"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

196 | novembre 2022

97888948401

Ciò che il disegno non può raccontare

Alberto Ferlenga

English abstract

Emilio Isgrò, Enciclopedia Treccani, vol. XVII, Grecia, 1970. Courtesy Archivio Emilio Isgrò.

Scrivere un testo senza immagini è la prima considerazione che mi è venuta in mente quando mi è stato chiesto un testo per “Engramma” riguardante i viaggi degli architetti e il corredo grafico che spesso li accompagna. Il motivo di questa considerazione, apparentemente paradossale,  sta nella convinzione che quel genere di disegni non riproducano quasi mai ciò che i loro autori apprendono dal viaggio ma riguardino piuttosto ciò che essi si portano dietro prima di iniziarlo e che, quindi, sia principalmente su altro – scritti, progetti ecc. – liberati dalla ‘maniera’ del disegno di viaggio che bisognerebbe basare la ricerca dell’influenza di questo particolare momento formativo sul percorso artistico o professionale di un architetto. Mi rendo conto, d’altra parte, di essere condizionato, in questo giudizio, dalla mia personale idiosincrasia di architetto-viaggiatore e disegnatore nei confronti di questo genere particolare di annotazioni di viaggio.

Così, questo scritto più che un saggio compiuto è una riflessione, che riprende argomenti trattati in un apposito seminario di “Engramma”, su una tesi difficilmente dimostrabile o che richiederebbe, per esserlo, una compiuta analisi caso per caso e un serio e difficile lavoro da svolgere tra le insidie dell’auto-costruzione di miti personali e le dimenticanze degli stessi autori, l’impossibilità di vedere tipica di alcuni di essi e il vedere troppo al di là della stessa realtà, di altri, ma vuole anche mettere in guardia rispetto alla troppo facile istituzione di rapporti automatici di consequenzialità tra esplorazione e crescita di una poetica personale presenti  in molti ‘format biografici’ o ricerche, che tendono ad assimilare vite e vicende molto differenti attribuendo ad eventi indubbiamente formativi, come il viaggio, una medesima incidenza sulla vita creativa di architetti diversi tra loro.

Ma che cosa ci raccontano, in effetti, gli schizzi che, raccolti in taccuini o fogli sparsi, hanno costituito una presenza frequente in molti archivi dell’architettura moderna, almeno fino ad un’epoca più recente in cui il mutare di molte condizioni, nella dinamica del viaggio o nel rappresentare ciò che si vede richiederebbe un aggiornamento del discorso? Cosa ci raccontano le fotografie, acquistate in forma di cartoline oppure realizzate direttamente con i nuovi apparecchi portatili comparsi nei primi anni del Novecento e, in seguito, con le macchine polaroid a sviluppo istantaneo e, infine, con gli smartphone?  E che cosa ci trasmette la liturgia del viaggio architettonico al di là di una certa maniacalità nell’uso di penne, matite, sketchbook la cui momentanea indisponibilità può creare crisi d’ansia e interrompere una produzione ben avviata?

Schematizzando un po’ si potrebbe dire che quando il viaggio è precoce, fatto in giovane età, magari a conclusione di un’educazione formale, ed è accompagnato da schizzi veloci, questi ultimi ci parlano di un apprendistato al disegno che, avviato nelle accademie secondo schemi collaudati, si misura con l’inafferrabilità del ‘vero’ e acquista, progressivamente, la capacità di sintetizzarne gli aspetti e di coglierne le dimensioni spesso dimenticando, o superando, le conoscenze grafiche di base acquisite a scuola. Quando, invece, il viaggio avviene nella maturità e il tratto ormai consolidato esprimono piuttosto lo ‘stile’ acquisito che spesso fa da filtro ad una vera comprensione della realtà assumendo un valore in sé che ci dice molto di più sull’evoluzione interna della riflessione creativa dell’architetto e sui suoi luoghi di origine che non sulla sua capacità di ‘vedere’ effettivamente luoghi visitati magari per la prima volta.

In assoluto, e quasi per paradosso, visto il motivo per il quale si fanno, si potrebbe dire che i disegni di viaggio esprimano il risultato di una impossibilità ed è significativo che non se ne trovi quasi traccia in molti architetti dei quali sono pur note la capacità di disegno e l’esperienza di viaggio. Come succede per la fotografia, il disegno di viaggio, obbligando ad uno sguardo condizionato alla riproduzione della forma osservata, limita la percezione di ciò che si vede e non c’è da meravigliarsi che molti architetti, come molti viaggiatori, preferiscano un viaggio più immersivo e privo di mediazioni tra l’occhio e la cosa osservata, che si tratti di matite o di obiettivi fotografici. A differenza del disegno progettuale, che richiede tempi lunghi e costituisce lo strumento attraverso il quale il progetto si disvela e viene prima narrato, poi misurato e, quindi, costruito, il disegno di viaggio degli architetti è condizionato dalla velocità e dalla prima impressione e spesso, inevitabilmente, funziona più come elemento di conferma di sé stesso e di esclusione di ciò che non si ha il tempo di percepire a fondo, che come vera e profonda comprensione del mondo osservato. L’attrazione verso l’altrove da sé – sia esso la luce meridiana, che la concitazione delle città d’Oriente – che è la principale motivazione di escursioni di questo tipo non può trovare, infatti, pieno riscontro nei disegni che ne costituiscono la cronaca. Ciò che di importante per un architetto si può cogliere visitando una città o un edificio, è sostanzialmente non rappresentabile tramite il disegno bidimensionale e ‘all’impronta’ che, invece, porta con sé una serie di ‘abitudini’ grafiche, epocali o personali, che funzionano come altrettanti schermi nei confronti della realtà. In altri termini il disegno di viaggio, spesso già di per sé omologato dalla brevità del tempo a disposizione che fa prediligere rappresentazioni rarefatte e al tratto, è la testimonianza di una impossibilità, un promemoria che ricorda le tappe visibili del vero percorso di conoscenza che si compie nella mente del viaggiatore e che come in un grande serbatoio mescola insieme impressioni, ricordi emozioni, intuizioni e tanto altro.

Se leggiamo le lettere o i diari che spesso accompagnano gli architetti nelle loro peregrinazioni scopriamo che ciò che veramente li colpisce non sono le forme di monumenti in fondo già noti o il fascino di rovine già viste, in pubblicazioni o vedute, ancor prima di partire, bensì l’incidenza della luce sui volumi, di cui parla Le Corbusier, e che non può rappresentare nei suoi bellissimi schizzi, o le relazioni tra edifici e paesaggi che un altro famosissimo viaggiatore, Karl Friedrich Schinkel, racconta a quel suo corrispondente in patria con il quale avrebbe voluto pubblicare i suoi disegni italiani.

Numerosi edifici altomedievali, anche quelli saraceni, di cui la Sicilia è particolarmente ricca, portano la vera impronta del senso artistico filosofico e della ricchezza di carattere (del Paese, ndr). Altre opere nuove, che stanno in angoli sconosciuti di tutto il paese d'Italia, sono più caratteristiche della maggior parte di esse per la fortunata concezione dell'idea e soprattutto per l'uso vantaggioso dell'ambiente circostante della natura. (K.F. Schinkel, lettera dall’Italia a J.F. Unger, 1803 c.a., in G. Riemann, Karl Friedrich Schinkel, Reisen nach Italien Tagebücher, Briefe, Zeichnungen, Aquarelle, vol. 1, Weimar und Berlin, 1994) 

E mentre ciò che veramente conta nelle itineranze di un architetto non trova riscontro sulla carta – dove, invece, rimane la testimonianza di una impressione parziale o la conferma di quello che già si sarebbe voluto vedere – dentro la mente inizia il vero percorso delle cose essenziali che troveranno vita in altre opere. La luce che stravolge l’architettura fino a dissolverla, le ombre che raddoppiano e semplificano le costruzioni, la grana dei materiali e, soprattutto, lo spazio racchiuso dai muri con tutto ciò che esso genera nelle relazioni imprevedibili con la natura o con altre forme. Queste sono le suggestioni che incidono realmente e che rimangono, iniziando un percorso sotterraneo che può portare a nuove scoperte; resta la percezione del carattere di una città che non è riassumibile nella somma dei suoi edifici, la grandiosa armonia di un ambiente di fronte a cui la rappresentazione grafica o fotografica si trova impotente e, solo qualche volta, quella pittorica, con altri mezzi e altri tempi, riesce invece a penetrare.

Il viaggio fornisce rivelazioni che le sue testimonianze disegnate, anche quando sono il frutto di una eccezionale maestria grafica, non possono esprimere. Non è stata certo la visione dal vivo di monumenti già studiati ad aver generato nel giovane Jože Plečnik quella ribellione agli insegnamenti del suo maestro Otto Wagner di cui si trova testimonianza nelle lettere scritte all’alba del Novecento, ma, ancora una volta, la percezione di una complessità inattingibile e certamente non riproducibile in forma breve o semplificata; e tutto ciò non è certo coglibile nei pochi schizzi o nelle fotografie riportate a casa.

E non è stata certo la scoperta di architetture sconosciute, in un viaggio repentino e liberatorio nel deserto, e pochi tratti nei suoi notes ad aver determinato in Fernand Pouillon, nell’Algeria di inizio anni ’60, la cancellazione e il rifacimento di tutto quanto aveva prodotto per il suo progetto più importante, il Climat de France, per cercare di dare forma a quel vuoto che il deserto gli aveva restituito e che, nella versione finale post-viaggio, costituisce il cuore spettacolare di una delle più importanti architetture del Novecento.

Se si dovesse realmente rappresentare ciò che un viaggio lascia nell’anima di un architetto si dovrebbe riprodurre una pagina bianca e forse dimenticare tutto ciò che di quel viaggio costituisce la testimonianza concreta perché è nel bianco del foglio, come in quello che sta tra le righe dei testi sacri, come recita la Kabala, che sta la risposta. Risposta che talvolta emerge in lettere o racconti trasmettendo il rovello dell’insufficienza della descrizione e che poi, in forme più complesse, troverà corpo nel percorso privato dell’architetto attraverso l’evoluzione delle sue opere e delle sue idee dove, finalmente, percezioni, ricordi, trasfigurazioni troveranno posto e tempi per maturare, in quella forma di creazione che, come ricorda Vico per i romani, è molto simile al ricordo.

Così Antonio da Sangallo, Palladio, Ruskin, Schinkel, e poi Aalto, Kahn, Le Corbusier, Asplund, e ancora Barragán, Siza, Sottsass per citare in disordine solo alcuni dei più noti autori di schizzi di viaggio, tramite i loro disegni non aggiungono nulla alla conoscenza dei luoghi che visitano ma ci raccontano molto su loro stessi e sui loro percorsi interni fornendoci, questo sì, alcune chiavi di lettura. Se il dettaglio quasi incomprensibile di un edificio in una foto di Hassan Fathy o l’inclinazione esasperata di un punto di vista in una di Asplund stravolgono le convenzioni statiche o formali di ciò che viene osservato sino a renderlo irriconoscibile, ciò non avviene per cogliere più da vicino un dettaglio o accaparrarsi un ricordo costruttivo ma piuttosto per rompere l’unità dell’oggetto e penetrarne il segreto. Quel frammento, o quella vista in diagonale, sono, ancora una volta, il sintomo di un percorso che si sta dipanando dentro l’osservatore e che nella ‘cosa’ osservata nel suo insieme, e da un solo punto di osservazione non trova risposta. D’altra parte, più i disegni sono il frutto di una buona mano e le foto di un buon occhio e più tendono a lasciare il campo specifico dell’appunto di viaggio per entrare in quello del vedutismo o del professionismo fotografico come avviene, ad esempio, per lo stesso Schinkel o per Aris Konstantinidis.

Non apparirà dunque fuori luogo se questo breve testo sui viaggi degli architetti e sui loro resoconti, riassunto di un intervento tra i tanti che hanno portato alla messa a punto di questo numero di Engramma, è introdotto esclusivamente da una mappa di Emilio Isgrò. Perché quello che si impara o si sente veramente in un viaggio non può essere riportato direttamente, se non come appunto o promemoria, mentre inizia il viaggio vero e profondo delle forme che si rincorrono e degli spazi che si fondono dentro il tempo e lo spazio egualmente speciali dell’architettura.

English abstract

This contribution reflects on a thesis difficult to prove: the impossibility of certain travelling architects to see and see too much beyond reality itself. It is also a reflection meant to warn against too facile automatic relationships of consequentiality between exploration and growth of a personal aesthetic vision in ‘biographical formats’ or research. These, in fact, tend to assimilate very different lives and events and recognise to such a formative process as travelling the same impact on the creative lives of different architects. One may say that travel drawing expresses the result of an impossibility, and it is significant that almost no trace of it is found in many architects whose drawing skills and travel experiences are well known. As happens with photography, travel drawing limits the perception of what is seen by forcing a conditioned gaze on the reproduction of the observed form. It is no wonder, hence, that many architects, like many travellers, prefer a more immersive journey, without any mediation between the eye and the thing observed. In short, it might be said that when architects travel early in life, for example at the end of formal education, their sketches reveal an apprenticeship in drawing which is measured against the elusiveness of the ‘real’ and gradually acquires the ability to synthesise and grasp it. When, on the other hand, the journey takes place in maturity, the architects’ line expresses the acquired ‘style’ which often acts as a filter for a true understanding of reality. The line says much more about the internal evolution of architects’ creativity and places of origin than of their ability to actually ‘see’ places visited perhaps for the first time.

keywords | Travel; Architecture; Gaze; Travel images and writings.

il numero 196 di Engramma è a inviti: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista

Per citare questo articolo: Alberto Ferlenga, Ciò che il disegno non può raccontare “La Rivista di Engramma” n. 196, novembre 2022, pp. 15-21 | PDF di questo articolo

To cite this article: Alberto FerlengaCiò che il disegno non può raccontare “La Rivista di Engramma” n. 196, novembre 2022, pp. 15-21 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.196.0009