La lunga durata di una frazione di secondo*
Prefazione a Paul Virilio, La fin du monde est un concept sans avenir. Oeuvres 1957-2010, Seuil, Paris 2023
Eyal Weizman. Traduzione di Michela Maguolo
English abstract
Presentazione
Il 30 ottobre 2023, la Fondation Cartier ospitò la presentazione (Nuit de l’incertitude. Paul Virilio “La fin du monde est un concept sans avenir”) di La fin du monde est un concept sans avenir, ponderosa raccolta di scritti di Paul Virilio realizzata dopo il ritrovamento di alcuni quaderni di appunti del filosofo francese. La Fondazione aveva accompagnato Virilio per un tratto della lunga e intensa impresa di scandaglio del mondo contemporaneo, delle sue dinamiche, tra l’accelerazione delle catastrofi e la nostra incapacità di prenderne coscienza, ancora prima che di comprenderne il senso. Aveva accolto nel 2002-2003 la mostra Ce qui arrive, con la quale Virilio aveva voluto dare forma visiva e quantitativa all’incidente, evento tipico dell’età moderna, dell’età della velocità e della tecnica. Tra gli ospiti dell’incontro del 2023 – al quale ebbi la fortuna di assistere, nel prosieguo delle ricerche su Virilio e l’archeologia dei bunker – c’era Eyal Weizman, autore della prefazione all’antologia (sul tema del bunker, con particolare attenzione all’opera di Virilio. si rimanda a Engramma 185 – ottobre 2021). Alcuni giorni prima, tra il 27 e il 28 ottobre, Israele aveva dato inizio alle operazioni militari da terra, entrando nella Striscia di Gaza con i tank. Weizman nel suo breve intervento volle soffermarsi su Gaza, perché osservò, citando Frantz Fanon (Peau noire, masques blancs, Paris 1952), che non era più tempo per gridare o piangere, era tempo di parlare. E per lui, architetto che aveva fatto dell’architettura uno strumento di resistenza alla lenta guerra condotta attraverso l’architettura dell’occupazione, dell’assedio, era tempo di capire il contesto, interrogarsi sull’origine e il ruolo strategico delle colonie nel disegno dei confini della Palestina, di scrutare ogni incidente e ogni evento accidentale come frammento di una più grande, più profonda deflagrazione della storia.
Michela Maguolo
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La carriera degli architetti, quando è all’origine di cambiamenti profondi, comincia spesso con un libro – si pensi a Vers une Architecture di Le Corbusier; Delirious New York di Rem Koolhaas: Manhattan Transcripts di Bernard Tschumi – per poi evolvere verso una pratica costruttiva che materializza quelle idee in forme costruite. L’opera di Paul Virilio è una repentina manovra nella direzione opposta. Virilio debutta nel secondo dopoguerra, negli anni Cinquanta, come pittore e poi come maestro vetraio che traspone su grandi vetrate le opere di Henri Matisse e Georges Braque. Negli anni Sessanta realizza capolavori dell’architettura come la chiesa di Sainte-Bernadette du Banlay, prima di dedicarsi, a partire dagli anni Settanta, alla scrittura. La sua opera scritta è la più influente e prolifica che un architetto e urbanista abbia mai prodotto. In questo processo di dematerializzazione accelerata, il pennello del pittore e il banco di lavoro dell’artigiano cedono il posto allo scrittoio. E da questi diversi piani, come fossero piste d’aeroporto, il suo pensiero decolla verso destinazioni molteplici. Nell’aria, le linee della teoria e della pratica si intrecciano come scie di jet in un combattimento aereo. È nel loro punto di condensazione che viene rimodellata la nostra comprensione della filosofia, della guerra, dei media e dell’architettura.
Sono trent’anni che cammino insieme a Paul Virilio, da quando l’architettura ha catturato tutta la mia attenzione. L’ho incontrato una sola volta, nel 2004, in una libreria in rue de la Roquette. Partecipava al lancio dell’edizione francese di A Civilian Occupation, un’opera collettiva sulla politica coloniale dell’architettura israeliana, che ho codiretto e per la quale lui aveva scritto la prefazione. Era convinto che la guerra che Israele conduce contro i palestinesi avesse tra le sue armi l’architettura e aveva scritto che, di conseguenza, era semplicemente “logico […] che gli architetti si sveglino e si rivoltino insieme”[1]. In quell’incontro, le sue parole furono calorose e incoraggianti, e il mio francese rudimentale mi evitò l’imbarazzo di dire qualcosa di troppo stupido. Sostenne che se l’architettura è strumento del conflitto, la pratica architettonica deve fornire un mezzo di resistenza e fu da questa osservazione che ebbe origine la mia personale traiettoria. L’opera di Virilio tende verso l’orizzonte del possibile e verso le forze mostruose che vi si nascondono. È un onore inatteso, insieme piacevole e amaro, essere stato invitato da Sophie, la figlia di Paul, e dall’editore Seuil a scrivere questa breve prefazione alla sua antologia postuma, che contribuirà a far risuonare le sue idee verso quel futuro che il suo pensiero già abitava.
I teorici e gli storici sapranno meglio di me ripercorrere l’evoluzione del lavoro di Paul Virilio. Qui posso soltanto evocare le idee che hanno contribuito a formare il mio pensiero. Nel 1958, Virilio comincia a fotografare bunker. Queste strutture facevano parte di una lunga serie di fortificazioni erette dall’esercito tedesco d’occupazione tra il 1942 e il 1944 lungo la costa atlantica, dal confine franco-spagnolo alla Norvegia. Le fotografie di Virilio documentano, con il rigore dell’archivista, la variazione ripetitiva delle diverse tipologie – bunker, postazioni d’artiglieria, torri di osservazione e piattaforme antiaeree – che erano allineate lungo il litorale come totem arcaici nel grigio monocromo del cemento a vista.
Il Vallo Atlantico fu un tentativo futile e paranoico di difendere l’impero terrestre del Terzo Reich contro le potenze navali della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, ma sarebbe un errore considerare i bunker soltanto come le reliquie di una “guerra di posizione” persa in partenza, destinata a crollare al primo contatto con una moderna “guerra di manovra”. La lezione cruciale che ho tratto dall’archeologia dei bunker di Virilio è il modo in cui la loro architettura – e in effetti ogni architettura – si pone come sintesi tra la materialità statica e le molteplici dinamiche della velocità.
Dopotutto, il movimento è inscritto nella forma dei bunker. Così come le caratteristiche zoologiche di una preda rivelano qualcosa delle proprietà dei suoi predatori, la forma di questi oggetti statici interiorizza la velocità e la potenza delle forze dinamiche che essi sono chiamati a sostenere, integrandole in un’organizzazione architettonica e in una forma materiale. La forma curvilinea della calotta in cemento dei bunker era destinata a deviare le traiettorie dei proiettili cui dovevano resistere; le piattaforme progettate per la sorveglianza e il tiro erano la forma negativa dei mezzi da sbarco anfibi; le piattaforme antiaeree invertivano la logica verticale del bombardamento aereo.
Per resistere alle onde d’urto che le esplosioni provocano nel suolo, i bunker non erano ancorati tramite fondazioni, ma semplicemente posati, parzialmente interrati, nelle dune di sabbia. Quando il soffio delle deflagrazioni si propaga nel terreno, i bunker possono spostarsi lateralmente invece di assorbire il colpo e danneggiarsi. La forza sismica dell’artiglieria e, in parte, quella dell’erosione e del tempo hanno provocato lo scivolamento di alcuni bunker lungo le dune e il loro assestarsi in posizioni stranamente oblique. È questo probabilmente uno degli elementi che ha ispirato la Théorie de l’oblique di Virilio, che propone di abitare i piani inclinati, un'urbanistica del movimento perpetuo su migliaia di superfici inclinate, e un preludio, forse, ai Mille plateaux di Gilles Deleuze e Félix Guattari.
Virilio ha scritto che il suo interesse per l’architettura si è affievolito quando si è reso conto che gli edifici e le città non erano più in grado di affrontare la potenza distruttrice della guerra moderna; allo stesso modo, offrivano una protezione scarsamente efficace contro la sorveglianza dello Stato, di fronte alla quale risultavano messi a nudo, permeabili e del tutto trasparenti.
I conflitti non sono più una questione di spazio, ma piuttosto di gestione della percezione. Ogni bomba è una bomba di informazione, le cui esplosioni provocano onde d’urto nell’ambiente della dis-informazione. I missili teleguidati trasmettono le loro immagini verso lo spazio profondo e, da lì, le rinviano altrove sulla Terra, dove è localizzata la sala di controllo. La loro detonazione attiva centinaia di altre telecamere al suolo. Queste immagini, che non sono più scattate da fotoreporter ma da chiunque possieda uno smartphone, catturano atrocità commesse per essere registrate. Quando vengono diffuse, non sono considerate prove inconfutabili di ciò che è accaduto, ma piuttosto esperienze situate che genereranno in seguito conflitti secondari sulla loro autenticità, veridicità e significato.
Nonostante tutto il potenziale dei segnali in rete, l’importanza strategica dell’architettura fisica non è scomparsa, ha piuttosto assunto un’altra forma. Mentre i dati, così come il denaro, venivano spinti ad accelerare il loro passaggio attraverso le vene del capitalismo postmoderno, il movimento delle persone indesiderate, dei migranti e dei rifugiati è stato rallentato, fino a fermarlo, grazie a un sistema di barriere e di punti di controllo che sono sorti ovunque.
Il muro costruito attraverso la Cisgiordania – ritorno strategico al cemento nudo – ha creato un bunker su scala statale. I suoi vari derivati, tra l’enclave europea di Melilla e la costa nordafricana del Marocco, tra gli Stati Uniti e il Messico, attraverso il Kashmir occupato e nelle foreste dell’est della Polonia, per citare solo alcuni esempi, sono diventati l’infrastruttura materiale di un sistema di apartheid mondiale. La politica contemporanea della separazione e la logica della guerra moderna di un tempo hanno dimostrato che il principio della “dromologia” di Virilio, secondo cui il dominio si ottiene tramite un regime di differenze di velocità, deve essere filtrato da strutture fisiche. L’architettura può essere statica, ma può accelerare e rallentare a piacimento il movimento.
La “Fortezza Europa” contemporanea non è più difesa da una serie di bunker in cemento sul litorale nord-occidentale del continente, ma da un dispositivo complesso e variegato lungo i litorali sud-orientali. Questo dispositivo comprende elementi materiali e immateriali: un sistema di recinzioni, campi di internamento e centri di detenzione temporanei-permanenti, flotte di sorveglianza e di intercettazione composte da navi, aerei e droni. Questi elementi operano parallelamente a un insieme di leggi, regole, contratti e politiche; una burocrazia all’apparenza così banale da risultare noiosa, ma implacabilmente efficace nel deviare lontano dalle coste europee, e talvolta anche nel lasciare annegare, i migranti e i rifugiati della guerra e del caos climatico, verso un esilio nel quale le politiche europee giocano un ruolo centrale[2].
Anche quando alcune persone riescono ad attraversare le molteplici barriere erette dal regime migratorio europeo e a penetrare all’interno, le frontiere, come una serie di miraggi, continuano ad apparire, frammentandosi e frattalizzandosi in molteplici dispositivi di separazione crescente posti ai punti d’ingresso degli edifici per uffici, dei centri commerciali e dei sistemi di infrastrutture per il trasporto (o la loro assenza) che collegano i centri città enclavati alle periferie de-enclavate.
Nel momento in cui si rinunciava alla città come sito di difesa strategica, essa è riemersa per opporsi efficacemente alle tecnologie destinate a distruggerla. Dall’inizio degli anni 2000, le città hanno cominciato a essere centri di resistenza contro una nuova ondata di occupazioni coloniali – Kabul, Baghdad, Beirut, Gaza, Ramallah e più recentemente Kherson e Mariupol. È la natura stessa delle zone urbane e la loro tendenza alla densità, alla saturazione, alla diversità e all’eterogeneità che le rende difficili da invadere e da conquistare. Nella guerra contemporanea “di strade e di case”[3], gli edifici offrono una copertura che permette la dissimulazione di fronte al targeting militare.
Piccole bande di combattenti armati dei propri missili anticarro, simili ai focos di Castro all’Avana o ai ribelli di Blanqui a Parigi, si muovono attraverso gli edifici e fra questi e le macerie, fiancheggiano e distruggono intere colonne militari, come ha imparato a proprie spese l’esercito russo a Grozny e, più recentemente, a Boutcha, nella periferia di Kiev. Per la sua insubordinazione, la città sarà punita per sempre, ma non potrà mai essere completamente sottomessa.
L’incidente [accident] è l’ultimo elemento attraverso il quale Virilio ha associato velocità e materialità. Alla stregua dei geologi che si precipitano sul sito di una frattura sismica per studiare gli strati terrestri appena messi a nudo, Virilio incoraggia chi desidera interrogare la logica nascosta della tecnologia a esaminarla nello stato di rovina – un miscuglio sparso di macchine rotte, schegge di proiettili, acciaio, alluminio, cemento, plastica e silicio. Il dottor Robert Vaughan, in Crash di James Graham Ballard, e Bruno Latour sarebbero d’accordo: solo l’incidente può costringere all’apertura della scatola nera del nostro presente[4].
Le rovine materiali di un’automobile, di un treno, di un drone, di un aereo, di una navicella spaziale o di una server farm sono gli unici punti di partenza possibili per interrogare la nostra politica e la nostra cultura. È la ragione per cui un Musée de l’accident, importante testo di Virilio e ora un futuro museo dedicato alle sue idee, rappresenta uno strumento essenziale, in realtà l’unico realmente capace di offrire un’analisi illuminante della nostra politica tecnoculturale[5]. Questo filone del pensiero di Virilio alimenta direttamente il lavoro di Forensic Architecture, in un ambito di ricerca che è condiviso da diversi gruppi investigativi in varie regioni del mondo. L'ho fondato per ricostruire spazialmente i minuscoli dettagli, minuto per minuto, degli episodi di violenza di Stato, come le incursioni di droni, la sorveglianza di Stato e gli omicidi commessi dalla polizia.
L’episodio accidentale – l’“incidente” – sta alle relazioni sociali come l’incidente sta alla tecnologia: un punto di rottura a partire dal quale si può interrogare la logica più ampia nella quale è inserito. L’episodio accidentale è un incidente sociale. Una sparatoria della polizia “di una frazione di secondo” contro persone razzialmente determinate in una periferia di Chicago, Londra o Parigi è allo stesso tempo un fallimento dell’ordine sociale e la sua manifestazione estrema. Come l’incidente, l’episodio accidentale conferma l’ordine proprio attraverso la sua negazione. Da un lato, ricorrendo alla sorveglianza e all’intimidazione, la polizia militarizzata esercita una costante prevenzione, cercando di impedire che tali episodi si verifichino. Dall’altro lato, questi episodi offrono allo Stato l’occasione di mettere in scena uno spettacolo di violenza letale e di mostrare così la sua capacità e la sua volontà di trasformare il proprio potenziale di forza in forza reale. Per questo motivo gli episodi accidentali devono non soltanto essere ricostruiti, ma anche interpretati. Le ricostruzioni sono la storia di un’istantaneità che si manifesta spesso nel tracciamento della relazione dinamica tra gli autori, le armi, le traiettorie, le vittime e gli spazi nei quali essa si dispiega. La sua durata si misura in millisecondi. La modalità di analisi è un ambiente architettonico simulato, nel quale video, sia trapelati che trovati online, frammenti di testimonianze e tracce materiali sono localizzati e sincronizzati. Il modello riunisce molteplici prospettive simultanee e fa dell’episodio accidentale una coincidenza.
L’interpretazione dell’episodio accidentale, d’altra parte, esige di mappare le condizioni più ampie – sociali, politiche, tecnologiche, ambientali – che gli hanno dato origine. A partire da uno sguardo ampliato, focalizzato sul livello molecolare del tempo, ci spostiamo verso l’esterno in tutte le direzioni, seguendo fili di prova che collegano l’episodio a elementi eterogenei, istituzioni statali, regole, ordini, procedure, calcoli e tattiche, attraverso un vasto spazio temporale e geografico. Navigando attraverso i cerchi in perpetua espansione del nostro inferno contemporaneo, con Virilio come guida, dobbiamo imparare a trovare, nella frazione di secondo dell’evento, le ombre storiche della lunga durata.
* Engramma ringrazia Eyal Weizman per aver concesso di pubblicare la traduzione di questo testo, dei cui diritti l’autore resta detentore esclusivo.
Note
1. Rafi Segal, Eyal Weizman (a cura di), A Civilian Occupation, Tel Aviv 2003. Il libro include una serie di fotografie aeree degli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Ha come riferimento Bunker archéologie di Paul Virilio: la linea di difesa non è più una serie di bunker lungo la costa atlantica, ma piuttosto un “muro vivente” fatto di abitazioni suburbane organizzate in anelli concentrici intorno alle cime montuose, dove “la visione ha dettato la disciplina del design – un’urbanistica ottica destinata a esercitare supervisione e controllo” (p. 85–86). Anche l’editore del libro, Sharon Rotbard, ex allievo di Virilio all’École spéciale d’architecture, scrisse, come Paul Virilio, una prefazione e organizzò il lancio del volume.
2. Multiplicity (Stefano Boeri, Maddalena Bregani, John Palmesino e Paolo Vari), Solid Sea, Documenta 11, 2002; Océanographie médico-légale (Lorenzo Pezzani e Charles Heller), The Left-to-Die Boat, https://forensic-architecture.org/investigation/the-left-to-die-boat
3. Maréchal Thomas Robert Bugeaud, La Guerre des rues et des maisons. Manuscrit inédit présenté par Maïté Bouyssy, Paris, Jean-Paul Rocher, 1997. Sharon Rotbard, The War of Street and Homes, and Other Texts on the City, Tel Aviv 2021.
4. James Graham Ballard, Crash (1973), Milano 1990; Bruno Latour, L'Espoir de Pandore. Pour une version réaliste de l'activité scientifique, Paris 2001.
5. Le musée de l'Accident Paul Virilio è un museo in gestazione, che coltiva un’estetica dell’apparizione in tutto il mondo. I primi schizzi per la sua futura sede sono stati disegnati dall’architetta Hala Warde, ex allieva di Paul Virilio. Sophie Virilio, Virginie Segonne, Jean Richer, Stephane Paoli, Ethel Buisson, Jac Fol e Thomas Billard fanno parte del gruppo che lavora alla sua realizzazione.
English abstract
Eyal Weizman’s preface to the new edition of Paul Virilio’s writings connects the French philosopher’s investigations into the relationship between architecture and war, dromology and accidents to the aim and activity of Forensic Architecture, founded by Weizman in 2010. Weizman situates Paul Virilio’s thought at the intersection of military architecture, speed, and perception, beginning with his archaeology of the Atlantic Wall bunkers. These structures reveal architecture as a material condensation of dynamic forces—violence, velocity, and control—an insight that extends to contemporary conflict zones such as Gaza, where architecture functions as a weapon of war and surveillance. The text highlights how Virilio’s concept of the accident and his theory of dromology directly inform the investigative practice of Forensic Architecture, whose spatial and temporal reconstructions expose the political and technological logics of state violence embedded in built form.
keywords | Occupied Palestine; Gaza; Forensic Architecture; Paul Virilio.
Per citare questo articolo / To cite this article: E. Weizman, La lunga durata di una frazione di secondo. Prefazione a Paul Virilio, La fin du monde est un concept sans avenir. Oeuvres 1957-2010, Seuil, Paris 2023, a cura di M. Maguolo, “La Rivista di Engramma” n. 230, Natale 2025.