"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

199 | febbraio 2023

97888948401

Forma atlante e storiografia teatrale

Questioni di metodo

Daniela Sacco

English abstract

A Stefano Mazzoni,
con riconoscenza

Quanto segue vuole essere una riflessione interlocutoria sulla possibilità di considerare la ‘forma atlante’, così come è dedotta dal pensiero di Aby Warburg, un modello euristico per decodificare e indagare la metodologia della storiografia teatrale. Si propone quindi di utilizzare la forma atlante nella funzione di dispositivo da applicare ad alcune coordinate di metodo individuabili nella storiografia teatrale italiana del Novecento, e in particolare negli studi pioneristici aperti da Ludovico Zorzi e da Fabrizio Cruciani. Due autori che nell’autonomia e originalità delle loro rispettive ricerche si pongono in continuità e condividono significativamente con Warburg l’interesse di studio per la cultura rinascimentale, banco di prova per testare riflessioni di metodo valevoli e traslabili nel Novecento.

È nota la rilevanza che Aby Warburg ha avuto in seno alle ricerche di iconografia teatrale, una disciplina la cui importanza per la storiografia è stata pienamente riconosciuta piuttosto tardivamente (Zorzi 1979, 419-463; Zorzi 1988; Molinari 1996, 37-38; Guardenti 1996, 36-37). L’approccio iconologico inaugurato da Warburg e applicato in particolare nello studio del 1895 su I costumi teatrali per gli Intermezzi del 1589 è stato importante per l’iconografia teatrale, avendo anticipato già a fine Ottocento tematiche fondamentali per gli studi storiografici attuali, e centrato questioni metodologiche essenziali (Zampino 1977, 1-44). Per questo Warburg, e gli eredi che hanno sistematizzato il suo pensiero, sono stati un punto di riferimento per vari studiosi di teatro, tra cui: Ludovico Zorzi, Cesare Molinari, Fabrizio Cruciani, Ferruccio Marotti, Stefano Mazzoni, Raimondo Guarino per citare solo i principali.

Per quanto il tema dell’apporto iconologico di Warburg alla iconografia teatrale sia lungi dall’essere esaurito, così come l’impatto dei suoi studi sulle feste rinascimentali sia ancora da approfondire, la riflessione intende scavare più alla radice nella questione del suo metodo, per indagare quali siano i presupposti su cui si basa l’affinità del suo pensiero con quello dei pionieri della storiografia teatrale del Novecento. Questione che emerge non solo, e non tanto, dai saggi elaborati dal pensatore amburghese, quanto dalla sua ‘ultima’ opera, quel ‘saggio per immagini’ che è il Bilderatlas Mnemosyne.

L’Atlante delle immagini intitolato a Mnemosyne può essere definito, sinteticamente, una mappatura della migrazione delle immagini appartenenti al tessuto della tradizione classica nella memoria occidentale, da Oriente a Occidente, da Nord a Sud del Mediterraneo, in un arco di tempo che va dalla civiltà sumerica all’epoca contemporanea. Tale mappatura è dispiegata da Warburg nell’appuntare con spilli su 63 pannelli neri (numerati da 1 a 79 con lacune), riproduzioni fotografiche, ritagli di giornale, documenti vari tra cui anche francobolli ed etichette. Un dispiegamento figurale di un “inventario di preformazioni anticheggianti” costituito da immagini, temi, figure, miti, simboli che nelle loro peregrinazioni rappresentano “la vita in movimento” come corpus della tradizione classica nella cultura occidentale (Warburg [1929] 2016, 13-31).

L’interesse di Warburg per le immagini infatti non può essere considerato separatamente dal dispositivo utilizzato per il loro dispiegamento, ossia il progetto per l’Atlante della Memoria, che realizza tra il 1924 e il 1929, durante quella che può essere considerata la seconda fase della sua produzione teorica, seguente gli anni di degenza presso il sanatorio di Bellevue a Kreuzlingen. Una fase della ricerca di recente rivalutata per il valore del portato teorico, ma che attende di esserlo ulteriormente, di contro al giudizio negativo di cui è stata tacciata per principale responsabilità di Ernst Gombrich (Gombrich [1970] 2003; Centanni 2022, 319-413).

Essendo rimasto un inedito sconosciuto per più di 50 anni, l’Atlante comincia ad essere studiato relativamente di recente. Dopo un iniziale e generale interesse a partire dagli anni ’70, periodo in cui la ricezione italiana ha avuto significativamente un ruolo rilevante (“aut aut” 1984; Centanni 2022), la prima esposizione della riproduzione dell’Atlante è del 1993 alla Akademie der bildenden Künste di Vienna. Da questo momento in poi fioriranno molti studi e l’Atlante diventerà per varie discipline un prototipo a cui ricondursi; inoltre, dagli anni 2000 in poi, la sua conoscenza sarà facilitata anche grazie alla fruizione sempre più diffusa del web, uno strumento concettualmente e strutturalmente affine al dispositivo creato da Warburg.

Possiamo usare la generale espressione ‘forma atlante’ per indicare quello che è a tutti gli effetti un dispositivo visuale. È possibile infatti rilevare la ricorrenza di questa forma espositiva in svariati autori del Novecento appartenenti ad ambiti disciplinari differenti, da Ernst Jünger (1895-1998), a August Sander (1876-1964), a Gerhard Richter (1932), per indicarne solo qualcuno. La forma atlante ha avuto una rilevante fortuna nel secolo scorso fino ad oggi come forma estetica nella prassi artistica; ad esempio, nelle arti contemporanee il formato atlante-mappa è stato di frequente associato come strategia creativa alle pratiche d’archivio (Baldacci 2017).

Una recente riflessione in contesto italiano è stata fatta proprio in riferimento alla creazione teatrale. Agata Tomšič ha riconosciuto nel meccanismo compositivo della costruzione dell’atlante di immagini di ascendenza warburghiana il principio creativo artistico alla base dell’evento teatrale, con una ricognizione che si è concentrata su alcuni casi di teatro contemporaneo di ricerca italiano, tra cui le compagnie Fanny & Alexander, Anagoor, e ErosAntEros di cui la stessa autrice fa parte (Tomšič 2015, 187-199; si rimanda anche a Lagani 2009; Gasparotto 2015, 223-245).

Ma la possibile significanza per la storiografia teatrale va cercata piuttosto nel valore che Warburg dava all’Atlante come strumento conoscitivo, non certo come opera d’arte. Si tratta dello stesso valore funzionale che Walter Benjamin in Piccola storia della fotografia (1931) ha ben compreso riferendosi all’atlante di immagini di Sander, definendolo come un “atlante su cui esercitarsi” (Benjamin [1931] 2012, 240). O, come ha affermato Giorgio Pasquali in memoria di Warburg poco dopo la sua morte, un atlante di cui i posteri possano servirsi, capace di operare su di loro (Pasquali [1930] 2022).

L’Atlante ha quindi un valore d’uso, di metodo; è uno strumento di valore euristico che trova forma nel principio della sua costruzione, ossia il montaggio di immagini. Un principio formale osservabile in azione anche nella Biblioteca di Warburg, articolata secondo quella che lo studioso amburghese definisce “legge del buon vicinato” (Gombrich [1970] 2003, 327), indicando la regola che decide della disposizione dei volumi negli scaffali. La struttura della Biblioteca risulta infatti speculare al principio compositivo che informa il Bilderatlas; concepita già da quando Warburg era ventenne, sarà edificata strutturalmente nella Warburg Haus a cominciare dal 1924, anno del ritorno di Warburg ad Amburgo da Kreuzlingen. Non sono i comuni principi bibloteconomici a organizzare la dislocazione dei libri, ma una sorta di ‘affinità elettiva’ tra i temi. I libri sono accostati tra loro come tessere di un mosaico secondo un disegno mentale, che collega ambiti culturali, tematici, significati intrinseci, e può essere modificato con l’ampliarsi delle prospettive di studio. Un principio che delinea, come lo ha definito Salvatore Settis, un itinerarium mentis, dove c’è una coincidenza tra il percorso mentale, le associazioni di idee, e quello fisico di accostamento tra libri (Settis [1985] 2022, 169-228); un itinerario generale di orientamento, dove caos e ordine sembrano cooperare (Friman, Jasson, Suominen 1995, 23-29).

Questa logica strutturale che regola nell’Atlante l’accostamento di immagini e nella Biblioteca l’accostamento tra libri induce il primo confronto tra metodologia degli studi warburghiani e riflessione storiografica teatrale, così come è venuta a delinearsi a partire dalla sua rifondazione a partire dagli anni ’60 del Novecento.

Nel testo Parere tendenzioso sulla fase (1981), Ludovico Zorzi (1928-1983), con uno sguardo retrospettivo sulla sua ricerca, cita il Warburg-Kreis nel delineare i riferimenti metodologici alla base del suo approccio alla storia, accanto agli studiosi delle “Annales”, l’etnostoria di Lévi-Strauss e il criticismo neodialettico neo-kantiano della Scuola di Francoforte. Zorzi fa riferimento a un’impresa a cui ha orgogliosamente partecipato per delineare la nozione di cultura a cui intende riferirsi: si tratta della stesura dei volumi dell’Enciclopedia Einaudi diretta da Ruggero Romano indicativa secondo Zorzi di una organizzazione concettuale della conoscenza originale rispetto alla concezione nozionistica da cui prende le distanze. L’immagine che la rappresenta “non è più la figura arborescente di una cultura distribuita secondo una scala di valori (appunto la figura di un albero con le sue diramazioni centralizzate: prima viene questo, poi questo, poi questo); quanto piuttosto quella relativistica (la forma lenticolare dell’universo di Einstein) di un insieme matematico; anzi di un insieme di insiemi – un grafo di struttura, appunto, lenticolare a-centrata, collegata da rimandi concettuali, privi di rapporti gerarchici o di dipendenza” (Zorzi 1990, 315-328).

1 | Grafo della Enciclopedia Einaudi. Da: Enciclopedia Einaudi. Descrizione, finalità, guida alla lettura, Torino 1980.

Come ha osservato Stefano Mazzoni si tratta di una sorta di computer cartaceo di fine secolo dove i saperi sono organizzati a-centricamente in un sistema di reti, e il “grafo” dell’Enciclopedia [fig.1], rispecchiando questo sistema, significativamente è un’immagine-simbolo cara a Zorzi e indicativa della sua Weltanschauung (Mazzoni 2014, 58). L’ipertesto, prefigurato nella forma Atlante di Warburg, così come nel sistema enciclopedico sopracitato, è la forma mentis che delinea l’orizzonte su cui si colloca lo studio proposto tra gli anni ’70 e ’80 da Zorzi per una disciplina tutta “‘da fare’ quale è la scienza dello spettacolo” (Zorzi 1977, 21). È infatti a partire dagli anni Sessanta e Settanta che si assiste in Italia alla nascita di un nuovo paradigma storico-teatrale che riconosce progressivamente prima nell’oggetto-spettacolo e poi nell’oggetto-teatro, e non più nel testo o nella letteratura drammatica, la sua materia, ed emancipa la disciplina dal suo ruolo ancillare rispetto agli studi letterari (De Marinis, 2004; De Marinis [1988] 2008; Ferraresi 2019). La proposta di Zorzi, che muove i primi passi già a partire dalla prima metà degli anni Cinquanta, nel porre un confronto serrato tra dato filologico e documentario dello spettacolo – punto di partenza imprescindibile – e i più avanzati saperi storico-umanistici, si inserisce ai primordi di questa nuova prospettiva capace di ‘rifondare’ gli studi teatrali, dove il nuovo oggetto spettacolo-teatro pretende l’apertura dello studio a un approccio interdisciplinare o multidisciplinare. Storia dell’arte, sociologia, antropologia, musicologia, semiotica sono tutti strumenti indispensabili nelle mani dello storico del teatro in quanto utili a conoscere il suo sfuggente oggetto. Il postulato zorziano del teatro, come ha osservato Sara Mamone, è che sia un’arte compromessa con tutte le funzioni civili ed espressive della società (Mamone 1985, 36); e in questa ‘compromissione’ la dimensione figurativa, lo studio del documento visivo, intrecciato allo studio della fonte letteraria è la nuova conquista metodologica per la comprensione globale prima dell’oggetto-spettacolo poi dell’oggetto-teatro. È significativo che questa impostazione metodologica non emerga chiaramente solo nel volume Il teatro e la città (1977), considerato un “libro innovatore, anzi metodologicamente del tutto nuovo” (Mazzoni 2014, 86-87), “vera e propria svolta nella storiografia italiana ed europea del settore” (De Marinis [1988] 2008, 107), ma sia anticipata da quella che è stata definita la “mostra-saggio documentale” (Mazzoni 2014, 83) Il luogo teatrale a Firenze, curata da Zorzi nel 1975 presso il Palazzo Medici Riccardi di Firenze. Un evento che, come ha osservato Roberta Ferraresi rappresenta un momento cardine capace di profilare il prototipo dell’approccio globale alla storia del teatro, consolidata poi negli anni seguenti (Ferraresi 2019, 200-201). E lo è, bisognerebbe aggiungere, proprio per la specificità della sua natura di mostra, di esposizione di un oggetto visivo, ancorato alla spazialità e alla connessione materica di immagini e documenti secondo, per usare le stesse parole di Zorzi, uno “scrutinio multilineare di materiali” (Zorzi 1975, 21), che associa fonti testuali e figurative, pittoriche, architettoniche, teatrali con un’attenzione filologica. Un’impresa collettiva, fatta dall’impegno comune di più individualità, dal coinvolgimento di collaboratori, di studiosi e studenti, come era peraltro nell’abitudine di lavoro seminariale propria di Zorzi. Il metodo ‘multilineare’ intercettato da Mazzoni soprattutto nel contesto di ricerca de Il teatro e la città come in Carpaccio e la rappresentazione di sant'Orsola (pubblicato postumo nel 1988), indica una prospettiva ermeneutica ‘totale’, nel senso di apertura a vagliare la complessità di relazioni che investono i contesti urbani, storici, culturali di appartenenza e le interferenze tra tali spazi, le mentalità della committenza, le forme dello spettacolo. Per Mazzoni l’esito più nuovo e sorprendente della lezione scientifica consiste “nell’attitudine a stabilire relazioni analogiche tanto coerenti quanto vincenti e il montaggio sapiente di ‘testi e di referti allotri’” capaci di fondare la “‘reinvenzione’ dello spettacolo fiorentino tra il 1430 circa e il 1660” (Mazzoni 2014, 92).

In quest’ottica, come ha osservato Sara Mamone, i documenti e i monumenti posti in relazione assumono reciproca significanza dalle gerarchie funzionali che di volta in volta Zorzi individua, e la scelta dei materiali non mira all’accumulo, ma a stabilire relazioni analogiche, e ha come obiettivo non tanto la ricostruzione di un fatto od un oggetto, ma i rapporti tra quel fatto e altri fatti, quell’oggetto e altri oggetti (Mamone 1985, 12).

Rispetto a questa apertura epistemologica, riscontrabile anche nell’approccio pluridisciplinare di Warburg, la storia dello spettacolo per Zorzi altro non è che un modo nuovo di indagare un’attività umana complessa e multiforme che coincide con l’intero percorso dell’umanità (Mamone [1992] 2018). La complessità della rete di relazioni che, congiungendo piani diversi, sola può aspirare a spiegare un dato storico, si comprende in un orizzonte di senso che ricongiunge il piccolo con il grande. Così per Warburg ogni singola forma artistica è compresa nella più vasta storia della civiltà umana; lo studio della funzione della sopravvivenza dell’antichità per la formazione della moderna psiche europea, la ricerca sulla relazione tra religione, arte, scienza rilessa in una “adeguata raccolta di testi e immagini” è quanto Warburg si propone di comprendere al contempo nel fondare la Biblioteca e nel realizzare il Bilderatlas Mnemosyne (Warburg [1925] 2007, 289-294). La forma atlante è espressione di questa apertura d’orizzonte di significato che, guadagnando un pensiero spaziale, congiunge la storia particolare all’universale, alla storia globale. E se l’oggetto ultimo è la comprensione della forma artistica come tassello dell’ampio mosaico della storia della civiltà non sorprende allora che lo sguardo si concentri di preferenza su momenti di passaggio, fasi storiche che accompagnano trasformazioni, transizioni. Per Zorzi, “lo studio dei momenti di trapasso tra una congiuntura e l’altra si mostra di gran lunga più interessante che lo studio di movimenti interni alle singole fasi o dei fenomeni stabilizzanti di esse” (Zorzi 1990, 323).

Come ha acutamente notato Edgar Wind, anche l’interesse costante di Warburg per le età di transizione (Übergangszeiten), per i momenti di passaggio e di conflitto, che si tratti – giusto per menzionare due esempi – della figura di transizione di Keplero, o più in generale del passaggio dal Medioevo al primo Rinascimento, giustifica la consapevolezza che le situazioni dinamiche sono indicative di un momento formativo e trasformativo, e perciò sono più capaci di svelarne i meccanismi sottesi di quanto lo siano le situazioni statiche (Wind [1931] 1984, 133-134). Lo studio si concentra quindi sui nessi, sugli intervalli, le crisi, i trapassi individuabili solo in una rete di intrecci. Wind significativamente pone una analogia tra l’interesse di Warburg per le fasi mediane delle epoche storiche e la sua Biblioteca che, abbracciando molti più ambiti di una normale biblioteca specialistica e non avendo di conseguenza una consistenza esauriente riguardo ogni singolo ambito, ha la sua forza proprio nelle zone di confine (Grenzgebiete) (Wind [1931] 1984, 134).

La logica strutturale dell’Atlante risulta significante sotto certi aspetti anche riguardo al metodo di studio adottato da un altro riformatore della storiografia teatrale, Fabrizio Cruciani (1942-1992), che storicamente si colloca poco dopo Zorzi e gravita nella scuola romana, al seguito di Giovanni Macchia e Ferruccio Marotti. Per quanto Cruciani abbia auto come modello di riferimento per gli studi iconografici e visivi della storia dell’arte soprattutto Pierre Francastel (si veda di Francastel Guardare il teatro a cura di Fabrizio Cruciani [1987]), contribuendo alla sua traduzione e promozione in Italia, ritengo che sia possibile individuale delle affinità nell’approccio agli studi. È illuminante a questo proposito quanto ha scritto Gerardo Guccini sul metodo di ricerca dello studioso: “Per lui modello di cultura non erano le biblioteche reali ma le biblioteche che si formano nella mente. Le biblioteche dove gli spazi vuoti sono altrettanto significativi di quelli occupati e le idee e gli studi convivono in un rapporto instabile che consente, a seconda degli oggetti, delle esigenze o anche, delle intuizioni istantanee, di mutare le dislocazioni e le gerarchie” (Guccini 1995, 326).

Sembra delinearsi in queste parole il principio che dà forma alla biblioteca Warburg e alla dislocazione alle immagini sui pannelli neri di Mnemosyne, lì dove la distanza tra un’immagine e l’altra, il vuoto ‘buio’ tra esse, è parte costitutiva della sintassi del dispositivo. E, come tangibile visualizzazione spaziale, questo spazio vuoto potrebbe essere identificato con quello che Warburg ha definito Denkraum, ossia lo spazio del pensiero, lì dove l’architettura complessiva di Mnemosyne può essere compresa come articolazione in figura del Denkraum. Il Denkraum: la delimitazione guadagnata – e da riguadagnare costantemente – dal pensiero che si sottrae all’identificazione con l’oggetto, con la realtà circostante e conquista la distanza rispetto ad essa, in questo è principio di coscienza, e in quanto tale all’origine fondativa della civiltà. Una delle ipotesi di sottotitolo attribuite da Warburg al Bilderatlas: “la creazione dello spazio del pensiero come funzione culturale” conferma questa osservazione (Wedepohl 2014, 17-49; si veda anche Cirlot 2017, 121-146), così come la riflessione del 1929 con cui introduce l’ultima versione dell’Atlante. A rappresentare lo spazio del pensiero sono i margini neri, le cornici che vengono a crearsi tra immagine e immagine; è lo spazio nero che si apre tra le immagini nell’intervallo creato tra l’una e l’altra, intervallo e che è differente per ogni tavola. La distanza tra immagine e immagine nell’Atlante rappresenta lo spazio della mediazione simbolica in cui domina la categoria della relazione tra gli elementi. Il metodo di composizione dell’Atlante risulta articolato per correlazione e giustapposizione: una compresenza di immagini, dove il senso di ciascuna, il suo significato, non vale tanto di per sé, esclusivamente rispetto alla qualità singolare dell’opera d’arte o all’appartenenza a un dato contesto storico e culturale, ma è dato dalla connessione che la stessa immagine instaura per vicinanza o lontananza con le altre immagini, e rispetto a un punto di vista che le sceglie e le dispone in relazione le une con le altre. Sotto questo rispetto, l’idea di ‘biblioteca mentale’, come emerge nel dispiegamento per immagini del Bilderatlas e nel principio della legge del buon vicinato, può essere uno dei concetti chiave che permettono di ricondurre la forma atlante alla storiografia teatrale. Un’idea coerente a quella di teatro mentale, il “teatro che abbiamo in mente” (Cruciani 1992, 11-12) o il teatro come “forma mentis” (Cruciani, Seragnoli 1987, 10), con cui ha fatto costantemente i conti Cruciani nel considerare il teatro ‘reale’, ossia gli imprescindibili presupposti ideologici, le idee, le visioni del teatro sottese al suo studio oggettivo, materiale, documentario. In questa prospettiva è evidente come l’oggetto-teatro, la conquista della riforma storiografica novecentesca (Ferraresi 2019), si costruisca dalla fitta rete di relazioni che vengono a tessersi tra l’evento teatrale, il pubblico, gli artisti, la società, nella consapevolezza che l’oggetto varia costantemente a seconda dei contesti, e questo in modo più definito a partire dalla riflessione maturata dalla metà degli anni ’70 (Ferraresi 2019, 210-212).

Concetto importante per la storiografia teatrale del Novecento e prossimo all’idea di atlante è quello, già introdotto dalle riflessioni di Zorzi, di globalità. Ed è Cruciani, in Problemi di storiografia dello spettacolo, a riconoscere tra le caratteristiche più importanti della storiografia teatrale la “globalità, storica e problematica” (Cruciani 1993, 5). La storiografia del teatro, scrive Cruciani, “studia come il teatro sia esistito nella storia” (ivi, 3); in questa che può essere considerata una premessa metodologica si coglie la peculiarità e lo scarto della disciplina rispetto alla storia strettamente intesa. La differenza tra studiare il teatro nella storia e studiare la storia nel teatro riconduce alla definizione di storia che Aristotele dà nella Poetica, differenziandola rispetto alla filosofia e alla poesia; se queste hanno il pregio di dire gli universali e quanto è probabile o necessario che accada, la storia invece si concentra nei particolari e sui fatti già accaduti (Poetica 51b, 6). La capacità di cogliere gli universali implica evidentemente uno sguardo ad ampio raggio, aperto a un orizzonte, e l’immagine dell’atlante in qualità di mappa esemplifica il significato di globalità. Anche l’espressione frequentemente usata da Warburg “il buon Dio sta nel dettaglio” (Gombrich [1970] 2003, 19) rende il senso di questa prospettiva; se è indice, ad esempio per Siegfried Kracauer di un approccio storiografico microstorico, che si distingue dal macrostorico comprensivo delle strutture generali di vasti spazi temporali osservate a grande distanza (Kracauer [1969] 1985), bisogna piuttosto riconoscere come nell’espressione di Warburg le due visioni, apparentemente antitetiche, siano assolutamente complementari, e inscindibili. Con la realizzazione dell’Atlante, Warburg colloca la passione filologica per il dettaglio, la fede incrollabile per le fonti in un orizzonte di senso dove particolare e universale sono congiunti nel tentativo di comprendere l’umanità nel mondo, nel rapporto tra microcosmo e macrocosmo. L’attenzione a monte per lo studio della cultura rinascimentale, che accomuna significativamente Zorzi e Cruciani a Warburg, congiunta alla passione filologica documentaria, indubbiamente influenza questo approccio; il Rinascimento rappresenta un passaggio storico cruciale in cui il rapporto tra uomo e mondo, tra particolare e universale, viene radicalmente ridefinito; Warburg lo dichiara esplicitamente nelle tavole incipitarie del Bilderatlas, le tavole ABC che introducono alle coordinate di metodo su cui si regge la struttura dell’Atlante. In particolare, la tavola B, dove le immagini appuntate delineano la trasformazione della corrispondenza tra uomo e cosmo nel passaggio rivoluzionario dal Medioevo all’età moderna con, al centro del montaggio, le figure della hominis dignitas rinascimentale: l’uomo di Leonardo e l’uomo di Dürer che impongono al cosmo le loro proporzioni e la loro misura (Seminario Mnemosyne 2016).

L’atlante è una mappa con cui l’uomo disegna il mondo per orientarsi, implica sempre un nuovo orizzonte di osservazione e codificazione attraverso la descrizione-rappresentazione e l’interpretazione-riconfigurazione del mondo. L’Atlante di Warburg, e più in generale la ‘forma atlante’, indicano una riorganizzazione del sapere espressiva della scoperta di nuovi mondi, che vengono esplorati e ridisegnati, e perciò creati ex novo, costantemente rimappati. In questo senso la mappa quando viene disegnata è originale per definizione perché certifica una scoperta geografica e inaugura una nuova prospettiva. Non è un caso che spesso la forma dell’atlante sia assimilata all’idea dell’Abecedario, proprio per la capacità di rinominare il mondo a partire dall’alfabeto elementare e azzerando la nomenclatura precedente. Un esempio illuminante, per rimanere nel contesto teatrale, è la Kriegsfibel di Bertolt Brecht, un sillabario per immagini della Seconda guerra mondiale, che il regista realizza con l’assemblaggio di foto, relative didascalie, ed epigrammi di sua composizione, per dare una visione inedita e critica dell’ideologia dominante durante il conflitto mondiale (Sacco 2015, 95-107).

Nell’accezione di globalità data nello specifico da Cruciani quindi, ogni approccio storiografico implica di per sé questa riorganizzazione del sapere per la codificazione di nuovi orizzonti di senso.

Coerente a uno sguardo d’insieme, la storiografia ha come oggetto di studio la tradizione, che è intesa da Cruciani come processo dinamico in continua trasformazione. La tradizione è sempre “attiva” in quanto “vive del suo riscoprire il movimento che ha presieduto alla creazione” (Cruciani 1993, 5). Che la conoscenza sia possibile soprattutto lì dove si osserva un cambiamento, una trasformazione dettata dalla necessità dei tempi è una lezione, come si è visto, fondamentale di Warburg, il quale ha focalizzato i suoi studi proprio nella dialettica tra permanenza e trasformazione. Il movimento è l’oggetto privilegiato della sua ricerca, e in esso scopre il depositario del principio vitale; il movimento è il gesto espressivo che porta, trasformandola, la riemersione della forma antica nella cultura rinascimentale.

Per questo l’Atlante proprio perché esprime morfologicamente le traiettorie della tradizione è uno strumento dinamico, non statico. E come ha osservato Raimondo Guarino, fare storiografia teatrale significa anzitutto comprendere il teatro nella storia rispetto alle categorie della permanenza, della trasmissione, della continuità, della discontinuità e nei processi di simbolizzazione che qualificano l’evento teatrale (Guarino 2005a). Il concetto di mutamento e trasformazione è inerente all’idea di tradizione non intesa nei termini di restaurazione o conservazione di un passato che torna identico nel presente. Il continuum della tradizione è instabile e tortuoso, è un percorso carsico intervallato da oblii, salti, vuoti, riemersioni. Il passato, afferma Cruciani, deve essere rifondato. Allora la storia incastonata in questo continuum non può che trasfigurarsi in “fluida”, “eversiva”, “a-centrica storia declinata al plurale” (Mazzoni [2003] 2017, 27), come nella definizione di Stefano Mazzoni, memore della lezione zorziana, a introduzione dell’Atlante iconografico degli spazi e le forme del teatro in occidente dall’antichità al XIX secolo di cui è autore (cfr. anche Mazzoni 2002-2003, 221-253).

A proposito di simbolo, sappiamo anche quanto il concetto di funzione simbolica, che Warburg media anche dalla “forma simbolica” coniata da Cassirer (Cassirer 1977-1982), sia determinante nella comprensione dei processi culturali. Per i due pensatori la funzione simbolica, sintetizzando le capacità concettuali e immaginative dell’umano, funziona come facoltà in grado di orientarlo nel mondo; è la funzione culturale che si è visto espressa in quello spazio del pensiero (Denkraum) conquistato dall’umanità al fine di orientarsi nel mondo. Rispetto a questo ordine di pensiero ha senso quindi comprendere l’evento teatrale come processo di simbolizzazione e per la funzione eminentemente culturale che soddisfa. Ne consegue che il teatro non è tanto studiato come repertorio di opere: piuttosto di esso si studiano “i modi di operare” (Cruciani 1993, 4). Se nell’ottica di Warburg l’opera d’arte è il veicolo per comprendere la cultura, un’epoca storica, la modalità di essere dell’umanità nel mondo, l’orientarsi in esso, l’evento teatrale allo stesso modo ha significato non tanto in quanto oggetto valevole di per sé, ma perché indicativo, come ha affermato Cruciani, di modi di operare, o come ha rilevato Guarino, elaborando le acquisizioni di Zorzi e Cruciani, di “grandi processi di simbolizzazione che percorrono e modellano durate particolari, trasformano spazi e modellano comunità” (Guarino 2005b, IX).

2 | Atlante Mnemosyne, Tavola 71.

Cruciani definisce “dialettica” la conoscenza che dà forma all’indagine storiografica (Cruciani 1993, 4). Non solo perché dialettico è il rapporto tra passato e presente, secondo una visione affine anche alla revisione della storiografia fatta da Walter Benjamin, ma in quanto il teatro è di per sé dialetticamente “il luogo dei possibili”, in quanto “insieme complesso” e “campo di relazioni”. La storiografia, per la natura del suo oggetto, deve porsi in dialettica con altri saperi, dove per dialettica si intende la natura interattiva e dialogica alimentata per confronto contrappuntistico. Il teatro è inteso quindi come un campo di forze.

La metafora magnetica in grado di esplicitare la tensione che intercorre tra le forze in campo è compresa da Warburg che, non a caso, predilige il termine Polarität, polarità. Dialettica e polarità semantica tessono i rapporti di relazione nella molteplicità di immagini dislocate nell’Atlante. Gli intervalli vuoti tra le immagini mediano lo spazio simbolico tra esse e ne strutturano il contrappunto dialettico costante che dinamizza la relazione tra di esse, restituendo un effetto di apertura dinamica, di dynamis che incalza lo sguardo a inseguire le immagini senza sosta lungo possibili traiettorie interpretative. Le immagini non sono disposte in successione seriale, ma sono appuntate nei pannelli secondo una dinamica di montaggio che presuppone il dialogo tra esse, il confronto o anche lo scontro, il cortocircuito. Di provenienza diversa e quantomai disparata, le immagini, scelte da Warburg per motivi differenti che possono riguardare il contenuto ma anche il supporto o la loro particolare storia, trovano una ricontestualizzazione e risemantizzazione nel contesto di ciascuna tavola e nel rapporto tra tavola e tavola.

Nell’Atlante, la spaziatura tra le immagini corrisponde allora alla scoperta di una nuova sintassi: la sintassi di una forma diversa di pensiero che, per il fatto di fondarsi sulla relazione contrappuntistica, sulla tensione degli elementi in gioco, e non sulla fusione (come ad esempio il collage delle Avanguardie Storiche), è drammatica. Il montaggio è da intendersi qui nell’accezione drammatica che Ejzenštejn gli ha attribuito ne La drammaturgia della forma cinematografica, distinguendo l’effetto di ‘scontro’ tra immagini che è proprio del montaggio e ha come esito il dramma, dalla successione di immagini che ha come esito l’epos, la narrazione (Ejzenštejn [1929] 1992, 19-52). Una distinzione che potrebbe spiegare anche lo scarto tra archivio/collezione e atlante condensato nella diversa logica della ratio dispositiva degli elementi.

L’elemento “irrazionale” – come lo ha definito Carlo Ginzburg nel proporre il metodo morfologico indiziario accanto a quello storico (Ginzburg [1966] 2000, 29-106) – che accompagna “l’intuizione sintetica” a guida dell’accostamento di immagini nell’Atlante apre alla questione della memoria e della sua importanza nella costruzione della conoscenza storiografica. La storia del teatro si è costantemente confrontata con la problematicità del suo oggetto, aderendo o meno al pregiudizio antiteatrale, facendo dell“oggetto mancante” (Marotti 1973, 33) o dell’“effimero teatrale” (Cruciani 1976, 3) insieme il limite e la risorsa; l’assenza dell’oggetto è infatti l’imprescindibile punto di partenza della rifondazione della storiografia novecentesca che dagli anni ’70, pensandolo come risorsa, vi legge la variabilità nella storia. Ma se l’oggetto del teatro è mancante ed obbliga a lavorare sui documenti come sue tracce frammentarie da scoprire e ricomporre, la memoria in questo ha un ruolo cruciale; ed è quindi fondamentale avere consapevolezza dei meccanismi che ne permettono e regolano la trasmissione. Ed è proprio ciò che ha cercato di definire Warburg coniando termini quali Pathosformeln – le formule del pathos – e Nachleben – sopravvivenza o vita postuma dell’immagine – e intitolando l’Atlante alla madre di tutte le Muse, Mnemosyne. Questi nomi indicano proprio dei “depositi di memoria attiva”, una delle definizioni data da Guarino all’oggetto della storiografia teatrale, quale “oggetto mancante di una dimensione vivente” (Guarino 2005b, V-XI). 

Anche “engramma”, nel significato attribuito da Warburg al termine biologico desunto da Richard Semon, in quanto traccia mnestica è un deposito di memoria attiva, è il DNA culturale che il percorso irrequieto della tradizione trasmette attraverso il movimento creativo. In particolare l’espressione “formula del pathos” è coniata con la volontà di indicare espressioni viventi: l’immagine proprio perché è colta per il movimento di cui è portatrice, per l’energia che custodisce e trasmette, è intesa come espressione di una dimensione vivente, e indicativa di una forma di vita appartenente a un contesto storico determinato, ma capace di risemantizzarsi in nuovi contesti. Immagine divenuta oramai icona, che incarna esemplarmente la Pathosformel è la Ninfa incedente, che Warburg ‘scopre’ catturata nel suo slancio vitale dal pennello di Domenico Ghirlandaio ne La nascita del Battista a Santa Maria Novella a Firenze. Se l’Atlante è anche un repertorio di formule del pathos, la storiografia teatrale è, nell’accezione di Cruciani, “repertorio delle possibilità del teatro: un corpo vivente che può/deve diventare corpo-in-vita” (Cruciani 1993, 1).

La struttura dell’Atlante si compone attraverso il meccanismo del montaggio, e montaggio è significativamente il termine a cui si riconduce Le Goff nella celebre voce enciclopedica sul rapporto tra monumento e documento (Le Goff 1978, 38-43). Il montaggio è l’atto che guida l’organizzazione della memoria, che guida la scelta dei documenti, delle fonti, la messa in relazione e la distanza tra essi. È principio costruttivo o decostruttivo. La costruzione e decostruzione del monumento in documento, e viceversa, realizzato con il montaggio è il movimento dialettico da attuare nella continua frizione tra storia e storiografia, è l’esercizio ermeneutico che il dispositivo dell’atlante offre all’indagine.

In questo senso si comprende anche la struttura aperta della forma Atlante che evoca una conoscenza sempre in movimento, con nuove mete e nuovi orizzonti, sempre passibile di essere rimessa in discussione. Non è un caso che la maggior parte delle opere costruite sulla forma atlante siano opere non finite, non ultimate ma lasciate interrotte e perciò potenzialmente infinite. Il principio formativo del montaggio spiega come la forma atlante non accumuli dati, come potrebbe fare un archivio o una collezione, ma operi sempre una scelta, una selezione di quello che intende mostrare, e in questo sia sempre assertivo di qualcosa, di un messaggio, di una significazione.

Il metodo di composizione dell’Atlante, anche nell’adottare un principio cartografico che predilige mezzi di esplorazione ed espressione non linguistici, ma visuali e spaziali sembra strutturarsi esso stesso come una macchina teatrale. L’architettura dell’Atlante, articolata per correlazione e giustapposizione, è speculare a una dialettica contrappuntistica propria della forma drammatica. La struttura drammaturgica del display di Mnemosyne implica una compresenza di immagini, dove il senso di ciascuna non vale tanto di per sé, per qualità dell’opera d’arte o per l’appartenenza a un dato contesto storico e culturale, ma è dato dalla connessione che la stessa immagine instaura per vicinanza o lontananza con le altre immagini, e rispetto a un punto di vista che le sceglie e le dispone. L’Atlante nella modalità di pensare lo spazio risulta quindi avere una struttura drammaturgica coerente con la trasformazione dello spazio teatrale nel Novecento (De Marinis 2000, 95-51). Come si è visto, la distanza tra immagine e immagine nell’Atlante rappresenta lo spazio della mediazione simbolica, in esso quindi domina la categoria della relazione, una forma del pensare in cui il rapporto tra soggetto e oggetto, uomo e mondo è mediato dalla relazione e interazione. Il teatro, come ha osservato Cruciani, è essenzialmente un “sistema di relazioni”, e le opere sono “l’insieme delle relazioni poste in essere nell’avvenimento cui sono finalizzate e delle forme in cui si realizzano” (Cruciani 1993, 11). La specificità della relazione a teatro è tale da renderlo il luogo per eccellenza in cui il particolare e universale si toccano e mostrano la loro congiuntura, in questo senso è luogo privilegiato della mediazione simbolica. La categoria poco controllabile della relazione, in cui il contatto inedito tra elementi dà vita all’accadimento imprevedibile, al possibile a venire, è fondante per l’arte teatrale, che, per questo, storicamente ha spesso assunto un ruolo sovversivo e marginale; sin dalle origini si è posta in contrapposizione con la logica disgiuntiva e dicotomica prevalente nella cultura occidentale.

È possibile allora notare una specularità tra il teatro e il sapere in grado di indagarlo; per questo Cruciani può affermare: “Se il teatro è sostanzialmente un insieme di relazioni attuate in forme concrete e determinate, tale è anche la riflessione e gli studi sul teatro: la storiografia teatrale è, nel suo essere indagine storica, fondamentalmente pensiero dialettico” (Cruciani 1993, 11).

Come ha osservato Guccini, di seguito alla notazione sul ruolo delle biblioteche mentali nella riflessione dello storico del teatro, lì dove i vuoti e i pieni dettano la modalità dei rapporti instabili tra saperi, “la conoscenza – ed è forse questo il segno essenziale del suo insegnamento – presuppone, come il teatro, lunghi apprendistati e faticosi esercizi ma esiste laddove si produce” (Guccini 1995, 326).

Torna alla mente il celebre passo nel Timeo di Platone ripreso da più autori: “Colui che contempla si rende simile all’oggetto della sua contemplazione” (Timeo 90d), a significare come ci sia una profonda affinità tra l’oggetto osservato e lo sguardo osservante, il modo con cui ci si rivolge a esso. O come la similitudine debba essere cercata perché è condizione prima del riconoscimento: perciò Plotino, riformulando l’espressione di Platone, afferma come è necessario che “il veggente prima si renda simile a ciò che deve essere visto e solo poi si disponga alla visione” (Enneadi I, 9). Questa coessenzialità tra il metodo e l’oggetto di indagine, gravida di interrogativi, sembra alimentare la riflessione sulla possibilità di pensare la forma atlante come modello euristico, come strumento epistemologico per l’indagine metodologica della storiografica teatrale.

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English abstract

In this contribution, Daniela Sacco offers us a reflection on the possibility of considering the ‘atlas form’, deduced from the thought of Aby Warburg, as a model for investigating the methodology of twentieth-century theatrical historiography, and in particular in the pioneering studies opened by Ludovico Zorzi and Fabrizio Cruciani. Two authors who stand in continuity and significantly share with Warburg an interest in the study of Renaissance culture.

keywords | Aby Warburg; Atlante Mnemosyne; Studi Teatrali; Ludovico Zorzi; Fabrizio Cruciani.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: D. Sacco, Forma atlante e storiografia teatrale. Questioni di metodo, “La Rivista di Engramma” n. 199, febbraio 2023, pp. 23-44 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.199.0006