"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

197 | dicembre 2022

97888948401

Fabula angelica, l’ombelico del sacro

Caccia, volo, ferimento, estasi e caduta tra Balzac e Apuleio: Séraphîta e Metamorfosi, V, 22-25

Massimo Stella

English abstract

Mon but était de rendre la Bête si humaine, si sympathique, si supérieure aux hommes que sa transformation en Prince Charmant soit pour la Belle une déception terrible et l’oblige en quelque sorte au mariage de raison et à un avenir que résume la dernière phrase des contes de fées: “Et ils eurent beaucoup d’enfants”.
Jean Cocteau

La Bestia, l’Uomo, l’Angelo, la Strega. Sciarada d’immagini intorno a un’incognita

GRODNINSKY (sur la porte du café). Il y avait une fois un vieux bélier qui se dressa sur les deux pieds de derrière pour mieux se faire entendre, en disant au milieu d’un des plus anciens troupeaux de moutons connus, ces belles paroles, devenues la tradition sacrée de ces pauvres bêtes: “Mes frères, voyez quelle est la grandeur de nos destinées? N’avons-nous pas le plus bel avenir parmi les quadrupèdes, car enfin, nous allons faire partie de l’homme, et nous devenons ainsi d’immortelles intelligences! Sûrs de ne pas mourir, paissons donc avec courage, faisons-nous promptement gras, afin d’entrer plus vite dans la sphère de la lumière humaine où tout est joie et bonheur, où nous serons récompensés selon nos mérites”. Ce bélier passe encore pour un mouton divin chez les brebis dont la laine est sur vos épaules. Si ce mouton n’est qu’une bête, il faut que l’homme renonce au plus joli dada de son écurie philosophique. (Les martyrs ignorés: Balzac [1837] 1966, 427-428) (c.vo mio).

GRODNINSKY (sulla porta del caffè). C’era una volta un vecchio ariete che, drizzatosi sulle due zampe posteriori per farsi sentire meglio, disse queste belle parole a una delle più antiche greggi di pecore. E le sue parole divennero tradizione sacra per queste povere bestie: “Fratelli miei, non vedete la grandezza del nostro destino? Non è forse il nostro futuro il più bello che dei quadrupedi possano avere? Perché noi finiremo per diventare parte dell’uomo e quindi intelligenze immortali! Sicuri di non morire, pascoliamo con coraggio, ingrassiamo rapidamente, per entrare più rapidamente nella sfera della luce umana dove tutto è gioia e felicità, dove i nostri meriti saranno ricompensati”. Questo ariete è tuttora considerato divino tra quelle pecore la cui lana sta sulle vostre spalle. Se invece questo ariete non è che una bestia, bisogna che l’uomo rinunci al più bel cavalluccio della sua scuderia filosofica. (C.vo mio).

Questo enigmatico apologo chiude la scena dialogata dei Martyrs ignorés, breve prosa che Balzac pubblica nel 1837, tra le Études philosophiques (vol. XII), con il sottotitolo Fragment du Phédon d’aujourd’hui. È quasi un indovinello destinato a restare chiuso nel suo ermetismo, se non lo riconducessimo a un passo specifico di Séraphîta che di poco precede i Martyrs ignorés. Quale senso attribuire all’aspirazione dell’ariete, che, bramoso di fondersi con l’uomo sotto forma di vello oppure di nutrimento, intende diventare immortelle intelligence? Perché, poi, l’uomo viene chiamato dall’animale immortelle intelligence? E perché, infine, le parole della bestia dovrebbero essere “il più bel cavalluccio (dada) della scuderia filosofica” umana?

Les martyrs ignorés sono un dialogo sullo spirituale – di qui il sottotitolo “Fedone contemporaneo”: lo spirituale vi è inteso come regno delle energie invisibili che agiscono nel mondo e sul mondo, nell’uomo e sull’uomo. Energia tra tutte le energie, il pensiero. Nei Martyrs ignorés il pensiero è concepito come ruminazione emotivo-memoriale e come proiezione desiderativa, come movimento meditativo e immaginativo, in grado di produrre fenomeni ed eventi fisici. Il Freud del Perturbante chiamerebbe questa visione onnipotenza dei pensieri (la formula fu coniata da uno dei suoi più celebri pazienti ovvero l’uomo dei topi): è l’idea, perfettamente animistica (e dunque magica), che il pensiero abbia la capacità di realizzarsi nel momento stesso in cui è pensato. Per i lettori del Balzac esoterico tale reflusso dell’ancestrale attraverso la cosiddetta ‘tradizione segreta’ è un fatto evidente. Riconoscibilissimi frammenti di rappresentazioni animistiche e di figurazioni sciamaniche innervano le pagine balzachiane delle novelle e dei romanzi metafisico-teosofici: Séraphîta, che è tra questi, ne è un esempio eccellente. L’angelologia di ispirazione swedenborghiana che innerva la scrittura di Séraphîta è, in realtà, soltanto un mascheramento attraverso il quale Balzac rievoca esperienze dell’estasi ben più radicali di quelle dell’occultismo cristianeggiante moderno, alla Swedenborg o alla Saint-Martin. E tuttavia sarebbe riduttivo – come ha giustamente suggerito Giampiero Moretti – vedere in Séraphîta “la traccia residuale di un passato antichissimo che si avvia a spegnersi per sempre e di cui l’arte trattiene una sorta di ultima parvenza”, perché Balzac, in questa sua opera così eccentrica, rimette semmai in gioco un orizzonte ognora possibile (Moretti 2012, 125-126). Ma di ciò diremo più oltre.

Ora vorrei piuttosto richiamare l’attenzione su un luogo di Séraphîta che è per noi di grande interesse. Tra le ultime parole pronunciate da Séraphîta, appena prima dell’assunzione celeste e definitiva metamorfosi in serafino, ascoltiamo questa sua descrizione della Rassegnazione, vera e propria personificazione della più alta facoltà di cui le nature spirituali siano dotate:

Plus forte que l’amour, plus vive que l’espérance, plus grande que la foi, elle est l’adorable fille qui, couchée sur la terre, y garde un moment la palme conquise en laissant une empreinte de ses pieds blancs et purs; et quand elle n’est plus, les hommes accourent en foule et disent : “– Voyez!” Dieu l’y maintient comme une figure aux pieds de laquelle rampent les Formes et les Espèces de l’Animalité pour reconnaître leur chemin. Elle secoue, par moments, la lumière que ses cheveux exhalent, et l’on voit; elle parle, et l’on entend, et tous se disent: – Miracle! Souvent elle triomphe au nom de Dieu; les hommes épouvantés la renient, et la mettent à mort; elle dépose son glaive, et sourit au bûcher après avoir sauvé les peuples. Combien d’Anges pardonnés sont passés du martyre au ciel! Sinaï, Golgotha ne sont pas ici ou là; l’Ange est crucifié dans tous les lieux, dans toutes les sphères (Séraphîta: Balzac [1835] 1966, 371) (c.vo mio).

Più forte dell’amore, più viva della speranza, più grande della fede, essa [la Rassegnazione] è l’adorabile fanciulla che, distesa sulla terra, vi conserva per un momento la palma conquistata, lasciando un’impronta dei suoi piedi bianchi e puri; e quando non è più, gli uomini accorrono in massa e dicono: – Guardate! Dio ve la mantiene [sulla terra, n.d.t.] come una figura ai cui piedi strisciano le Forme e le Specie dell’Animalità per riconoscere il proprio cammino. A tratti essa scuote la luce che le sue chiome spandono e la si vede; ella parla, e la si ode, e tutti dicono tra sé: – Miracolo! Spesso ella trionfa nel nome di Dio; gli uomini spaventati la rinnegano e la mettono a morte; essa depone la spada e sorride al rogo dopo aver salvato i popoli. Quanti Angeli perdonati sono passati dal martirio al cielo! Il Sinai, il Golgota non sono qui o là; l’Angelo viene crocifisso in tutti i luoghi, in tutte le sfere. (C.vo mio).

L’immagine allegorica della Rassegnazione è una proiezione, un avatar, se vogliamo, della stessa Séraphîta: sotto le spoglie della Rassegnazione, Séraphîta si autorappresenta nella triplice veste di figura ai cui piedi strisciano le Forme e le Specie dell’Animalità; nonché di adorabile fanciulla – variante di Belle Dame o Belladonna o Bonne Dame, tutte denominazioni della Saga – che sorride al rogo; e, infine, di angelo crocifisso in tutti i luoghi. Se la “fanciulla adorabile che sorride al rogo” altri non è se non la strega-maga, la “figura ai cui piedi strisciano le Forme e le Specie dell’Animalità” è la Signora della Vita ovvero la Dea Vergine/Madre Signora degli Animali (Burkert [1972] 1981, 70-72; Burkert [1979] 1987, 157-196). E che, tra la strega-maga e la divina Signora degli Animali esista un fortissimo legame nella tradizione, dall’antichità alla modernità, è cosa ben nota (Ginzburg 1966, 48-50; Ginzburg 1989, 65-98).

1 | Artemide Potnia Theron, Vaso François (dettaglio dell’ansa), VI secolo a.C., Museo Archeologico nazionale di Firenze.

La mater animalium e la strega-maga si sovrappongono poi, nella visionaria divagazione di Séraphîta, all’angelo ridescritto come figura sacrificale, cristica o forse meglio anti-cristica perché cristo-mimetica. Vertiginoso e disorientante il gioco balzachiano: l’animalità e la natura, nel segno del femminile e del magico, si intrecciano alla soprannaturalità angelica. Ma, tutt’al contrario, non incarna forse l’angelo cristiano, almeno nella sua immagine canonica, lo scarto incolmabile dello spirituale dal naturale-animale? Che operazione sta qui compiendo Balzac? Si tratta forse di una animalizzazione o ri-animalizzazione dell’angelo? E che relazione c’è, se c’è, tra l’animale e lo spirituale? E perché infine l’animalità è strutturalmente filtrata attraverso il prisma del femminile?

L’ariete dell’apologo che chiude Les martyrs ignorés anela, dicevamo poco sopra, a fondersi con l’umano definito intelligence immortelle. Il ricorso al termine intelligence è sintomatico e rivelatore. Intelligence è parola tecnica del lessico teologico e cosmologico medievale, recuperata in seguito, nella modernità matura, dalla teosofia: è la nominazione filosofica (ed esoterica) dell’angelo, inteso come sostanza separata dalla materia ovvero come spirito (se prescindiamo dalla terminologia dell’aristotelismo tomistico). L’uomo visto dall’ariete è dunque angelo, entità spirituale immortale: nutrire l’uomo-angelo con le proprie carni o ricoprirlo con la propria lana è la via, dichiaratamente sacrificale, attraverso cui la bestia si “india”. In altre parole ancora, l’animale si identifica con l’umano trasposto nel campo dell’immateriale e dell’invisibile: vedremo più oltre che la favola dell’ariete riserva, al proposito, un’ulteriore sorpresa. In Séraphîta, d’altra parte, la fanciulla-angelo descrive se stessa come figura divina cui tutte le forme e le specie dell’Animalità guardano per trovare il proprio cammino: medesima prospettiva dei Martyrs ignorés ma in senso inverso, perché là il locutore è la bestia, e qui, invece, la donna. Perché questa sostituzione o, se preferiamo, questa intercambiabilità simmetrica della persona loquens? Il narratore dell’apologo, Grodninsky, chiudeva il suo breve racconto con un fulmen in clausola: Si ce mouton n’est qu’une bête, il faut que l’homme renonce au plus joli dada de son écurie philosophique. Il gioco linguistico su dada è assai sintomatico. Dada indica sì, nel nursery language, il cavallo (da qui la metafora “scuderia filosofica”), ma vuol altresì dire “cavalluccio” nel senso di “passatempo, intrattenimento preferito” (si pensi all’inglese hobby-horse) e quindi di “giocattolo prediletto”.

L’immagine dell’animale che, adorante, si prostra davanti all’uomo innalzato a entità angelica sarebbe dunque uno dei giocattoli ovvero dei dispositivi più rappresentativi e tipici del pensiero filosofico; pensiero filosofico che, a sua volta, sarebbe il modo in cui l’uomo distanzia se stesso dalla natura impossessandosene con il linguaggio e facendo opera di auto-trascendenza ovvero, in ultima analisi, eleggendo se stesso a ombelico del sacro – sicché “pensiero filosofico” è qui un modo dissimulato di dire “pensiero religioso”. Lo spazio intermedio (insieme distintivo e congiuntivo) tra l’uomo e l’animale, costituisce – sembra dirci Balzac – il terreno di gioco e la frontiera su cui viene conteso qualcosa di fondamentale che l’angelo per un verso rivela e per l’altro vela, se non dissimula, o addirittura rimuove: la creazione della sacralità. Questo trasparire o riapparire dell’animalità nel campo auratico dell’angelo-uomo riapre l’orizzonte, come vedremo, su scenari immemoriali.

Antropomorfismo angelico: Séraphîta e la finzione dell’Umano

La scrittura di Séraphîta è ripiegata su un grande equivoco voluto programmaticamente dallo stesso Balzac; equivoco che consiste nella aperta ed enfatizzata professione di swedenborghismo. Non si tratterà di un cattura-sguardo? Non sarà una strategia per convogliare l’attenzione del lettore e dell’interprete sulla teosofia di Swedenborg e soprattutto sulla sua angelologia mentre qualcosa d’altro, qualcosa di non immediatamente visibile e di sapientemente celato, avviene sulla scena del racconto? Séraphîta/Séraphîtüs – nominata/o al femminile o al maschile a seconda dalla prospettiva in cui la/lo si percepisce – è uno swedenborghiano “spirito angelico”, cioè un esprit angélique, di passaggio su questa terra e in attesa di essere definitivamente assunta/o in cielo come serafino. Gli spiriti angelici – spiega il pastore Becker a Wilfrid – sono esseri umani dotati di superpoteri spirituali: creature tutte interiorità, viventi una vita tutta sovrasensibile fatta non d’altro che di estasi meditativa. La loro essenza è costituita da un quantum di potentissima energia in evoluzione e in trasformazione ovvero in costante perfezionamento e raffinamento, finché tale energia, giunta al suo stadio metamorfico ultimo, rompe l’involucro del corpo umano e così si ricongiunge all’infinito dove diventa compiutamente angelo, perfetto Serafino, puro spirito scevro da ogni costrizione materiale e psichica. Ma l’energia di cui stiamo parlando è pur sempre intrinsecamente umana: non esiste Angelo che non sia stato prima uomo sulla terra, sicché la terra è il “vivaio”, la pépinière, del cielo – il pastore Becker richiama l’attenzione di Wilfrid su questo punto specifico dell’angelologia di Swedenborg. Lo “spirito angelico” in transizione verso la forma definitiva di angelo è dunque figura che risulta da un evidente processo di antropomorfizzazione. La domanda – che, come si vede, ripropone il problema posto dall’apologo dell’ariete – è allora: intorno a che cosa verte l’antropomorfizzazione? Qual è l’oggetto dell’umanizzazione? E come agisce l’umanizzazione su tale oggetto? Chiedersi ciò significa, com’è evidente, non dare per scontato che cosa sia l’umano ovvero non cadere nell’illusione dell’auto-riconoscimento. L’angelico e l’umano, proprio perché congiunti e sovrapposti, si mettono reciprocamente a distanza straniandosi a vicenda: e, tra i due poli, quello più straniato è evidentemente l’umano, perché se i tratti esteriori dell’uomo sono trasferiti sull’angelo a dargli un volto ovvero un’apparenza visivamente figurabile, che resta poi di umano all’uomo al di là di una riproducibile esteriorità?

L’aspetto di Séraphîta/Séraphîtüs, così come ce la/lo descrive la voce narrante nel I capitolo, è quello di un ragazzo di diciassette anni dalle forme esili e fragili di fanciulla (per Wilfrid, infatti, Séraphîtüs è piuttosto Séraphîta perché la/lo percepisce al femminile, mentre per Minna avviene esattamente l’opposto), dalla pelle bianca al di là di ogni immaginazione, dai boccoli aurei sospesi nell’aria come fossero sollevati da un soffio perennemente spirante, dallo sguardo d’oro che zampilla fiamme rivaleggiando con il fuoco del sole, dalle labbra rosse che campeggiano in quel biancore di neve e ghiaccio ove si rispecchia il deserto dell’assiderato paesaggio norvegese rappreso dal gelo eccezionale dell’inverno tra il 1799 e il 1800… ma, soprattutto, il suo corpo è fatto di una materia diafana o è piuttosto un involucro iridescente che lascia trasparire il fluido, il pneuma igneo interiore. Lo si direbbe un corpo-lampada, un vaso d’alabastro illuminato (Balzac [1835] 1966, 331). Ebbene, si tratta di una descrizione virtuosa e forse non priva di attrait, ma che nulla aggiunge, se non splendide variazioni di décor, all’immagine degli angeli dipinti, ad esempio, da un Simone Martini o da un Beato Angelico. Se vogliamo cogliere qualcosa che oltrepassi il pittorico antropomorfismo dobbiamo compiere una operazione diversa dal semplice ‘vedere con gli occhi’.

Ostentando, di fronte ai nostri occhi, l’immagine sensibile di Séraphîta/Séraphîtüs, Balzac ce ne nasconde per altro verso l’immagine immaginabile, quella, cioè, che possiamo figurarci soltanto nella mente e a partire dalla pura parola (Cacciari 1986). Quando dico ‘parola’, intendo il grande discorso sull’ordine dell’universo pronunciato da Séraphîta/Séraphîtüs di fronte agli attoniti Wilfrid e Minna e al dubbioso pastore Becker (Balzac [1835] 1966, 354-364). Si tratta di un discorso costruito, appunto, a partire da icone mentali che rappresentano, sotto forma di oggetti immaginari, il flusso meditativo di Séraphîta/Séraphîtüs. Tali oggetti sono: il Numero Puro, il Numero Incarnato, la Macchina Universale ovvero il meccanismo del cosmo raffigurato come macina da mulino (meule) (De Santillana, von Dechend [1969] 1983). Questi tre oggetti rimandano alle scienze cui sono rispettivamente correlati: le matematiche-il Numero Puro; la geometria-il Numero Incarnato; la fisica-la Macchina Universale/Macina. Oggetti e scienze rinviano infine alle nozioni: di Tempo-il Numero/le matematiche; di Spazio-il Numero/la geometria; e di Movimento-la Macchina Universale/la fisica (inteso sia come relazione tra forze sia come costante processo di trasformazione della materia).

2 | Albrech Dürer, Melencolia I, 1514, bulino, Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle.

Per quanto, a mia conoscenza, non sia mai stato notato dagli interpreti, mi pare evidente che la scena balzachiana risulta disseminata di indizi evocanti il campo figurale della düreriana Melencolia I. Nel discorso di Séraphîta/Séraphîtüs sul mistero dell’ordine universale si ritrovano, di fatto, gli stessi oggetti-di-pensiero che circondano l’angelo melancolico e meditabondo al centro della celeberrima incisione di Albrecht Dürer: il quadrato magico – la somma dei cui numeri lungo tutte le linee orizzontali, verticali e oblique dà trentaquattro – echeggia nel Numero Puro di Séraphîta/Séraphîtüs; mentre la caotica batteria di strumenti di disegno e misurazione, nonché i solidi geometrici e soprattutto il poliedro irregolare disposti ora ai piedi dell’Angelo ora intorno a lui, rivivono nel ‘serafitiano’ Numero Incarnato; per non parlare, poi, della macina da mulino cosmica che è una vera e propria citazione diretta di Melencolia I. La nozione ‘serafitiana’ di Movimento come relazione tra forze e trasformazione della materia è ribattuta infine dai simboli alchemici del bulino düreriano – il fornello, in primis, tra gli altri –, mentre i simboli ascensionali – dall’arcobaleno, alla scala – raffigurano lo slancio immaginativo-speculativo.

Séraphîta/Séraphîtüs è dunque l’Angelo Melancolico düreriano. Ma l’Angelo Melancolico è l’Angelo caduto, che risplende di luce atrabiliare, squisitamente luciferina, demonica, lacerato tra terra e cielo, tra alto e basso, tra i due poli del Sublime, esiliato in ogni luogo, e, forse soprattutto, immerso nella luttuosa voluttà di un eros tutto spirituale e fantasmatico (Starobinski 2012, 471-498):

Moi, je suis comme un proscrit, loin du ciel; et comme un monstre, loin de la terre. Mon cœur ne palpite plus; je ne vis que par moi et pour moi. Je sens par l’esprit, je respire par le front, je vois par la pensée, je meurs d’impatience et de désirs. Personne ici-bas n’a le pouvoir d’exaucer mes souhaits, de calmer mon impatience, et j’ai désappris à pleurer. Je suis seul. Je me résigne et j’attends. (Séraphîta: Balzac [1835] 1966, 332) (c.vo mio).

Io sono un proscritto, lontano dal cielo; e come un mostro, lontano dalla terra. Il mio cuore non batte più; non vivo che di me e per me. Percepisco attraverso lo spirito, respiro con la fronte, vedo con il pensiero, muoio d’impazienza e di desiderio. Nessuno quaggiù ha il potere di esaudire i miei desideri, di calmare la mia impazienza, e ho disimparato a piangere. Sono solo. Mi rassegno e attendo. (C.vo mio).

Così dice Séraphîta/Séraphîtüs di se stessa/o alla dolce Minna, la figlia del pastore, che arde d’amore per lui (Séraphîtüs), esattamente come Wilfrid arde d’amore per lei (Séraphîta): non c’è dubbio che si tratti di un perfetto autoritratto dell’Angelo Melancolico. Autoritratto il cui elemento fondamentale è costituito dall’erotismo fantasmatico: je meurs d’impatience et de désirs. Nel suo ritornare sulla celebre interpretazione panofskiana di Melencolia I (Klibansky, Panofsky, Saxl [1964] 1983; Panofsky, Saxl [1923] 2018), Giorgio Agamben ha rivendicato, in Stanze, l’imprescindibile ruolo svolto da Eros nell’affezione che chiamiamo melancolia:

È curioso che la costellazione erotica della malinconia sia così tenacemente sfuggita agli studiosi che hanno cercato di rintracciare la genealogia e il significato della Melencolia düreriana. Ogni interpretazione che prescinda da questa fondamentale pertinenza dell’umor nero alla sfera del desiderio erotico […] è condannata a passare a fianco al mistero che si è emblematicamente fissato in questa immagine. Solo se si comprende che essa si pone sotto il segno di Eros, è possibile custodirne e, insieme, svelarne il segreto, la cui intenzione allegorica è interamente sottesa nello spazio fra Eros e i suoi fantasmi (Agamben 1977, 25).

Agamben nota infatti che, nell’incisione di Dürer, il putto alato seduto sulla Macina da mulino/Macchina Universale altri non è se non la rappresentazione visuale dello spiritus phantasticus/phantastikon pneuma (Agamben 1977, 28-35), il cui primo motore è Eros/l’eros. L’eros produce la fantasticazione involontaria o, se preferiamo, inconscia, ovvero ancora il delirio ad occhi aperti, il Tagtraum, perché l’amante non ama e non desidera un oggetto reale, ma l’immagine interiore – phantasma – che egli si è creato dell’oggetto desiderato. Il pensiero dell’Angelo Melancolico è allora una rimuginazione fantasmatica intorno all’impronta di un’entità assente, spiritale-spirituale.

Così dobbiamo intendere il discorso di Séraphîta/Séraphîtüs sul Numero, sulla geometria, sulla fisica del cosmo: il Tagtraum di un acciliato, frenetico, estatico, amante dell’invisibile. L’erotismo estatico dell’Angelo si mescola poi alla mostruosità. Mostro si definisce Séraphîta/Séraphîtüs, con un moto di orrorosa ripulsa per se stessa/o: mostro perché lacerata/o da un desiderio insaziabile che la/lo divora senza requie; mostro perché ibrido innaturale di terrestre e celeste; mostro perché creatura non-viva e non-morta; mostro perché estranea/o e fondamentalmente ignota/o a se stessa/o, a tutto ciò che la/lo circonda e a ciò cui anela. Non sarà proprio il mostruoso l’aspetto più umano dell’uomo? E non è forse il mostruoso ciò su cui agisce l’esteriore antropomorfizzazione angelica-angelicante su cui ci interrogavamo poco sopra? Sarebbe allora l’angelo antropomorfo un significante rimuovente di ciò che nell’uomo chiamiamo ‘mostruoso’ perché non risulta immediatamente riconoscibile come umano? E che cos’è, poi, questa cosa incognita così ‘più umana dell’umano’ da diventare in-umana o dis-umana? Nel mostro è necessariamente implicito il fantasma dell’animale, la Bestia: l’animale come rappresentazione fobica, angosciosa, come tabù che vela l’orrore – ben sappiamo che Bestia è l’altro nome di Satana, il primo angelo ribelle. Orrore di che cosa? L’orrore che auraticamente circonda e delimita ciò che siamo soliti chiamare ‘intoccabile’? o ‘sacro’? Alla luce di queste parole – ‘orrore’, ‘intoccabile’, ‘sacro’ – la fantasticazione di Séraphîta/Séraphîtüs sugli arcani dell’ordine universale rivela un ulteriore aspetto. Non rappresentano forse gli strumenti del mago quegli oggetti simbolici di cui Séraphîta/Séraphîtüs delira nel suo pensiero, proprio come lo sono quegli stessi che si trovano disseminati ai piedi e intorno all’Angelo di Dürer? Strumenti di una liturgia, di un rituale segreto? Certo, si tratta di una magia cólta, intellettualizzata, filtrata da una stratificazione plurisecolare cui potremmo dare, a giusto titolo, il nome di ‘tradizione ermetica’. Eppure, sotto questa arabescata coltre di esoteriche intellettualizzazioni, vive forse ancora il ricordo di un sacro esperienziale e ancestrale?

Il primo angelo? L’Anima, la Bestia, l’Ala

Nel tentativo di rispondere a questa domanda dobbiamo compiere una deviazione: l’angelo, la bestia, la caduta, l’eros e la melancolia costituiscono una configurazione coerente che ha un preciso luogo di nascita.

Vivevano su un’isola un re e una regina con le loro tre figlie. Le prime due erano molto belle. Ma la minore superava in bellezza qualsiasi altra fanciulla o donna. La ragazza è talmente bella da suscitare non solo meraviglia, ma anche e soprattutto timor panico: gli abitanti dell’isola, quando la vedono, si segnano come se assistessero all’epifania di una divinità. Non è infatti una bellezza umana. È una bellezza sovrannaturale. La fanciulla, di nome Psiche ovvero Anima, diventa oggetto di culto collettivo. Viene adorata come la nuova Venere, scesa in terra, tra gli uomini. E, per ciò, nessuno osa prenderla in matrimonio (Metamorfosi, IV, 28-29). Quando il padre consulta l’oracolo di Apollo onde avere lumi su quella situazione tanto eccezionale, il responso così sentenzia:

Montis in excelsi scopulo, rex siste puellam ornatam mundo funerei thalami. Nec speres generum mortali stirpe creatum, sed saevum atque ferum vipereumque malum, quod pinnis volitans super aethera cuncta fatigat flammaque et ferro singula debilitat, quod tremit ipse Iovis quo numina terrificantur, fluminaque horrescunt et Stygiae tenebrae. (Metamorfosi, IV, 33) (c.vo mio).

Lascia tua figlia, o re, sulla cima di un monte, approntata per nozze di morte. E non sperare in un marito di stirpe mortale: aspettati piuttosto un essere malvagio, feroce e selvaggio, vipereo, che volando sulle sue ali per la volta celeste affligge l’universo e infierisce su ogni cosa con il fuoco e con il ferro, un essere che fa tremare persino Giove e terrorizza gli dèi, spavento dei fiumi e delle tenebre stigie. (C.vo mio).

La Bella deve andare in sposa a una Bestia alata ed esiziale. L’immemoriale motivo mitico-fiabesco dello sposo animale, la cui origine sciamanica risulta evidentissima, è qui assai ben riconoscibile e, in effetti, la favola apuleiana di Amore e Psiche si fa, per un verso, ricettacolo della tradizione orale che la precede e la circonda e, per l’altro, diventa incunabolo letterario delle riscritture a venire, tra le quali ricorderemo La Belle et la Bête di M.me de Villeneuve (de Villeneuve et alii 2002).

3 | La Belle et la Bête (Jean Cocteau, 1946). Nella fotografia di scena: Jean Marais nel ruolo di Bête, e Josette Day nel ruolo di Belle.

Psiche, la Bella, Anima, si offre dunque alle nozze infere cui è destinata e viene trasportata nell’aldilà dove sorge il palazzo incantato della Bestia, con la quale ella si congiunge tutte le notti, senza mai vederne l’aspetto perché lo sposo animale non visita la fanciulla che nella più profonda oscurità notturna dell’alcova. E Psiche ne rimane gravida di una nuova vita (Metamorfosi, V, 11-12). Ma le sorelle la terrorizzano: Psiche si unisce a un immane serpente volante o drago che l’ha inseminata e l’insemina soltanto per assicurarsi un pasto più grasso e ricco quando deciderà infine di divorarla (Metamorfosi, V, 17-18). La ragazza deve armarsi di lanterna e coltello e uccidere l’orrido mostro alla prima occasione. Come tutti sappiamo, Psiche cede alla paura. Ed ecco che cosa ne consegue:

Tunc Psyche et corporis et animi alioquin infirma fati tamen saevitia subministrante viribus roboratur, et prolata lucerna et adrepta novacula sexum audacia mutatur. Sed cum primum luminis oblatione tori secreta claruerunt, videt omnium ferarum mitissimam dulcissimamque bestiam, ipsum illum Cupidinem formonsum deum formonse cubantem, cuius aspectu lucernae quoque lumen hilaratum increbruit et acuminis sacrilegi novaculam paenitebat. At vero Psyche tanto aspectu deterrita et impos animi marcido pallore defecta tremensque desedit in imos poplites […]. Ante lectuli pedes iacebat arcus et pharetra et sagittae, magni dei propitia tela. Quae dum insatiabili animo Psyche, satis et curiosa, rimatur atque pertrectat et mariti sui miratur arma, depromit unam de pharetra sagittam et punctu pollicis extremam aciem periclitabunda trementis etiam nunc articuli nisu fortiore pupugit altius, ut per summam cutem roraverint parvulae sanguinis rosei guttae. Sic ignara Psyche sponte in Amoris incidit amorem. Tunc magis magisque cupidine fraglans Cupidinis prona in eum efflictim inhians patulis ac petulantibus saviis festinanter ingestis de somni mensura metuebat. Sed dum bono tanto percita saucia mente fluctuat, lucerna illa […] evomuit de summa luminis sui stillam ferventis olei super umerum dei dexterum. […] Sic inustus exiluit deus visaque detectae fidei colluvie prorsus ex osculis et manibus infelicissimae coniugis tacitus avolavit. (Metamorfosi, V, 22-23) (c.vo mio).

Allora Psiche, sebbene non fosse forte di natura né nel corpo né nell’anima, tuttavia, sotto la spinta del destino crudele, si fa virile: estrae la lucerna, impugna il coltello e cambia il suo sesso in quello di uomo per effetto dell’audacia. Ma non appena gli arcani del letto nuziale furono rischiarati dalla luce della lanterna, ella vide la più mite e la più dolce bestia tra tutte le bestie feroci, proprio lui, Cupido, il bel dio che in tutta la sua bellezza dormiva, al cui aspetto persino il lume della lucerna avvampò con più baldanza e la punta del coltello si rincrebbe di se stessa. Ma Psiche atterrita da quella vista, incapace di governare il proprio animo e impallidita come un morto, si accasciò, tremando, sulle ginocchia. […] Davanti ai piedi del letto giacevano l’arco, la faretra e le frecce, le armi efficaci di quel grande dio. Psiche contempla le armi del marito insaziabilmente, con estrema curiosità, e poi le maneggia ed estrae una freccia dalla faretra: per provarne la punta vi appoggia il pollice, ma, siccome le tremano ancora le dita, preme troppo forte e si punge in profondità, sicché ne sgorgano gocce di sangue rosato. È così che, spontaneamente e involontariamente, Psiche si innamorò di Amore. E allora prende a bruciare sempre più di desiderio per il dio del Desiderio, si china su di lui e lo ricolma e lo divora di baci appassionati con furia, temendo che non si svegliasse troppo presto. Ma, mentre Psiche, sovreccitata da quel piacere immenso, è tutta in balìa della propria mente ferita, ecco che quella lucerna […] schizzò dal sommo della fiamma una goccia di olio bollente sull’omero destro del dio. […]. Al quel bruciore il dio fece un balzo: vide la macchia della fede tradita e, senza dire una parola, spiccò il volo, via dai baci e dagli abbracci della sua infelicissima sposa. (C.vo mio).

La tradizione degli studi fa di questo passo apuleiano un esempio tipico di trasposizione letteraria della cosiddetta “teologia dei misteri”, Mysterientheologie (Burkert [1987] 1991). Io ne propongo una diversa lettura che si fonda su un principio essenzialmente linguistico: lo spostamento dell’attenzione sulla rete di metafore morte che, a mio avviso, costituisce il più antico ordito soggiacente all’intero quadro scenico, mentre l’interpretazione in chiave teologico-misterica si fonda sulla rete delle metafore vive. Si tratta dunque, fondamentalmente, di una scena di caccia magica: la fanciulla deve entrare nella veste del Cacciatore – il passaggio di stato o ruolo è codificato come transfert di sesso (sexum audacia mutatur) – e uccidere la Bestia (Eros). Per affrontarla e sconfiggerla, il Cacciatore si arma delle stesse armi dell’antagonista animale, come ad assumerne su di sé la natura, ovvero il fuoco e il ferro: lampada e pugnale sono sostituti (contro-armi o amuleti?) della face e delle frecce (flamma et ferro) che costituiscono le insegne della Bestia. Ma affrontarla con mezzi umani è impossibile: la Bestia è un avversario sovrannaturale e il solo approccio visivo è terrorizzante, paralizzante al punto che il Cacciatore viene sprofondato nella trance estatica. Eppure, è proprio nello stato dell’invasamento che il Cacciatore può entrare in contatto con la Bestia (manipolare le sue armi) e, ferendosi, ferirla. Il ferimento incrociato è segno della contaminazione tra nature, che viene molto enfaticamente e scopertamente sessualizzata al modo di un coito – il Cacciatore, d’altra parte, è già gravido della Bestia. E ciò non dovrebbe stupire: basti ricordare che in tutta la tradizione occidentale Eros è canonicamente thereutes/venator, mentre l’amante è sempre alternativamente cacciatore e preda. Ma non credo sia qui necessario insistere oltre sull’evidente sovrapposizione tra paradigma venatorio e predazione sessuale. Piuttosto, è cruciale ribadire che il Cacciatore in questione è il Cacciatore-Mago ovvero lo sciamano. La battaglia con la Bestia che qui si rappresenta viene combattuta nello spazio infero, nell’aldilà, nel mondo degli spiriti: la Bestia è divina e signora del regno invisibile in cui il Cacciatore è stato trasportato. La contaminazione di nature tra il Cacciatore-Mago e la Bestia raffigurata dal reciproco ferimento veicola dunque l’identificazione sciamanica con l’animale. E sappiamo che l’identificazione sciamanica con l’animale è un atto di riparazione rituale attraverso la quale l’uomo assume su di sé la violenza inflitta alla preda uccisa nella caccia, sacralizzandola e così aprendosi la via a una straordinaria acquisizione spirituale: l’accesso al mondo dei morti, dei demoni, delle potenze e delle energie naturali. Psiche (il Cacciatore) è destinata infatti a diventare una grande maga/strega, come Venere stessa, verso la fine del racconto, riconosce: Iam tu quidem magna videris quaedam mihi et alta prorsus malefica (Metamorfosi, VI, 16). Nonché, come una sciamana, ella si trova a dar prova dei suoi poteri lottando contro lo spirito della terra, del fuoco, dell’acqua (Metamorfosi, VI, 10-15) e scendendo infine all’Ade (Metamorfosi, VI, 17-21) – sono i quattro agoni mortali che Psiche deve sostenere prima di essere assunta in cielo dagli dèi.

Credo che in questo passo delle Metamorfosi di Apuleio ci venga restituito il nesso ancestrale tra animalità, sessualità e spiritualità, che è una rappresentazione specificamente sciamanica nata in seno alla cultura della caccia. Lo spirituale, che possiamo anche chiamare ‘il magico’, passa strutturalmente per l’animale (predato/ucciso) e per il sessuale. Ma il quadro non è ancora completo. La Bestia (Eros), ferita con il fuoco – la goccia di olio bollente schizzata, come in un orgasmo, dalla punta della fiamma contenuta nella lampada – fugge via in volo, e a quel punto:

At Psyche statim resurgentis eius crure dextero manibus ambabus adrepto sublimis evectionis adpendix miseranda et per nubilas plagas penduli comitatus extrema consequia tandem fessa delabitur solo. (Metamorfosi, V, 24).

Ma proprio mentre si solleva, Psiche, con entrambe le mani lo afferra per la gamba destra, come fosse una miseranda appendice di quel volo sublime, come un pendulo accompagno o un ultimo strascico, lassù tra le regioni delle nubi, finché, stremata, si lascia cadere al suolo.

Ecco la Bestia alata con la sua appendice umana, Anima, slanciarsi nel cielo: un prodigioso o mostruoso essere umano-animale, un ibrido, un teriantropo fantasmatico formatosi nella mescolanza di voluttà e pena, di godimento e dolore, di paura e desiderio, in fuga estatica nell’Altrove. È questo il primo angelo del nostro immaginario? Poi, l’appendice umana della Bestia divina, l’Anima, ricade a terra e segue con lo sguardo il volo dello sposo, straziandosi con lamenti disperati, fino a perderne la vista tra gli altissimi spazi (Metamorfosi, V, 25). Non le resta che vagare melancolica sulla scena della Natura alla ricerca dell’oggetto perduto, lo Sposo Animale, il Dio-Bestia, cercando di ritrovarlo…

4 | La Belle et la Bête (Jean Cocteau, 1946). Nel fotogramma: il volo di Belle e di Prince Charmant.

Agnus dei: il ritorno dell’Ancestrale

Abbiamo affermato poco sopra che l’angelo antropomorfo (cristiano) è un significante rimuovente del mostruoso incognito insito nell’umano. La digressione apuleiana ci ha mostrato, credo, che il mostruoso rimosso è lo scambio e l’ibridazione tra l’uomo e l’animale in cui si accumula e rappresenta un’immemoriale esperienza religiosa: l’incontro violento e ravisseur, aggressivo-libidico (ira-eros), tra la bestia selvaggia e l’homo necans; incontro intorno al quale viene elaborata la cultura della caccia lungo l’estesissimo arco dell’èra paleolitica (Burkert 1977; Burkert [1998] 2003; Lot-Falk [1958] 2018; Calasso 2016). È proprio a partire da quell’incontro epocale e fatale che si costruisce la più antica forma di sacro a noi nota: Hans Findesein, ripetuto da Walter Burkert, ha affermato: Der Schamane ist also ein zum Bessesenheitspriester gewordener jungpaläolithischer Magier, “lo sciamano è un mago della caccia dell’èra paleolitica trasformato in sacerdote posseduto” (Findesein 1957, 8; Burkert [1979] 1987, 147). È nell’identificazione con l’animale come rappresentante delle forze sovrannaturali che l’uomo proietta e quindi ritualizza i fantasmi di ‘anima’ e di ‘aldilà’. L’Anima di Apuleio incontra la Bestia in un clima emotivo ove si mescolano eros e ira – l’ira/odio di Venere, l’ira/odio degli dèi, l’ira/odio di Psiche stessa per la sua nefasta bellezza –, clima dove si confondono la vita, le pulsioni sessuali (amor), e la morte (mors) – le nozze infere, i ripetuti tentativi di suicidio della fanciulla, le prove mortali, il viaggio nell’Ade. In questo teatro, il sacro e lo psichico (Psiche), il sacro e l’inconscio si sovrappongono. Volare e cadere sono i movimenti strutturali dell’estasi ovvero i movimenti del fantasmatico – così già nel Fedro platonico, che, a giusto titolo, potremmo chiamare ‘il dialogo dell’ala’ (Susanetti 2021). In quella straordinaria immagine di sintesi, vera e propria Pathosformel, della Bestia in volo che trascina con sé, a mo’ di coda (extrema consequia), la delirante e sconvolta appendice umana, Apuleio ci trasmette, pur nella stratificatissima e coltissima filiera di plurime mediazioni e riconfigurazioni, il nesso ancestrale tra lo spirituale, l’animale e il sessuale quasi completamente rimosso, in seguito, dall’iconografia e dall’immaginario dell’angelo antropomorfo e cristiano – è un fatto ormai assodato che l’iconografia dell’angelo cristiano pre-moderno rimonti all’immagine dell’eros-daimon e degli erotes-daimones antichi (Lauritzen 2021, 207-240). Nesso ancestrale tra l’animale, lo spirituale e il sessuale che ritorna quindi e riecheggia ancora prepotentemente nella ‘prosa angelica’ di Séraphîta.

Démon, magicienne, sorcière, monstre: Maga, Strega, Demone, Mostro – così Wilfrid definisce Séraphîta, di cui, come già sappiamo, è follemente e dolorosamente innamorato, quando dichiara al pastore Becker la divorante e dissennante passione che lo sconvolge.

L’être que nous nommons Séraphîta me semble un de ces rares et terribles démons auxquels il est donné d’étreindre les hommes, de presser la nature et d’entrer en partage avec l’occulte pouvoir de Dieu. […] Vous me voyez ici pour la centième fois, abattu, brisé, pour avoir été jouer avec le monde hallucinateur que porte en elle cette jeune fille douce et frêle pour vous deux, mais pour moi la magicienne la plus dure. Oui, elle est pour moi comme une sorcière qui, dans sa main droite, porte un appareil invisible pour agiter le globe, et dans sa main gauche, la foudre pour tout dissoudre à son gré. […] Je saisis donc le moment où j’ai le courage de résister à ce monstre qui m’entraîne après lui, sans me demander si je puis suivre son vol. (Séraphîta: Balzac [1835] 1966, 339) (c.vo mio).

L’essere cui diamo il nome di Séraphîta mi sembra uno di quei terribili e rari demoni che hanno il dono di costringere l’uomo, di far pressione sulla sua natura e di entrare in comunione con l’occulto potere di dio. […] Voi [M. Becker, n.d.t.] mi vedete qui per la centesima volta, abbattuto, spezzato, per essere stato a giocare con il mondo allucinatorio che porta dentro di sé colei che per voi è una fanciulla dolce e fragile, ma per me è la maga più spietata. Sì, lei per me è una strega che, nella mano destra reca un oggetto per sconvolgere il mondo e nella sinistra la folgore per distruggere tutto a suo piacimento […]. Colgo dunque il momento in cui ho il coraggio di resistere a questo mostro che mi trascina dietro di sé, senza chiedermi se sono in grado di seguire il suo volo. (C.vo mio).

Le ultime parole di Wilfrid, “questo mostro che mi trascina dietro di sé senza chiedermi se sono in grado di seguire il suo volo”, è pressoché una citazione letterale della celebre scena apuleiana; ma, più in generale, è evidente che, nel cri de cœur del giovane amante, convergono all’unisono sulla figura dell’angelo Séraphîta l’erotismo, l’animale, lo spirituale-demonico, il magico-stregonesco e l’estasi allucinatoria. Quadro che, come si è già osservato, Séraphîta stessa dipinge di sé medesima, quando si immagina, al contempo, angelo crocifisso, signora delle forme e delle specie dell’Animalità e strega che sorride al proprio rogo. Ma c’è, in particolare, un passo del discorso che Séraphîta pronuncia subito prima di lasciare definitivamente l’involucro del suo corpo e sparire nelle profondità dei cieli, in cui la nostalgia dell’Animale risuona con struggente e potente intensità:

Dieu veut être cherché pour lui-même. En ce sens, il est jaloux, il vous veut tout entier; mais quand vous vous êtes donné à lui, jamais il ne vous abandonne. Je vais vous laisser les clefs du royaume où brille sa lumière, où vous serez partout dans le sein du Père, dans le coeur de l’Époux. Aucune sentinelle n’en défend les approches, vous pouvez y entrer de tous côtés; son palais, ses trésors, son sceptre, rien n’est gardé; il a dit à tous: Prenez-les! Mais il faut vouloir y aller. Comme pour faire un voyage, il est nécessaire de quitter sa demeure, de renoncer à ses projets, de dire adieu à ses amis, à son père, à sa mère, à sa soeur, et même au plus petit des frères qui crie, et leur dire des adieux éternels, car vous ne reviendrez pas plus que les martyrs en marche vers le bûcher ne retournaient au logis (Séraphîta: Balzac [1835] 1966, 369) (c.vo mio).

Dio vuole essere cercato per se stesso. In questo senso è geloso: vi vuole tutti per sé; ma quando vi siete donati a lui, non vi abbandona mai. Io vi lascio la chiavi del regno dove brilla la sua luce, dove voi sarete in ogni luogo nel seno del Padre, nel cuore dello Sposo. Nessuna sentinella ne difende gli accessi: potete entrare da tutti i lati. Il suo palazzo, i suoi tesori, il suo scettro, nulla è sorvegliato. Egli ha detto a tutti: prendeteli. Ma bisogna volerci andare. E come quando si fa un viaggio, bisogna lasciare la propria casa, rinunciare ai propri progetti, dire addio agli amici, al proprio padre, alla madre, alla sorella, e anche al più piccolo dei fratelli che piange, e dire loro un addio eterno, perché voi non tornerete più indietro come i martiri che vanno sul rogo non ritornano a casa. (C.vo mio).

Aldilà del linguaggio cristianeggiante di superficie – il Dio Padre – si riconosce l’ordito mitico-fiabesco fondativo. Lo Sposo è il Signore di un reame incantato e di un palazzo repleto di tesori, non sorvegliato da nessuna guardia, ma accessibile solo a chi vuole recarvisi e donarsi completamente a lui, solo a chi vuole intraprendere un viaggio da cui non ritornerà mai più ovvero un viaggio infero, un viaggio nell’aldilà, perché il Signore è geloso ed esclusivo nel suo amore… Riconosciamo la situazione e il contesto: lo Sposo è la Bestia della fiaba – dall’Amore di Apuleio alla Bête di M.me de Villeneuve –, sovrano del palazzo d’oro e degli ori infiniti. Séraphîta è allora, come Psiche e Belle, la sposa dello Spirito che regna sul mondo dell’invisibile e che la tradizione, da tempi immemoriali fino alla modernità, continua a figurarsi nella pelle dell’Animale, chiamandolo contemporaneamente Dio.

L’apologo dell’ariete va dunque rovesciato: non è l’animale che vede nell’identificazione con la natura angelica (si intenda: demonico-spirituale) dell’uomo la via della trascendenza e dell’immortalità. È piuttosto il contrario, almeno dal punto di vista strutturale prima ancora che genetico. La figura dell’angelo ha infatti assunto su di sé e, se così si può dire, specializzato l’intensa carica fantasmatica e psichica di cui l’uomo, durante il cammino della sua storia evolutivo-culturale, ha investito le forme e le specie del vivente, proiettando sull’Altro-da-sé un dramma collettivo-individuale per lui stesso enigmatico, anzi, largamente ignoto e sotto molti aspetti del tutto involontario. È noto che Feuerbach liquidava il fenomeno religioso come auto-proiezione dell’uomo, ed è qualcosa di così evidente da non poter essere negato; ma il fatto è che il filosofo, semplificando violentemente il problema, non teneva o non intendeva tenere conto dei processi inconsci che ‘fanno’ l’uomo, più di quanto l’uomo coscientemente ‘faccia’ se stesso.

Senz’altro, attraverso l’ariete, Balzac ha voluto evocare, senza nominarla direttamente, l’immagine di Cristo: agnus Dei, l’agnello che si offre al sacrificio per l’uomo onde salvargli l’anima e farlo partecipe della vita eterna nella futura Resurrezione. Ma il divino sta nell’animale, non nei suoi umani sacrificatori che si fregiano di intelligence immortelle. E non è certo quella dell’agnus Dei una metafora che si spenga nella sola allegoria morale e teologica: si tratta di una metafora che non ha ancora tagliato i suoi legami con un’esperienza profonda tuttora molto ardua da pensare e attiva proprio perché sepolta nell’oblio. Quando Séraphîta proclama, come abbiamo già ricordato: l’Ange est crucifié dans tous les lieux, vuole evidentemente rivestire la propria ‘angelicità’ di tratti cristici e, quindi, necessariamente sacrificali, laddove il sacrificio non appartiene né pertiene alle funzioni dell’angelo – è noto, d’altra parte, come una certa tradizione teologica riconosca nel Cristo mediatore e spirito-in-forma-umana il primo angelo (Agamben, Coccia 2009, 502-505). Ma il sacrificio è un segnale di arcaismo: esso rimanda allo scenario violento della caccia che è il luogo della sua nascita e della sua prima ritualizzazione. Séraphîta è però donna. O meglio: soprattutto donna. Non spenderò argomenti, in questa sede, contro le moltissime letture erroneamente ‘androgine’ di Séraphîta: mi limiterò a dire che l’androginia di Séraphîta non è una mescolanza neutra e indifferente centrata sul genere. L’androginia di Séraphîta costituisce, al contrario, un’eccedenza centrata sull’inestinguibile specificità del sesso perché è un ‘e… e’, ‘e maschile e femminile’ con una ulteriore eccedenza verso il femminile: ‘e maschile e soprattutto femminile’. Nel senso che, quando Séraphîta parla in quanto natura spirituale, in quanto sapienza, in quanto ‘anima’, ebbene, lo fa al femminile, mentre il maschile segna piuttosto e delimita il suo corpo. Come a dire che il maschile è carne e il femminile è spirito. D’altra parte, non è la donna che crea, pensa, tesse e sostiene la Vita?

5 | Albrecht Dürer, Madonna degli animali, 1503, penna e acquerello su cartoncino, Wien, Albertina Museum. Nel bestiario: leone, grillo, civetta, libellula, airone, ariete alla carica, granchio di mare, pappagallo, cane, grifone, picchio, farfalla, passero, civetta, gufo, cervo volante, cicogne, cigni, pecore, capre, volpe al guinzaglio.

Riferimenti bibliografici
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    E. Panofsky, F. Saxl, La “Melencolia I” di Dürer. Una ricerca storica sulle fonti e i tipi figurativi [Leipzig-Berlin 1923], a cura di E. De Vito, intro. di C. Wedephol, Macerata 2018.
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    D. Susanetti, Il talismano di Fedro, Roma 2021.
English abstract

This essay addresses the question of the relationship between angelic-demonic nature and animality, as represented in two texts, namely the fable of Cupid and Psyche from Apuleius’ Metamorphoses and Honoré de Balzac’s Séraphîta, taken as milestones in the immemorial history of human-animal interaction which underlies the evolution of culture and religion.

keywords | Animality; Angel; Beast; Eros; Sex; Spirituality; Shamanism; Psyche; Balzac; Apuleius.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Stella, Fabula angelica, l’ombelico del sacro. Caccia, volo, ferimento, estasi e caduta tra Balzac e Apuleio: Séraphîta e Metamorfosi, V, 22-25, “La Rivista di Engramma” n. 197, dicembre 2022, pp. 27-49 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.197.0008