamento].

… e quella va giù, morta.

Andando via ho lasciato la saracinesca aperta un poco, perché così nel pomeriggio lui arriva, entra e vede, il futuro suo che non c’è più.

[Piega per bene la parrucca e la pone nel borsone, poi getta il dischetto nella scatola di latta e la richiude].

Non ero registrata: niente indirizzo, niente documento, niente Facebook, sono sparita. Gli amici suoi mi cercano, ma io scappo.

[Prende la borsa e ci mette dentro la scatola di latta, il flacone, la cassa per la musica e il cellulare, e la richiude, riponendola a terra accanto a sé]. 

Che ne sa lui? Che ne sa? Lui è un poveraccio, un uomo sazio, poco pratico delle cose della morte, che ne sa? Arriviamo in massa, sfondiamo confini, ci caliamo nei tunnel, saliamo sui barconi, andiamo incontro alla morte e tutto, per partecipare al vostro giardino, alla vostra felicità. Ma poi ho capito che non era al vostro giardino o alla vostra felicità che volevo partecipare: io volevo partecipare alla vostra follia.

E allora perché non portare fino in fondo questa follia? Forse è questo il compito dello straniero: portare lo stato del popolo che lo ospita fino alle estreme conseguenze, qualunque esso sia.

[Prende dal borsone una felpa scura, con cappuccio e la indossa. Dall’auto-radio del furgone si sente, a basso volume, The Greatest di Sia].

[Rivolgendosi all’autista] Fermati, voglio scendere! [Nuovamente rivolta al pubblico]. Adesso però, con queste mie mani, voglio prendere il mondo e lo voglio spaccare in due e mi voglio sedere in mezzo a due tronconi, e da lì vi voglio guardare; dal lato di una strada di una grande città, dai bordi di una grande folla di gente come me, io vi voglio guardare: chi siete? Chi siete? … Che volete? [All’autista]. Fermati, ti dico! Fammi scendere!

[Lei apre il portellone, l’autista accosterà sul bordo della strada. A veicolo fermo lei butta giù sul marciapiede borsa e borsone, si tira su il cappuccio della felpa e salta giù anche lei. Chiude il portellone, lasciando il pubblico a bordo, raccoglie le borse e si incammina nel senso opposto alla marcia del veicolo, che ora può ripartire. A bordo, la musica sale un po’ di volume. Fuori, lei si confonde tra la gente, finché scompare].

English abstract

With Medea per strada (Medea on the Streets), Teatro Dei Borgia tried to read and tell the story of millions of human beings, mostly women, who left their countries for a dream only to find themselves as slaves of the prostitution racket once they reached Italy.
Medea per strada rewrites the myth of Medea and reveals the ‘tragedy of the stranger’ with the strength of the Greek myth to a contemporary public.

keywords | Medea; tragedy and contemporaneity; classical tradidtion; immigration; foreigner; forced prostitution; sexual slavery.

Per citare questo articolo / To cite this article: F. Sinisi, E. Cotugno, Medea per strada. Testo integrale della drammaturgia, “La Rivista di Engramma” n. 194, agosto 2022, pp. 119-136 | PDF dell’articolo 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.194.0007