"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

197 | dicembre 2022

97888948401

Sul parlare angelico, secondo Michel de Certeau

Giorgiomaria Cornelio

English abstract

Così scrive Michel de Certeau in alcune densissime pagine di Fabula Mistica dedicate al parlare angelico:

L’angelo sfugge alla durata della verifica, alla stabilità di un quadro di criteri e alla classificazione onomastica degli statuti, proprio quando è avvenimento creatore di temporalità, instaurazione di possibili (da cui la sua funzione poetica in campo epistemologico) e manifestazione dell’inconoscibile proprio ad ogni nome.

Figura di un perenne sforamento, di una bruciatura dell’ordine normativo della lingua, l’angelo per de Certeau apre un campo al possibile, forsenna ad ogni suo – imprevisto – passaggio le gerarchie ontologiche, la fatalità e i principi di assestamento della grammatica storica. Segno ambiguo, che ci attraversa senza mai fissarsi, “movimentato proveniente da un fondo ignoto”, l’angelo avventura l’umano oltre la sua quieta umanità, la angelicizza, facendo posto ad altre irruzioni di senso, a incandescenze paradossali.

“Se l’angelo è l’inatteso di quanto si mette a parlare, qualunque persona o cosa può improvvisamente assumere figura angelica”, e così l’Altro diventa angelo quando ci fa rabbrividire, quando trascende – con la sua remota vicinanza – la signoria delle facili somiglianze. Dimorante nel proprio impeto di perenne dislocazione, l’angelo resta inafferrabile, e per questo sorveglia lo studio storico, salvandolo dal rischio di indurimento. Come scrive altrove sempre de Certeau: “la storia non è mai sicura” (La possessione di Loudun [1970]).

Da Jacob Böhme a Silesius, da Athanasius Kircher a Walter Benjamin, Michel de Certeau raduna insieme le proliferazioni angeliche, non per accordarle, ma per mostrarne l’inquieta pluralità. Abbiamo fatto qui un’antologia, servendoci, in parte, anche di alcune titolazioni indicate dallo stesso de Certeau, e cercando di conservare, per quanto possibile, la dimensione ancora “aurorale” di ogni frammento.

Beato Angelico, Annunciazione, 1433-1436, tempera su tavola, Cortona, Museo diocesano.

La lingua degli angeli. Un’antologia da Fabula mistica di Michel de Certeau*

Proliferazioni angeliche

L’immensa folla degli angeli si leva all’orizzonte: “Duecento milioni”, diceva già, nel I secolo, il libro dell’Apocalisse; “Trecento milioni” secondo Athanasius Kircher, nel suo Oedipus Aegyptiacus (1652). [...] Gaspard Schott, che è matematico ed esperto in calcoli, nella sua Magia universalis (1657) afferma di poter “dimostrare con evidenza” che “il numero complessivo degli angeli” raggiunge una cifra il cui ordine di grandezza è 1062, che egli scrive per intero. Il numero fa girare la testa. Anche le lettere: le combinatorie si intensificano per formare i nomi di angeli che, secondo il De arte cabalistica di Johannes Reuchlin (1517), devono essere “parole sconosciute, stupefacenti, che non significano niente secondo l’uso ordinario della lingua, ma che, provocando lo stupore della nostra ragione, ci spingono a cercare assiduamente gli intelligibili e poi a venerarli e ad amarli”. Alla prolissità delle cifre e delle lettere, semplice indizio della proliferazione angelica nelle letterature e nell’esperienza storica, si aggiunge un’annotazione non meno tradizionale e paradossale: se l’angelo è il numero (“miriadi”), è anche il singolare. Ogni angelo è unico nella sua specie; ogni essere umano è guidato o “custodito” da un angelo; e spesso l’angelo specifica l’insolito, l’“improvviso”, l’avvenimento particolare, l’imponderabile arrivo. Soggetto strano, deborda i saperi nella loro estensione come nella loro comprensione. È inafferrabile. Tuttavia, questo sogno, o questa musica, ha ossessionato la speculazione e la pratica non soltanto nel Medioevo o tra tante civiltà “differenti”, ma nella modernità occidentale che ha solo superficialmente rimosso questo fantastico.

Angelizare

Tra le tante invenzioni verbali di cui possiede il segreto, “angelizare” è una creazione di Nicola Cusano: se egli rifiuta gli Angeli che sorreggono la cosmologia medievale, con questa parola indica un’operazione dello spirito che esce dalla notte, sottomessa al principio di contraddizione, e si rivolge al grande giorno solare della coincidenza degli opposti. Questo atto di transfert, atto angelico, è, dice, “aurorale”.

Il passaggio angelico

L’angelo traccia una striatura nell’ordine cosmico. Se, in san Paolo come in alcuni testi della tradizione cristiana antica, è presente una riserva nei confronti degli angeli che sarebbero “rudimenti del mondo” o stoicheia tou kosmou, e che imporrebbero la loro legge agli umani, in generale l’angelo rappresenta piuttosto una trasversalità della comunicazione. Fende e attraversa, cortocircuita le gerarchie degli esseri e delle mediazioni. Come un fuscello di paglia nel metallo dell’universo, tratteggia circolazioni e comunicazioni dirette attraverso l’ordine stabilito. Sarebbe una trasgressione attraverso una scorciatoia. Ma la cosa essenziale è che questi passaggi hanno la forma di una parola che contesta l’ordine delle cose. Così, nel libro dei Giudici, al popolo prostrato e sottomesso l’angelo, quest’“uomo divino”, annuncia una vittoria; una nascita alla donna sterile. Una poetica sfida la gerarchia ontologica e la fatalità storica. La parola angelica restaura una evenemenzialità e un possibile. In questo senso, è “metaforica”: passaggio a un altro genere, invenzione di un altro spazio, creazione di un possibile all’interno di ciò che i fatti dichiarano impossibile. Giacobbe “vede” in un sogno angeli che salgono e scendono dalla scala che misura distanze e mediazioni necessarie tra la terra e il cielo. Lo spazio del sogno fornisce in questo modo alla “metafora” angelica la sua figura fondamentale: una parola “passa” le frontiere degli esseri o delle cose, restaura paradossalmente una storicità nella cornice delle leggi cosmiche e, sotto il segno dell’improvviso e dell’insolito, apre un campo al possibile.

Il doppio

In una tradizione più moderna, sviluppatasi a partire dal XII secolo e divenuta fiorente a partire dal XIV, l’angelo è un doppio che assume vieppiù la forma di “angelo custode”. Come la parola stessa, questo doppio è attraversato dall’ambivalenza. Talora rappresenta un’utopia di perfezione, un luogo/non-luogo di senso o di verità che si oppone alle trasformazioni e alle contingenze delle situazioni effettive; analogo all’Idea platonica, “custodisce” un modello che fa da contrappunto alle storie particolari pur mescolandovisi, come l’angelo che di notte lotta con Giacobbe, in un combattimento dell’ideale con la realtà. È allora tetico e assertivo, ma nella maniera in cui la parola o il canto deviano rispetto alle cose per mantenervi il riferimento a quanto deve o può essere. In questa prospettiva, finisce per essere, come in Kafka, il “custode della legge”, la presenza incongrua di un impossibile imperativo del dovere. Talaltra (apparentemente è l’opposto), dà sbocco a un’estraneità interna che inquieta la stabilità dei posti; è irruzione di ciò che non si sa di se stessi (buono o cattivo). Questa “inquietudine” angelica sarebbe per l’essere quello che l’etimologia è per la parola: un’ombra che arriva da più lontano, il sopraggiungere di un’origine innominabile in un segno che passa, il “movimentato” proveniente da un fondo ignoto.

Segni di enunciazione

Oscillazioni tra il richiamo a un riferimento ideale o “immaginale” che si oppone ai compromessi della storia e l’irruzione di “altro” in un sistema di normalità, gli angeli affermano una funzione della parola, cioè una differenza rispetto al mondo osservato. Ma questa funzione la esercitano nella maniera piuttosto particolare che consiste nel certificare l’esistenza stessa di una parola piuttosto che certificare delle verità. L’essenziale del messaggio angelico non è il suo contenuto: esso è già conosciuto; ripete spesso un versetto della Scrittura, un articolo di fede o una verità ricevuta. L’intervento angelico trasforma tale enunciato comune in un atto di parola che è rivolto a te, singolarmente, qui e ora. La novità non consiste in correzioni o in supplementi di asserzioni ancora sconosciute, ma nel fatto che l’asserzione fissata è parlata e, dunque, che c’è parola. L’angelo dice che c’è dire. Questo punto focale organizza lo stile rapsodico, musicale, vocale e visivo delle apparizioni angeliche. Il messaggio è l’enunciazione stessa. Nelle tradizioni cristiane, inoltre, l’angelo non è un “oggetto” di credenza. All’interno di un sistema di credenze, traccia piuttosto la dimensione stessa del credere, se è vero che il “credere” si sostenta della parola dell’altro. [...] È dunque “angelico” ciò che, di un discorso, di un corpo o di un paesaggio, parla; ciò che “tocca” come una parola che mi venga rivolta in questo momento; ma anche ciò che, di una verità, non è appropriabile, nella misura in cui essa è il dire dell’altro e non un’asserzione sottomessa a verifica. Se dice qualcosa, l’angelo lo enuncia in quanto è credibile o, in altri termini, in quanto è parola.

Ambiguità del messaggio angelico

Il “dire” non dipende dai valori di verità. Insinua, tra il vero e il falso, un’incertezza sottolineata spesso dai racconti di apparizioni angeliche e che il termine stesso “apparizione” connota: un’apparenza, un apparire. In nome di cosa farvi affidamento? Come in ogni processo di enunciazione, una garanzia può essere cercata nello statuto del locutore. “Quale è il tuo nome?”, domanda Manoach all’“uomo divino” di cui ignora l’identità e che annuncia la nascita di un figlio alla sua sterile moglie. Dice l’angelo: “Perché mi chiedi il nome? È meraviglioso” – termine (pile’i) che significa anche “misterioso”, “inintelligibile”. Non ci sarà un nome dato, oppure sarà soltanto la parola che funziona quale emblema dell’innominabile, a cui si aggiunge, come con Gedeone, un segno – il fuoco – che distrugge i segni. A migliaia, le moderne storie di angeli raccontano a loro volta questi atti di enunciazione che hanno per segni effetti di recezione – impressioni estetiche, trasporti interiori, folgorazioni o dolcezze – e che in genere sono rubricati sotto la modalità “apparire”. “Mi sembrò di sentire”, “si presentò”, “mi apparve”, “credetti di vedere”, ecc.: un “sembiante” tocca l’avvenimento non per minimizzarne la certezza, ma per localizzarne la natura dalla parte in cui l’enunciazione è colta nella sua eco e non astrattamente isolata come un’emissione. Il dire è qui un fenomeno di ricezione e di interpretazione.

Visibilità sparente

Visibilità sparente, l’angelo non ha un “esserci” che si offra ad un controllo oggettivo. La parola credibile non può essere separata da ciò che se ne crede, da ciò che si crede vederne o sentirne. L’angelo sfugge così alla durata della verifica, alla stabilità di un quadro di criteri e alla classificazione onomastica degli statuti, proprio quando è avvenimento creatore di temporalità, instaurazione di possibili (da cui la sua funzione poetica in campo epistemologico) e manifestazione dell’inconoscibile proprio ad ogni nome. Se, infine, “angelizare” è essere parlante, se l’angelo è l’inatteso di quanto si mette a parlare, qualunque persona o cosa può improvvisamente assumere figura angelica. Un antico commento talmudico lo aveva già notato. Da qui il numero – le “miriadi” – che investe questo avvenimento singolare. Chi è il mio angelo? Cos’è che all’improvviso “mi parla”? Forse tu, o questa luce, o lo sguardo di una passante. Per questo l’analisi deve rivolgersi al soggetto enunciante, o alla percezione che riceve qui-adesso un messaggio come “angelico”. Una lunga tradizione afferma che l’angelo parla, ma che a lui non si parla. Dice ciò che da lui si intende. Questo parlare orienta dunque la ricerca verso una semiotica dell’ascolto, mentre la nostra si concentra sulle produzioni del linguaggio. Riconduce alle modalità della ricezione, ai progressi dell’attenzione (cioè a tutta una discendenza filosofica) e agli effetti di interpretazione che un’“ermeneutica del silenzio” ispira. Al limite, suppone che il linguaggio sia anzitutto uditivo, e che si instauri nell’essere inteso.

Böhme

In Böhme, per gli uomini c’è salvezza quando la violenza originaria di Dio che è il loro essere “parla” in essi. Una “morte vivente” deve “far saltare la solida serratura della natura applicandovi la grande carica esplosiva (die grosse Petarde)” dell’essere spirituale, e “bruciare” tutto ciò che, in loro, è “qualcosa (etwas)”, in maniera tale che, “ciechi, sordi e muti”, una volta ridotta a niente l’esperienza mondana e la ragione ridotta a una “follia”, divengano alla fine “esseri parlanti” – un’incandescenza del Sé –, cioè angeli. Mirabile concezione del parlare, angelica nella sua essenza: parlare è bruciare, proprio come, nel racconto di Esodo, il roveto infiammato in cui appare l’angelo significa nella distruzione dei segni, divorando ciò che dipende dall’ente (un “esserci”) o dallo stato (uno statuto) con un’energia interna che si manifesta senza dipendere dall’esteriorità. Questo fulcro unifica in sé il destino dell’angelo e quello dell’uomo; in questo compimento, sono “fratelli”. Ma mentre l’angelo vi si trova per natura, l’uomo vi accede solo attraverso una lotta contro l’opacità del corpo e della ragione, sradicandosi dal suolo delle sue certezze, sfidando la sua condizione metafisica di essere-nel-mondo. È qui la loro differenza.

Silesius: ultrangelicità

Per Silesius, l’angelo deve essere oltrepassato, sia che a Dio il silenzio umano piaccia più di tutti i canti degli angeli, sia che la vita angelica rappresenti solo una tappa nell’ascensione dell’essere creato verso la sua elezione (o la sua nominazione) come “figlio di Dio”, o come essere “divino”. Nel Pellegrino cherubico, la svalorizzazione degli angeli (“gli angeli valgono poco”, “essere un angelo è molto, ma molto di più essere un uomo sulla terra”, ecc.) serve da sprone a un volere/potere illimitato: “Voglio essere figlio di Dio”, “sulla terra posso divenire quello che voglio: re, imperatore, Dio”. L’angelo è il contrassegno celeste di un oltrepassamento che non smette di mirare all’estremo. Ogni sorta di pratica linguistica spinge dunque il linguaggio al suo limite. Così l’uso di “über”, che getta al di là di loro stesse le unità semantiche ritagliate nel mondo spirituale, come per “ultraessenza” (Überwesenheit), “ultradeità” (Übergottheit), “trasformazione” (Über formung), e anche “ultrangelicità” (Überangelheit): “Tu domandi cos’è l’umanità? Io dico: ultrangelicità, basta questa sola parola”. In questo modo, a partire da una binarietà ricevuta dalla tradizione (per esempio: Dio vs uomo, padre vs figlio, angelo vs uomo), gli “aforismi” operano l’inversione dei rapporti gerarchici, negano di volta in volta il principio di non contraddizione o il principio di identità, e asseriscono l’inclusione reciproca dei termini. Tormentano l’ordine del senso.

Silesius: solitudine dell’oltreuomo

Per Silesius, [...] un irrefrenabile volere crea ininterrottamente una distanza tra il soggetto e i suoi oggetti – “non è questo” –, e ha per effetto la permanente torsione in cui gli oggetti sono colti. L’al di là dell’angelo (l’“ultrangelicità”) indicizza un desiderio che si istituisce nel suo rapporto con l’impossibile, o (ma è lo stesso) che si autonomizza dal reale. È la figura poetica di un’etica, se con “etica” si intende il percorso che non si conforma a un ordine delle cose e il cui criterio non è più la legge (tempestosa o pacificante) della realtà. Un irriducibile eccesso oppone alla gerarchia celeste stessa un “volere” che niente soddisfa più e che anima il “dovere” per l’uomo di essere “più che divino”. Posto all’orizzonte di un cosmo, l’angelo dunque, “obsoleto”, si cancella. È addirittura messo alla porta: “Fuori, fuori, serafini […] fuori, fuori, angeli, fuori tutti […] non vi voglio, mi getto solo nel mare increato della pura deità”. Solitudine dell’oltreuomo: “È al di là di Dio (über Gott), verso un deserto, che devo tendere”. Non c’è più modello, consolazione o messaggio angelici per questa oltreumanità spirituale che a partire dal suo futuro infinito inaugura una concezione nuova della storia […]. Un irrefrenabile volere crea ininterrottamente una distanza tra il soggetto e i suoi oggetti – “non è questo” –, e ha per effetto la permanente torsione in cui gli oggetti sono colti. L’al di là dell’angelo (l’“ultrangelicità”) indicizza un desiderio che si istituisce nel suo rapporto con l’impossibile, o (ma è lo stesso) che si autonomizza dal reale. È la figura poetica di un’etica, se con “etica” si intende il percorso che non si conforma a un ordine delle cose e il cui criterio non è più la legge (tempestosa o pacificante) della realtà. Un irriducibile eccesso oppone alla gerarchia celeste stessa un “volere” che niente soddisfa più e che anima il “dovere” per l’uomo di essere “più che divino”. Posto all’orizzonte di un cosmo, l’angelo dunque, “obsoleto”, si cancella. È addirittura messo alla porta: “Fuori, fuori, serafini […] fuori, fuori, angeli, fuori tutti […] non vi voglio, mi getto solo nel mare increato della pura deità”. Solitudine dell’oltreuomo: “È al di là di Dio (über Gott), verso un deserto, che devo tendere”. Non c’è più modello, consolazione o messaggio angelici per questa oltreumanità spirituale che a partire dal suo futuro infinito inaugura una concezione nuova della storia.

Scomparsa degli angeli

L’angelo va a scomparire, sia nella legge universale delle stelle, sia nell’avvenimento singolare del quotidiano. Non “dimora” più nelle diverse funzioni che esercita. Ma la sua assenza non è affatto più sicura. Laddove si suppone stabile, si cancella, e quando lo si pensa effimero, riappare. Alcuni teologi moderni lo inseguono nei suoi indietreggiamenti e nel suo ritirarsi. [...] L’angelo “non dimora da nessuna parte” e tuttavia, non essendo infinito, possiede una spazialità propria. Sotto la forma del transito (“transitus”) e della comunicazione, designa alla fine ciò che “lega” delle singolarità: corrisponde all’apporto più originale del pensiero giuridico e politico suareziano, desideroso di instaurare un sistema di obblighi civili che controbilanci il disordine del mondo. L’angelo mantiene da qualche parte la “presenza” di ciò che, in tutti i sensi del termine, obbliga.

Ritirarsi davanti alla storia

Escluso dallo spazio desertico in cui si avventura un volere ultraumano, l’angelo torna in un secondo momento, ma nelle periferie sospette della città, attraverso vie illegittime, sotto la forma grottesca, animale o mostruosa di uno straniero che non ha più un posto nella città del progresso. Così L’angelo del bizzarro di Edgar Allan Poe, collage “falstaffiano” di bottiglie, cantine e di un barile di rhum, sopraggiunge come un “brigante” nello studiolo in cui il proprietario domanda (una volta di più): “Chi è lei? Come è entrato?”. Ma il Bizzarro non ha dimora né esistenza propria. Presiede al contrattempo. Screzia di grottesca derisione la convinzione del narratore “deciso ormai a non credere più nulla di ciò che abbia in sé qualcosa di singolare”. A questo angelo burlesco, fantasma eteroclito introdotto da casualità che forse non sono tali, fa seguito una schiera di esseri marginali, cifre bizzarre, di volta in volta mostruosi o poetici.

Angelus Novus

Anche l’Angelus Novus di Paul Klee, i cui “tratti non hanno sembianza umana”, appariva a Benjamin nel momento, “interrotto”, della sua scomparsa. Visto di faccia, una faccia di bue (come quella del cherubino di Apollinaire) che guarda quanto lascia, è risucchiato verso il proprio futuro da una tempesta che spira dal paradiso: come l’“Angelo della storia” nelle Tesi di filosofia della storia. Questo angelo si ritira. Con un’ambivalenza che attraversa tutta l’angelologia, nella meditazione divisa in due del 1933 egli indica di volta in volta l’istanza di una disappropriazione personale e, nelle Tesi scritte nel 1940 dopo il patto germano-sovietico, “l’istanza catastrofica” di una storia collettiva in cui il progresso si è mutato in cumulo di rovine. Da una parte, l’angelo è il movimento delle “persone e delle cose” che sono sottratte a Benjamin: “Nelle cose che non ho più, egli alberga. Le rende trasparenti, e dietro ciascuna di esse mi appare la persona cui è dedicata”. Dall’altra, arretra, come pietrificato dalla “catena di avvenimenti” passati che formano davanti a lui “una sola e unica catastrofe”, un cumulo ai suoi piedi; e quando vorrebbe trattenersi per “risvegliare i morti e raccogliere i vinti” il vento che “che si è impigliato nelle sue ali lo spinge “nel futuro a cui volge le spalle”. In questo doppio ritrarsi, Benjamin percepisce infine quanto sottrae a lui il suo nome proprio, e quanto sottrae alla storia il nome “progresso”. Ciò che si ritira con l’angelo è l’identità rivendicata, è il sostituto onomastico della perdita. Come se venisse fotografato nel momento in cui si allontana, in questo istante in cui apparire è scomparire, l’angelo cortocircuita insieme le differenze di tempo (il passato e il futuro), di specie (il bestiale e il celeste) e di sesso (è bisessuato, androgino). Anche a questo titolo è “novus”, selvaggio come una fine della storia. Lampo di un giudizio, folgorio di un’“interpretazione” come la intendeva Lacan (“addizione […] che fa apparire in un lampo ciò che è possibile cogliere al di là dei limiti del sapere”), ha la forma di un atto enunciativo, ma senza messaggio, né locutore. Fuori tempo. Solo il suo stupore, al quale corrisponde quello di chi lo guarda mentre svanisce, costituisce lo scambio senza durata, senza identità e senza luogo, da cui si origina la scrittura di Benjamin sull’impossibilità della sua propria storia e sulle rovine in cui sprofonda l’ambizione europea dell’Aufklärung. Immagine che contraddice il tempo ma arriva dalla notte dei tempi, questa istantanea angelica sembra essere in Benjamin il corrispondente, ma escatologico, della scena baudelairiana su cui ha lungamente scritto: lo sguardo di una passante.

Hieronymus Bosch, Ascesa all’empireo, 1500-1504, Venezia, Palazzo Ducale.

English abstract

This anthology presents a collection of passages from The Mystic Fable by Michel de Certeau, concerning the topic of angelic language. From Jacob Böhme to Silesius, from Athanasius Kircher to Walter Benjamin, Michel de Certeau sheds a new light on the significance of the Angel throughout the history of Western civilisation.

keywords | de Certeau; The Mystic Fable; Angelic language.

Testi selezionati e tratti dall’opera La Fable mystique XVIe-XVIIe siècle di Michel de Certeau, pubblicata a Parigi per Éditions Gallimard nel 1982, e qui citate nella traduzione italiana: Michel de Certeau, Fabula mistica. XVI-XVII secolo, a cura di Silvano Facioni per Jaca Book, vol. I Milano 2008; vol. II Milano 2016.

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Cornelio, Sul parlare angelico, secondo Michel de Certeau, “La Rivista di Engramma” n. 197, dicembre 2022, pp. 95-104 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.197.0003