Mettere in scena l’antico. Ronconi e il teatro greco
“È possibile rappresentare la Medea di Euripide secondo due strade: il punto di vista della protagonista o quello del destinatario. Il regista, di riflesso, si identifica nell’autore che racconta un personaggio conosciuto oppure si mette dalla parte del pubblico e allora la storia di Medea a Corinto potrebbe essere rappresentata come la storia di un’epidemia che avrebbe potuto aggredire Atene” (Ronconi 2019, 239). Così Luca Ronconi introduce le poche pagine dedicate all’allestimento della tragedia nel suo progetto di autobiografia: su Medea il grande regista torna in due occasioni nel corso della sua carriera, nel 1981 a Zurigo (cui fa riferimento il passo appena citato) e, successivamente, in una nuova versione nel 1996.
“Mi è successo pochissime volte di tornare su testi che avevo già messo in scena. Mi è successo […] solo con i testi greci. Molto spesso la scelta di tornare su un testo nasce dall’insoddisfazione per i risultati ottenuti. Non si tratta del fatto che uno spettacolo sia venuto bene o male quanto della necessità di dire qualcos’altro su quell’argomento” (Quadri, Martinez 1999, 62), ricorda Ronconi: la ricerca sul teatro antico percorre come un filo rosso l’intera carriera del regista, dall’Orestea del 1972 fino all’immaginaria trilogia (Prometeo incatenato, Baccanti e Rane) messa in scena al Teatro Greco di Siracusa (2002). Alla base di questa analisi costante, caratterizzata da diversissime scelte di messa in scena, si trova un pensiero comune: la consapevolezza della distanza che separa il mondo (e il teatro) moderno dalla Grecia classica. Un distacco temporale e culturale tale da rendere impossibile, oggi, una rappresentazione diretta della tragedia o della commedia greca, che nascono, dice Ronconi, per “operare una modificazione sullo spettatore. E lo spettatore è, ovviamente, quello dell’Atene del V secolo, del quale non sappiamo più niente che possa in qualche modo servirci e che era il complemento indispensabile delle opere letterarie che ci sono rimaste” (Capriolo 1977, 13-14). È cambiato lo spazio teatrale, si sono perse le convenzioni alla base dell’allestimento (in primis il ruolo fondamentale del coro, centro strutturale della tragedia antica), così come sono ormai perduti i valori religiosi e politici alla base del teatro greco; proprio questo scontro tra passato e presente, tuttavia, spinge la drammaturgia classica a reinventarsi continuamente nel tentativo di recuperare il proprio significato. Studiare e mettere in scena l’antico è per Ronconi uno slancio nella ricerca delle origini del concetto stesso di teatro, un’esplorazione alla fonte del mondo occidentale; l’espressione con cui Franco Quadri descrive il lavoro di Ronconi, il “rito perduto” (Quadri 1973), ben si addice al pensiero del regista sull’impossibilità di recuperare il valore sacrale e, per l’appunto, rituale che caratterizzava lo spettacolo greco. Una difficoltà, questa, che comunque non implica l’inutilità dei tentativi di messa in scena dei testi antichi: Ronconi crede, infatti, nella necessità di ripercorrere periodicamente questa strada, specialmente nei momenti in cui si interroga sulla legittimità della rappresentazione teatrale. Una ricostruzione diretta della tragedia non è più possibile: quando ci si mette a confronto con essa, per Ronconi “è come se si avesse in mano soltanto mezza mela. L’altra metà bisognerà ritrovarla, interpretarla, inventarla, ed è nello sforzo per colmare questo vuoto che consiste il nostro margine di intervento” (Capriolo 1977, 14). Bisogna perciò muoversi a cavallo dei concetti di attualità e rappresentabilità, cercando di “ricostruire la relazione tra i testi classici e la storia che abbiamo alle spalle, ripercorrendo la strada che quelle parole hanno seguito per arrivare fino a noi” (Ronconi, Longhi 1996). Nella stagione 1996-97, Ronconi si accosta al problema proponendo due diverse soluzioni a breve distanza l’una dall’altra: la via della riscrittura del mito, con l’innesto di elementi e pensieri contemporanei, come accade con Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill, in scena nel febbraio 1997 a Roma, e quella di ribaltamento e analisi del testo fino alla sua essenza, che caratterizza Medea, nel dicembre 1996 al Donizetti di Bergamo.
Dello spettacolo, tra i più densi e complessi del grande regista e “sorta di summa del percorso all’interno dell’universo tragico greco” (Cavaglieri 2003, 54), rimane traccia nell’archivio del Teatro degli Incamminati, che per primo lo produsse e che conserva copioni, programma di sala, foto e documenti di vario genere, oltre a una registrazione su VHS[1]. A questi materiali si aggiungono poi quelli legati alla ripresa di Medea nel 2017 ad opera degli Incamminati, del Piccolo Teatro e del Centro Teatrale Bresciano, che vanno a costituire un doppio archivio, parallelo a quello precedente, i cui documenti completano, aggiornano e arricchiscono quelli risalenti al 1996. Un’occasione rara, che permette un’analisi dettagliata dell’opera e consente di seguire l’evoluzione del pensiero di Ronconi nei confronti della tragedia euripidea.
La prima Medea ronconiana (1981)
Accostandosi a Medea è però necessario prendere le mosse dal primo confronto del regista con il testo, realizzato nel 1981 su commissione dello Schauspielhaus di Zurigo con una compagnia svizzera e in lingua tedesca, iniziale incontro con l’opera in cui si ritrovano già elementi che saranno alla base della ben differente versione proposta quindici anni dopo. L’aspetto più significativo che segnerà l’allestimento successivo, cioè l’affidamento della parte della protagonista a un uomo, vede infatti un originale disegno fin dai tempi dello spettacolo zurighese, sebbene non trovi poi effettiva concretizzazione. Come lo stesso Ronconi ricorda in varie interviste, il progetto era quello di presentare Medea attraverso “due diversi registri” (Bonino 1981a), uno ‘tradizionale’ e uno di ‘ricerca’, offrendo accanto allo spettacolo recitato dall’intera compagnia due ulteriori rappresentazioni, entrambe pensate per un singolo interprete (sulla scia di quanto aveva già fatto a Prato nel 1978 con Marisa Fabbri nelle Baccanti): per questo doppio allestimento nei sotterranei del teatro, Ronconi pensa a un’attrice e un attore, “per far emergere, in due letture antitetiche, il ‘femminile’ e il ‘maschile’ della tragedia” (Bonino 1981a). Il progetto, tuttavia, non va in porto e viene realizzato solo lo spettacolo principale, con protagonista Anne-Marie Dermon, che porta in scena una Medea profuga, emarginata, chiusa in quello che sembra una sorta di campo di concentramento (scene e costumi sono curati dallo stesso Ronconi); una prigionia “più che nel corpo, nell’anima” (Bonino 1981b), da cui la donna intende fuggire, riuscendoci attraverso l’inganno e il mutamento continuo di sé fino all’omicidio finale, vissuto come sacrificio liberatorio che le ridona la propria identità e libertà. L’allestimento, frutto di un attento studio del testo durato vari mesi, appare agli occhi della critica quasi una rilettura da dramma borghese della tragedia: Franco Quadri arriva persino a “sentire odore di Strindberg” (Quadri 2016, 60) in questa Medea dove la lotta tra i sessi (il femminile di Medea e del Coro e il maschile di Giasone e degli abitanti di Corinto) è approfondito in chiave psicologica. Dello spettacolo, Ronconi prevede qualche anno dopo un’edizione italiana: i giornali, nell’estate 1983, già annunciano come protagonista Carla Gravina, ma il progetto non verrà mai attuato.
Una Medea al maschile
Il contrasto tra uomo e donna è ripreso, sviluppato e proposto in maniera originale con la seconda Medea del 1996: uno spettacolo molto diverso dal precedente, volutamente perturbante, a tratti perfino inquietante, ma in cui la lettura “della tragedia e soprattutto del suo personaggio centrale non è cambiata” (Volli 1996).
Il 1996 è per la critica “l’anno di Medea” (Garrone 1996), protagonista, oltre che del romanzo di Christa Wolf, di molti allestimenti teatrali nel giro di qualche mese: la Medea euripidea è interpretata a maggio da Valeria Moriconi a Siracusa (regia di Mario Missiroli) e ad ottobre da Patrizia Milani al Teatro Stabile di Bolzano (regia di Marco Bernardi), ma non mancano profonde riletture del mito, tra cui La lunga notte di Medea di Corrado Alvaro al Teatro Romano di Ostia (regia di Marco Carniti, protagonista Caterina Vertova) e il dittico Sulle tracce del vello d’oro e Tra le voci di Medea proposto da Cristina Pezzoli, una creazione composta da frammenti di vari testi antichi e moderni (Apollonio Rodio, Seneca, Grillparzer, Buffagni); lo spettacolo di Ronconi chiude l’anno, a dicembre (Patalogo 1997, 155-172).
La storia di Medea è, dopotutto, fonte di continue rivisitazioni e reinterpretazioni e la produzione, non solo per il teatro, ma anche in letteratura e al cinema, è sterminata: Giuseppe Pucci (Bettini, Pucci 2017 e Pucci 2018) segnala oltre trecento diverse versioni della storia, di cui buona parte prodotte proprio nel corso del Novecento, secolo particolarmente proficuo per Medea[2] e in cui la madre assassina dei figli vede un’inedita umanizzazione e una riabilitazione che la allontana dall’erinni vendicativa e passionale tratteggiata, ancora più che in Euripide, nella tragedia di Seneca. Significativa in questo senso è, tra le altre, proprio la rilettura offerta da Alvaro con La lunga notte di Medea, in cui “l’infanticidio scaturisce da un esasperato senso di pietà materna, da un’estrema necessità di proteggere e di amare” (Tedeschi 2010, 23): l’uccisione dei figli è il disperato gesto di una madre infelice che, per proteggerli dall’ira degli abitanti di Corinto, preferisce dar loro una morte pietosa. Un ulteriore e determinante passo è compiuto dalla Wolf nel suo romanzo Medea. Voci, in cui la donna è completamente assolta non solo dall’omicidio dei bambini, a lei attribuito dai Corinzi che ne sono i veri responsabili, ma anche dagli altri crimini di cui la vuole colpevole la tradizione; una Medea, insomma, innocente, “migliore di come la vuole la vulgata” e che “vagheggia a sua volta una società migliore” (Pucci 2018, 282), in una prospettiva femminista che già da inizio secolo comincia a diffondersi intorno all’eroina mitica. Non mancano, comunque, Medee assassine anche nel Novecento, a teatro e al cinema: una delle più crude scene di infanticidio è proposta nel film per la tv di Lars Von Trier (1988), dove la protagonista, nelle atmosfere umide e paludose dell’ambientazione nordica in cui il regista sposta la vicenda, impicca i propri figli in una sequenza dal realismo agghiacciante (vedi almeno Engramma 79 e Rimini 2010).
Lo spettacolo di Ronconi, nel mezzo di questo inesauribile numero di varianti che arrivano ad allontanarsi drasticamente dall’originale, si presenta invece come una versione fedele al testo euripideo, ripreso nella sua interezza senza modifiche, in cui però si manifesta una forte rilettura personale del regista: con questa Medea, infatti, Ronconi riesce finalmente a portare in scena la donna-uomo immaginata nel 1981. Ad interpretare il ruolo chiama Franco Branciaroli, già pensato per quell’allestimento sperimentale nei sotterranei dello Schauspielhaus. A scoraggiarne a lungo la realizzazione, ricorda Branciaroli, è anche un certo timore da parte di Ronconi, impegnato dall’inizio degli anni Novanta nella direzione di Teatri Stabili, della reazione da parte delle istituzioni e del pubblico di fronte a un simile programma: a dare la spinta definitiva è quindi lo stesso attore, che si offre di produrre lo spettacolo di tasca propria attraverso la sua compagnia del Teatro degli Incamminati: ecco dunque nascere una Medea in sottoveste nera e riccioli, dal fisico tutt’altro che femmineo e dalla voce virile. La notizia fa il giro dei giornali e contribuisce a generare un forte interesse mediatico intorno allo spettacolo: ad un primo sguardo sembrerebbe una Medea en travesti, ma contro questa banalizzante lettura si esprimono con veemenza regista e attore in numerose occasioni.
Dietro la scelta di affidare ad un uomo il ruolo di Medea non vi è, infatti, un puro desiderio di provocazione e nemmeno la semplice volontà di rispettare filologicamente la tradizione del teatro greco di soli interpreti maschili (aspetto che, benché non ignorato, per Ronconi è secondario), ma una profonda e attenta lettura del testo nell’ottica di una “risalita a ritroso verso la grande, originaria ‘estraneità’ del mito” (Raboni 1996). Nella sua analisi, Ronconi cerca di recuperare almeno in parte la chiave interpretativa dello spettatore ateniese del V secolo, arrivando a constatare l’errore sostanziale di chi ricerca introspezioni psicologiche, “totalmente estranee alla logica costruttiva delle dramatis personae della tragedia classica” (Ronconi, Longhi 1996) o attribuisce a Medea (e di conseguenza a Euripide) velleità protofemministe: pur non essendo contrario per partito preso alle riletture moderne dei miti (ne è dimostrazione, nella stessa stagione della Medea, l’allestimento della trilogia tragica di O’Neill), nel guardare al personaggio euripideo Ronconi, fedele al suo intendimento, rifiuta ogni variante generata nel corso dei millenni. Oggetto del suo studio è la sola tragedia di Euripide e la protagonista nel suo ruolo di personaggio inteso, alla greca, come “tramite per portare sulla scena temi o argomenti che non sarebbero in sé teatralizzabili” (Ronconi cit. in Capriolo 1977, 16): per il pubblico antico, e ateniese in particolare, Medea non è la semplice paidophonos, l’assassina dei figli, ma la personificazione di una minaccia, un’erinni guidata da una passione (thymos) smisurata e un’ansia rabbiosa che “rischiano di erompere violente e inaspettate, portando allo sconvolgimento e alla rovina le strutture di un mondo colpevole di scarsa fiducia nei valori dell’uomo” (Del Corno, Cavalli [1985] 2017, XLI).
Elementi di sostegno alla sua lettura (che, nonostante le dichiarazioni del regista, è assimilabile, se non a una ri-lettura tout court, perlomeno a una innovativa proposta scenica), si trovano, effettivamente, non tanto nelle reinterpretazioni moderne quanto negli studi di importanti grecisti, a partire da Umberto Albini, la cui traduzione è usata da Ronconi per lo spettacolo. Proprio Albini sottolinea come la maga della Colchide, ben lontana dalla donna che si strugge per amore, presenti nel testo euripideo dei tratti che il mondo ellenico identifica come tipicamente maschili: “ha ambizioni alte, una fortissima coscienza del proprio ruolo e della propria superiorità; di conseguenza teme tutti coloro che potrebbero scalzarla o, quel che è peggio, deriderla” (Albini 1990, XXV). La paura del ghélos, della derisione, è effettivamente una delle motivazioni più forti dell’odio di Medea contro Giasone che, abbandonandola, non solo ha infranto un giuramento, macchiandosi di adikia (per cui si veda Gentili 1972 e Pedrazzini 2007), ma l’ha anche umiliata e sottoposta al pubblico ludibrio. L’odio scaturito dall’offesa è un tratto tipico degli eroi della mitologia, primo tra tutti Achille, con cui Medea condivide l’ira terribile e dai risvolti funesti, ma anche dei personaggi tragici, in particolare dell’Aiace protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle: Elena Adriani (in uno studio successivo allo spettacolo di Ronconi, ma che procede sulla scorta di analisi precedenti a cui il regista aveva sicuramente accesso) mette a confronto proprio i due personaggi, sottolineando attraverso il paragone con Aiace la valenza ‘eroica’ della Medea euripidea: “quando riceve un qualsiasi torto, l’eroe reagisce con violenza, pena l’appannarsi della propria timé [onore]; ricorrendo a una memorabile rappresaglia rispetto al gruppo familiare dell’avversario, dimostra la superiorità della propria stirpe e il valore del proprio coraggio anche nell’implacabilità dell’ira” (Adriani 2006, 63). Quella greca è una società in cui la vergogna ha un grande impatto sulla vita dell’uomo: dell’uomo, appunto, non della donna. Medea stessa, nelle sue parole, rivela quanto si senta affine al mondo maschile più che a quello femminile: “Nessuno mi creda una donnetta da poco, fragile, remissiva: è tutto il contrario; sono implacabile contro i nemici, benigna con gli amici. Chi è fatto così si garantisce fama e gloria” (Eur. Med., 807-810; la traduzione dei versi di Euripide citati nel testo è di Albini 1990).
Nel compiere il terribile gesto, Medea “si innalza al di sopra degli uomini comuni: non è più una donna, perché è diventata un eroe” (Adriani 2006, 66). Se nelle versioni novecentesche il personaggio euripideo “vede sbiadire la sua connotazione eroica per divenire una figura estremamente umana” (Coppin 2016, 6), Ronconi, al contrario, attraverso l’immagine della donna-uomo ne recupera con forza l’aspetto mitico ed ‘eroico’, nel senso che questo termine ha per il mondo tragico ellenico.
L’umiliazione subita è doppiamente grave per Medea, pienamente consapevole e fiera delle proprie origini: “Non devi costituire oggetto di scherno per i discendenti di Sisifo e alle nozze di Giasone: tu sei nata da nobile padre, sei progenie del Sole” (Eur. Med., 404-406). Lei non è una semplice umana, ma qualcosa di superiore, di divino, oltre il maschile e il femminile: la Nutrice stessa usa immagini animalesche per descrivere il suo sguardo “da leonessa che ha appena partorito” (Eur. Med., 187) e gli “occhi di toro” con cui guarda i figli (Eur. Med., 93, metafora ripresa più volte da Ronconi e Branciaroli nelle interviste, benché Albini traduca con “in modo torvo” e così sia il verso nello spettacolo); Giasone, nel finale, recupera la similitudine con la leonessa e arriva a paragonarla a Scilla, il mostro del Tirreno (Eur. Med., 1342-1343). Su questo ibridismo di Medea, regista e attore fanno forza per giustificare la scelta dell’interprete maschile, utile a evocare quel senso di mostruoso e disturbante che l’eroina avrebbe generato nel pubblico ateniese. Se Li Causi (2018) in uno studio recente riequilibra la portanza teratologica nel personaggio di Medea, la cui mostruosità, benché innegabilmente presente, non è direttamente mostrata ma latente e interiore, Ronconi, al contrario, per cercare di colmare la distanza siderale che separa lo spettatore moderno da quello del V secolo, rende esplicita sulla scena l’essenza ibrida e terribile (deinos è uno degli epiteti a lei più attribuiti nel corso della vicenda) dell’eroina euripidea.
Pur in tutta la sua virile potenza, all’inizio della tragedia Medea è tuttavia sola, una condizione che già l’isolamento-prigionia dell’edizione ronconiana a Zurigo sottolineava. La maga della Colchide, a Corinto, è una straniera e una diversa (tema sottolineato anche da tante riscritture moderne e contemporanee, da Anouilh a Grillparzer ad Alvaro), vista con diffidenza, tanto più ora che è stata abbandonata da Giasone e si è attirata l’ostilità della famiglia reale. È proprio per far fronte a questa situazione che Medea raccoglie attorno a sé la compassione del Coro, composto dalle donne della città, e lo fa indossando quella che Ronconi e Branciaroli definiscono ‘la maschera della femminilità’. Il rapporto protagonista-coro, uno dei pilastri fondamentali dell’architettura tragica, è in questo caso “inquinato sin dall’inizio da una perversa arte dissimulatoria” (Ronconi, Longhi 1996): Medea finge, inganna, simula, piange la propria disperazione come un male comune al genere femminile, accoglie la solidarietà del Coro nascondendo i suoi intenti di vendetta fino a quando non saranno ormai inevitabili. Questo inganno, questa ‘maschera’ che Medea indossa, è celato agli altri personaggi (non solo le donne di Corinto, ma anche gli uomini, blanditi e resi inoffensivi tramite moine e finti pentimenti) fino a quando non sarà troppo tardi, mentre appariva lampante all’uditorio ateniese, ed è alla base dell’intera lettura registica ronconiana. La scelta di un interprete uomo serve appunto in primo luogo ad evitare distorsioni nell’indagine del mito e a “sottrarre la tragedia al modo patetizzante in cui essa è stata perlopiù letta nella nostra cultura, come un dramma di maternità” (Volli 1996): la potenza distruttrice della maga arrivava istintivamente allo spettatore del V secolo, e attraverso l’immagine maschile, tramite il ‘travestimento’ di Medea, il messaggio raggiunge anche il pubblico moderno. Questa chiave di lettura, così assertivamente difesa e motivata nel programma di sala e nelle interviste, convince la maggior parte di recensori e pubblico; tuttavia, vent’anni più tardi e non molto prima della ripresa dello spettacolo, Roberto Alonge, a mente lucida, sottolinea come la proposta interpretativa non trovi un così forte riscontro nel testo quanto fanno credere le dichiarazioni del regista, che hanno indotto “tutti i numerosi critici teatrali a un acritico atto di fede nel Maestro, il quale, per altro, ha sempre molto intimorito i cronisti dall’alto del suo genio e dei suoi riconoscimenti” (Alonge 2016, 12). Alonge, testo alla mano, sottolinea invece come il Coro sia a conoscenza delle intenzioni “non più tanto segrete” di Medea già all’inizio della parodo, al verso 131. Pur senza sminuire il valore della proposta del regista, lo studioso comunque gli imputa di aver finto di “mettere a punto una lettura nuova e originale del testo per giustificare un’invenzione scenica clamorosa” (Alonge 2016, 13), legata, più che a un dato letterario-culturale, a una personale ‘ossessione’ ronconiana.
Va comunque sottolineato, alla luce della breve analisi sopra proposta, come la visione di Ronconi trovi effettivamente molti punti in comune con studi compiuti sulla tragedia euripidea: accogliendo la giusta puntualizzazione di Alonge e contravvenendo alle affermazioni del regista di non aver voluto proporre altro che quanto presente nell’originale, si può ritenere a buon diritto lo spettacolo ronconiano come una inedita, ragionata ed efficace rilettura del personaggio di Medea e della tragedia euripidea.
La maschera in scena. Medea di Ronconi e Branciaroli
1 | @Marcello Norberth, Medea di Euripide, regia di Luca Ronconi, foto di scena, 1996, Archivio Teatro degli Incamminati.
Così come aveva fatto per la Medea svizzera, anche nel 1996 Ronconi evita una ricostruzione filologica dello spazio: la scena di Francesco Calcagnini rimanda a un’epoca a metà tra gli anni Trenta e Cinquanta, “un po’ casa di ringhiera, un po’ cinema rionale” (Cannella 1998), un ambiente spoglio in cui si accatastano bauli, un letto sfatto, una sgangherata cucina economica e una fila di poltroncine dismesse, “detriti di una quotidianità desolata e ostile” (Raboni 1996); sulla destra, una scala di ferro conduce al palazzo reale, simbolo di una tirannia che si avverte ma non si vede. I colori dominanti sono il rosso del fondale e il grigio. Nessun capitello, nessuna colonna dorica a evocare la Corinto greca: Ronconi fa in modo che “il mondo di Euripide e il nostro entrassero in conflitto nella loro incommensurabile distanza” (Arbeia 1997); l’indefinitezza dello spazio contribuisce a destabilizzare lo spettatore e trasporta la vicenda in un non-luogo in continua trasformazione (da esterno ad interno, da piazza a cinema), allo stesso tempo lontanissimo e pericolosamente contemporaneo.
2 | @Marcello Norberth, Medea di Euripide, regia di Luca Ronconi, Franco Branciaroli (Medea), 1996, Archivio Teatro degli Incamminati.
I costumi, curati da Jacques Reynaud, perseguono lo stesso messaggio: le coreute sono massaie di varia età in abiti semplici, impegnate in faccende domestiche e armate di aspirapolveri e lucidatrici; le guardie di Creonte indossano completi scuri e cappelli da gangster hollywoodiani; a stonare sono la Nutrice, dal vestito di foggia arabeggiante, e Egeo, unico personaggio in tunica e coturni. Anche nei costumi, pur nella novità della lettura registica, si riconosce una continuità con la versione della tragedia portata a Zurigo: già allora si aveva una nutrice “molto arcaica, molto orientale, molto ‘mammelle’, molto madre” (Ronconi 2019, 241) che strideva con un re d’Atene in alti sandali alla greca e un coro d’epoca moderna. Quest’ultimo, elemento fondamentale nella tragedia greca e a cui Ronconi dà sempre grande importanza nell’allestimento di tali testi, recita la propria parte canticchiando i versi di Euripide sulla base del ritmo di canzonette di musica leggera, inserti canori che “lungi dal porsi come un tentativo di ricostruire gli usi rappresentativi del teatro dell’antica Grecia, alludono all’impigliarsi della tragedia classica nelle maglie delle nostre convenzioni rappresentative” (Ronconi, Longhi 1996). A questo contribuisce anche la traduzione a metà tra l’aulico e il quotidiano che Albini realizza del testo di Euripide, rispettato fedelmente nella sua interezza con solo un minimo lavoro di revisione[3].
Evocato dai canti delle coreute, Branciaroli appare da sinistra, su quei bauli ammucchiati a mo’ di scala che rimandano visivamente alla sua condizione di straniera e di esule, ed evocano un senso di partenza inevitabile, di una casa svuotata prima di doverla abbandonare. La prima parola che esce dalle labbra di questa Medea maschile è un deciso “donne”: da subito il personaggio si presenta in un’ottica femminile, per assicurarsi la compassione e la simpatia del Coro. L’inganno è già in atto: se nel prologo si erano sentite le maledizioni che gridava rabbiosamente da dentro casa, ora Medea appare calma, addirittura ragionevole, una “donna affatto dystenos [infelice] e non ancora deine [terribile], che manifesta un perfetto autocontrollo ed è in grado di teorizzare sulla sua ‘disgrazia’ inserendola nel quadro più ampio della condizione femminile” (Ciani 2013, 89). Nel perpetrare questa frode, Branciaroli mette in campo tutta la sua capacità vocale: non fa uso di uno scimmiottante falsetto, ma gioca con la voce modificandone continuamente la tonalità, ora rendendola più acuta, ora più grave, attribuendo alle parole un’intonazione via via ironica, sommessa, furente. Tra i molteplici e mutevoli timbri, due in particolare spiccano e raccolgono in sé gli altri: uno più ‘femmineo’ per cadenza e intonazione, usato nel rivolgersi al Coro, per blandire Creonte e ingannare Giasone, e uno virile, potente, cavernoso, ragionevolmente definibile come la ‘vera voce di Medea’, che a volte sfugge nell’ira e con cui viene esposto il suo piano di vendetta. Se il primo è uno strumento dell’inganno, parte di quella costruita maschera che il personaggio indossa per raggirare i suoi interlocutori, nel secondo si riconosce la vera essenza della protagonista. Nel continuo cambio di tono Branciaroli dà prova di straordinaria abilità: la sua voce “ora è maschia e ora invece si modella delicata, si acutizza in un falsetto per poi tornare subito greve, si tinge di improvvisa ironia e quindi di cupa dizione, sale di tono e poi quasi pare sparire” (Bertoldi 1998).
Un’esemplare dimostrazione di questo virtuoso equilibrismo tra voci è proprio il primo monologo di Medea, in cui, rivolta al Coro, piange tutto quello che una donna deve patire (“Fra tutte le creature dotate di anima e intelligenza, noi donne siamo le più sventurate”[4]), servendosi più volte del ‘noi’ per creare un senso di comunità. Branciaroli alterna il timbro ‘femminile’ e quello ‘maschile’ a seconda che si stia riferendo a un tratto tipico della donna o dell’uomo, spesso in tono canzonatorio e sbeffeggiante; la maggiore differenza vocale si avverte quando dichiara di preferire “cento volte combattere, che partorire una volta sola”, usando la prima persona, con un così netto cambio vocale da risultare un evidente indizio del suo inganno, che se pure raggiunge il pubblico non è tuttavia colto dal Coro.
3 | @Marcello Norberth, Medea di Euripide, regia di Luca Ronconi, Franco Branciaroli (Medea) e il Coro, 1996, Archivio Teatro degli Incamminati.
Il gioco di voci continua anche con i personaggi maschili che le si pongono davanti nei vari episodi: nei confronti di Creonte, arrivato a intimarle di andarsene dall’alto di un trono ricreato ponendo una sedia sopra il mucchio di bauli, il contrasto tra la battuta (“Povera me, sono distrutta, annientata. […] Perché mi cacci via, Creonte?”) e il tono canzonatorio con cui è recitata da Branciaroli rivela che Medea non ha assolutamente alcun timore del re di Corinto (non si può dire lo stesso del contrario), e solo quando deve placarlo per assicurarsi quel singolo giorno in più necessario ad attuare la sua vendetta la maga torna ad indossare la maschera della femminilità, tra lamenti e piagnucolii. Nei confronti di Giasone, la donna fa più fatica a mantenere la maschera così accuratamente costruita. Di qualche scatto di voce feroce, tuttavia, l’uomo, in canottiera bianca e giacca portata scalcinatamente sottobraccio in atteggiamento “manieristicamente pasoliniano” (Guerrieri 1997), non si rende conto o non si cura: in uno scontro verbale combattuto ai due lati di un letto spoglio, chiaro simbolo del matrimonio finito, l’eroe cerca di giustificare le proprie azioni con quello che lui stesso definisce un efficace discorso: la “bravura oratoria” che Giasone si attribuisce è un altro appannaggio del mondo maschile, che tuttavia appartiene anche e soprattutto a Medea, della cui efficace retorica si ha già avuto prova.
4 | @Marcello Norberth, Medea di Euripide, regia di Luca Ronconi, Leonardo De Carmine (Creonte) e Franco Branciaroli (Medea), 1996, Archivio Teatro degli Incamminati.
5 | @Marcello Norberth, Medea di Euripide, regia di Luca Ronconi, Alfonso Veneroso (Giasone) e Medea (Franco Branciaroli), 1996, Archivio Teatro degli Incamminati.
Il fulcro nevralgico della tragedia, fin dai tempi dello spettacolo a Zurigo, è individuato da Ronconi nell’incontro con Egeo, in quanto vero momento di svolta nella vicenda: è grazie al re d’Atene, infatti, che Medea ottiene la sicurezza di un rifugio sicuro, permettendole quindi di perseguire i propri piani di vendetta. La provvidenzialità dell’arrivo del vecchio sovrano (su questo argomento si veda Di Giuseppe 2009), desideroso di avere un figlio che la sua sterilità gli ha finora negato, è colta al volo da Medea, che ha l’occasione di mostrare tutta la sua saggezza nelle arti magiche: la sophia è infatti un altro elemento che contraddistingue la donna e contribuisce a definire la sua alterità, come Creonte e Giasone già le hanno sottolineato e lei stessa ammette (“Il mio sapere o suscita gelosia o mi fa ritenere […] addirittura una nemica”). In particolare, Medea è espertissima di pharmaka, e proprio ad uno dei suoi “filtri efficacissimi”, prontamente cotto in un pentolino, fa ricorso per aiutare Egeo, in una scena che Ronconi rende particolarissima: steso su un lettino d’ambulatorio ginecologico (altra reminiscenza zurighese), Egeo, come in travaglio, tra i gemiti e gli ansimi promette sugli dèi asilo a Medea; paradossalmente, in questo cortocircuito logico in cui la donna aiuta l’uomo a partorire, il bambino, invece che uscire, si fa strada dentro il vecchio, a cui cresce il pancione (trovata scenica già sfruttata nell’allestimento svizzero). Un’immagine assurda e straniante, ma perfetta per far comprendere l’innaturale potere di quella creatura divina e spaventosa che è Medea.
La figura di Egeo aleggia anche nel monologo successivo, tra i più pregnanti dello spettacolo: invece di uscire lateralmente, il re d’Atene si dirige verso la platea, fermandosi sulla scalinata di accesso al palco. La sua presenza ‘in sottofondo’ è fondamentale perché è stato lui, pur senza saperlo, a piazzare l’ultimo tassello per il compimento della vendetta di Medea. Ormai ottenuta anche una via di fuga, la donna può esplicitare il suo piano: attraverso dei regali avvelenati – l’importanza dei doni di Medea, non solo nella tragedia euripidea ma in tutto il mito, è analizzata da Lavinia Scolari, che sottolinea come la figura della ‘donna che dona’, nel mondo antico, era “spesso pensata come altamente sovversiva, perché in grado di ribaltare natura e funzioni della donna, per lo più considerata come un ‘oggetto di scambio’, e non come un ‘soggetto’ attivo e donante” (Scolari 2018, 193) – attraverso tali doni, Medea sopprimerà la principessa e Creonte, e infine ucciderà i propri figli. L’intero monologo è recitato da Branciaroli nella più evidente occorrenza della ‘vera voce’ di Medea, virile e cavernosa, contraltare al tono pacato e femmineo che invece sarà preponderante nella scena successiva con Giasone, quando si fingerà una perfetta mogliettina pentita e, pelando patate e apparecchiando la tavola, pregherà l’ex marito di perdonarla. Nel disvelamento del piano si avverte il legame di Medea con un mondo primitivo, ‘barbaro’, in cui regnano leggi antiche ben lontane dalla civiltà di Corinto. Ronconi sottolinea come, nella sua lettura, l’uccisione dei bambini non sia spinta da una folle gelosia, ma appaia alla stregua di un sacrificio rituale, compiuto sì per punire Giasone privandolo di una discendenza e per evitare che altri si rifacciano contro i suoi figli[5], ma anche per redimere i peccati di cui Medea si è macchiata per aiutarlo nella cerca del Vello d’oro, tradendo le proprie origini a favore dei valori della polis, che tuttavia l’ha rifiutata. Uccidere i propri figli assume così, per Medea e per Ronconi, una valenza mitica e religiosa: “Medea è animata da una volontà di riaffermare le proprie origini divine in un mondo regolato da leggi, consuetudini e convenzioni ‘umane’; i suoi bambini sono dunque vittime sacrificali di questa volontà e di questo dovere che il personaggio si auto-impone e non meri strumenti di una rivincita passionale motivata da gelosia. […] L’assassinio delle proprie creature è il sacrificio espiatorio per aver ucciso i valori antichi accettando di sposare un greco” (Ronconi, Longhi 1996).
Medea si fa sacerdotessa, e come tale si appresta (non senza una lotta interiore, che si traduce in scena in una battaglia di voci gestita con maestria da Branciaroli tra amore materno e desiderio di rivalsa) a compiere il sacrificio (thyma) che è anche un “riappropriarsi […] dei figli come eredi di una stirpe che è la sua stirpe, ed elevarsi ad un’altezza che li riunisce per sempre – lei insieme a loro: figli di Medea e non più figli di Giasone” (Ciani 2013, 92)[6]: Ronconi, non a caso, in entrambe le versioni della tragedia fa trasformare dalla madre i bambini “in piccoli cittadini corinzi, in tutto e per tutto simili a quegli uomini muti che facevano parte del coro, tanto che lei li uccide in quanto omologati a quel mondo” (Ronconi 2019, 241).
Dopo aver sadicamente costretto il Nunzio a rivelarle tutti i dettagli della cruenta morte di Creonte e della principessa (“Altro che femminista. La prima persona che Medea uccide è una donna”, Branciaroli cit. in Guerrieri 1996), racconto che la protagonista si gode seduta su una poltroncina come se fosse al cinema, Medea si appresta all’ultimo, terribile atto. Il Coro, che via via nel corso dell’azione è sempre più angosciato dai propositi della donna, è ora colto da una sorta di torpore che gli impedisce di agire, una “sonnolenza che evita alla loro povera umanità l’insostenibile visione del divino” (Raboni 1996). E come divinità appare infatti Medea nell’epilogo della tragedia, mostrandosi in abito bianco, sopra una vasca da bagno spezzata e insanguinata (volgarizzazione moderna del carro alato previsto da Euripide) dove giacciono i corpi dei figli; sul viso, una maschera. Dopo aver indossato la femminilità per tutto lo spettacolo, finalmente Medea rivela il suo vero volto, paradossalmente realizzato con una concreta maschera che ne copre i lineamenti umani. Non serve più fingere, il rituale di vendetta è compiuto: Medea può lasciarsi alle spalle un disperato Giasone e avviarsi, presi per mano i bambini coperti di sangue che rivivono per un ultimo istante, verso Atene, la platea, minaccia incombente tanto per il pubblico antico che per quello moderno.
Vent’anni dopo. La ripresa di Medea
A distanza di vent’anni, la Medea di Ronconi torna a teatro per volere dello stesso Branciaroli, in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano e il Centro Teatrale Bresciano. La regia, affidata a Daniele Salvo, riprende con attenzione filologica lo spettacolo, riproposto nei dettagli “senza nessuna intermissione e nessuna aggiunta o sottrazione, ritrovando l’itinerario già percorso da Luca” (Salvo 2018); similmente, Antonella Conte e Gianluca Sbicca ricreano fedelmente scene e costumi di Calcagnini e Reynaud. Tra i tanti nuovi membri del cast, qualche volto noto: accanto a Branciaroli tornano, rispettivamente nel ruolo di Giasone e Creonte, Alfonso Veneroso e Antonio Zanoletti (che già aveva sostituito Leonardo De Carmine, primo Creonte, in alcune recite precedenti).
In varie interviste, Branciaroli motiva la sua scelta di ridare vita allo spettacolo dopo un ventennio individuando alla base la volontà di omaggiare il regista scomparso attraverso il riallestimento di una pietra miliare del teatro italiano, tanto più in un periodo di crisi. Branciaroli è duro e diretto nel guardare alla situazione teatrale dopo la morte di Ronconi: invece di grandi produzioni, si assiste a “esibizioncine di persone sedute sui divani, con il microfono in bocca” (Bozzo 2018), in cui recitano, in una scena spoglia, tre o quattro attori al massimo (contro i quattordici di Medea). In questo “marasma di teatro basso, dovuto a tanti motivi – primo vari regolamenti ministeriali, secondo alla mancanza di denaro” (Giannangeli 2017), lo spettacolo di Ronconi appare invece a Branciaroli come qualcosa di vero, “un teatro dove invece c’è ancora il bollito, c’è l’arrosto, ci sono il sangue e la carne” (Di Corcia 2017).
Medea è riproposta sulle scene per permettere soprattutto ai giovani e alle platee provinciali di assistere a uno spettacolo di Ronconi, solitamente pensati come eventi unici e spesso così grandiosi da essere difficilmente trasportabili. Problema, quest’ultimo, che non si pone con Medea, in quanto nata su commissione di Branciaroli, che ne detiene i diritti, e non di un grande Teatro Stabile[7]. Alla base del progetto, dunque, si trova il desiderio di fare “alta propaganda” (Porro 2018) in tutta Italia.
Ovviamente, la ripresa non è priva di un interesse personale da parte di Branciaroli, che torna nei panni dello straordinario personaggio euripideo a distanza di anni[8], esperienza che per l’attore, secondo cui nell’intera carriera “sono al massimo quattro o cinque le grandi interpretazioni, quelle perfette”, è rara e speciale, tanto più che la sua Medea “migliora con l’età” (Vincenti 2018). Branciaroli confessa che probabilmente Ronconi sarebbe stato contrario al progetto che, tuttavia, nasce da un profondo rispetto per l’opera e il desiderio di omaggiare, per usare le parole dell’interprete, “il più grande teatrante che l’Italia abbia avuto” (Giannangeli 2017).
Il riallestimento di Medea, inoltre, permette un confronto raramente attuabile nell’analisi teatrale, e cioè quello sull’accoglienza di uno stesso spettacolo, fedelmente riproposto senza modifiche o aggiornamenti, da parte di due diverse platee, separate da una significativa distanza temporale; una comparazione resa possibile dall’accostamento della rassegna stampa conservata nei diversi archivi. Ai tempi della prima messinscena, la valenza emotiva e disturbante di un uomo nei panni della protagonista è fortemente avvertita dal pubblico e suscita forti reazioni anche da parte di istituzioni e critica: se già la Medea svizzera del 1981 era stata accolta come “una pagina scenica piuttosto nuova sui dati e referti lasciatici dall’antica tragedia” (De Monticelli 1981), la rivisitazione attuata con Branciaroli raggiunge picchi di originalità inaspettati e genera grande clamore, tanto che alcuni importanti teatri (tra cui lo Stabile di Torino) rifiutano lo spettacolo. Alla prova del palcoscenico, tuttavia, Medea è applaudita: gli spettatori (almeno la maggioranza) accolgono la lettura di Ronconi del mito, e ne apprezzano la realizzazione scenica, forse complice la strenua campagna di presentazione dello spettacolo in cui le motivazioni dietro le scelte registiche sono esplicitate e motivate. Parte della critica, pur lodando il progetto, identifica nondimeno alcune debolezze: Franco Quadri in particolare ritiene che la rappresentazione risulti “appesantita da vari manierismi rivangati dal passato ronconiano”, individuati in quelle “sovrapposizioni intese a offrire gli strumenti per demistificare la tragedia” (Quadri 1996) quali l’ambientazione da vecchio cinema e i video, volutamente criptici e disturbanti (tra cui un’operazione a cuore aperto e le immagini di una metropoli squassata da un terremoto), proiettati su due schermi durante alcuni momenti della vicenda, elemento di modernità proposto dal regista non sempre compreso e apprezzato dal pubblico. Lo spettacolo, tuttavia, non è che “appena raggelato dall’eccesso di artificio” (Guerrieri 1997), riequilibrato dalla magistrale e unanimemente lodata prova d’attore di Branciaroli nel dar vita, tra la rigorosità recitativa a metà tra l’aulico e il quotidiano, a questa nuova versione della tragedia.
Sempre a Branciaroli sono dedicate le lodi più alte anche vent’anni dopo: è lui la vera anima della ripresa, con la sua presenza scenica che pare immutata e la straordinaria vitalità vocale che caratterizza la sua Medea dai mille volti. Se tuttavia l’interprete è ineccepibile, qualche dubbio viene invece sollevato sul valore del progetto: la fedeltà alla regia ronconiana è contemporaneamente meritoria nella sua scrupolosità ed elemento di debolezza in quanto “finisce per nuocere all’esperienza catartica, perché quello che pareva dirompente nel 1996 oggi sa inevitabilmente di maniera” (Santolini 2018). La platea “più televisivizzata” di oggi accetta con maggior facilità la Medea-uomo che invece ai tempi aveva scatenato dibattiti e “furiose insegnanti di liceo classico” (Porro 2018), come dimostra anche la maggiore apertura delle istituzioni teatrali davanti allo spettacolo. Si perde, insomma, la valenza rivoluzionaria che aveva caratterizzato il progetto iniziale, a favore di un allestimento applaudito in quanto evocazione del grande regista ma tutto sommato meno intenso, soprattutto per coloro che ricordano le sensazioni di spiazzamento e oppressione di un tempo: il “violentissimo impatto emotivo” che Renato Palazzi (1996) attribuisce allo spettacolo originale gli appare, vent’anni dopo, diluito in immagini “meno dense, in qualche modo più affrettate” (Palazzi 2017). Non aiuta la difficoltà della recitazione da parte di attori non abituati al metodo di Ronconi: accanto al gigante Branciaroli, a Veneroso e a Zanoletti, gli altri interpreti, comunque meritevoli, appaiono a qualche recensore forzatamente “ronconeggianti” più che “ronconiani” (Poli 2017), meccanici nel rendere “quella dizione artificiosa, quelle pause stranianti senza l’apporto del maestro che conferiva loro ulteriori risonanze” (Palazzi 2017). Altro elemento che sembra non reggere il passare del tempo sono le proiezioni sugli schermi, trovata tecnica che perde il senso di novità che poteva avere a fine degli anni Novanta e appare superflua e quasi distraente.
“Ronconi senza Ronconi, nel bene e nel male” (Santolini 2018): pur con qualche debolezza più o meno avvertita, Medea arriva comunque al pubblico contemporaneo con intensità simile a quella passata. Benché meno dirompente, la lettura ronconiana del personaggio colpisce e fa riflettere soprattutto quel pubblico che non ha avuto modo di assistervi precedentemente e per cui lo spettacolo è effettivamente e principalmente realizzato, dimostrando come il lavoro del grande regista, così come il mito di Medea, “riesca a parlare al pubblico al di là dello scorrere del tempo e ai cambiamenti socio-culturali” (Villa 2017).
Note
[1] L’archivio, conservato presso la sede del Teatro degli Incamminati in via Ugo Foscolo 4 a Milano, non essendo sistematicamente ordinato, non presenta un inventario completo. Si coglie l’occasione per presentare in questa sede un elenco non esaustivo dei materiali: due copie del programma di sala (di cui una riferita alle repliche al Teatro Nuovo di Udine del dicembre 1997); 64 fotografie dello spettacolo (di cui molte in duplice copia) in bianco e nero di Marcello Norberth, in parte riprodotte anche sul programma di sala, e altre 19 fotografie a colori senza indicazione d’autore; rullini e diapositive; un manifesto; un copione; una copia della Conversazione con Luca Ronconi a cura di Claudio Longhi (poi pubblicata nel programma di sala); 2 VHS contenenti la registrazione dello spettacolo in data 17 dicembre 1996; rassegna stampa. Della ripresa del 2017 sono conservati documenti di carattere amministrativo e finanziario, tra cui contratti con attori, ordini del giorno, schede tecniche e rapporti di lavoro; tra i materiali si segnalano poi un copione (siglato A.V. e probabilmente usato da Alfonso Veneroso, interprete di Giasone in entrambe le edizioni), l’elenco degli elementi di scena e attrezzeria e l’accordo di co-produzione tra Teatro degli Incamminati, Piccolo Teatro di Milano e Centro Teatrale Bresciano.
[2] Impossibile in questa sede offrire un quadro dettagliato delle riscritture e versioni di Medea: oltre alla bibliografia citata, si segnala a proposito delle varianti novecentesche l’appendice di Rubino 2000, 225-232.
[3] L’ampio uso delle sue traduzioni in rappresentazioni diverse tra loro dimostra il valore di Umberto Albini come grecista e la validità della sua opera in teatro; nel solo 1996, oltre a Ronconi, anche Marco Bernardi usa la stessa traduzione per la sua Medea a Bolzano, mentre a Siracusa è sempre di Albini la traduzione di Coefore di Eschilo (per Medea, spettacolo che completa la stagione siracusana di quell’anno, ci si affida a Maria Grazia Ciani).
[4] Le citazioni dirette delle battute nel corso del saggio sono tutte tratte dal copione conservato presso l’archivio del Teatro degli Incamminati.
[5] Sulla morte dei figli di Medea esistono varie versioni nell’antichità: Pausania riporta, sulla base dei Korinthiaká di Eumelo (VIII secolo a.C.), che Medea, nel tentativo di renderli immortali, li abbia involontariamente uccisi; attribuita a Creofilo (VIII secolo a.C) è invece la versione in cui ad assassinare i bambini siano stati proprio i Corinzi, facendone ricadere però la colpa su Medea. L’uccisione intenzionale da parte della madre è tradizionalmente ritenuta una novità euripidea, anche se non tutti gli studiosi sono concordi. Si vedano a riguardo Bettini, Pucci 2017, 64-67 e Lucarini 2013 (con relativa bibliografia).
[6] I figli di Medea sono oggetto di numerosi culti nell’antichità, a cui fa riferimento anche Euripide ai versi 1378-1383; Brelich 1959.
[7] Osvaldo Guerrieri riporta un budget di settecento milioni di lire per lo spettacolo, una produzione “grande, ma non grandissima” (Guerrieri 1996).
[8] Partendo dai ragionamenti di Ronconi e sviluppando nuove e personali deduzioni, Branciaroli propone, nel 2003, un allestimento originale di sua scrittura, Dentro Medea: pensato come riflessione sulla tragedia di Euripide, lo spettacolo vede l’attore interprete unico di tutti i personaggi e commentatore diretto del testo. Materiali sullo spettacolo, compresi copione e rassegna stampa, sono conservati presso l’archivio del Teatro degli Incamminati.
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English abstract
This study examines Luca Ronconi’s reinterpretation of Medea by Euripides, a tragedy he staged in 1981 and revisited in a significantly transformed production in 1996. Through a rigorous archival investigation this paper reconstructs Ronconi’s directorial approach and its evolution over time. Central to his vision is the recognition of the incommensurable distance between ancient Greek theater and contemporary audiences, which he addresses through innovative dramaturgical strategies. His 1996 production, notably, assigns the role of Medea to a male actor, Franco Branciaroli, underscoring the character’s liminality and destabilizing traditional gender constructs. Rejecting psychologizing interpretations, Ronconi frames Medea as a figure of mythic and ritualistic significance, whose destructive agency transcends personal motivations. The study also contextualizes the 2017 revival of the production, analyzing its reception in contrast to the original staging. By integrating archival research with performance analysis, this paper illuminates Ronconi’s broader theoretical engagement with classical tragedy and its performative reconstruction in modern theater.
keywords | Medea; Euripides; Luca Ronconi; Franco Branciaroli; Greek Tragedy.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Giacomo Della Ferrera, La maschera di Medea. Euripide letto da Ronconi (1981 e 1996), “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.