"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

193 | luglio 2022

97888948401

Esposizioni di niente/Testi per niente

Massimo Maiorino

English abstract

rien nul
n’aura été
pour rien
tant été
rien
nul
Samuel Beckett, Mirlitonnades (1978)

1

Scrivere sul nulla, addirittura costruire un grande romanzo sul nulla, era l’‘impossibile’ progetto di Flaubert, finanche dichiarato in una lettera indirizzata a Louise Colet il 16 gennaio del 1852: “Ce que je voudrais faire, c’est un livre sur rien” (Flaubert [1852] 1980, 31); un’intenzione poi inverosimilmente ribaltata, ma solo a uno sguardo da lontano, in un romanzo enciclopedico e incompiuto sul ‘tutto’, Bouvard et Pécuchet (1881), che segna il momento “in cui ci si accorge che il linguaggio non offre alcuna garanzia. Non c’è alcuna istanza, alcun garante del linguaggio. È la crisi della modernità che si apre” (Barthes [1976] 1986, 243). Un azzeramento per saturazione che produce, osserva ancora Barthes riprendendo Lévi-Strauss, non l’insignificante, ma la “‘carenza di senso’. Non c’è il senso, ma come un sogno del senso”.

Un secolo dopo, in un mutato orizzonte epistemologico e cognitivo per effetto del filtro dirompente delle avanguardie, il progetto flaubertiano assume le abbacinanti tonalità del bianco e le scheletriche sembianze di una parola scarnificata che trova un’eco grottesca e amplificata nel vuoto circostante. A profilarsi nel quadro tramontante della fine degli anni Cinquanta sono le figure di Piero Manzoni e Samuel Beckett, le cui ricerche appaiono ri-flettersi nella trama dell’Achrome, tela-sipario che assorbe i ‘residui’ di senso ricordati da Barthes, per poi gradualmente scivolare verso l’esposizione – il mettere esposto, il mostrare al pubblico, ma anche l’esporre al rischio, alle critiche, al ‘ridicolo’ – del niente.

A operare questo ‘innesto’ sul versante dell’immagine è Piero Manzoni che, forzando allo stremo la lezione duchampiana e l’eredità del suprematismo malevičiano, avvia allo scadere degli anni Cinquanta una ricerca che segna il definitivo svuotamento dello spazio pittorico e decreta un finale di partita azzerante di qualsiasi grado di visibilità[1]. Achrome[2] – privo di colore – infatti, s’intitolano una serie di lavori che determinano la parabola artistica dell’artista milanese dall’autunno del ’57, opere certamente nutrite da una fitta rete di riferimenti in circolazione nello spazio delle arti visive del tempo – dai modelli seriali e silenziosi perseguiti da Ad Reinhardt e John Cage sul versante USA alle ricerche spaziali monocromatiche di Lucio Fontana e al Bianco su bianco (1953) di Alberto Burri sul versante italiano, come con decisione ha osservato Celant[3] – ma distinte da una superiore strategia di condensazione e di ‘nullificazione’. Così nel biennio tra il ’58 e il ’59, impegnandosi quasi in un’autofiliazione, Manzoni vira gradualmente verso la ‘maniera’ bianca esponendo, nella personale alla Galleria Pater di Milano nel marzo del 1958, opere dalla superficie compatta di gesso o caolino su tela che non presentano “alcuna tonalità o memoria cromatica, memoria della natura o della dimensione passionale dell’artista” e si mostrano come “superficie desertica che non riverbera alcunché di carnale e che, salvo la sua presenza ovvia e banale, non rimanda ad alcun dramma sociale e personale” (Celant 2007, 28).

Una tabula rasa con il passato e la tradizione di cui lo stesso Manzoni annota la portata in un testo teorico emblematico, già dal titolo, di una condizione ‘nuova’, Libera dimensione: “Non si tratta di ‘dipingere’ bianco su bianco (sia nel senso di comporre, sia nel senso di esprimere): esattamente il contrario: la questione per me è dare una superficie integralmente bianca (anzi integralmente incolore, neutra) al di fuori di ogni fenomeno pittorico, di ogni intervento estraneo al valore di superficie: un bianco che non è un paesaggio polare, una materia evocatrice o una bella materia, una sensazione o un simbolo: una superficie bianca che è una superficie bianca e basta” (Manzoni 1960).

Piero Manzoni, Achrome, caolino su tela, 1958, Tate Modern London.

2

Con Achrome Manzoni avvia un’indagine serrata, scandita da variazioni e iterazioni che, occupando/svuotando il polo visivo del nostro discorso (lo spazio dell’immagine), celebra l’incolore, l’assenza, lo zero e prefigura il niente. Una via radicale, quella aperta dall’artista milanese, segnata da una suggestione – colta e annotata argutamente da Cortellessa – che apre all’altra polarità del discorso (lo spazio della scrittura). Si tratta della figura ‘inafferrabile’ di Samuel Beckett che sembra inaspettatamente e ‘casualmente’ avere suggerito l’itinerario acromatico manzoniano: “Ricorda l’amica Coca Frigerio che nel ’57 PM [Piero Manzoni] l’accompagnò alle prove di una recita studentesca di En attendant Godot, le cui scene comprendevano fra l’altro delle maschere rivestite di garza, gesso, colla e appunto caolino; e che subito PM entrò in cartoleria a procurarsi il necessario” (Cortellessa 2018, 24-25). Se la mise-en-scène del Godot, la cui prima italiana nell’allestimento di Luciano Mondolfo è del 1954 – di due anni dopo è la traduzione del testo in italiano maturata nel contesto culturale del Piccolo Teatro di Milano[4] – offre una prima affascinante ipotesi di cortocircuito visivo-testuale tra Manzoni e Beckett, l’Achrome ne manifesta gli effetti registrando nello spazio bianco della tela quanto l’autore irlandese aveva prefigurato, anticipando l’operazione manzoniana, nello spazio del testo: svuotare dall’interno la forma teatrale, “riducendo la conversazione a un dialogo fine a se stesso, privato della sua funzione significante” (Bertinetti 2002, IX); così è proprio lo splendore cieco dell’Achrome a schiudere a una inattesa ‘conversazione’ sul niente che conduce all’ineludibile condizione espositiva di una scrittura per niente, di una mise en scene con niente e di una mostra di niente.

A prendere forma è un teorema al cui vertice campeggia l’Achrome, aniconica ‘entità’ la cui immutabilità riflette, di volta in volta, il vuoto dell’opera, il bianco della pagina, la sparizione dell’esposizione, ma che diviene anche emblema scintillante di un instancabile processo di riproduzione che parte e arriva sempre allo stesso punto, attraversando il “ripetibile all’infinito, senza soluzione di continuità” (Manzoni 1960) del campo pittorico o l’incessante “balbettio” (Frasca 1999, LVII) della lingua che accompagna le pratiche discorsive beckettiane. Ma nel farsi bianco dell’Achrome, nelle infinite pieghe che l’attraversano, si legge l’ombra inquietante del fallimento che connota ogni ricerca, che rivela la tragica e grottesca condizione che accompagna il transito di Manzoni e Beckett, con il milanese che appuntava, già dal ’54, nel suo Diario: “Non ho nulla da seguire … la pittura … non so dipingere. Scrivere … non so scrivere, vivo in un mondo e in un modo che non mi soddisfano e che non oso abbandonare né posso seguire del tutto”, e ancora più definitivo “mi sento un fallito, un fallito in tutto” (Manzoni 2013, 45). Una riflessione che assume il tono di un programma al cospetto del quale risuona, ancora più beffardo e assurdo, il ‘motto’ beckettiano: “Fallire di nuovo. Fallire meglio di nuovo. O meglio peggio. Fallire peggio di nuovo. Ancora un po’ peggio di prima” (Beckett [1983] 2008, 66-67). Una predisposizione al fallimento che gli “spasmodici” bianchi di Manzoni, così li definiva il sodale Vincenzo Agnetti, provano paradossalmente a eludere con l’artista che afferma: “Alludere, esprimere, rappresentare, sono oggi problemi inesistenti, sia che si tratti di un oggetto, di un fatto, di un’idea, di un fenomeno dinamico o no: un quadro vale solo in quanto è, essere totale: non bisogna dir nulla: essere soltanto; due colori intonati o due tonalità dello stesso colore sono già un rapporto estraneo al significato della superficie, unica, illimitata, assolutamente dinamica: l’infallibilità è rigorosamente monocroma, o meglio ancora di nessun colore” (Manzoni 1960). Per Manzoni, dunque, l’infallibilità è monocroma, anzi di nessun colore e mette in scena reiteratamente “un solo e medesimo valore, ripreso secondo varianti infinite” (Celant 2007, 35), figurando in questo modo il ‘motivo’ del Godot beckettiano: “Torneremo domani. / E magari dopodomani. / Forse. / E così di seguito” (Beckett [1952] 2002, 13). Un modello che fa della lingua (opera) un sistema in variazione perpetua. O piuttosto, secondo la lezione deleuziana, è la variazione stessa che diviene sistemica (Deleuze, Guattari [1980] 1987).

Allora che Beckett sia nel raggio di Manzoni e che la sua opera sia uno spazio di costante interrogazione per l’artista italiano ne è prova flagrante l’Achrome, ma una traccia suggestiva di tale ipotesi che in questo luogo stiamo azzardando giunge anche dalla presenza, non casuale visto l’antecedente ricordato dalla Frigerio, sulle pagine del primo numero del 1959 della rivista “Azimuth” [5], diretta da Enrico Castellani e Piero Manzoni, della poesia Accul dell’autore dublinese che segue di una pagina la riproduzione di un Alfabeto manzoniano del 1958.

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Leggere in filigrana il nome di Beckett nella ricerca di Manzoni, ma anche osservare la superficie bianca degli Achrome come una tela-sipario che dispiega nel terreno iconografico le pratiche ‘sottrattive’ che innervano i testi beckettiani, significa abbandonarsi a un movimento la cui stazione successiva, l’ultima, prima dell’avvio di un nuovo ciclo, è la paradossale ‘esposizione’ della sparizione del contenuto del testo e infine dell’opera stessa. Un itinerario radicale, illuminato sempre dalla “massima magnificenza del visibile” dell’Achrome (Celant 2007, 30), perseguito ostinatamente come una “via dell’impossibile”, così Aldo Tagliaferri ha definito l’esperimento azzardato da Beckett con alcuni dei suoi scritti più estremi. Negli anni immediatamente successivi alla TrilogiaMolloy (1951), Malone meurt (1951), L’Innomable (1953) – Beckett pubblica Textes pour rien (1955), una raccolta, si legge nel risvolto di copertina di Primo amore (1971) (volume einaudiano che presenta in italiano, insieme con altre novelle brevi, i Textes[6] ) di “tredici pezzi, svolti a variazioni, testi in onore del nulla, o per non evocare che il nulla, per scandire i tempi morti. Parla un io che non è persona, un corpo disincarnato, una voce che non è emessa, in un luogo incollocabile, in un’interiorità che è fuori, in un tempo ai margini della durata”. Tredici prose che vaporizzano la trama e le figure, tredici variazioni ritmiche, tredici quadri che non ‘espongono’ niente, i Testi per nulla verificano il tragico paradosso espresso dallo stesso Beckett nei dialoghi centrati proprio sullo statuto delle arti visive che ebbe nel 1949 con Georges Duthuit: “non c’è niente da esprimere, niente con cui esprimere, nessuna capacità di esprimere, nessun desiderio di esprimere, insieme all’obbligo di esprimere” (Beckett [1949] 1991, 199).

Un testo ‘gassoso’ che procede per frammenti, accumulando voci senza corpo, che corrode, fino a dissipare i limiti già evanescenti tracciati dalla Trilogia e da En attendant Godot, ma che esso stesso diviene limite di una condizione ‘impossibile’, quella supremamente indicata, negli stessi anni, da Bataille in campo filosofico: “Ciò che finalmente vorrei presentare, è il vicolo cieco della filosofia che non potè compiersi senza la disciplina e che, d’altro canto fallisce per il fatto di non poter abbracciare gli estremi del suo oggetto, quelli che altrove ho designato col termine di ‘estremi del possibile’” (Bataille [1957] 1976, 271). Prende forma così nei Testi per nulla il vicolo cieco del linguaggio il cui unico motivo conduttore è la negazione, “segno sotto cui si svolge una narrazione che è necessaria, ma impossibile e che quindi viene negata nel suo stesso farsi” (Bertinetti 2010). Una condizione inequivocabilmente espressa nell’incipit del primo dei tredici Testi per nulla, quando un’‘interiorità’ annuncia: “D’improvviso, no, a forza, a forza, non ne potei più, non potei continuare. Qualcuno disse, Lei non può rimanere lì. Non potevo rimanere lì e non potevo continuare” (Beckett [1955] 1971, 105).

Sulla stessa frequenza si pone Manzoni che, nel maggio del 1959 in una mostra personale tenuta al bar La Parete di Milano, opera con gli Achrome presentandoli, per la prima volta, come Superfici acrome, suggerendo così una dimensione spaziale e installativa che oltrepassa il ‘limite’ della tela e approda “alla massima superficialità di un territorio inviolato e tautologico” (Celant 2007, 34), a questo punto l’Achrome è “una superficie indefinita […] senz’altro infinibile” (Manzoni 1960). Giunto all’ ‘estremo del possibile’, al ‘grado zero’ della rappresentazione – all’assurdo di “non poter rimaner lì e non poter continuare”, come ‘grida’ Beckett – il cerimoniale manzoniano, dopo l’eclissi dell’opera come referente, accerta la sparizione dell’oggetto dal contesto espositivo, dallo spazio della mostra che già Duchamp aveva riconosciuto come scena significante delle figurazioni dell’arte. Muovendo da questa postazione, nel marzo del 1960 a Basilea, firma, insieme con artisti tedeschi, svizzeri e italiani del gruppo Zero [7] il Manifesto contro niente per l’Esposizione Internazionale di niente (1960), nel quale si annuncia la “Vendita di niente, numerato e firmato. La lista dei prezzi è a disposizione del pubblico. All’inaugurazione non prenderà la parola nessuno. Su questo catalogo non è riprodotto niente” (Manzoni [1960] 2020, 174). Alla successiva mostra (fantasma) annunciata, con spirito dada, per l’1 aprile del 1960 si celebra la ‘definitiva’ “scomparsa dell’opera d’arte, il suo sottrarsi anche come oggetto dopo essersi sottratta come ‘opera’, come manufatto che si mostra” (Costantini 2007, 73). Se del palinsesto espositivo resta una traccia evanescente nel manifesto-catalogo, l’opera sparisce lasciando posto al ‘niente’ – al “sogno dell’opera”, parafrasando l’immagine barthesiana – perché si legge ancora nel Manifesto, in perfetta sintonia con il pensiero manzoniano, “Una tela vale quasi nessuna tela. […] Qualcosa è quasi niente (nessuna cosa)”.

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Mentre dell’Esposizione Internazionale di niente teorizzata dal Manifesto del 1960 e programmata per il mese d’aprile dello stesso anno naturalmente non c’è traccia, rischiando così di divenire precoce testimonianza dell’allarmata diagnosi di Baudrillard sul destino dell’arte e sul suo vanishing point, il 9 marzo del 1962 s’inaugura, questa volta ‘in presenza’ delle opere, allo Stedelijk Museum di Amsterdam la fondamentale mostra voluta da Willem Sandberg e organizzata da Henk Peeters, Nul. In mostra, accanto alle opere degli artisti gravitanti intorno al gruppo Zero tedesco e olandese, ma anche quelle degli italiani Fontana e Castellani, Manzoni presenta ancora una volta gli Achromes che hanno assunto la consistenza sempre più ineffabile e ‘vaporosa’ delle fibre di lana di vetro, “quasi a voler lasciare nella ‘cornice’ solo lo spazio” (Agnetti 1970), ma soprattutto il milanese, avviandosi alla conclusione del suo programma di dissoluzione e mosso da una fede totale in niente, suggerirà a Peeters la scelta di Nul, come titolo dell’esposizione, invece di Zero: “Moi aussi je suis contraire au titre ‘Zero’. ‘Nul’ est beaucoup mieux. […] W NUL” (Manzoni [1962] 1991, 136). Sempre nel 1962 Manzoni prepara quello che sarà il suo ultimo progetto, un volume intitolato Piero Manzoni. Life and Works composto da cento fogli trasparenti di acetato sui quali non è scritto nulla. Il fenomeno di ‘imbiancamento’, come dirà Ernst Jünger pensando alla desertificazione ideologica post-bellica, che presiede la concezione dell’Achrome invade lo spazio del testo che si svuota da qualsiasi segno linguistico e trasforma, pagina dopo pagina, life and works ineludibilmente legate, nel suo Testi per nulla. Il libro Piero Manzoni. Life and Works uscirà nel 1963, appena dopo la sua morte, presentando come autore l’editore tedesco Jan Petersen, manifestando così con la ‘scomparsa’ dell’autore l’estrema e tragica ironia dell’ortodossia manzoniana al niente. Intanto a chiudere/aprire il cerchio – nel segno del bianco e del niente di cui l’Achrome è simbolo altissimo che riflette i ‘traffici’ carsici tra immagine e parola, tra esposizione e scrittura, tra Manzoni e Beckett – nel 1962 il drammaturgo irlandese porta in scena in Italia Act sans Paroles, un testo scritto nel 1957, che, se annuncia sin dal titolo che non è più possibile nessuna comunicazione, presenta per la prima volta una scena illuminata da una luce abbacinante, impietosa e accecante come un faro nel deserto, totalmente bianca. È il colore che d’allora in poi accompagnerà la drammaturgia beckettiana. Un ultimo coup de théâtre ci informa che la prima in Italia di Act sans Paroles, diretta da Franco Enriquez, si terrà il 27 ottobre del 1962 a Milano, la città di Piero, al Teatro Manzoni.

Note

[1] Nello stesso decennio, precisamente nel 1953, operando sul ‘neutro’ e l’azzeramento Roland Barthes pubblica per l’Éditions du Seuil, Le degré zéro de l'écriture.

[2] Molto ampia la bibliografia dedicata agli Achrome manzoniani, si veda almeno il recente catalogo della mostra Piero Manzoni Achrome al Musée Cantonal des Beaux Arts di Losanna (Kazarian, Lévêque-Claudet 2016).

[3] Si rinvia all’approfondita analisi delle fonti manzoniane offerta dal critico genovese nel Catalogo generale, (Celant 2004) e alle letture proposte da Grazioli 2007 e da Gualdoni 2013.

[4] La prima traduzione italiana dell’opera è del giugno del 1956 e trova collocazione nella collezione di teatro diretta da Paolo Grassi e Gerardo Guerrieri per l’editore Einaudi.

[5] Uno studio approfondito delle vicende della rivista, oltre che una riproduzione anastatica dei due numeri del ’59 e del ’60, è in Barbero 2015.

[6] La prima edizione italiana di Testi per nulla è del 1967 nella collana “La ricerca letteraria” di Einaudi con traduzione di Carlo Cignetti.

[7] Sulle articolate vicende di questo raggruppamento internazionale di artisti, operanti tra lo ‘zero’ e il ‘nulla’, si rinvia a Pola 2014.

Riferimenti bibliografici
  • Agnetti 1970
    V. Agnetti, Gli Achromes di Piero Manzoni, Milano 1970.
  • Barbero 2015
    L. M. Barbero, Azimut/h. Continuità e nuovo, Venezia 2015.
  • Barthes [1976] 1986
    R. Barthes, La crisi della verità [“La crise de la vérité”, entretien sur Bouvard et Pécuchet, “Magazine Littéraire” 108, 1976], in La grana della voce. Interviste 1962-1980, trad. it. L. Lonzi, Torino 1986, 242-246.
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    G. Bataille, L’erotismo [L'érotisme, Paris 1957], trad. it. A. dell’Orto, Milano 1976.
  • Beckett [1949] 1991
    S. Beckett, Tre dialoghi [Three Dialogues. Tal Coat - Nasson - Van Velde, “Transition”, 1949], in Disiecta: scritti sparsi e un frammento drammatico, trad. it. A. Tagliaferri, Milano 1991, 199-200.
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    S. Beckett, Aspettando Godot [En attendant Godot, Paris 1952], in Teatro, Torino 2002, 3-97.
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    S. Beckett, Peggio tutta [Worstward Ho, London 1983], in In nessun modo ancora, trad. it. e a cura di G. Frasca, Torino 2008.
  • Beckett [1955] 1971
    S. Beckett, Testi per nulla [Nouvelles et textes pour rien, Paris 1955], in Primo amore, Torino 1971, 105-162.
  • Bertinetti 2002
    P. Bertinetti, L’idea di teatro del secondo Novecento, in S. Beckett, Teatro, Torino 2002, V-XXXI.
  • Bertinetti 2010
    P. Berinetti, Introduzione, in S. Beckett, Racconti e prose brevi, Torino 2010.
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    G. Celant, Manzoni. Catalogo generale, 2 voll., Milano 2004.
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  • Cortellessa 2018
    A. Cortellessa, Monsieur Zero. 26 lettere su Manzoni, quello vero, Trieste-Roma 2018.
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    A. Costantini, Da zero a niente. Piero Manzoni a confronto, in Piero Manzoni, a cura di G. Celant, Milano 2007, 54-77.
  • Deleuze, Guattari [1980] 1987
    G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia [Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Paris 1980], Roma 1987.
  • Flaubert [1852] 1980
    G. Flaubert, Lettera a Louise Colet (16 gennaio 1852), in Correspondance, a cura di J. Bruneau, Paris 1980.
  • Frasca 1999
    G. Frasca, Introduzione, in S. Beckett, Poesie, Torino 1999, V-LX.
  • Grazioli 2007
    E. Grazioli, Piero Manzoni, Torino 2007.
  • Gualdoni 2013
    F. Gualdoni, Piero Manzoni. Vita d’artista, Monza 2013.
  • Kazarian, Lévêque-Claudet 2016
    C. Kazarian, C. Lévêque-Claudet, Piero Manzoni Achrome, Paris 2016.
  • Manzoni 1960
    P. Manzoni, Libera dimensione, “Azimuth” 2, 1960.
  • Manzoni [1960] 2020
    P. Manzoni, Manifesto contro niente per l’esposizione Internazionale di niente (1960), in Writings on Art, Zurich 2020.
  • Manzoni [1962] 1991
    P. Manzoni, Lettera a Henk Peeters (gennaio 1962), in F. Battino, L. Palazzoli (a cura di), Piero Manzoni. Catalogue Raisonné, Milano 1991.
  • Manzoni 2013
    P. Manzoni, Diario, a cura di G.L. Marcone, Milano 2013.
  • Pola 2014
    F. Pola, Piero Manzoni e ZERO. Una regione creativa europea, Milano 2014.
  • Tagliaferri 2002
    A. Tagliaferri, La via dell’impossibile. Le prose brevi di Beckett, Verona 2002.
English abstract

With the Achrome series — paintings whose “white surface that is a white surface and nothing more, better still that just is: being” (Manzoni, 1960) — Piero Manzoni began his exploration of colorlessness, absence, zero, and nothing. With the eclipse of the work as a referent, these experiments verify the disappearance of the object, of the artefact that is shown and exhibited, with the signing of the ‘Manifesto Against Nothing’ on the occasion of the International Exhibition of Nothing (1960). The years of whiteness and nothingness in Manzoni's work were inspired by Beckett's skeletal prose in Waiting for Godot (1952). In its turn, Achrome was inspired by Beckett’s Texts for Nothing (1955), which disperses linear narrative structure into a gaseous state. Beckett’s thirteen prose texts without plots and figures correspond to Manzoni’s thirteen paintings that exhibit nothing. The Texts for Nothing verify the tragic paroxysm that "there is nothing to express, nothing with which to express, no power to express, no desire to express, together with the obligation to express" (Beckett 1949). The essay analyses the visual-textual short circuit between whiteness and nothing, between the void of the exhibition and that of writing, inhabited by Beckett and Manzoni in the silent dialogue between Achrome and Texts for Nothing.

keywords | Art theory; Exhibitions; Piero Manzoni; Samuel Beckett; Achrome.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo: Massimo Maiorino, Esposizioni di niente/Testi per niente, “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 79-89 | PDF di questo articolo
To cite this article: Massimo Maiorino, Esposizioni di niente/Testi per niente, “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 79-89 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.193.0007