"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

Notte di Hermes

Alcibiade, Crizia e la festa ultima di Atene

Monica Centanni

English abstract

[...] noch eine Herme mehr in der Allee;
nur Äon schweigt, er hält die Perlengabe,
wo alles fehlt und alles zielt,
der Äon träumt, der Äon ist ein Knabe,
der mit sich selbst auf einem Brette spielt:
Noch eine Herme mehr – man lasse sie,
auch sie führt zum Gedicht: Melancholie.
Gottfried Benn, Melancholie in Aprèslude (1955) 

Ancora un’altra erma nel viale; / tace soltanto l’Eone, serba il suo dono di perle / dove tutto fallisce e tutto a un segno mira,
/ l’Eone sogna, l’Eone è un ragazzo, / che sopra un’asse con se stesso gioca: /
Un’altra erma ancora – lasciamola: Melancolia, che alla poesia conduce (traduzione di Ferruccio Masini)
 

Il risveglio di Adone, John William Waterhouse (1899-1900), Andrew Lloyd Webber Collection.

Atene, 415 a.C. luglio

Notte di luna nuova, quando le donne cantano dalle terrazze fiorite il lamento per la morte precoce del tenero Adone: litania sterile che non è rumore, non è voce, ma solo accompagnamento e sottolineatura del silenzio immobile, ferito dal chiaro di una luna troppo sottile. Afrodite piange la morte di Adone e tutte le donne, per Amore piangono lacrime molli, dolci, ed è un singulto profondo, sordo, lo stesso timbro del gemito d’amore. Un’eco dei canti delle donne nelle notti di festa per Adone è nei versi dolci e intensi del poeta alessandrino Bione:


Αἰάζω τὸν Ἄδωνιν· ‘ἀπώλετο καλὸς Ἄδωνις: 
‘ὤλετο καλὸς Ἄδωνις’ ἐπαιάζουσιν Ἔρωτες. 
μηκέτι πορφυρέοις ἐνὶ φάρεσι Κύπρι κάθευδε· 
ἔγρεο δειλαία, κυανόστολα καὶ πλατάγησον
στήθεα καὶ λέγε πᾶσιν ‘ἀπώλετο καλὸς Ἄδωνις.’ 
αἰάζω τὸν Ἄδωνιν· ἐπαιάζουσιν Ἔρωτες. 
κεῖται καλὸς Ἄδωνις ἐν ὤρεσι μηρὸν ὀδόντι, 
λευκῷ λευκὸν ὀδόντι τυπείς, καὶ Κύπριν ἀνιῇ
λεπτὸν ἀποψύχων. τὸ δέ οἱ μέλαν εἴβεται αἷμα 
χιονέας κατὰ σαρκός, ὑπ̓ ὀφρύσι δ̓ ὄμματα ναρκῇ, 
καὶ τὸ ῥόδον φεύγει τῶ χείλεος. ἀμφὶ δὲ τήνῳ
θνᾴσκει καὶ τὸ φίλημα, τὸ μήποτε Κύπρις ἀνοίσει. 
[...] ἁ δ᾽Ἀφροδίτα 
λυσαμένα πλοκαμῖδας ἀνὰ δρυμὼς ἀλάληται
πενθαλέα νήπλεκτος ἀσάνδαλος. αἱ δὲ βάτοι νιν
ἐρχομέναν κείροντι καὶ ἱερὸν αἷμα δρέπονται.
[...]
καὶ ποταμοὶ κλαίουσι τὰ πένθεα τᾶς Ἀφροδίτας, 
καὶ παγαὶ τὸν Ἄδωνιν ἐν ὤρεσι δακρύοντι, 
ἄνθεα δ᾽ἐξ ὀδύνας ἐρυθαίνεται. [...]
Ἀχὼ δ᾽ἀντεβόασεν ‘ἀπώλετο καλὸς Ἄδωνις.’ 
[...]
δάκρυον ἁ Παφία τόσσον χέει, ὅσσον Ἄδωνις
αἷμα χέει· τὰ δὲ πάντα ποτὶ χθονὶ γίνεται ἄνθη.
αἷμα ῥόδον τίκτει, τὰ δὲ δάκρυα τὰν ἀνεμώναν. 
[...] ποθεῖ καὶ στυμνὸν Ἄδωνιν. 
βάλλε δέ νιν στεφάνοισι καὶ ἄνθεσι. πάντα σὺν αὐτῷ, 
ὡς τῆνος τέθνακε καὶ ἄνθεα πάντα θανόντων. 
ῥαῖνε δέ νιν Συρίοισιν ἀλείφασι, ῥαῖνε μύροισιν.
ὀλλύσθω μύρα πάντα. τὸ σὸν μύρον ὤλετ᾽ Ἄδωνις.
[...]
χαἰ Μοῖραι τὸν Ἄδωνιν ἀνακλείουσιν ‘Ἄδωνιν,’  
καί νιν ἐπαείδουσιν.  [...]
λῆγε γόων Κυθέρεια τὸ σάμερον, ἴσχεο κομμῶν. 
δεῖ σε πάλιν κλαῦσαι, πάλιν εἰς ἔτος ἄλλο δακρῦσαι.

Io piango Adone: ‘Il bell’Adone è morto’;
‘È morto il bell’Adone’, ripetono gli Amori.
Non dormire, Afrodite, sul tuo letto di porpora 
svegliati, infelice, vesti abiti scuri, battiti
il petto e grida a tutti: ‘Il bell’Adone è morto’.
‘Io piango Adone’, con me lo piangono gli Amori.
Sui monti giace il bell’Adone, azzannato a una coscia,
bianche zanne sulla coscia bianca 
il respiro anelante, sangue nero
sulla pelle candida, gli occhi velati, livide
le labbra e sulle labbra muore il bacio che Afrodite 
non coglierà mai più. […]
Con le chiome sciolte Afrodite 
va errando per le selve,
scalza e discinta. La feriscono i rami aguzzi mentre passa
e si macchiano del suo sangue divino. 
[…]
Piangono i fiumi per il lutto di Afrodite, 
piangono le sorgenti sui monti per Adone, 
i fiori per il dolore diventano rossi come il sangue. […]
Il bell’Adone è morto. E di rimando Eco: è morto il bell’Adone!
[…]
Sono tante le lacrime versate dalla dea, tante quante il sangue che scorre da Adone: cadono sulla terra e diventano fiori: 
dal sangue sboccia la rosa, diventano anemoni le lacrime […]
Desidera ancora Adone, reso cupo dalla morte. 
Getta corone di fiori sul suo corpo;
muoiano anche i fiori, tutti i fiori muoiano con Adone,
poiché Adone è morto. E versa su di lui unguenti ed essenze di Siria: muoiano tutti i profumi della terra perché Adone era il tuo profumo e Adone è morto. […]
E con voce acuta anche le Moire ‘Adone’ ripetono
e con magici canti cercano di richiamare dall’Ade il bell’Adone. […]
Non piangere più, Afrodite, per oggi almeno cessa i tuoi lamenti.
Dovrai piangere ancora, fra un anno ancora dovrai piangere.
(traduzione di Maria Grazia Ciani)

Tutto deve morire perché Adone è morto: “muoiano i fiori, muoiano tutti con la sua morte”; “muoiano tutti i profumi della terra perché Adone era il tuo profumo e Adone è morto”. Tutta la natura – fiumi e sorgenti, piante e animali – piange la morte di Adone. Per una volta anche Artemide – Artemide feroce e intrattabile, Artemide selvatica, che sempre si oppone alle seduzioni di Eros – questa volta anche Artemide piange insieme ad Afrodite. Artemide fanciulla: muscoli tesi e scattanti, gambe lunghe e scoperte, seno nudo. Artemide che corre nei boschi, che non si lascia prendere, che non si lascia guardare: nervi non sentimenti; palpiti, ma solo quelli della carne ancora sanguinante della preda. Artemide che caccia la sua preda perché solo quella ama: e perché ama la sbrana. Artemide invulnerabile dalle frecce di Eros, mai catturata, mai cattiva, che si sottrae a ogni languore, che rifiuta mescolanza, languore turbamento. Artemide, luce fredda e intatta della luna, stanotte piange – piange lacrime trasparenti di luna insieme alle donne che piangono la morte di Adone. Ma poi le donne, tutte le donne che in quella notte sono Afrodite, “con magici canti cercano di richiamare dall’Ade il bell’Adone”. E tutto dovrà rinascere – fiori e profumi – perché Adone rinascerà. Nell’aria, nelle vie, nei giardini tra le case, in alto nelle terrazze, tra i vasi che per il caldo profumano essenze d’oriente – aromi volatili, effimeri come le lame di chiaro di luna – tutto è Hermes: Hermes la notte, la luna, il silenzio. Hermes, che con volto sereno ha portato Adone nell’Ade, presto dall’Ade lo riporterà sulla terra.

Di giorno un altro Hermes riempie le strade, la piazza e, giù al Pireo, il mercato e il porto. Hermes, l’agitazione dei preparativi, gli scambi, i bagagli. Hermes, la guerra, la vita. Hermes, la fretta: gli Ateniesi stanno per partire. La città è scossa dalla febbre dell’avventura. È una esaltazione collettiva che travolge le menti, che infiamma il desiderio dell’altrove. I ragazzi ascoltano raccontare dai più anziani i racconti dei loro viaggi in occidente, le storie delle meraviglie sulle altre sponde del Mediterraneo: seduti nelle palestre e nelle piazze disegnano per terra la forma della Sicilia, la posizione della Libia e di Cartagine, e tracciano per terra la rotta che li porterà Oltremare, alla conquista dell’Italia e dell’Occidente. Un eros ha invaso la città e Alcibiade dà fuoco a quell’eros. e nessuna esitazione, nessuna obiezione, nessun ragionatissimo dubbio può più trattenerli: nessuna remora fermerà le loro navi, anche il vento è propizio. Hermes i mercenari, Hermes gli stranieri che in questi giorni popolano le vie della città, brulicanti di merci colorate, risonanti di dialetti peregrini. Hermes la speranza delle nuove vie di commercio che si apriranno con le genti di occidente, e le merci che arriveranno abbondanti sulle navi veloci dall’oltremare. Hermes, il guadagno, il denaro, gli affari di domani.

Ma questa notte l’impulso alacre, frenetico dell’Hermes diurno tace, dissolto nella luce radente del falcetto di luna recente, luminescenza che traveste ogni cosa: eppure è ancora Hermes, il silente, che abita questa notte in cui tutto pare immobile ma più trasparente. Fedro, Carmide, Crizia e Alcibiade, i figli di Atene, escono nella notte, dopo il simposio: Hermes notturno li guida. “Abbiamo bevuto: ora usciamo!”. Carmide, Crizia e Alcibiade: gli altri hanno paura di questa luce violenta e puntuta, di questa luna magra, che trasfigura i contorni, che svela forme mobili e illese, che ovunque diffusa, impasta e intriga ogni linea di confine e tesse come una rete argentea tra i corpi; ma non hanno paura del buio e della luna sottile, non hanno paura i più belli, i più nobili figli di Atene. Qualcuno dirà che quella notte, alla luce incerta di quella luna, i loro volti splendevano come in piena luce.

È festa questa notte, il tempo non scorre al ritmo di sempre. E finché durano nell’aria i canti molli per Adone, certo non verrà mai mattina. Presto, già domani, Alcibiade partirà, sulle navi veloci, a tentare il mare, sotto il segno di Hermes. Ma stanotte siamo qui: “Giù quell’erma, Alcibiade! Sfregia Hermes! È cosa tua: tu sei Hermes che parte. Abbattiamo quell’erma!”. Non fa rumore l’icona che cade: cade attutito il frammento di Hermes. Anche le parole, che sempre si affannano a colmare distanze, a sopperire ai silenzi, tacciono ora. Giustamente.

Il sottofondo perfetto è solo il compianto, attutito, distante, delle donne che piangono Adone. Questo il tempo dei poeti, dei sapienti, questo il ritmo dei figli più belli di Atene, che non temono la notte e la luna. Che sanno che la verità è chiara e tortuosa: che è ombrosa come il tempo. Solo Hermes essi venerano: ciò che passa e non si ferma, che non si fissa mai in forme intransitive. Cantori empi del ritmo, i figli di Atene: solo il pianto delle donne, muto di parole, dà il tempo ai passi e alle soste. Hermes è la menzogna con cui ingannano Atene, facendosene campioni e difensori. Hermes è il tradimento che porterà Alcibiade a Sparta, e poi, alla fine, presso il barbaro, il nemico persiano. Hermes è il silenzio di terrore, il silenzio di parole, che Crizia, fattosi tiranno, imporrà alla città. Hermes è la nave che, domani, porterà Alcibiade in Sicilia; saranno i messi che torneranno a chiedere aiuti per Nicia, e poi ad annunciare la totale disfatta. Hermes è il messo che richiama Alcibiade ad Atene, e poi il bando che lo esilia da Atene, e poi il decreto, siglato da Crizia, con cui la città lo richiama a sé. Hermes mobile e transeunte: “Giù quell’erma, un’altra ancora”.

Possono tutto, in questa notte, Crizia e Alcibiade insieme, i figli di Atene: in bilico sul filo del tempo, è questo l’istante, questo il momento. Mentre le donne piangono insieme, come un coro, i figli di Atene vogliono gloria singolare per il loro nome: che il loro valore sia gesto memorabile, altrimenti non è. Questa è la notte dell’onnipotenza: la forma è solo smascheramento del vuoto. È – necessariamente – sacrilegio, empietà. “Un’altra erma ancora, lasciamola”: capaci di tutto i più sapienti, i più sfrontati figli di Atene.

Non c’era Socrate quella sera al simposio: ci fosse stato i cittadini, i delatori e i suoi giudici, tutti i suoi assassini, molti anni dopo, non gli avrebbero risparmiato questa imputazione. Diranno soltanto: “Insegnava a non credere agli dei”. Accusa vaga, imprecisa e indimostrabile come tutte le calunnie cha hanno qualche fondamento. C’era però quell’altra volta, il Maestro, con Ermocrate e Timeo, quando disse a Crizia: “Voi i sapienti, voi i poeti, potete realizzare la città di cui vi ho parlato”. E c’era quell’altra volta ancora, a casa di Agatone, a ragionare d’amore: anche allora il corteo arrivò dalla notte, ma c’era rumore e strepito dionisiaco, e una flautista suonava. Disse Agatone ai servi: “Ragazzi, andate a vedere: se è qualcuno dei nostri fatelo entrare. Altrimenti dite che abbiamo finito di bere e stiamo già riposando”. Era Alcibiade, come sempre splendido e prepotente, più di sempre ubriaco: i ragazzi lo sorreggono, le corone gli scivolano giù dai capelli profumati. Alcibiade, luce e bellezza, fuori da ogni misura: fu allora che Socrate raccontò del suo amore per lui, e Alcibiade disse di quando, una notte, lo provocò, cercò di sedurlo, si strinse a lui, sotto lo stesso mantello. Ma Socrate non cedette al desiderio, non cedette a Dioniso e ad Afrodite: come se fosse un vanto resistere a mania. Pagherà Socrate, pagherà il sileno dal cuore apollineo: pagherà anche per Crizia e per Alcibiade. Per essere stato loro maestro: per avere istruito, e per avere amato, i figli più belli di Atene. 

Non c’era Socrate al simposio la sera della luna nuova: ma c’era il vino e l’estasi e la vulnerabilità di ogni limite che Dioniso insegna. Crizia e Alcibiade e Andocide e Antifonte, i più sapienti perché hanno visto, svelato, il cuore vuoto di verità: non rivelata perché del velo consiste. Escono nella notte, ebbri di Dioniso, infiammati di Eros, frenetici di Hermes: sono loro il ritmo di questa notte che finora è stata soltanto silenzio, litanie delle donne, aromi caldi e fili di luna. Cosa fanno nell’orchestra del teatro di Dioniso? Mimano ancora, come fanno nelle loro case, i sacri misteri di Eleusi? κοινὸς Ἑρμῆς, “Hermes è con noi!” – come si dice per sancire un patto, un affare, un contratto. O l’inizio di un’avventura. “Vieni anche tu: usciamo e sfiguriamo le erme!”.

Hermes ladro e truffatore; Hermes che non rispetta niente e nessuno e, sacrilego, rivela a tutti gli dei gli intimi gesti d’amore di Zeus e Maia, sua madre, facendo musica con il suo nuovo giocattolo fatto con il guscio di tartaruga. Hermes brigante che, appena nato, ruba le mandrie di Apollo. Hermes impudente e bugiardo, che raramente aiuta e infinite volte inganna. Ad Apollo chiede, piantando un capriccio infantile, di rivelargli il segreto della divinazione, segreto che subito profanerebbe perché Hermes è transitivo e tutto in lui passa e comunica. Hermes, l’imbroglio, la beffa, l’impudenza, il transito, il tradimento. È forse il sacrilegio il gesto perfetto per onorarlo? Mimare i misteri, forse, come Hermes svela nel canto il sacro amplesso di Maia con Zeus?

Mutilare le stesse sue erme: è questo, forse, il sacrificio grato a Hermes, giusto per lui? Questo, certo, è ciò che Hermes stesso farebbe: questo fanno Crizia e Alcibiade nella notte di festa, notte di Hermes. La mattina dopo la città è sconvolta: tutte le erme mutilate, i molti volti di Hermes tutti sfigurati. È il segnale di una rivoluzione, un attacco alla democrazia: “Se qualcuno sa chi è stato – sia un cittadino, uno straniero, uno schiavo – lo denunci”. O forse è uno dei tanti presagi funesti che insegnano che no, quelle navi allestite nel porto non devono partire. È Alcibiade, si dice, che si crede onnipotente e fa parodia dei misteri. Si dice che qualcuno cerca di bloccare la partenza della spedizione per la Sicilia – forse è una congiura di Alcibiade. Ma si dice anche che no, che le navi pronte al Pireo devono partire – forse è una congiura di Alcibiade. E le navi infine salpano verso la Sicilia. Verso la rovina.

Atene, 407 a.C., primavera

Dopo lo scandalo, dopo il processo in contumacia, dopo la condanna, dopo l’esilio, Alcibiade ritorna. C’è anche Crizia nel porto del Pireo, ad aspettare l’amico in questo giorno di festa, funestato da scuri presagi. Tutta Atene è lì ad attendere impaziente e festante il ritorno di Alcibiade: dimenticato lo scandalo delle erme, dimenticate le voci sulla profanazione dei misteri. Atene vuole dimenticare anche i morti in Sicilia, il disastro di quella campagna disastrosa, inventata da Alcibiade a dispetto di ogni ragione. Atene dimentica Alcibiade a Sparta, dimentica il suo tradimento e la collaborazione con il nemico. Per accreditarsi presso gli Spartani Alcibiade aveva detto:

Quanto al fatto che io sia stato dalla parte del demos se qualcuno mi considera male per questo, non si creda che sia un motivo giusto per nutrire rancore contro di me. Siamo sempre stati avversari dei tiranni e tutto ciò che si oppone a chi comanda viene chiamato demos (...). Inoltre essendo la città governata dal demos era necessario adattarsi alla situazione. (...) Noi eravamo alla guida di tutti i cittadini e ritenevamo giusto mantenere la forma di governo in cui la città si era trovata a essere la più potente e la più libera, e che era la forma che ci era stata tramandata. Però noi che abbiamo un briciolo di senno, sapevamo cosa fosse la democrazia, e io stesso non meno degli altri, essendomi stati fatti torti gravissimi, potrei parlarne male. Ma su una riconosciuta pazzia non ci sarebbe nulla di nuovo da dire, e cambiare quel sistema non ci sembrava sicuro nel momento in cui voi ci attaccavate come nemici.

Ma la città dimentica tutto. L’oblio vince anche sulla diffidenza – un misto di avversione e di irresistibile attrazione – che la città da sempre prova per i suoi figli migliori, per tutti gli eccessi di questa splendida dorata gioventù, fatalmente votata alla tirannide. “Nulla di troppo”, diceva Crizia, ripetendo le parole della sapienza antica: ma loro, i figli di Atene, si ritenevano esentati da quella sobrietà che proclamavano come valore etico e politico. Niente era troppo per loro, i più sapienti, i più sfrontati figli di Atene.

Crizia loda la compostezza dei simposi spartani; ma l’amico Alcibiade, quando arriva a casa di Agatone, è il più scomposto, il più smodato seguace di Dioniso. Alcibiade loda la temperanza di Socrate, il loro maestro, nella passione d’amore: ma Crizia che non sa trattenersi da Eros e che si struscia, ovunque si trovi, sul corpo dell’amato, è il più intemperante, il più indecente degli amanti. Crizia e Alcibiade: per vocazione genetica, per razza culturale, destinati a essere tiranni, credono nella legge della città solo per quanto possono essere loro stessi a dettarla. E credono che la fortuna combatta al fianco del sapiente, che ha il coraggio di osare: credono che il caso giochi al loro stesso gioco.

Torna Alcibiade nella sua Atene e la città si infiamma nuovamente di entusiasmo per il suo campione: giunge al Pireo una folla in delirio, tutti corrono verso di lui, lo abbracciano, lo portano in trionfo, gli mettono in testa corone; e quelli che non riescono ad avvicinarsi, lo ammirano da lontano, e i più vecchi lo indicano ai più giovani. Raccontano che in quella folle festa del ritorno di Alcibiade, che solo pochi anni prima dalla città era stato espulso con infamia, la nave da cui sbarcò aveva le vele di porpora e dietro sfilò una processione di navi addobbate come per uno scenografico trionfo, al suono dei flauti, con gli equipaggi vestiti con costumi teatrali.

C’è anche Crizia, al Pireo, tra la folla, ad accogliere l’amico che ritorna. Il popolo, intorno, è in preda al più dissennato delirio. Lo amano come prima lo avevano detestato, lo elogiano quanto prima lo avevano calunniato: lo desiderano perché Alcibiade è un’anima di Atene. Alcibiade è Atene stessa, vischiosamente intrigato con i suoi sogni, le sue paure, le sue speranze. Era stato Crizia a presentare il decreto che revocava il bando di esilio all’amico. Ora Alcibiade è tornato: ha voluto tornare a provare qui, nel teatro di casa, un altro atto della sua avventura. È in festa Atene per il ritorno del suo Alcibiade ed è una vera, passionale, storia d’amore quella che lega Atene ad Alcibiade: la città lo ama, lo detesta, lo esilia e poi lo accoglie in trionfo, ha paura della sua sua luce e lo vuole tutto per sé. Il demos prova un’irresistibile attrazione ma insieme, anche, sospetto per l’immagine di perfezione che i suoi spregiudicati campioni incarnano, e nel carisma delle loro eccezionali personalità proietta, con isterica incostanza, le sue illusioni di riscatto, le sue paure, le sue speranze.

Alcibiade presto riparte da Atene, disgustato dall'aria mefitica della politica ateniese di fine secolo: disgustato da quel luogo singolare, che lui stesso aveva contribuito a inventare, dove – nel segno di Atena – le parole e gli intrighi possono tutto e il contrario di tutto. Andrà dietro alla sua stella, che brilla ormai di una luce nera, a tentare di nuovo l'avventura sul mare e a ritirarsi infine nei suoi castelli sull'Ellesponto, difesi da un esercito di mercenari, sotto l'occhio vigile e diffidente del satrapo persiano. Mutevole e incostante è il desiderio che nutre Alcibiade per Atene e da sempre ricatta la Città agitando altri possibili scenari per il suo valore, altri teatri per l'esercizio della sua polimorfica areté: prima era stata l'avventura bellica in Sicilia, poi l'esilio a Sparta, dove – lui che aveva fatto dell'esibizione del lusso la cifra della sua immagine pubblica – aveva conquistato gli spartani adottando uno stile di vita più sobrio, diventando più ‘spartano’ di loro stessi. Ora è l'Ellesponto, e nella molle e lussuosa Ionia rilancerà all’altro eccesso il suo stile di vita, superando in fasto, raffinatezza e lussuria gli stessi satrapi.

Crizia resta in città: la breve parentesi in Tessaglia – verdi spazi, cavalli, avventurose prove di rivoluzione – lo ha convinto, una volta per tutte, che il gioco è tutto qui, nella polis. Solo ad Atene, solo per Atene, si può acquistare fama: klèos, la gloria della rinomanza è la meta a cui Crizia – come l’amico Alcibiade – tende, la conquista che ricerca, come massima fra tutte le umane aspirazioni. Scrive, per la scena del teatro tragico: “Varie passioni nella nostra vita: / c'è chi brama [...] di essere signore di molte ricchezze [...]; altri cercano turpi guadagni [...]: la vita dei mortali è tutta un errare. Io invece, che nulla di tutto questo voglio mi tocchi, io, vorrei invece avere fama di gloria”.

Non conosce altra lingua, Crizia, che non sia quella della polis; non conosce altra poesia, se non quella del suo teatro dove, in tragedia, la città mima se stessa, mettendo in scena le sue insanabile antinomie: Teseo e Piritoo come Crizia e Alcibiade. Non c’è altra scena, se non questa, per mettere alla prova il valore: non c’è altra città, se non questa, che un giorno Socrate, il maestro proprio a lui aveva consegnato, perché Crizia – poeta e sapiente – costruisse con le pietre di Atene l’utopia della città ideale. Crizia, tiranno e poeta, vuole che il suo nome resti legato ad Atene: vuole imprimere il suo segno alla città. Ma la città maledirà il nome politico del tiranno e cancellerà nell’oblio la fama del suo nome di poeta.

Atene e poi Ellesponto: 404 a.C.

È in cella Teramene: per pochi mesi era stato con Crizia a capo del regime tirannico, ma Teramene-il-coturno, la scarpa buona per tutte le rappresentazioni e che calza indifferentemente a destra o a sinistra, questa volta paga con la morte il suo opportunismo troppo disinvolto, a tutti ormai insopportabile. Teramene non si era ritratto di fronte a nulla: non alla volgarità della stanca demagogia populista, non ai più intrigati tentativi di mediazione, non davanti al sangue della tirannide. Non si ritrae neppure ora, di fronte alla condanna a morte che gli arriva in carcere, in una tazza di cicuta, da parte di Crizia. Il “coturno” ha occasione di interpretare così la scena madre della sua fortunosa carriera di istrione della politica: prende la tazza di veleno, la beve quasi tutta, restano solo poche gocce sul fondo; la fa ruotare poi, come nel gioco del cottabo, e il veleno residuo che sprizza nel lancio lo indirizza al suo assassino, come se fosse l’amasio: “Al biondo, bellissimo Crizia”.

Un altro messo, intanto, è partito con un mandato di morte: allo spartano Lisandro giunge il benestare di Crizia. Alcibiade sarà eliminato: “Lui vivo, l’oligarchia sarebbe comunque in pericolo”. Lui vivo resterebbe in quell’Atene che ancora e per sempre, lo adora, lo esalta, lo odia, lo invidia, lo desidera – comunque resterebbe una speranza di riscatto. Alcibiade, nelle fantasie di questa isterica, magnifica, città, è il demone del cambiamento da qualsiasi regime a qualsiasi altro. Per il popolo di Atene, Alcibiade è la maschera del deus ex machina.

Isterica e incostante è la città verso il suo campione. Ma mutevole e scostante è anche il desiderio che Alcibiade nutre per Atene: come Achille a Troia, continuamente ricatta la città sottraendosi al suo dovere, agitando altri possibili scenari per il suo valore. Fingendo e credendo, nella sua irresponsabile strafottenza, che Atene non sia il teatro unico del valore. Crizia invece non è amato in Atene: perché Crizia ama la città, ma odia il popolo e la sua volgarità, quando è al potere; odia i nobili per i loro privilegi ormai consunti e rancorosi, odia gli arricchiti, quando il potere passa nelle loro mani. Ma Crizia ama la città, ama Atene: solo ad Atene, solo per Atene – lui lo sa – si può acquistare la gloria. Così come Achille resta a Troia, perché quello è il campo che il destino gli ha assegnato per mettere in mostra la sua virtù; così Crizia resta ad Atene: non c’è un altrove, l’avventura è qui, nella città. Eliminato Teramene, Crizia per un breve giorno, è il principe unico dei tiranni, il signore della città. Ed è subito il deserto. Sangue, confische, terrore e violenza: le stragi, le epurazioni e su tutto la scommessa, ormai impossibile, sulla gloria del nome. Ora, nella gara per la gloria, nella gara per il cuore di Atene, non c’è più amicizia: c’è chi vince e chi perde. O meglio: chi perde subito e chi perderà tra poco, perché non troverà nessun cantore della sua gloria.

Amici erano stati Crizia e Alcibiade: ma sopra l’amicizia, più forte anche dell’Ade, stava un’altra contesa. I figli di Atene avevano ingaggiato entrambi la lotta per la gloria. Amici anche nella distanza: proprio perché complici quel giorno di atti sacrileghi contro la città, contro sé stessi, contro i sacri misteri. Amici perché nella notte di Hermes avevano agito insieme e in silenzio, intanto che le donne cantavano.

Ma sapevano che sotto la stella mercuriale, nel segno transitivo di Hermes stava anche il tradimento: già dalla notte delle erme, per aver fatto insieme quel gioco, sapevano che avrebbero potuto tradire e tradirsi l’un l’altro, un giorno, quando le mosse del destino l’avessero richiesto all’uno oppure all’altro. Nulla era più forte del vincolo che li legava: sangue, cultura, stile. Ma il patto era all’origine, nel suo stesso ermetico presupposto, violabile dai contraenti. Nessuno avrebbe potuto spezzare quel legame e niente, infatti, aveva potuto contro la loro amicizia: non l’esilio, non lo schieramento diverso e a tratti opposto, al fianco del demos di Atene o contro di esso. Solo loro potevano, nel segno di Hermes, sciogliere il patto – per Hermes, tradirsi.

Crizia presto cadrà a Munichia combattendo da eroe, ateniese contro ateniesi. Ma prima muore Alcibiade: tutti sanno che, vivo Alcibiade, la speranza di una restaurazione del partito democratico è sempre incombente. Alcibiade, ritirato fra i suoi mercenari sull'Ellesponto, rappresenta ancora per il partito del demos la proiezione fantasmatica di ogni speranza di riscatto, il deus ex machina che potrebbe provocare, per l’ennesima volta, un ribaltamento della situazione politica in città. Philoi erano stati Alcibiade e Crizia e anche nei momenti più difficili avevano dato prova della solidità di quel vincolo indissolubile. Ma entrambi sapevano che quel patto, in nome del quale, come nella tragedia che Crizia inventa per Teseo e Piritoo, l’amico per amore dell’amico poteva sfidare addirittura la morte, solo in un campo poteva e doveva essere tradito: nella contesa per la gloria. La storia – la degenerazione degli eventi in quei tragici mesi – porta gli amici a questo ultimo agone: la gloria del nome di Alcibiade contro la gloria del nome di Crizia. Non c'è più una sfida comune: il gioco va condotto ciascuno per sé, fino in fondo. Nella gara finale per il kléos, non c'è più amicizia: c'è chi vince e chi perde. Anzi: c'è chi perde subito – Alcibiade – e chi perderà fra poco – Crizia – perché della sua gloria nessuno si farà cantore e un velo di oblio si stenderà sul suo nome.

E Crizia manda la morte all’amico lontano. Non sarà la battaglia sul campo, non sarà la giustizia del demos ad abbattersi su Alcibiade. Ecco: il messo di Crizia è giunto a Lisandro; e da Sparta parte il sicario per raggiungere il castello sull’Ellesponto; gli scherani del satrapo persiano sono d’accordo, staranno in silenzio e lo lasceranno passare.

Il sicario è arrivato, di là dal mare. Nel suo lussuoso palazzo, dopo il simposio Alcibiade ha fatto uno strano sogno: lui stesso, vestito da donna e Timandra, la sua etera, la sua compagna, che gli teneva la testa tra le braccia e gli imbellettava il volto. “Vengo da parte di Crizia”. E Alcibiade: “È uno dei nostri: fatelo entrare”. Ecco è vicino a lui. Vicino. Alcibiade si sveglia dall’incubo, ricorda la notte di Hermes, ricorda la luna. Ricorda la maschera, a teatro, la luce argentata e la sfida dissacrante dei misteri. Ricorda il profumo troppo intenso delle effimere piante di Adone e il coro luttuoso, dolcissimo, delle donne in pianto. Ma la sua casa ora è in fiamme: si lancia fuori ma le vesti, sontuose, preziosissime, prendono fuoco. Il corpo di Alcibiade è una torcia che brucia, è una fiamma che splende luminosa, fortissima.

 Gira il cerchio del tempo: “Aion serba il suo dono di perle / dove tutto fallisce e tutto a un segno mira; [...] è un ragazzo, / che sopra un’asse con se stesso gioca: / Un’altra erma ancora – lasciamola”. Chi conduce ad Ade è l’amico che tradisce: è Hermes che viene.

Fonti 


I giardini di Adone | Platone, Fedro 276b; Plinio, Storia Naturale, XXI, 60; Suida, ad voc. Αδώνιδος κῆποι (α 517). Adone-Afrodite | Ovidio, Metamorfosi X, 519-739; Apollodoro, Biblioteca, III 14, 4; Nonno, Dionisiache XLII, 65; XLII, 163; Orph. H. LVI “Adone, profumi di incenso”; Igino, Astronomica II, 379. Il pianto per Adone | Il Lamento per Adone di Bione (nell’ultimo scorcio del XV secolo letto, tradotto e parafrasato da Poliziano, fu pubblicato da Aldo Manuzio nel 1496, in un volume con altri testi teocritei, nel 1496 (al tempo si credeva fosse opera di Teocrito: Bione, Lamento funebre per Adone, trad. di Maria Grazia Ciani in Alessandro Grilli, Adone. Variazioni sul mito, Venezia 2014, 96-99). Adone-Artemide | Apollodoro, Biblioteca III 14, 4. Alcibiade e la spedizione in Sicilia | Tucidide, VI-VII; Nepote, Alcibiade VII, 3; Plutarco, Alcibiade 17-21. L’eccitazione in Atene per la spedizione in Sicilia | Tucidide VI, 8-15; Plutarco, Nicia 13, 3; Alcibiade 17, 4. Mutilazione delle Erme | Tucidide, VI, 27-29, 60; Lisia, Contro Andocide VI; Nepote, Alcibiade VII, 3; Plutarco, Alcibiade 18, 6-8; 19, 2; 20, 4-5; 21, 2-3. La profanazione dei misteri di Eleusi | Lisia, Contro Andocide VI, 4, 45; Accusa contro i propri consoci per calunnia, VIII, 5; Andocide, Sui Misteri, 34,35; 37, 38. Socrate maestro di Crizia e Alcibiade | Platone, Apologia; Eschine, Contro Timarco, I, 173; Senofonte, Memorabili I, II 12. Socrate, Ermocrate, Timeo e Crizia a simposio | Platone, Timeo, 17a; Platone, CriziaIl simposio a casa di Agatone | Platone, SimposioHermes svela l’amore di Zeus e Maia | Inno Omerico IV, A Hermes, 56-57. Hermes ruba le mandrie di Apollo | Apollodoro, Biblioteca III, 10, 2; Inno Omerico IV, A Hermes, 340-345. Hermes chiede il segreto della divinazione ad Apollo | Apollodoro, Biblioteca III 10, 2. Crizia | μεδὲν ἄγαν | DK 88 B 7. L’arrivo di Alcibiade in casa di Agatone | Platone, Simposio, 212c-215a. L’amore di Socrate per Alcibiade | Platone, Simposio 213d. Crizia amante eccessivo e intemperante | Senofonte, Memorabili I, 2 29-30. Il discorso di Alcibiade agli Spartani sulla democrazia come “riconosciuta follia” | Tucidide VI, 89. Alcibiade a Sparta “più spartano degli spartani” |  Plutarco, Alcibiade, 23, 3-5. Il ritorno trionfale di Alcibiade in Atene nel 406 | Plutarco, Alcibiade, 32. Crizia presenta il decreto per revocare l’esilio di Alcibiade | DK 88 B 4, 5; Plutarco, Alcibiade, 33, 1-3. Crizia e la fama di gloria (dal Radamanto) | DK 88 B 15. Teramene-coturno | Senofonte, Elleniche, II 3; Aristofane, Rane, scolio v. 46. Teseo-Piritoo | Crizia [Euripide], Piritoo, DK 88 B 15a; Plutarco, Teseo 30, 1-5. L’oscurità che cala sul nome di Crizia | Aristotele, Retorica 1416 b 26. Morte di Teramene | Senofonte, Elleniche II, 20. Crizia cittadino di Atene | DK 88 B 72. L’amore di Atene per Alcibiade | Aristofane, Rane, 1422-1432; Plutarco, Alcibiade, 34, 1-5. Crizia condanna a morte Alcibiade | Plutarco, Alcibiade, 38, 5. Il sogno e la morte di Alcibiade | Plutarco, Alcibiade, 39; Diodoro Siculo XIV, II, 14.

Una versione minor di questo contributo è stata pubblicata in Nemica a Ulisse, Milano 2007, 98-11.

English abstract

Three fifth-century BC feasts featuring Alcibiades, Critias – together or separate and far each other. The first feast, in Athens in the summer of 415, before the expedition to Sicily, is the night of the mutilation of herms, during Adonis’ rites, when Athenian women in the hanging gardens were mourning for the death of the god and singing to propitiate his rebirth. The second one is the civil feast of 407, when Alcibiades, after his condemnation, banishment and exile, comes back to Athens because of a decree of grace signed by Critias and the whole city, which - as Aristophanes writes - “loves him, hates and detests him, desires him” – is on the shore of Piraeus waiting for him in celebration. The third is the ultimate feast: in 403, Alcibiades again fleeing from Athens has taken refuge with the Persian satrap Pharnabazus and the killer arrives from Sparta, with the consent of Critias: the murder is the ultimate seal that binds each other, indissolubly together, the best sons of Athens.

keywords | Alcibiades; Critias; Hermes; Mutilation of Herms; Adonia.

Per citare questo articolo / To cite this article: Notte di Hermes. Alcibiade, Crizia e la festa ultima di Atene. ”La rivista di Engramma” n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 213-222 |PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0021