"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

The Party. Microstoria ed eterogenesi di un classico della house music

Guglielmo Bottin

English abstract

Il saggio esamina il brano The Party, realizzato nel 1988 dall’haitiano Richard Jean Laurent, e il suo impatto sulla ricezione della house music nel contesto culturale italiano ed europeo. Sarà presentata un’analisi della traccia mediante la notomizzazione delle linee musicali che ne costituiscono il testo e attraverso il confronto interoggettivo con altri brani a essa ‘imparentati’ a vario titolo (Tagg 2012). Il lavoro e la figura di Laurent forniscono un interessante oggetto di studio microstorico (Ginzburg 1994), secondo un metodo di ricerca e narrazione da cui si vuol fare emergere programmaticamente la parzialità e la frammentarietà del caso in esame, insieme alla sua sintomaticità rispetto a processi che talvolta sfuggono alle analisi massive (Levi 2019). L’approccio microstorico si contrappone al metodo seriale secondo cui si dovrebbero prendere in considerazione solo fatti uniformi e comparabili. La microstoria privilegia così le anomalie al fine di far emergere un “eccezionale normale”: espressione ossimorica che indica come un caso apparentemente isolato possa intaccare l’opacità delle serie documentarie omogenee (Grendi 1994). Una microstoria può così rilevare discrepanze sistematiche che invece, ponendosi ‘a una certa distanza’ dall’oggetto di analisi come suggeriscono alcune correnti delle digital humanities (Moretti 2020), non si possono scorgere. In questo caso la serie omogenea è quella nel ‘canone’ della house music nordamericana degli anni Ottanta, stile musicale sviluppatosi in seguito al declino della musica disco.

Se negli anni Settanta le discoteche hanno tratto il proprio spirito celebrativo in parte anche da battaglie per i diritti civili (Shapiro 2005) alla fine di quel decennio la disco music esce dall’oscurità sottoculturale dei locali notturni alle luci della ribalta mediatica (Bisoni 2016), mettendo così in discussione rilevanza e rendite di posizione di operatori musicali specializzati in generi più ‘bianchi’ ed eteronormativi (Frank 2007, Garcia-Mispireta 2018). Si scatena una violenta reazione organizzata da alcuni disc jockey radiofonici di rock, culminata nella disco demolition night del 1979 con la deflagrazione di migliaia di dischi dati alle fiamme in diretta televisiva durante l’intervallo della partita allo stadio Comiskey Park di Chicago (Lawrence 2003). Il tramonto dello stile disco è però qualcosa di più complesso dell’azione di un singolo movimento conservatore (Williams 2021). Da un lato alcuni degli imprenditori che investono per sviluppare la disco vogliono ora fare cassa con progetti più commerciali (per esempio Jacques Morali e Kenn Friedman con i Village People) supportati da ricerche di mercato sulla percezione positiva di quell’estetica anche da parte del pubblico eterosessuale (Echols 2010); dall’altro lato anche una parte di pubblico delle minoranze è annoiata delle orchestrazioni melense e dagli stereotipi veicolati dalla disco music più pacchiana: già prima della demolition del 1979 la stampa gay reputa gli stili post-punk come più interessanti per la propria comunità e la musica nei locali underground incorpora elementi new wave, oltre a sviluppare i tratti più ‘energetici’ e macchinici della disco europea (Niebur 2022). Nello stesso periodo, in conseguenza alla saturazione del mercato e alla ricorrente necessità di dare al pubblico qualcosa di ‘nuovo’, le major discografiche abbandonano molti artisti e produttori di disco music. Una parte di questi risponde adottando stili apparentemente più ‘rilassati’ come il boogie e forme tecnologicamente aggiornate di soul e funk (Antonelli e De Luca 1995, 66). Altri si ritirano in spazi sociali e creativi lontani dal grande spettacolo dell’industria. Una posizione di svantaggio economico che però consente di sviluppare pratiche libere dalle regole del mercato di massa (Cochrane 2019).

Negli anni Ottanta la house, che prende nome dal Warehouse Club di Chicago in cui il dj Frankie Knuckles (newyorkese del Bronx) è tra i primi a promuoverla, nasce soprattutto nei contesti emarginati dei neri e dei gay (Garcia-Mispireta 2018, Salkind 2019); una forma di resistenza culturale che si articola giustapponendo sonorità ritenute dal mainstream come lontane dalla moda, se non addirittura debosciate o ‘antiamericane’: i tropi della disco più queer e libertina (Amico 2001), le geometrie elettroniche del synth-pop britannico e dell’italo disco, che i dj di Detroit e Chicago chiamano progressive (Sicko 2010, 26). La house muta la forma della disco music intensificandone i tratti che più innervosiscono i rockettari bianchi e i seguaci del funk nero più ‘vitalisti’ e identitari: ripetizione macchinica, testure timbriche sintetiche, assenza di un genoma musicale riconoscibile e rintracciabile nella tradizione o nelle radici di un popolo (Reynolds 2012).

Oltre al Warehouse e al Music Box di Chicago, un altro luogo importante è il Paradise Garage di New York, dove Larry Levan – noto per l’eclettismo della sua selezione musicale che spazia dal soul di Philadelphia all’elettronica tedesca, da brani caraibici alla new wave inglese (Fikentscher 2014) – suona anche i dischi che Laurent pubblica sotto pseudonimo (Levan 2009).

Nonostante il successo internazionale le notizie su Laurent sono sorprendente molto scarse: l’unica intervista reperibile è contenuta in una trasmissione radiofonica realizzata in occasione della Ghetto Biennale a Port-au-Prince (Laurent 2015), fonte da cui provengono le informazioni biografiche di seguito riportate. Richard Laurent arriva a Manhattan da Haiti all’età di otto anni. Da ragazzino si esibisce a supporto dei gruppi di musica compas della comunità haitiana di New York (Laguerre 1984) presentandosi come moun fou, espressione che in lingua creola haitiana significa pazzo, lunatico (Targète e Urciolo 1993). Da adolescente passa al punk, militando in una band che apre i concerti al CBGB di Bowery Street. L’immagine di Laurent è allora, per usare le sue stesse parole, quella di “uno skinhead nero con stivali Dr. Martens rossi” (Laurent 2015). Questa estetica pseudo-militare permane anche nei successivi ‘concerti’ house (Logie 1988, Kraze 1988).

Alcune delle caratteristiche che rendono The Party un brano parzialmente ‘mutante’ rispetto alla house music più comune emergono già nel disco precedente, Shut Up, pubblicato nel 1987 a nome Moonfou, traslitterazione americanizzata del nomignolo creolo che Laurent usa da ragazzino (Leland 1989). L’arrangiamento è minimo: uno sfondo ritmico di basso e batteria su cui si ripete un grido (“I say shut up!”) che risponde a un lamento blues (“I got weary, I’m sick of trying, I’m tired of living and feared of dying”), citazione di Ol’ Man River (Hammerstein e Kern 1928). Jungle Cat è invece un pezzo con pattern ritmico-armonico minore eolio (i-VI-♭VII) abbastanza comune nella house ma con basso slap in stile new wave e cantato rock con pseudo-miagolii cui risponde, in francese, una voce femminile. L’ultimo brano, Buckwheat Rap, sembra una satira del genere hip-hop e narra di una festa dove un goffo rapper cerca invano di esibirsi (Laurent 1987). In copertina vediamo Laurent con le sorelle Mirelle (cori) e Martine (tastiere) e Norris Burroughs (accreditato come chitarrista, strumento però assente nel disco).

Burroughs è anche l’autore di Voodoo Macbeth, una graphic novel sulla messa in scena della pièce shakesperiana che Orson Wells dirige nel 1936 per la Negro Unit del Federal Theatre Project (Hilb 2014) in cui l’attore Neil Burroughs (padre di Norris) interpreta il ruolo di Ecate (Burroughs 2006, Gilmore e Gottlieb 2018). Nella band di Laurent, Burroughs suona la chitarra e viene incaricato di rilasciare le interviste per conto del gruppo, forte di aver nel proprio carnet un flirt con Madonna: dettaglio prontamente dato in pasto alla stampa e a cui lo stesso Burroughs dedicherà un libro-memoriale in cui descrive la musica di Laurent/Kraze come parzialmente atipica rispetto alla scena house di quegli anni. Secondo l’autore, il successo del progetto Kraze in Europa influenza anche la stessa Madonna:

My brief opportunity to experience anything remotely resembling fame came in the unexpected form of a house music group called Kraze. The group was born in the Brooklyn basement of front man Richard Laurent. Rich’s two sisters Martine and Mirielle were backup singers , and I also sang and played guitar. We also used various keyboard and percussive instruments which set us apart from most house music acts who usually sang over a pre-recorded track […] What Kraze had started in a Brooklyn basement created waves overseas that doubled back to America and even had an effect on my old friend Madonna (Burroughs 2012).

La decisione che sia Burroughs a tenere i rapporti con la stampa potrebbe giustificare l’assenza di dettagli su Laurent nella pubblicistica musicale del periodo (Leland 1989, Mack 1990). Alcune informazioni sulla genesi di The Party sono rintracciabili nella testimonianza del discografico Craig Kallman che all’epoca, da poco laureato in liberal arts alla Brown University, lavora come dj nei club di Manhattan: Danceteria, Tunnel, The World, Area, Palladium, Limelight (Rys 2012). Oggi Kallman è direttore della Atlantic Records ma nel 1987, poco più che ventenne, fonda una piccola etichetta discografica con l’idea di pubblicare un brano inedito che sente in un nastro demo (Kawashima 2013). La prima uscita su Big Beat Records è Join Hands (Roman e Davis 1987) e comprende gli stilemi dell’house più soulful: introduzione gospel, percussioni afrocubane, fraseggi di pianoforte sulla scala blues, armonia che si ripete ad anello in un ciclo eolio i-♭VII-♭VI-vi-v (Tagg 2011). Il cantato può sembrare quello di un reverendo metodista o di un predicatore “Can you hear me? Join hands. […] Feel the spirit lift you up […] I’m talking to you my sister, my brother […] I have a dream, I feel the love in my hand”. Per distribuire il disco Kallman carica le copie in un carrello da supermercato che spinge su e giù per le vie di Manhattan, affidando il prodotto in contovendita ai negozi (Reilly 1997). Il disco vende complessivamente cinquemila copie, un risultato che incoraggia a proseguire l’attività (Coleman 1988). La seconda uscita è proprio The Party che Laurent pubblica nel febbraio 1988 a nome Kraze, termine creolo haitiano derivato dal francese écrasé (schiantato, distrutto) e firmando la produzione come Reesha, storpiatura francofona di Richard.

We went into the studio and came up with a line “Y’all Want This Party Started” and we created a house record out of it […] doing the same routine – the shopping cart and the trunk of my dad’s car, and driving to the boroughs. This time it was even better – it sold out in the first weekend […] Then I started getting calls from Boston, Washington D.C., then from Miami, Texas, California. […] Soon after, I started getting calls from England, France, Germany, Australia, and Italy […] in a very short time I got a crash course in the U.S. and global record business. […] Kraze and I would jump on a plane and travel to Italy, and he would perform the song, and then travel up and down France. (Kallman in Kawashima 2013)

Al contrario di quanto dichiarato da Kallman, l’hook di The Party non è però un’idea originale bensì il ‘calco’ allosonico (Lacasse 2000) di una frase presa dal brano electro Set It Off (Standard 1984). Non si tratta di una semplice citazione testuale: le parole sono pronunciate con il medesimo ritmo prosodico e alla stessa velocità, come evidenziato dal confronto tra le due forme d’onda [Fig. 1].

1 | Forme d’onda della frase Y’all Want This Party Started, Right? In alto Set It Off (Strafe 1984), in basso The Party (Laurent 1988).

The Party presenta alcune caratteristiche che lo distinguono dagli stilemi più comuni della house music. Innanzitutto non c’è un cantato né un’allocuzione gospel, né tantomeno un rap: la voce di Laurent si manifesta in uno spoken word recitato o meglio gridato. Sebbene ritmicamente identico a quello in Set It Off, l’hook vocale di The Party è reso in modo assai più graffiante e concitato, coerentemente con la vicinanza del musicista haitiano al punk rock newyorkese più che alla prima house music di Chicago. L’arrangiamento è piuttosto scarno: un pattern di batteria elettronica, una linea di basso, un pianoforte sintetico che stacca accordi di triade, rinforzati in alcuni punti da un tappeto armonico di archi [Fig 2]. La pulsazione è di 121 battiti al minuto. Su questo sfondo – che in brani dei electronic dance music privi della diatassi della forma canzone assurge anche a figura (Tagg 1994) – si dipana il racconto della festa, punteggiato da effetti di giradischi e brevi ‘stacchi’ di fiati.

Laurent/Kraze racconta dell’ingresso rocambolesco in un luogo misterioso, certamente non un locale notturno ‘ufficiale’ (“Hey is this where the party is at?”), frequentato da insider scatenati che gridano incitando il dj (“Y’all want this party started right?”, “Hey dj, gimme a fat beat!”) ma commentata negativamente da un outsider che Laurent interpreta mutando il proprio timbro di voce in quello di una signora perbenista e disapprovante gli aspetti più freak della festa (“This party is a bit too loud, that guy is talking about house music, I don’t know what it is. Oh my god, look at that guy with the green hair! Ethel, let’s get out of here”). Più avanti vedremo come molte delle frasi pronunciate da Laurent siano state poi indebitamente appropriate e liberamente ‘tradotte’ in brani altrui.

2 | Mappa di ascolto dei primi minuti The Party (Laurent 1988). I due colori sulla linea di pianoforte corrispondono ai due vamp (cfr. figg. 3 e 4).

Tornando al testo musicale di The Party, tra gli elementi maggiormente distintivi vi sono i due vamp di pianoforte. Il primo si manifesta già nell’introduzione e consiste in una spola frigia (i-♭II-i-vi-III-i) che allontana il brano dal mondo armonico di gospel e blues [Fig 3]. Il modo frigio è piuttosto raro anche nel pop e si ritrova più comunemente nel rock e dell’heavy metal (Spicer 2017). È anche possibile che Laurent abbia strimpellato a orecchio gli accordi di triade sui tasti bianchi del pianoforte, tecnica pseudo-percussiva che tradirebbe un’attitudine ‘punk’ piuttosto che una scelta armonica deliberata. A ogni buon conto il passaggio sul grado ♭II (con il basso che indugia sulla tonica) costituisce un momento di tensione cromatica che identifica il pezzo e lo rende riconoscibile tra altri brani del medesimo stile.

3 | Trascrizione a orecchio di pianoforte, basso e batteria nel primo vamp di The Party (Laurent 1988).

Il secondo vamp ricalca la linea di basso sul i, III e vi grado della scala minore naturale. Tuttavia, mancando del secondo grado, non è dato sapere se il modo sia quello eolio (ii) oppure il frigio (♭II). Un’analoga struttura armonico-ritmica si trova in Stand By Me (Perez 1988), pubblicato qualche mese più tardi sull’etichetta D.J. International di Chicago. Julian Perez è parte degli Hot Mix 5, un gruppo di disc jockey importante per lo sviluppo della house music che trasmette dall’emittente radio di Chicago WBMX (Salkind 2019). La microstoria di The Party dimostra che non tutta la house proviene dalla città simbolo di quello stile musicale e che anche i principali artisti di Chicago traggono ispirazione da ‘esperimenti’ altrui. In Stand By Me, Perez (coadiuvato dal musicista Peter Black, nome che ricorre in oltre un centinaio di produzioni chicagoane) si avvale di un vamp molto simile a quello di The Party e nella stessa tonalità di mi minore seppure nel modo dorico, come indicato dall’innalzamento della terza nell’accordo costruito sul IV grado della scala [Fig 4]. Il brano di Perez è di fattura migliore e l’arrangiamento è più strutturato, con figurazioni di frammenti vocali campionati e linee aggiuntive, come per esempio il sintetizzatore che articola un ostinato monofonico di note staccate sul registro medio-alto. In questo senso l’estetica ‘punk’ di Laurent si rende ancora più evidente nel confronto tra il sound scarno e ruvido del suo brano e quello più fluidamente chicagoano di Stand By Me. In Perez la palette ritmica è fornita dalla drum machine Roland TR-909, uno dei ‘marchi di fabbrica’ di house e techno, che coniuga timbri astratti di sintesi analogica per i tamburi a suoni campionati per i piatti (Jenkins 2019). In The Party il rullante ha un timbro acustico con gated reverb (Case 2017), più consono a un brano rock. La pulsazione in Stand By Me è inoltre più rapida: 125 battiti al minuto rispetto ai 121 di The Party.

4 | Pianoforte in The Party a confronto con quello in Stand By Me; fatti salvi alcuni ribattuti, le prime due misure sono sostanzialmente uguali.

The Party vende complessivamente oltre ottocentocinquantamila copie, di cui trecentomila solo negli Stati Uniti (Rys 2012) ed è oggetto di innumerevoli campionamenti e appropriazioni (v. infra), tuttavia Laurent non è spesso ricordato tra gli artisti di rilievo della house music. Il suo nome è assente dalle pubblicazioni sulla storia del genere e il brano è menzionato solo nelle classifiche e nelle playlist di qualche disc jockey europeo (Garnier e Brun-Lambert 2003). In molti casi il repertorio di riferimento per le forme post-disco viene assemblato dagli operatori discografici (compilando collettanee che promettono di contenere tutta una scena musicale) e dalla pubblicistica, avvalorando le narrazioni autoreferenziali di pochi di artisti (provenienti da una stessa città o quartiere) cui viene attribuita ex post la paternità di interi generi musicali (Maloney 2021). In queste ricostruzioni ‘storiche’ vi è spesso la tendenza a sottorappresentare il fondamentale contributo della comunità latino-caraibica (Amico 2006, Lawrence 2016). Dal canto suo Laurent, immigrato haitiano di prima generazione e per di più con trascorsi nel rock, è forse troppo lontano dal solco della disco music e dell’electro funk (oltre che da Chicago e da Detroit, città simbolo di house e techno) per essere oggi annoverato nel canone della musica house del periodo (Saunders e Cummins 2007). Il suo stile è inoltre più aggressivo rispetto alle sonorità soulful o deep della house music per come la si intende oggi. Pur non rientrando né stilisticamente né geograficamente in tale repertorio, The Party compare però curiosamente in diverse compilation europee di chicago house[1].

Se oggi l’electronic dance music è in parte gestita dall’industria culturale globalizzata, allora la house negli Stati Uniti è ancora considerata una sottocultura musicale deviante, legata (e relegata) a un circuito indipendente e minoritario di produttori, distributori e fruitori. Così, anche se l’uscita di The Party crea fermento nei club di New York (Mack 1989), i progetti di musicisti come Laurent non hanno possibilità di un vero successo di massa. Il brano vende molto bene nei negozi specializzati ma non è quasi trasmesso dalle radio locali (Coleman 1988). Per i nordamericani la house music degli anni Ottanta è un genere ancora troppo poco identificabile in quanto tale e gli aspetti extramusicali che vi emergono non sono ben visti dall’opinione pubblica. Come già per la disco music, gli appassionati sono spesso gay, neri e latinos e le feste house si tengono in località e spazi considerati luoghi di devianza o criminalità (McCall 2001). In Europa invece il pubblico della house è vario e proviene da settori demografici e sociali eterogenei (Garcia-Mispireta 2018). La musica viene trasmessa anche dalle emittenti radio nazionali e interessa proprio in quanto prodotto autentico (Moore 2002) dell’underground americano, in virtù di un esotismo disimpegnato, scevro da connotazioni negative e moralismi (Reynolds 2012). La musica house affascina gli europei perché proviene dal ‘sottosuolo’ culturale di leggendarie metropoli d’oltreoceano e si diffonde senza bisogno di grossi investimenti: le spese di registrazione sono basse e, quando l’ascesa del compact-disc libera la capacità produttiva delle fabbriche di dischi in vinile, i 12-inch singles su cui si basa il mercato della musica dance diventano relativamente economici e veloci da stampare. Così anche realtà discografiche molto piccole (di soggetti singoli o gruppi di amici) possono andare in pareggio senza bisogno di fare grandi numeri (Hesmondhalgh 1998). Anche la promozione è semplificata: in assenza di uno star system (Straw 1991) non c’è bisogno di investire per costruire il profilo di un artista come invece fanno le major per i nuovi progetti pop e rock. Molti pezzi house non hanno neppure un video: all’occorrenza si mandano in onda riprese semiamatoriali di ‘concerti’ e showcase (Logie 1988, Kraze 1988) [Fig 5].

5 | Fotogrammi della performance di The Party al “The World” di New York (Logie 1988).

Sostanzialmente alieni alla forma canzone del pop, i brani house che celebrano la festa come rito controculturale (Thornton 1998) diventano così prodotti interessanti per la discografia indipendente europea: The Party viene preso in licenza e ripubblicato in Francia, Germania, Italia, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svezia, entrando talvolta nelle classifiche nazionali, sebbene non alle prime posizioni (Masterton 2019). All’inizio del 1987 in Italia i dischi house sono pochi, quasi tutti di importazione e vengono proposti da una ristretta fascia di dj che li scoprono a Londra e prima ancora a Ibiza, dove l’argentino Alfredo Fiorito e il sardo-milanese Leo Mas (Costa e Len 2020, Marras 2023) li suonano all’Amnesia all’interno di selezioni musicali eclettiche che i turisti britannici chiamano balearic beat (Stratton 2022). Nel dicembre del 1987 esce uno dei primi dischi house italiani, Bauhaus (Cappella 1987), del discografico e architetto Gianfranco Bortolotti sul modello del sound collage dei britannici M.A.A.R.S. (Young e Young 1987, Poschardt 1998) e contenente anche un frammento di Shut Up (Laurent 1987) prelevato con ogni probabilità da una raccolta non ufficiale (v. infra).

Nel 1988 Laurent e i Kraze giungono a Milano per un tour in Italia dove The Party, licenziato dall’etichetta Many Records di Stefano Scalera, ha da subito un buon riscontro (Burroughs 2012). Dopo pochi mesi, tropi e linee musicali prelevati da The Party finiscono in brani popular situati a pieno titolo nell’intrattenimento comico-ludico anziché nel circuito specializzato della house music. I produttori italiani si appropriano del brano di Laurent sia allosonicamente (con citazioni non dichiarate della musica e ‘traduzioni’ giullaresche del testo), sia autosonicamente (con la rimediazione della voce inserita nei loro brani). Il linguaggio musicale e lo spirito festoso che erano sprigionati da comunità emarginate degli Stati Uniti vengono così intercettati dall’industria discografico-televisiva italiana che li impiega per confezionare prodotti di largo consumo, privi di qualsivoglia connotazione controculturale. Spinti da un battage pubblicitario e da continue apparizioni sulle emittenti televisive private, da pochi anni normate a livello nazionale con i decreti legge emanati dal governo nel 1984 e 1985 (Pace 1997), il successo è immediato (Putti 1989). A gennaio del 1989 il brano comico C’è Da Spostare Una Macchina (Salvi e Natale 1988) arriva in vetta alle classifiche dei singoli (Music & Media 1989). È pubblicato dalla Five Records, etichetta fondata da Silvio Berlusconi per commercializzare le sigle dei programmi televisivi. In seconda posizione È Qui La Festa? (Jovanotti, Cecchetto e Tirone 1988), brano pseudo-rap il cui titolo è la traduzione letterale della prima frase pronunciata da Laurent in The Party (“Is this where the party is at?”). La festa qui non è però un house party dell’underground controculturale ma un raduno mondano tra divi del pop, gli stessi celebrati nei programmi condotti da Cecchetto e Jovanotti alla radio e sulle reti Fininvest (“Allora questa è una festa pazzesca! Ma tu chi sei? Ciao, sono Sting!”). Nello stesso anno Jovanotti pubblicherà un libro il cui titolo (Yo! Brothers and sisters) sembrerebbe evocare i movimenti politici africano-americani oppure il lato gospel della house music (Maloney 2018). Si tratta invece di una linea di abbigliamento destinata ai giovani dei ‘ghetti’ italiani: “La roba YO non è fatta per i fighetti, è fatta per gente che viene dal Bronx […] La linea YO è fatta apposta per sopravvivere nel Bronx della vostra città. Perché ogni città ha il suo Bronx […] Così potete andare in giro tranquilli nei vostri Bronxettini” (Cherubini 1988, 76-77). Nella foto in copertina l’autore-intrattenitore esibisce al collo grosse catene d’oro: un accessorio reso popolare da Isaac Hayes che, negli anni Settanta, le sfoggia come segno tangibile della sua completa emancipazione come africano-americano. Hayes dice al pubblico di interpretarle positivamente perché quei ‘gioielli’ si fanno beffe di ciò che un tempo le catene rappresentavano per i neri degli Stati Uniti (Butler 2021). Le scritte sulle magliette reclamizzate da Jovanotti (a grandi caratteri maiuscoli in bianco su sfondo nero, incorniciate da due linee orizzontali rosse) sono invece imitazioni del logo dei newyorkesi Run-DMC, il cui rap ‘civile’ – ma anche marchiato Adidas (Silva Barbosa e Cunha Cardoso 2016) – consiglia ai ragazzi di stare lontani dalla droga e dal crimine (Harrington 1986). Alcuni critici musicali chiosano che questi dischi italiani a metà tra rap e house sono ”prodotti su cui è fin troppo facile sorridere con un certo disprezzo […] ma non bisogna dimenticare che sono anche questi il frutto di una tendenza verso una musica totalmente demitizzata dalla sua sacralità produttiva, possibile per chiunque […] nel bene e nel male il segno di una nuova era” (Castaldo 1989), dimenticando che, sebbene da un lato le tecniche e i ‘mezzi di produzione’ siano certamente più accessibili di quelli del pop, dall’altro lato, il successo di solo alcuni di questi brani (almeno in Italia) è decretato massimamente dalla potenza di fuoco dei gruppi editoriali radiotelevisivi. Fortunatamente altri osservatori rilevano lo scarto qualitativo e quantitativo del fenomeno: “[S]i trattava di prodotti marginali ed emarginati dal mercato discografico: erano un’eccezione, non una regola. Salvi, Jovanotti […] catturano invece una massa di giovani che la pensa come loro e che compra migliaia di copie dei loro dischi” (Putti 1989). Lo stesso Jovanotti, a inizio carriera, commentava: “Quando ci sono questi movimenti di musica […] alla fine sono sfruttati da chi i dischi li vende parecchio […] Purtroppo non so se si può fare qualcosa per impedirlo” (Cherubini 1988, 119).

Salvi e Natale sfruttano diversi elementi del brano di The Party; non si tratta però di mero plagio o di una cover satirica, come invece si è talvolta ritenuto (Del Frate 2020). Una cover ufficiale in effetti c’è: quella che il produttore Roberto ‘Rubix’ Zanetti fa cantare a una vocalist madrelingua inglese su un arrangiamento appena più fitto di quello originale, indicando correttamente Richard Laurent come unico autore (Zanetti 1988). Altri invece si intestano tutti i diritti di brani sostanzialmente derivati dal suo. C’è da spostare una macchina (Salvi e Natale 1988) presenta comunque alcune caratteristiche genuine, come il ritornello con coro di voci campionate in figurazione responsoriale. La citazione della voce di Laurent consiste nell’hook “è un diesel”, sostanzialmente omofono all’”hey dj” in The Party. La fictional persona (Moore 2012) interpretata da Salvi non è però un partecipante alla festa, bensì l’addetto al parcheggio di una discoteca, un lavoratore della notte escluso e separato (anche fisicamente) dal divertimento: “Vuole venire qualcuno a darmi una mano oppure no? Che siamo qua tutti a ballare e io sono fuori a lavorare!” (Salvi e Natale 1988). Per quanto riguarda le numerose appropriazioni musicali, è sufficiente dare un’occhiata alle trascrizioni in [Fig 6] per vedere che le parti di pianoforte nei due brani sono quasi identiche. Entrambe presentano lo stesso ritmo euclideo[2](Toussaint 2005) che tende a dividere uniformemente la misura in cinque durate uguali (a parte l’ultima), ossia in quattro ottavi puntati più un ottavo semplice. Si manifesta così una tendenza verso la poliritmia, ottenuta mediante la costruzione di un ritmo diatonico sulla pulsazione di base (Rahn 1996). Il pattern non è quindi semplicemente sincopato rispetto al metro principale, ma sottintende una propria regolarità interna. Si tratta solo di una tendenza poliritmica anziché di una vera poliritmia poiché la regolarità del secondo schema di pulsazione si interrompe al termine della misura per poi ricominciare daccapo. Pattern di questo tipo, molto comuni nella musica latinoamericana e afro-caraibica, creano una sorta di tensione ritmica che contribuisce alla sensazione del groove (Schmidt Câmara e Danielsen 2019). Il brano di Salvi e Natale si avvale anche del medesimo modo di The Party, il frigio di mi minore, implicato dall’accordo di ♭II grado nella quarta misura, che nel brano di Laurent compare nella prima e terza. Il confronto tra le linee di basso [Fig 7] mostra diverse figurazioni ritmiche ma altezze identiche. Il riff di fiati in C’è Da Spostare Una Macchina (Salvi e Natale 1988) consiste invece nella crasi tra lo stacco in The Party (Laurent 1988) e l’ostinato in Dancer [Fig 8], successo internazionale dell’italo-canadese Soccio (1979). Infine l’utilizzo ritmico del suono di clacson ricorda quello nel brano high-energy italiano Turbo Diesel (Turatti et al. 1984).

6 | Pianoforte in Laurent (1988) e in Salvi-Natale (1988). Si è preferito lasciare il ♯ in chiave e inserire il ♮ in partitura per evidenziare l’uso del ♭II grado, caratterizzante il modo frigio usato in entrambi i brani.

7 | Linee di basso in The Party (Laurent 1988) e in Salvi-Natale (1988).

8 | La linea di fiati in Salvi-Natale (1988) unisce il riff di Dancer (Soccio 1979) a quello di The Party.

Il successo e la diffusione mediatica di C’è da spostare una macchina determinano anche adattamenti e parodie (Urgu 1990). Il pezzo risulta in ogni caso firmato dai soli Salvi e Natale, è pertanto assai probabile che Laurent (il cui nome è assente dalle pubblicazioni discografiche su Five Records) non abbia percepito alcun provento né quote di diritti d’autore da un brano creativamente indebitato con il suo.

Un paio d’anni dopo la voce di Laurent torna a sentirsi in una produzione underground. Nel 1991 il genovese Luca Pretolesi (futuro protagonista della scena hardcore europea e attivo partecipante ai primi rave italiani) usa un frammento di The Party per confezionare il suo brano più noto: è infatti il grido di Laurent “gimme a fat beat” a fornire titolo e hook al pezzo che Pretolesi pubblica con lo pseudonimo Digital Boy (Pretolesi 1991). L’etichetta è la napoletana Flying Records, che pubblica anche il secondo disco di Kraze: Let’s Play House (Laurent 1989). All’epoca lo stile hard house di Pretolesi non ha ancora molto mercato in Italia, gli viene così chiesto di provvedere personalmente alle spese di stampa del disco:

[N]on c’erano etichette che stampassero cose del genere, i tempi erano un po’ prematuri […] Mi proposero di distribuire il mio disco in contovendita a patto che avessi affrontato i costi di stampa. Dopo aver racimolato un milione di lire riuscii a produrre il mio primo vinile, in mille copie. Grazie a un passaggio su Radio Deejay […] la Flying si decise a mettermi sotto contratto e a stamparne altre trentamila […] cominciai a suonare in giro per l’Italia e per l’Europa, nel momento in cui la techno veniva sdoganata nei club e nasceva la rave culture. (Pretolesi in Rampino 2012)

La techno cui fa riferimento Pretolesi ha però poco a che fare con quella di Detroit, (afro)futuristica ed extraterrestre (Sicko 2010, 9-11). Si tratta invece di musica hardcore o eurodance, evoluzione velocizzata del new beat belga (De Bruyckere 2017), identificabile da ostinati melodici prodotti con timbri abrasivi (il cosiddetto hoover sound del preset B86 “What The?” del sintetizzatore Roland Alpha Juno) e ronzanti al punto da identificare uno stile definito ‘zanzarismo’ (Zingales 2011, 234). Pretolesi racconta così l’esperienza delle feste rave italiane:

Ho dei ricordi bellissimi dei primi rave in Italia. L’esperienza era così libera, pura e spontanea che è impossibile associare il pubblico dell’epoca a qualsiasi categoria […] non c’era nessuna star, l’unica differenza tra noi dj e il pubblico era che noi suonavamo e loro ballavano. […] negli anni l’esperienza rave si è trasformata da una Woodstock elettronica, libertaria e alternativa, a qualcosa di violento e inspiegabilmente politicizzato. Verso la fine dell’epoca d’oro, più o meno nel ‘93, si sono avvicinate al genere una serie di subculture nazistoidi con cui non avevo nulla in comune […] Mi reputo comunque fortunato di aver visto nascere coi miei occhi il fenomeno rave in Italia. (Pretolesi in Rampino 2012)

In Italia i primi rave non sono festival ‘nomadi’ come quelli inglesi ma eventi gestiti in modo professionale, con obiettivi economici e spazi regolarmente affittati. Tra gli organizzatori c’è anche Luca De Gennaro, allora dj radiofonico Rai e più tardi direttore artistico di Mtv Italia (Antonelli e De Luca 1995). I primi eventi sono The Rose Rave di giugno 1990 ad Aprilia, seguito a settembre dal World Beat Dance Festival nel parco della villa medicea di Cafaggiolo e a dicembre da Stop The Violence a Borgo Sabotino (Benedetti e Zingales 2018). Il primo dicembre 1991, giornata mondiale per la lotta all’AIDS, si tengono eventi in simultanea in quindici città nel mondo, tra cui Roma (Carlin 1992). Si vuole dimostrare che anche la musica dance può essere abbinata al civismo e a iniziative benefiche: “Il contributo della rave-scene nostrana alla lotta contro l’AIDS è stato purtroppo solo morale: detratte le spese vive […] non rimase in cassa un singolo biglietto da mille” (Antonelli 1995). Volge così al termine la prima stagione degli pseudo-rave italiani e, alla festosità pacifica e solidale, si affacciano alcuni dei gruppi violenti cui accenna Pretolesi: si tratta delle frange nazionaliste della cultura gabber proveniente dal Nord Europa (Ondřej 2019, Rietveld e Monroe 2021) che trova terreno fertile anche in Italia, in particolare a Roma (Mattioli 2019, 227-239). Il rave urbano delle periferie diventa così anche un rito in cui alcuni gruppi inscenano anche una sorta di controllo del territorio, mescolando ballo, droga e ‘onore’ (Santarelli 1995): “si diffonde per Roma un mito incomprensibile se si pensa che la techno era nata da un manipolo di musicisti afroamericani […] e cioè che la techno era ‘musica da fascisti’” (Mattioli 2019, 245-246). Una testimonianza cinematografica è nel film Teste Rasate (Fragasso 1993) con gli attori Giulio Base e Ricky Tognazzi nel ruolo di due skinhead romani nel cui covo si balla per l’appunto musica gabber e hardcore. Precedentemente alle derive violente nella capitale vive però un movimento musicale animato da dj e appassionati della techno di Detroit e della scena rave britannica che organizzano feste e pubblicano dischi (Mattioli 2019, 206-209) identificandosi collettivamente in uno stile definito Sound of Rome riconosciuto anche all’estero (Larkin 2006). In occasione dell’evento Acid Games (17 ottobre 1992) il gruppo annuncia ai partecipanti: “Vi avevamo avvertiti di rispettare le regole. Non avete ascoltato. Non si tratta di vincere o di perdere ma di scegliere da che parte stare: o il Suono di Roma o nulla” (Santarelli 1995). L’eterotopia delle “zone temporaneamente autonome” (Bey 1991) caratterizza invece la seconda ondata italiana di rave, ispirati al modello dei teknival del collettivo Spiral Tribe e promossi anche dagli attivisti dei centri sociali (Natella e Tinari 1996, Pistolesi 2018). In ogni caso la ‘vera’ cultura rave, nomade e spirituale (Partridge 2006), non riesce a radicarsi nelle consuetudini degli italiani che, al campeggio del free party autogestito, tendono a preferire le serate organizzate e i nomi di richiamo. Si tengono così pseudo-rave in discoteche ‘diffuse’ e one-night all’aperto oppure in luoghi (allora) insoliti per la musica elettronica come capannoni, balere, vecchi cinema, stazioni ferroviarie e in cui la festosità annulla le differenze e ruoli sociali tra i partecipanti (Antonelli e De Luca 1995).

Tornando a Laurent, il brano in cui Pretolesi campiona la sua voce (distribuito anche all’estero e dato in licenza in Belgio, Olanda e Spagna) non è un caso isolato: già a partire dal 1988 frammenti di The Party sono inseriti in decine di dischi. La facilità con cui avvengono tali ‘prelievi’ sembra dovuta ad alcuni fattori concomitanti. Innanzitutto la crescente accessibilità delle tecnologie di campionamento digitale consente la rielaborazione (più o meno creativa) di materiali musicali preesistenti (Metzer 2003). Inoltre Laurent pubblica nel proprio disco anche la voce a cappella, isolata dalle parti strumentali. La traccia contiene diversi hook molto efficaci e costituisce così una ‘materia prima’ appetibile di cui è tecnicamente semplice prendere un frammento per collocarlo in un altro brano. Qualcosa di simile avviene qualche anno prima con James Brown e il rap. La versione speciale del brano Funky Drummer realizzata per la compilation In the Jungle Groove (Brown 1986) – in cui un break di batteria di Clyde Stubblefield di appena diciotto secondi viene allungato artificialmente da Danny Krivit fino a oltre tre minuti – costituisce un implicito invito per gli artisti hip-hop ad appropriarsene e a riconoscere così James Brown tra i padri fondatori anche del loro stile musicale (Ford 2002). La volontà di Laurent non è però quella di essere omaggiato o incorporato nei lavori di altri, bensì quella di vendere più copie del suo stesso disco:

When I did the acapella, I thought it would be played, but I never thought it was going to be embedded into somebody else’s record to be put out. That wasn’t really planned. That was like one of these things that you had in the club: a dj would just take the record and throw it on acapella for us to empty out the floor a little bit. And then all of a sudden the beat comes climbing in, underneath it […] So I did it because I thought they would buy two records! One for the acapella, one for the beat. (Laurent 2015)

La pubblicazione di tracce di sola voce, finalizzata all’uso ‘performativo’ da parte dei disc jockey, prende piede già nel reggae (Grant 1982) e nella disco (Simpson 1982). Le prime compilation di ‘a cappella’ vengono poi distribuite illegalmente come bootleg (Acapella Anonymous 1986 e 1987), diffondendosi in modo svincolato dai dischi ufficiali. Al fine di aggirare i controlli delle società che gestiscono diritti di riproduzione meccanica, queste stampe ‘clandestine’ sono prive di riferimenti ai titoli e agli interpreti dei brani contenuti. Una delle prime raccolte include, tra le altre, la voce di Shut Up (Laurent 1987) [Fig. 9].

9 | Raccolta ‘clandestina’ Acapella Anonymous vol. 2 (1987), la traccia n° 8 è un estratto di Shut Up [Laurent 1987].

La testimonianza di Laurent consente di rilevare nettamente lo scarto tra le motivazioni degli artisti e l’eterogenesi dei loro fini (Wundt 1886), scarto che si manifesta nell’uso disinvolto delle loro tracce vocali da parte di altri musicisti con mezzi (il campionatore anziché il giradischi) e scopi (l’incorporazione permanente anziché la performance estemporanea) diversi da quelli previsti e di cui il progetto di Bortolotti (Cappella 1987) fornisce un esempio lampante già nel nome:

I Cappella si chiamano così per due motivi: uno perché per le parti vocali usavamo le acapella dei dischi e due perché era un riferimento alla Cappella Sistina, simbolo del nostro Rinascimento italiano, dato che io associavo il rinascimento delle arti nel Quattrocento al rinascimento della musica nel 1990 […] l’avvento di qualche genio della tecnologia ha portato a uno spumeggiare delle arti, della musica nel nostro caso (Bortolotti in Antonelli e De Luca 1995)

Stilare il regesto dei campionamenti di The Party è praticamente impossibile. Per dare una misura delle occorrenze, la tabella in [Fig. 10] elenca alcune delle appropriazioni relative al quinquennio 1988-1993.

10 | Alcuni utilizzi della voce di The Party in brani pubblicati tra il 1988 e il 1993.

In questo excursus microstorico su Richard Laurent abbiamo visto come un brano di house music prodotto da un musicista haitiano nel sottobosco musicale newyorkese si diffonde presto a livello nazionale e internazionale per poi essere voracemente assimilato dall’industria culturale che, in quegli anni, si appropria della parte più festosa della house music accantonando ogni aspetto di critica sociale e di comunanza controculturale. The Party è solo uno di molti casi in cui questo processo di eterogenesi ha avuto luogo, si tratta tuttavia di un esempio cospicuo che mette in luce una tendenza scarsamente rilevata dall’analisi dei repertori della house music di quegli anni. Nella microstoria di The Party l’eterogenesi dei fini agisce lungo due direttrici: da un lato l’intenzione con cui Laurent pubblica la propria traccia vocale determina pratiche e utilizzi diversi da quelli auspicati e di cui l’autore nemmeno profitta. Dall’altro lato i produttori europei che si appropriano di The Party oppure lo prendono a modello, non ne colgono l’afflato controculturale e lo travisano in brani dal contenuto quasi opposto. Seguendo la microstoria di Laurent abbiamo esposto i meccanismi con cui la musica house si diffonde dal nuovo al vecchio continente e le modalità della sua ricezione/assimilazione in Europa, in particolare da parte dell’industria culturale italiana che prende elementi musicali e testuali di The Party per collocarli in prodotti lontani dal contesto originario di creazione e fruizione della house music. In Italia lo stile house viene infatti usato anche come formula per realizzare brani di largo consumo inneggianti al divertimento demenziale e destinati al pubblico generalista della televisione. Saranno i continui passaggi radiotelevisivi a spingere i dischi di pseudo-house in vetta alle classifiche, lasciando gli ‘originali’ al mercato minore dei negozi per appassionati e alla festosità interclassista degli house party europei, i cui avventori hanno però poco a che vedere con le comunità emarginate degli Stati Uniti. Anche se i dischi di Moonfou/Kraze non sono oggi considerati parte del canone della house ‘originale’ né Richard Laurent è menzionato tra i musicisti rappresentativi di quel genere musicale (Saunders e Cummins 2007), rintracciare le molte filiazioni di The Party (l’appropriazione degli stilemi e della voce di Laurent da parte di altri artisti) consente di seguire l’evoluzione degli stili di electronic dance music tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta.

The Party fa presa sul pubblico anche per il suo sound incisivo e ‘autentico’ (Moore 2002), come spesso accade per quelle forme musicali urbane che si sviluppano a partire dai retaggi delle diaspore caraibiche (Flores 2004) e dal cosiddetto black noise (D’Aquino 2021). In questo contesto sembra possibile collocare in parte anche Laurent, immigrato di prima generazione, attivo prima nei gruppi di musica haitiana, poi nel punk rock e nella musica post-disco nordamericana. Estraneo all’ambiente della prima house di Chicago, Laurent/Kraze resta in parte un musicista outsider e forse per questo motivo non viene ricordato nelle narrazioni ‘storiche’, ricostruzioni che peraltro collocano la house primariamente nel contesto delle comunità africano-americane (Fikentscher 2014) a scapito di quelle latino-caraibiche (Lawrence 2016, Amico 2006). I ‘tratti’ musicali di The Party costituiscono tuttavia dei potenti musemi (Middleton 2001) che si diffondono in modo virale sia in forma ri-mediata (col campionamento della traccia originale) sia come citazione allosonica (col ricalco delle sue parti ritmico-armoniche). Laurent non viene però accreditato né ricompensato per queste partecipazioni nei brani altrui. Al contrario, la sua voce sembra diventata come di pubblico dominio, tanto da essere persino diffusa come incitamento alle tifoserie durante le partite di basket al Madison Square Garden (Laurent 2015).

Dopo The Party (1988) e il successivo Let’s Play House (1989) Richard Laurent si concentra sulla propria label, Project X, pubblicando dischi garage house e il progetto rap Christmas in Baghdad (Winter e Laurent 1990) in cui il personaggio Aunt Josie, interpretato dall’attrice Roz Esposito, satireggia sulle ragioni della guerra del Golfo allora in corso. Laurent firma anche diversi brani con la moglie Johanna Jimenez, Love is my bass e I’m a bitch (Jimenez e Laurent 1990). Il testo di quest’ultimo, uno spoken word impetuoso sull’empowerment (“And you people who say I am the way I am because of this, my mother, my father, my environment, my situation, I’m black I’m poor, I’m white I’m rich… You gotta free yourself! No more sell-outs! Despiértense! No dejan que otros controlen sus vidas!”), viene frainteso da un gruppo di dj italiani che utilizzano la traccia vocale per confezionare un brano di successo in tutta Europa che, nella loro visione, parlerebbe invece di prostituzione (Amerio, Bertoncello e Jimenez 1994):

Partimmo proprio dall’acapella di A Bitch Named Johanna, […] Optammo per [chiamare il disco] Olga perché ci sembrò un nome adatto a rappresentare la prostituta di cui si parlava nel testo. Visto il successo ottenuto anche nel mainstream, affidammo l’immagine del progetto ad un’amica (Biasin in Impellizzeri 2020).

La promozione sarà affidata a una figurante in playback, la pin-up Simona Sessa. Laurent e Jimenez concedono l’utilizzo della voce e ricevono parte dei diritti, tuttavia anche questo caso conferma una sostanziale incomprensione (e la conseguente cancellazione) dei contenuti più progressisti della house music da parte dei produttori italiani.

Più tardi Laurent/Kraze adotta gradualmente uno stile tribal house con marcate influenze africane e pubblica Voodoo Sun (1992), The Children Are Gathering (1996) e Rainbow Bridge/Crying (1997). In Power To Move (1996) cita direttamente Soul Makossa (Dibango 1972), accreditando tra gli autori il camerunense Manu Dibango. Oggi Laurent si fa chiamare Earthman e suona in una band di world music che, accanto a strumenti tradizionali, comprende anche un dj (Earthman Experience 2015). Tornando alle proprie radici haitiane, Laurent/Earthman ha prodotto anche un brano ispirato ai canti di lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero:

In Haiti, most of the people that were cutting the sugar cane were slaves, you know, even in the Dominican Republic, the same thing. When I was younger, I used to watch these guys cut the sugar cane, and the way they would do it would have such a rhythm pattern. They would do it with a rhythm pattern, as if “You know what? I’m here, but I’m just going to make the best of this situation". I saw it was like a dance movement. The song itself says "coupe canne" […] It’s like looking at the slavery, the slaves cutting the sugar cane, and thinking what was going on in their head at that time, and their movement of the hand […] I didn’t do the song in a sense of like, this is bad or good. I just saw the artistry of what was happening (Laurent 2015).

Note

[1] Per esempio nelle raccolte The History Of The House Sound Of Chicago, Bcm Records (1988); The House Sound of Chicago, Bcm Records (1996); The Real Classics Of Chicago House 2, House Nation (2003).

[2] Toussaint (2005) ha scoperto che utilizzando l’algoritmo di Euclide per determinare il massimo comune divisore tra due numeri si possono generare molti dei ritmi tradizionali di diverse musiche del mondo, ritmi che per questa ragione sono detti appunto ‘euclidei’. L’algoritmo genera sequenze in cui gli eventi sonori sono distribuiti in modo tendenzialmente uniforme, ossia quanto più possibile equidistanti all’interno del ciclo ritmico.

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Discografia e filmografia
English abstract

The Party, a ‘song’ produced in 1988 in New York by Haitian musician Richard Jean Laurent, had a strong impact on the reception of house music in the European cultural context. An analysis of the track is carried out through transcription of structures and of the musical lines that constitute its ‘text’ and by several inter-objective comparisons with other music that is related to The Party in various ways. Laurent's work will be the subject of a microhistorical inquiry, an approach opposed to serial methods according to which only uniform facts should be considered. Instead, microhistory privileges a singular case in order to bring out a ‘normal exception', an apparently isolated occurrence that can shed light on otherwise homogeneously opaque series such as the 'canon' of house music and its reception and assimilation in Italy.

keywords | House music; Edm culture; Acapella; Microhistory; Appropriation.

Per citare questo articolo / To cite this article: G.Bottin, The Party. Microstoria ed eterogenesi di un classico della house music. ”La rivista di Engramma” n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 125-150 | PDF




doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0006