Decriptare il bunker
“Bunker archéologie” di Paul Virilio, Paris dicembre 1975-febbraio 1976
Michela Maguolo
English abstract
Denn das Schöne ist nichts / als des Schrecklichen Anfang
Rainer Maria Rilke, Duineser Elegien
Premessa
Le bunker est devenu un mythe, à la fois présent et absent, présent comme objet de répulsion pour une architecture civile transparente et ouverte, absent dans la mesure où l’essentiel de la nouvelle forteresse est ailleurs, sous nos pieds, désormais invisible (Virilio 1975, 42).
Con queste parole Paul Virilio sintetizza i significati che si sono stratificati intorno al bunker, le inquietudini e gli interrogativi irrisolti. Un mito che si alimenta della dialettica tra presenza e assenza, visibile e invisibile, nella sua opaca densità materica di costruzione bellica che si contrappone alla cristallina trasparenza dell’architettura civile. E la sua bellezza, il fascino che indiscutibilmente esercita su chi l’osserva, prelude al tremendo della sparizione nel sottosuolo delle nuove forme di difesa.
È noto che il primo, fortunato libro di Virilio, Bunker archéologie, appunto, nasce come catalogo di una mostra. Meno conosciuti sono invece l’occasione e il contesto in cui la mostra viene concepita, il modo in cui essa si configura e come il processo di mitizzazione del bunker è raccontato attraverso l’allestimento. I materiali conservati negli archivi del Centre Pompidou (Archives Centre Pompidou; vedi, in calce, il Regesto documenti archivistici) offrono la possibilità di ricostruire il progetto, l’aspetto, i significati della mostra; illuminano alcune scelte e alcuni passaggi del libro; tracciano percorsi e suggeriscono intrecci con altre ricerche che Virilio in quel periodo sta conducendo. Di questo si parlerà in questo articolo che ripercorre la mostra leggendone i disegni, le fotografie, i testi.
I bunker, Virilio e François Mathey, direttore del CCI
Il 10 dicembre 1975 nella sede del Musée des Arts Décoratifs si apre la mostra “Bunker archéologie” che rimane aperta al pubblico fino al 29 febbraio dell’anno successivo. Il promotore è François Mathey (1917-1993), direttore del museo e fondatore, nel 1969, del Centre de Création Industrielle (CCI), il centro di studi istituito per diffondere la conoscenza delle relazioni fra l’individuo e i diversi aspetti della vita quotidiana attraverso lo studio e lo sviluppo di una produzione industriale che sia esito di ricerca strutturale e formale coerente. Il Centro viene accorpato al coetaneo Centre national d’art e de culture Georges Pompidou a partire dal 1973.
François Mathey, convinto sostenitore dell’unità delle arti, è un infaticabile organizzatore di esposizioni su aspetti e protagonisti di tutte le arti e di quella contemporanea in particolare (Gilardet 2014): nei trent’anni in cui lavora per il museo, di cui diventa direttore nel 1967, espone fra gli altri Henri Cartier Bresson e Picasso, Léger e Matisse, Delvaux e Yves Klein, e dedica nel 1961 a Jean Dubuffet la prima retrospettiva. Figura poliedrica – prima di diventare conservatore al Musée des Arts Décoratifs era stato Inspecteur générale des monuments historiques, ma era anche fautore di un rinnovamento dei luoghi di culto e aveva appoggiato l’iniziativa per la cappella di Ronchamp – all’inizio degli anni ’70 comincia a proporre letture non convenzionali sulle arti e a esplorarne le nuove direzioni. Dopo la contestata mostra al Grand Palais, Douze ans d’art contemporain en France 1960-1972, retrospettiva sui movimenti avanguardisti francesi, offre sguardi critici su alcuni temi del dibattito culturale del tempo, rimettendo in discussione scelte, convenzioni, esclusioni. Mette a confronto la pittura pompier e gli impressionisti, propone l’interrogativo sui confini fra arte e artigianato. Per il CCI, Mathey realizza mostre sul design, la moda, l’architettura – anche quella ‘marginale’ – e promuove progetti sull’urbanistica e la gestione degli spazi pubblici.
In questo contesto di esplorazione di percorsi poco frequentati, di esperienze rimosse e di nuove quotidianità, per indagarne e comprenderne senso e influenze nasce l’idea della mostra “Bunker archéologie” che lo stesso Mathey propone a Paul Virilio (1932-2018), come si evince da uno scambio epistolare fra i due, conservato negli archivi del Centre Pompidou. Mathey, nell’invitare, nell’agosto 1975, l’ex-direttore dell’École Spéciale d’Architecture a esporre nelle gallerie del Musée, spiega la proposta esprimendo il vivo interesse con cui segue da tempo le ricerche che Virilio sta portando avanti e assicura che la mostra e il catalogo rifletteranno il senso di queste ricerche. Virilio, come lui stesso in diverse occasioni tiene a precisare, inizia nel 1958 a studiare le fortificazioni della Seconda guerra mondiale e i bunker del Vallo atlantico in particolare, fotografandoli e raccogliendo documentazione al riguardo. Il numero 6 di “architecture principe”, la rivista che ha fondato e diretto con Claude Parent, come manifesto del gruppo omonimo, raccoglie i primi esiti della ricerca sotto il titolo di Bunker archéologie: queste fortificazioni sono lette come traccia di una “nouvelle architecture fondée non plus sur le proportions physiques de l’homme, mais sur ses facultés psychiques”, e di una urbanistica “où l'analyse élémentaire de la réalité sociale enfin dépassée, l'habitat pourrait se combiner intimement aux possibilités secrètes des individus”, spiega nel 1966 (Virilio 1966b). Negli anni successivi porta il tema del bunker nelle sue lezioni all’École Spéciale d’Architecture (Cohen 2011, 9) e nei seminari che tiene durante il '68 al Théâtre de l’Odéon. Vi ritorna nel 1971 nella recensione per la rivista “Esprit” dell’autobiografia di Albert Speer, Erinnerungen, uscita l’anno prima (Virilio 1971).
Dopo una prima formazione nel settore delle arti applicate, Virilio si era dedicato all’architettura e all’urbanistica e il sodalizio con Claude Parent lo porta fra il 1963 e il 1966 alla realizzazione della chiesa di Sainte- Bernadette-du-Banlay a Nevers e ad altri progetti improntati alla “funzione obliqua”. La partnership con Parent e il gruppo Architecture principe, iniziata nel 1963, viene meno con il 1968, quando, racconta Virilio a Sylvère Lotringer, “Claude Parent went to the right, and I went to the left” (Virilio Lotringer 2001, 38). Prima, proprio nel numero dedicato ai bunker della rivista-manifesto, Parent firma un ritratto del suo socio lapidario e potente, che tiene insieme personalità e metodo, indole e modi di ricerca attraverso i quali emerge che lo “squilibrio permanente” che è al centro delle sue indagini è parte del suo pensiero, della sua biografia.
Paul Virilio est un lecteur de réalité. Maître ès lecture du réel, il n'est pas dans ce domaine analyste mais créateur. Dans le présent, il traque le futurible. Il trie, il choisit, il rassemble ; dans ses mains, les plus petits indices sont évidences ; bousculant la hiérarchie de l'actualité, il est archéologue du futur. Echappant aux pièges des miroirs, oubliettes de l'avant-garde, fermé à l'appel des sirènes, tentation des bonnes consciences repues, homme d'action, massif, fruste, entêté, il trouve les armes pour agir sur le réel. Homme de foi, il s'engage en un déséquilibre permanent. C'est pour briser le péché originel qu'il nous fait découvrir aujourd'hui les chefs-d’œuvre d'un ancien monde de terreur (Parent 1966).
Da queste premesse, non ci si può aspettare dalla mostra per il CCI una convenzionale ricognizione sulle costruzioni militari della Seconda guerra mondiale, il Vallo atlantico e il suo valore strategico e tattico, sul modello del libro che Paul Gamelin aveva pubblicato l’anno prima, Le Mur de l’Atlantique. Le blockhaus de l’illusoire. Non sarà neppure una lettura dell’architettura di guerra del Novecento, seguita nei suoi sviluppi e confrontata con quella del Movimento moderno, delineata da Keith Mallory e Arvid Ottar in Architecture of Aggression, uscito nel 1973. Sarà piuttosto il tentativo di decifrare attraverso il bunker l’intreccio fra tecnologia, industria, territorio, società civile e spazio militare nel mondo contemporaneo. Una riflessione brillantemente sintetizzata nel binomio “bunker archéologie”, coniato nel 1966 e riproposto otto anni più tardi, dove l’attività archeologica, di scavo concreto per liberare i manufatti semisepolti dalla sabbia, e metaforico, husserliano, di ricerca di unità di senso in ciò che costituisce il mondo dell’esperienza, scruta “cet univers souterrain” alla ricerca di una delle “figures secrètes de notre temps”, si legge ancora nel testo del 1966 (Virilio 1966a).
Il bunker, in questo binomio, è emblema dell’architettura bellica novecentesca più che una precisa tipologia costruttiva. Lo stesso, Virilio nel glossario allegato al catalogo della mostra, non ne fornisce una definizione tecnica ma usa il termine alternativamente a 'casamatta' e indicando, per esempio, nel “tobruk” il bunker più comune. È un’immagine che racchiude in sé il senso del passaggio d’epoca, il discrimine fra un mondo e un altro, come si legge nel saggio del catalogo: il bunker è “protohistorique d’un âge où la puissance d’une seule arme est devenue telle qu’aucune distance n’en protège vraiment” e insieme “dernière geste théâtrale d’une fin de partie de l’histoire militaire occidentale” (Virilio 1975, 42).
I bunker al museo
La mostra si tiene, come anticipato da Mathey, in alcuni spazi del Musée des Arts Décoratifs in rue de Rivoli, in un’ala del palazzo del Louvre. Una sequenza di sei ambienti in ognuno dei quali è illustrato attraverso fotografie, mappe, disegni e testi uno dei temi in cui la mostra è articolata. Il progetto di allestimento è curato dallo studio Volume Edouard Maurel e consiste di grandi pannelli in cui 113 fotografie scattate da Virilio fra il 1958 e il 1965 sono riprodotte a tutta altezza o in raggruppamenti e assemblate in una composizione narrativa che si snoda con continuità lungo le pareti delle stanze.
Lo sviluppo in pianta e in alzato del progetto di allestimento descrive con precisione la disposizione delle immagini lungo il percorso espositivo, riportando i titoli delle sezioni principali e dei temi in cui queste sono articolate, e permette di cogliere l’intera sequenza che le fotografie prese durante la mostra registrano solo parzialmente. Infatti, le foto, una decina in tutto, una o due per ogni stanza, rappresentano i soli materiali esposti e lo scatto solitamente riprende l'insieme, oppure gli spazi con il pubblico – poche figure che si stagliano sul fondo delle immagini in bianco e nero, persone che osservano le immagini, bambini che corrono, la silhouette tondeggiante di un custode seduto. Per la lettura della mostra nella sua interezza e relazione fra le parti molto utile si è rivelata la tavola del progetto poiché ogni immagine è ridisegnata al tratto, evidenziando le linee essenziali delle costruzioni e del paesaggio, così che appaiono in risalto gli elementi principali e i rapporti tra loro, e risulta ben leggibile il senso della disposizione delle foto e della risonanza cercata tra esse.
Cinque sono le sezioni – “I. Le paysage de guerre ; II. Anthropomorphie et zoomorphie ; III. Les monuments du péril ; IV. Séries et transformations ; V. Esthétique de la Disparition” – e il percorso si sviluppa come un progressivo avvicinamento fisico ai bunker, a partire dall’osservazione dei luoghi riplasmati dalla guerra, per illustrare poi l’impatto visivo dei manufatti per i quali si innesca l’analogia con figure umane o animali, in una dimensione temporale e spaziale sospesa.
A questi oggetti, di misure relativamente piccole, seguono le grandi architetture belliche, monumenti al pericolo, alla guerra, di cui si comincia a comprendere ruolo e funzione. Quindi, avvicinandosi ulteriormente, si mettono a fuoco tipologie e soluzioni costruttive e funzionali diverse, riconoscendo aspetti architettonici che vengono posti a confronto con l’architettura civile contemporanea. Infine, il processo di sparizione del bunker, il suo disgregarsi, cadere, scomparire nella sabbia, trasformarsi in altro. Con queste parole ogni sezione è brevemente illustrata nel comunicato stampa:
Le paysage de guerre : Cette section présente l’environnement immédiat du bunker, son insertion dans le site.
Anthropomorphie et zoomorphie : Cette section permet de visualiser les analogies existantes entre le corps animal et le corps minéral du Cuirassement.
Les monuments du péril : Différents types de grands bâtiments : depuis la base sous-marine jusqu’aux ouvrages spéciaux destinée au lancement des premières fusées stratosphériques, en passant par les abris anti-aériens de villes allemandes.
Séries et transformations : Cette section montre des exemples de solutions diverses apportées à des problèmes techniques ainsi que des références à l’influence formelle de l’architecture civile sur la fortification, comme inversement, celle du blockhaus sur les bâtiments actuels.
Esthétique de la Disparition : En conclusion, ce secteur montre les différentes phases de la ruine du bunker : éclatement, basculement, enlisement, ainsi que certaines réappropriations qui font désormais de l’abri guerrier, de paisibles bungalow (Archives Centre Pompidou).
Il programma coincide quasi interamente con la mostra. Mancano in questa riferimenti visivi ai “placidi bungalow” in cui alcuni bunker sono stati trasformati, e dal programma definitivo è stata espunta la voce relativa alla “construction actuelle d’abri atomique” che in una bozza compariva aggiunta a mano.
Alcune differenze si notano invece tra mostra e catalogo. Qui è mantenuto l'ordine dei temi dai bunker nel paesaggio alla loro sparizione, ma la suddivisione, evidenziata nella mostra attraverso i grandi pannelli introduttivi in ogni sala, è ripresa solo in un sommario interno così che le immagini, non tutte e non sempre nella sequenza scelta per la mostra, costruiscono un racconto ininterrotto.
Significativa è l’assenza nel catalogo delle immagini relative al rapporto con l’architettura civile. Il riuso dei bunker, la loro evoluzione e moltiplicazione tra era atomica e guerra fredda, il possibile dialogo tra il bunker e l’architettura moderna, sembrano, in questo specifico contesto, questioni collaterali rispetto alle relazioni tra guerra e territorio che Virilio pone al centro della sua lettura, come dichiara nel comunicato stampa citato:
Il ne s’agit donc pas dans cette exposition, de la présentation d’objets architecturaux mais de l’occasion donnée à chacun de s’interroger sur les conséquences pratiques des théories d’un jeu de la guerre que perfectionnement sans cesse, dans la clandestinité de leur laboratoires, les ingénieurs et les stratèges de toutes les armées du monde (Archives Centre Pompidou).
L’obiettivo è andare oltre l’analisi dell’oggetto in sé, superare la ricerca di analogie o di significati politici ed estetici o definire i possibili caratteri stilistici del bunker: si tratta invece di cercare gli indizi sull’origine di una guerra totale che il bunker rappresenta. Afferma ancora nel testo di presentazione:
Contempler ces masses aveugles, ces édifices inquiétants, bâtis lors de la première guerre totale, c’est regarder un miroir, c’est apercevoir dans l’épaisseur du béton la vitesse et l’impact des projectiles deviner dans la dissimulation du bâtiment, les moyens de sa détection, c’est estimer la violence dévastatrice des forces qui nous ont délivrés. Il faut chercher ailleurs une signification politique et esthétique, en particulier dans le néo-classicisme du régime nazi, dans le bunker il faut voir le vestige de l’ultime fortification de surface réalisée peu avant l’apparition d’une arme qui la rendra caduque : l’arme nucléaire (Archives Centre Pompidou).
Virilio sintetizza infine il senso della mostra che ha accettato di realizzare per il Centre de Création Industrielle e il Centre national d’art e de culture, ed esporre al Musée d’art décoratif. Se aveva aperto il comunicato ponendo l’interrogativo sul valore culturale di fortificazioni e casematte – “Les blockhaus, les casemates, ces monuments du péril que nous côtoyons sur les frontières ou les rivages, ont-ils une valeur culturelle?” – lo chiude affermando che la cultura della distruzione è altrettanto diffusa di quella della costruzione e di essa è obbligo divenire consapevoli, soprattutto nel momento in cui l’istituzione militare è oggetto di dibattito:
Au moment même où une réflexion démocratique sur l’institution militaire se fait jour un peu partout, cette manifestation offre la possibilité d’estimer l’inconnu de cette intelligence de la destruction. A côté des activités culturelles de la construction et de l’art, il y a, nous l’avons trop oublié, cette culture de l’anéantissement (Archives Centre Pompidou).
Una precisazione necessaria, dal momento che l’operazione che sta compiendo potrebbe essere interpretata come una estetizzazione del bunker, la sua trasformazione in oggetto di contemplazione estetica, e per questo esposta in un museo. Il rapporto che il bunker instaura con il museo può essere ricondotto a quello che Virilio stabilisce fra guerra e museo, nel capitolo “La forteresse” del saggio introduttivo al catalogo: la guerra è sintesi e museo di se stessa, è conservazione di sé per proiettarsi verso il futuro. Allo stesso modo, “le fortifications ne visent pas seulement à la conservation d’un pouvoir mais aussi à la conservation de l’ensemble des techniques de combat” (Virilio 1975, 24). L'esaltazione di una bellezza del bunker, misteriosa e inquietante, è una tendenza già in atto e presto si manifesterà per esempio, come si vedrà più avanti, negli scatti del fotografo Jean-Claude Gautrand per il quale il bunker è forma astratta capace di suscitare reazioni emotive (v. Gautrand 1977). Virilio riconduce invece l’innegabile fascino del bunker a un verso di Rainer Maria Rilke, dalla prima delle Elegie duinesi, che introduce la quarta sezione della mostra: “Il bello è solo / l’inizio del tremendo”. La citazione si ferma qui, ma l’elegia prosegue mettendo in guardia da una apparente innocuità del bello che “ammiriamo così perché incurante / disdegna di distruggerci”.
Virilio mette dunque in chiaro fin dalla presentazione l’obiettivo del suo lavoro: interrogarsi e interrogare i bunker sull’intreccio tra guerra e società nella modernità e forse va letta in questa direzione anche l’assicurazione di Mathey, ricordata più sopra, di adoperarsi insieme al Centre perché il senso delle ricerche di Virilio sui bunker non sia travisato. I bunker, scriveva ancora nel 1966, sono “phénomènes d'un moment dramatique de l'histoire contemporaine”, e in quanto fenomeni sono oggetto delle sue indagini e riflessioni, di dissotterramento degli elementi costitutivi per rintracciarne quella che per Edmund Husserl, la cui fenomenologia ispira il pensiero di Virilio, è il senso ultimo, l’essenza (v. Husserl [1932] 2013; Armitage 2013).
Paesaggio con bunker – Le paysage de guerre
Sette grandi fotografie riempiono lo spazio del paesaggio di guerra per raccontare il rapporto tra le strutture difensive e il territorio: quello apparentemente solido delle dune, dell’entroterra, e quello liquido del litorale. Dalle immagini emerge un bunker che è parte del paesaggio, riprende il profilo delle dune, ne prosegue e completa la curva, ne disegna la sommità. Di contro, davanti al mare, il bunker oppone la sua massa solidificata, immutabile, al cangiante elemento dell’acqua.
Di questo rapporto, di come le fortificazioni tendano ad assumere le forme del paesaggio circostante a farsi duna o collina, Virilio parla nel saggio per il catalogo, dove annota la paradossale capacità del bunker, così scandaloso per il suo profilo inusitato quando visto in fotografia, di passare inosservato nell’ambiente naturale e ne denuncia il carattere criptico e continuamente mutevole:
Relié au sol, à la terre qui l’entoure, le bunker, pour se camoufler, tend à s'en différencier des formes géologiques dont la géométrie résulte de forces et de conditions extérieures qui, depuis des millénaires, les ont modelées. La forme du bunker anticipe cette érosion par la suppression de toute excroissance superflue ; le bunker s’use et se polit prématurément pour éviter tout impact, il se love dans le continu du paysage et disparaît ainsi de notre perception, habitués que nous sommes des repères et des ponctuations (Virilio 1975, 39).
In questo camuffarsi, prendere le sembianze del contesto, non c’è tanto l’intento di nascondersi o proteggersi, ma di impossessarsi del luogo, fagocitarlo nel momento in cui si identifica con esso. Il camuffamento diventa strumento per plasmare l’intorno, per trasformare lo spazio in luogo della guerra, da cui l’artificiale condizione propria della guerra che rende artificiale lo stesso ambiente naturale, allontana l’elemento umano, così che il paesaggio un tempo definito dalla natura diventa un paesaggio mai visto prima dove tutto è volatile, pronto a prendere fuoco: un pianeta inabitabile per il soldato e per l’uomo. Il testo che introduce a questa prima sezione della mostra esplora ulteriormente la manipolazione dello spazio connettendola a quella del tempo:
Obstacle continu dans l’espace, la fortification tend à devenir enceinte permanente dans le temps […]. Obstacle permanent, la fortification est un corps qui, chaque jour dans le secret, doit se modifier car dès qu’il se périme, n’augmente plus sa résistance, cette non-progression lui est fatale et il disparaît (Archives Centre Pompidou).
Il paesaggio di guerra diventa “une sorte de boîte à surprises”, la cui delimitazione trasforma l’ambiente naturale in uno spazio artificiale, “une ‘scène’ où la contrainte peut-être fonctionnalisée non seulement au plan physique (fatigue, blessures, mort…) mais au plan psychologique (terreur, égarement, soumission) l’ensemble de ces dommages étant infligés par l’organisation même des terraines circonscrits et donnés à parcourir à l’adversaire”.
Uno spazio reso inabitabile e insicuro, dematerializzato, pericoloso e aleatorio, che si estende alla città, dove il litorale, nel suo essere fronte fluido di guerra, si è spostato: così come spiega Virilio in Essai sur la insécurité du territoire, il saggio cui sta parallelamente lavorando. Uscito nel gennaio 1976, il mese successivo all’apertura della mostra, questo testo contiene una serie di riflessioni che a partire dall’“avvento del cielo” e la saturazione dello spazio scrutano il vivere urbano contemporaneo e in cui i temi di Bunker archéologie trovano risonanza e talvolta approfondimento. Labilità di un territorio reso instabile dalla tecnologia, una nuova forma di guerra, pervasiva, onnipresente, “pura”, come spiegherà alcuni anni dopo (v. Virilio Lotringer [1983] 2008), la paura costante, diffusa alimentata da minacce di ogni tipo antesignana, potremmo aggiungere, della ‘bunker mentality’ che abituerà la gente a diffidare, sospettare di tutto e chiunque, e a sigillare la propria esistenza sono l'oggetto di questo libro.
Insicurezza, terrore e controllo plasmano i luoghi urbani, afferma l’urbanista-filosofo: solo la ricerca di uno spazio critico trasforma l’inabitabilità in luogo ove abitare, poeticamente (v. Virilio 1976, 83-84). È questo forse il senso che Virilio attribuisce ai versi di Hölderlin, tratti da Patmos, posti in apertura della sezione dedicata al paesaggio: “Mais là où est le danger, là aussi croît ce qui sauve” (Wo aber Gefahr ist, wächst Das Rettende auch). Che sia un albero caduto nella città distrutta dalla guerra, sotto il quale una famiglia trova rifugio; il riappropriarsi della città durante il maggio '68; o ancora il ritrovare i piaceri balneari sui bordi del continente – esempi che riporta in Essai sur la insécurité – la salvezza continua a emergere. Risuonano in queste considerazioni echi di Heidegger, che alla poesia di Hölderlin aveva dedicato il saggio “…und Dicherisch wohnet der Mensch…” (“…poeticamente abita l’uomo…”) – ma anche di Henri Lefebvre che a partire da Heidegger e dal suo Costruire abitare pensare aveva riflettuto sull’abitare poetico, il “diritto alla città”, la rivoluzione urbana.
L'être humain (ne disons pas l’homme) ne peut pas ne pas habiter en poète. Si on ne lui donne pas, comme offrande et don, une possibilité d’habiter poétiquement ou d’inventer une poésie, il la fabrique à sa manière” (Lefebvre 1970, 155).
Abitacoli – Anthropomorphie et zoomorphie
Con l’ultima immagine della sezione sul paesaggio di guerra, dove l’ambiente naturale, costellato di piccole costruzioni è racchiuso a destra da una massiccia costruzione dal caratteristico profilo a risega, ha inizio l’avvicinamento ai bunker di cui si evidenzia, in questo secondo capitolo della mostra, lo straniante aspetto antropomorfo e zoomorfo che al primo sguardo si coglie.
Sulla prima parete è ricostruita la graduale scoperta di una torre dalle sembianze di un guerriero dell’isola di Pasqua: quasi una sequenza cinematografica, con le immagini come fotogrammi in cui la torre Karola si intravede da lontano, nel paesaggio, fino a emergere in tutta la sua complessità formale. Un’altra parete è dedicata a piccoli manufatti di cui si suggerisce il riferimento a elmi arcaici, palpebre socchiuse nell’atto di mettere a fuoco, teste incappucciate di acciaio. Ancora, carapaci e gusci, tartarughe giganti che emergono dalla sabbia.
“Heaume de chevalier ? Statue de l'Île de Pâques ?… S’agit-il d’une tortue ?” Si interrogano le didascalie che poi spiegano con precisione lo scopo bellico degli oggetti. Karola, per esempio, vista come un antico guerriero, è una torre per la direzione di tiro situata nell’Ile de Ré. Sulla cima dell’edificio, nella fessura orizzontale collocata al centro della “testa” del guerriero, vi è la postazione per regolare il tiro di una batteria d’artiglieria pesante situata in prossimità.
E la tartaruga con la testa radente il suolo e il grande corpo appiattito ricoperto di scaglie è una postazione di combattimento nel quale la cupola centrale protegge la postazione vera e propria mentre gli elementi laterali – le spalle – nascondono i fianchi della costruzione. La piastra sommitale cela un telemetro, le scaglie di cemento evitano che la superficie liscia e lucente faciliti la localizzazione dell’opera da parte dell’avversario.
La forma antropomorfa è sia simulazione di forza e di collera guerriera – “des danses de guerre minéralisées” – sia rivestimento: l'abito che il soldato indossa e che diventa parte di sé. Un rivestimento che richiama quello della mummia protetta dal sarcofago, dalla cassa e dalla mastaba.
Un abito che diventa un abitare, non nel senso di “dimorare”, precisa Virilio, ma come “revêtement” per un’azione di cui la casamatta è lo strumento. Il significato del bunker oscilla tra quello di abito-uniforme-corazza, habitat che si fa rivestimento e paesaggio reso inabitabile (v. anche Virilio 1975, 37). C’è perfetta aderenza tra involucro e contenuto, spazio e azione.
Ces bâtiments ne sont donc pas seulement des réceptacles mais des habitacles, c’est ce qui les distingue de l’architecture ordinaire et leur donne ce caractère anthropomorphique. Il existe en effet un étroit rapport entre la fonction de l’arme et celle de l’œil. L’embrasure anticipe une relation entre le bunker et les limites du champ de tir, la fente de visée comme le plissement d’une paupière, rétrécit le champ visuel à l’essentiel, à la cible, dans un but de protection de l’organe intérieur (en l’occurrence l’homme qui vise), mais cette protection s’identifie à un surcroît d’acuité. On évacue avec le rétrécissement de la pupille technique, à la fois les risques de coup qui tendraient à détruire l’organe humain mais on élimine aussi les à-côtés du paysage. Il y a synesthésie : la protection réalise l’acuité et en retour l’acuité protège (Archives Centre Pompidou).
Abitacoli, dunque, il cui carattere antropomorfo è dettato dalla coincidenza tra oggetto e azione. Sono infatti destinati a ospitare chi li occuperà in vista di una precisa azione e l’abitare qui non è ammesso, poiché abitare, spiega in Essai sur l’insécurité, è “in-vestire un luogo”, e non ri-vestirlo, è appropriarsene attraverso l’uso.
Nella coincidenza tra pupilla umana e pupilla tecnica il bunker, come oggetto progettato per un solo specifico uso, è un’architettura “suicida”, nel senso indicato in Essai: come ogni architettura esclusivamente funzionale, anche il bunker, “en tendant à évacuer la diversité des possibles, il tend à évacuer la diversité des situations qui caractérise la durée-étendue du bâtiment” (Virilio 1976, 202). È in un certo qual senso una macchina celibe, incapace di produrre altro rispetto a quello per cui è stata concepita.
Grandezza e memoria – Le monuments du péril
Nel gioco di richiami tra una sezione e l’altra, il passaggio dalle forme antropomorfe e zoomorfe a quelle monumentali è sottolineato dal contrasto tra le enigmatiche e organiche sagome che emergono dalla sabbia nell’ultimo pannello della seconda sala e la geometrica massa della base sottomarina di Lorient, che oppone al mare la rigorosa successione di campate destinate a ospitare gli U-boot.
A questa seguono le forme massicce, a tratti stereometriche, di altre basi sottomarine o missilistiche, fino all’enorme rifugio dello Sportpalast di Berlino. Si tratta di costruzioni all’interno o nei pressi di centri abitati. Invece, sulla quarta parete, isolata rispetto alle altre, sono esibite le immagini delle torri di lancio dei missili V1 e V2 adagiate sulle dune.
A differenza delle altre, in questa tappa del percorso espositivo manca un testo introduttivo: vi sono invece didascalie dettagliate su dimensioni, organizzazione, funzioni delle principali strutture. Virilio si sofferma sulla particolarità del processo costruttivo dei due grandi siti di lancio per missili a lunga gittata – “stratosferici” – ricordando che in un caso, Watten, la soletta di copertura era stata gettata all’esordio dei lavori per permettere di realizzare l’opera al riparo dei tiri avversari e successivamente sollevata nella posizione finale tramite martinetti, mentre nell’altro, Wizernes, la cupola era stata gettata direttamente sulla sommità della collina, scavata poi dall’interno per ottenere lo spazio necessario.
La dimensione monumentale attribuita alle opere belliche qui raccolte a un primo sguardo sembra riferirsi alla scala di questi manufatti, secondo l’accezione che estende l’idea di grandezza insita nel monumento a oggetti dalle misure inusitatamente ampie: “grands blocs”, “grands blocs bases sous-marine”, “tours de lancement V1-V2” sono le tre parti in cui è organizzata la sezione, nel progetto di allestimento.
La grande dimensione implica il forte impatto fisico di queste costruzioni, il loro imporsi nello spazio modificandone la percezione; implica il loro carattere di permanenza, indelebilità. Sono segni ineludibili che interagiscono con la vita quotidiana il cui senso chiede di essere interpretato.
Qui si innesta il significato proprio di questi monumenti al pericolo: memoria e monito, documento e testimonianza di una condizione di instabilità, insicurezza, paura, distruzione di cui le costruzioni qui convocate sono manifestazione diretta e indiretta. Per questo devono essere ricordate e conservate, non cancellate o trasfigurate.
Ancora nel 1966 Virilio aveva denunciato la scomparsa imminente di “diecimila monumenti”, in un contesto politico e culturale, quello della rivista radical “architecture principe”, evidentemente estraneo a ogni retorica o celebrazione del passato: il mantenimento di questi oggetti doveva piuttosto servire a ricordarne il significato e comprendere le loro ricadute sul presente e il futuro. Virilio, avverte Parent in quel ritratto citato prima, è un archeologo del futuro, che cerca nel presente – e nel passato – le tracce del futuro.
Nella mostra, le torri di lancio dei missili V2, rivolte non per caso verso Londra e New York, sono insopprimibili tracce di una volontà di annientamento del mondo e lo Sportpalast di Berlino è il luogo dove Goebbels nel 1943 aveva platealmente dato avvio all’offensiva più potente. Così Virilio racconta l’episodio nella didascalia all’immagine, che in realtà raffigura il rifugio civile costruito tra il 1943 e il 1945 accanto allo Sportpalast che era stato demolito nel 1973:
C’est un peu le monument de la guerre totale. Dans ce même SportPalast le 18 février 1943, Goebbels au cours d’un meeting, provoquait le peuple allemand : « Voulez-vous la guerre totale ? la voulez-vous encore plus totale, plus radicale que nous ne pouvons l’imaginer aujourd’hui ? L’approbation des participants nazis permit au gauleiter de conclure : “ Alors, peuple, que la tempête éclate ! ” (Archives Centre Pompidou).
Variazioni sul tipo – Séries et transformations 1
La sezione “Séries et transformations” guarda ai bunker come costruzioni, ne illustra tipologie e soluzioni a questioni tecniche, cerca confronti con l’architettura civile, suggerendo esempi di reciproca influenza. Più corposa delle altre, si sviluppa in due sale lungo le quali sono disposte le circa quaranta fotografie attraverso le quali è posto in evidenza l’aspetto seriale del bunker e il suo articolarsi in decine di forme diverse. Il testo introduttivo elenca cinque categorie principali di bunker, che a partire da una pianta-tipo assumono forme diverse sulla base delle funzioni individuate dalla Organisation Todt: bunker per mitragliatrici, a cupola corazzata, bunker d’osservazione, di difesa antiaerea e bunker passivi, destinati cioè non al combattimento ma al riparo, alle trasmissioni, al comando. Virilio osserva che il tipo si diversifica ulteriormente per adattarsi alle condizioni geografiche e strategiche del contesto e alle armi di cui ogni bunker sarà dotato: non sempre armi standard, anzi, spesso recuperate dagli arsenali degli eserciti sconfitti che obbligano a modificare gli spazi interni e la stessa forma delle feritoie.
Anche la disponibilità di materiali da costruzione incide sulle scelte di edificazione: la penuria di acciaio e legno costringe a modificare i metodi costruttivi, riducendo l’armatura delle strutture e usando direttamente i blocchi di cemento come casseforme. Prodotto dell’industria bellica, il bunker è progettato come standard che attraverso forma, dimensioni e quantità di materiale risponde a ogni esigenza individuata, in un controllo totale di costruzione, funzione, aspetto e risposta ai risultati attesi. Macchine efficienti i cui manovratori sono intercambiabili e possono orientarsi e prenderne la guida proprio in virtù dell’universalità del modello. Il progetto consente un margine di adattamento al contesto in termini di camuffamento, e, negli ultimi tempi, di sostituzione dei materiali da costruzione o di armamenti non più disponibili. Le decine di Regelbauten, i modelli standardizzati progettati come variazioni di tipologie inizialmente definite, sono quindi ulteriormente elaborati e adattati, dando luogo a manufatti che sono nei fatti sempre diversi.
La sequenza delle immagini non segue le cinque tipologie elencate e vede invece alternarsi, nelle due stanze, diversi modelli di batterie – grandi, piccole, mobili, costiere - con esempi di facciate, osservatori, dettagli costruttivi, disegni di piante e sezioni, le cui didascalie forniscono precise definizioni di ogni tipo di costruzione. Si forma così un vero e proprio dizionario illustrato che viene riproposto come glossario nel catalogo e consente di orientarsi tra oggetti le cui caratteristiche si differenziano talvolta per minimi dettagli. Si apprende ad esempio, nel confronto tra diversi fronti di fortificazioni, che la presenza di profili ad angolo arrotondato o tagliato, introdotti per ovviare alla fragilità dell’angolo retto, è dovuta a diversi costruttori: i primi progettisti di queste fortificazioni usavano l’angolo tagliato, l’Organisation Todt, guidata da Albert Speer, quello smussato; si scopre ancora che nel “fronte Todt”, la tipica facciata caratterizzata da un profilo a risega, la strombatura verso la feritoia consente da un lato una maggiore mobilità del pezzo di artiglieria, dall’altro di deviare i proiettili provenienti dall’esterno.
A fronte delle 40 immagini di bunker esposte, vi sono solo quattro tavole con piante e sezioni quotate. Fra i materiali d’archivio vi sono le riproduzioni dei disegni che probabilmente costituivano le basi delle tavole. La grafica è tradizionale, con informazioni sulla destinazione d’uso di ogni ambiente, l’ampiezza dell’angolo di tiro, il terreno tratteggiato, lo spessore dei muri in cemento colorato di grigio. Gli stessi disegni vengono rappresentati nel catalogo con una grafica molto più astratta: scomparse le diciture nelle piante, il senso di queste architetture è consegnato allo spessore nero dei muri in sezione che così diventano preponderanti rispetto agli spazi vuoti, enfatizzando la pesantezza di solette e pareti. Nel frontespizio, interamente nero, una piccola costruzione fortificata sarà proposta in negativo con i pieni bianchi e i vuoti neri: ciò che l’occhio registra è solo l’enorme spessore del muro che grava sugli spazi interni, annientando la dimensione di questi ultimi.
Bunker architecture – Séries et transformations 2
Il tipo e le sue variazioni occupano quasi tutto lo spazio a disposizione. Una sola parete, isolata, è dedicata ai rapporti tra architettura bellica e civile: nonostante ognuna sia governata da proprie leggi, una reciproca influenza è inevitabile. Così spiega Virilio:
Même si l’architecture militaire possède sa propre logique qui n’est en fait que la conséquence de la dialectique de l’arme et de la cuirasse, elle n’en subit pas moins l’impact des procédés de mise en forme, en usage dans le domaine civil. A l’inverse, elle inspire parfois les constructeurs des bâtiments civils… c’est ici le lieu d’interférences nombreuses qui vont de la pure analogie au simple effet de surface, esthétique ou décoratif (Archives Centre Pompidou).
I sei esempi di vicendevole influsso che Virilio propone non compariranno nel catalogo, così che delle riflessioni su intrecci e sviluppi del tema che Virilio propone nella mostra non restano che le fotografie della sala e le brevi note dattiloscritte. Molteplici possono essere i motivi di questa omissione, dall’esigenza di non spostare l’attenzione dal bunker come emblema dell’avvento della “guerra totale” alla volontà di mantenere una coerenza nel racconto iconografico, centrato com’è sulle immagini dei bunker fotografati anni prima, o semplicemente per banali ragioni di tempo o di spazio. Possiamo solo constatare che il tema diventa nel catalogo un breve cenno sulla scandalosa modernità dell’architettura del bunker. Una modernità che contrasta sia con lo stato di abbandono in cui gli edifici versano e il loro aspetto decrepito, sia con la banalità delle architetture che li circondano (v. Virilio 1975, 9-10).
Vale dunque la pena di soffermarsi su questi esempi e cercare di capire il senso delle scelte, provando anche a contestualizzarle. Solo in un caso, il progetto per una piccola casa di Adolf Loos, l’esempio di architettura civile è affiancato dal suo ipotetico corrispondente bellico; negli altri – la torre Einstein a Potsdam di Erich Mendelsohn, il Goetheanum a Dornach di Rudolf Steiner, il museo Guggenheim a New York di Frank Lloyd Wright, la chiesa di Sainte-Bernadette-du-Banlay a Nevers dello stesso Virilio e Claude Parent, i palazzi dell’Alta Corte di Giustizia e dell’Assemblea a Chandigarh di Le Corbusier – la spiegazione è affidata alla didascalia.
1920 La tour Einstein. Eric Mendelsohn réalisa ce bâtiment pour l’institut d’astrophysique de Potsdam. Ici, le dynamisme de l’architecture préfigure le caractère aérostatique du bâtiment militaire tel que nous pouvons le remarquer dans les tours de direction de tir.
1923 La petite maison Adolf Loos. Cette maquette de l’architecture viennois partisan d’une simplification formelle de l’habitat, en réaction aux excès décoratifs de la maison bourgeoise, semble avoir servi de modèle à ce bunker d’habitation réalisé dans le Sud de la France en 1943.
1924. Le Goetheanum, à Dornach, Steiner. L’expression symbolique de ce monument réalisé en Suisse, annonce par sa masse comme par son type d’ouverture, la brutalité du bunker d’artillerie.
1951. Palais de l’Assemblée à Chandigarh Le Corbusier. Responsable de l’aménagement du secteur urbain entre La Pallice et La Rochelle en 1945, Le Corbusier n’a pu manquer de remarquer la base sous-marine réalisée en 1941 ! Cette influence se retrouve dans le bâtiment de l’assemblée avec le traitement de la dalle de couverture et les appuis qui semblent tomber dans l’eau du bassin, tout comme ceux qui délimitent les alvéoles des submersibles.
1956. Le Musée Guggenheim a New York F.L. Wright. Organisé autour d’une rampe hélicoïdale, le système d’espace de ce musée dont les premières esquisses remontent aux années quarante offre des analogies avec les volume cylindriques des « Luftstchuzraum » et des tours d’observation réalisées par les Allemands entre 1939 et 1941.
1963. Église Ste Bernadette à Nevers P. Virilio et C. Parent. Le traitement des deux masses inclinées qui composent la nef en brisent l’édifice par le travers, rappelle le basculement du monolithe de béton des plages de l’Atlantique. Les études théoriques des architectes trouvent ici une concrétisation adaptée à l’office du bâtiment, lieu de recueillement (Archives Centre Pompidou).
I richiami formali che Virilio rintraccia tra i profili fluidi della torre Einstein e del Goetheanum e le torri e le grandi strutture fortificate stabiliscono un nesso tra architettura organico-espressionista e bunker, un “espressionismo involontario”, spiegherà molti anni più tardi (Virilio Lotringer 2001, 35), non effettivamente “anticipato” o “prefigurato” dalle opere di Steiner o Mendelsohn, come invece scrive nelle didascalie e dovuto, si può ritenere, al carattere tellurico dei camuffamenti, all’aerodinamismo per evitare l’impatto dei proiettili, alla pesantezza delle masse per resistere ai bombardamenti. Anche la diretta parentela tra la stereometrica villa di Loos e la casa-bunker nel sud della Francia appare basata più sulla essenzialità dell’involucro che su una effettiva riflessione, da parte del costruttore della villa-bunker, intorno al rigore formale perseguito dall’architetto austriaco.
Venendo invece ai rapporti tra architettura del Secondo Dopoguerra e costruzioni militari, le analogie che Virilio propone riflettono ciò che per lui è architettura e costituiscono in qualche modo la risposta a un dibattito che da alcuni anni si svolge intorno alla ‘bunker architecture’, dibattito che il numero di “architecture principe” uscito nel 1966 ha, se non innescato, sicuramente alimentato. La rivista “Architectural Design” registra l’uscita del numero, osservando che i bunker – pesanti strutture che potrebbero essere l’opera di giganteschi scultori secondo lo stile corrente (riferendosi probabilmente all’art brut) e per i quali la formula “la forma segue la funzione” vale doppio, sia all’esterno che all’interno – possono anche rappresentare per Virilio e Parent un’ispirazione per le loro opere, ma per quanto riguarda la rivista, l’architettura di difesa è “a lumbering curiosity”, una curiosità goffa e ingombrante (Bunker archaeology 1967). Due mesi più tardi, sempre “Architectural Design” bolla come “culture bunker” (Culture bunker 1967) austeri edifici pubblici, prevalentemente in cemento grezzo e destinati ad attività culturali e sociali come la appena inaugurata Queen Elizabeth Hall, la sala da concerti progettata da Hubert Bennet, capo dell’ufficio tecnico del Greater London Council e caratterizzata da volumi squadrati, rare aperture e cemento lasciato a vista. Il dibattito sulla ‘bunker architecture’ si trova intrecciato in quegli anni con quello intorno al New Brutalism, la corrente architettonica tenuta a battesimo da Reyner Banham su “Architectural Review” alla fine del 1955 (Banham 1955), e di cui lo stesso storico raccoglie in un volume, nel 1966 (Banham 1966), un cospicuo numero di esempi disseminati nel mondo. Materiali e impianti a vista e nessun infingimento strutturale o formale sembrano accomunare i due linguaggi, insieme a una tensione etica e sociale che si contrappone all’aspetto glamour dell’imperante International Style. Ma, mentre il neobrutalismo è un movimento riconosciuto, la ‘bunker architecture’ appare più un’etichetta applicata a edifici dalle superfici scabrose e particolarmente tetri.
Il lavoro che cercherà di stabilire debiti e crediti tra architettura civile e militare è anche il primo studio sistematico sull’architettura bellica del Novecento. Architecture of Aggression – che uscirà anche in un’edizione americana sotto il titolo di Architecture of War, forse per sottintendere, ad uso del pubblico statunitense, che la guerra non è necessariamente atto aggressivo – è pubblicato nel 1973, a firma di Kenneth Mallory e Arvid Ottar, dell’Università di Bath, come esito di uno studio portato avanti da un gruppo di ricerca fin dal 1970. Nato dalla volontà di stabilire il contributo dell'architettura militare alla storia dell'architettura moderna, un apporto che viene ignorato dalla storiografia come constatano i due autori – e la constatazione è ribadita quasi 40 anni dopo da Jean-Louis Cohen in Architecture in Uniform (Cohen 2011, 8-9) –, il libro ricostruisce le tappe principali dell'evoluzione dell'architettura di guerra circoscrivendo l’indagine al periodo 1900-1945 e all'area dell'Europa nord-occidentale, tempo e luoghi dello sviluppo del Movimento moderno. Nell’ultimo capitolo i due autori cercano di rintracciare i fili comuni tra la storia dell’architettura militare e quella civile. Un primo carattere comune è individuato nell’espressione stilistica nazionale molto evidente nei bunker tedeschi, dove l’alta qualità costruttiva, l’uso di forme fluide e una tendenza al "monumental" sono indicati come tipici dell’architettura germanica. Sul lato opposto, dell’influenza che le costruzioni militari hanno esercitato sull’architettura civile, c’è il trattamento delle superfici, con il cemento lasciato a vista, e l’innovazione tecnologica, da cui la prefabbricazione nell’edilizia industriale e residenziale ha ricevuto una spinta decisiva. C’è anche, tra le “superficial stylistic influences”, il debito verso l’immaginario bellico, come nel caso della Walking City degli Archigram ispirata, secondo Mallory e Ottar, al Red Sand Fort sull'estuario del Tamigi e della Chiesa di Sainte Bernadette, stilisticamente ispirata ai bunker costieri tedeschi (v. Mallory, Ottar, 1973, 281). Gli autori tralasciano di osservare che entrambi i casi sono esempi di architettura radical, manifesti e sperimentazioni di modi radicalmente nuovi di vivere gli spazi e le città.
Le opere scelte da Virilio per esemplificare i rapporti tra architettura contemporanea e bunker e le relative note esplicative vanno lette in questo contesto. La chiesa di Sainte Bernadette è manifesto della “funzione obliqua” e la sua concezione deriva anche dall’esperienza degli spazi instabili dei bunker rovesciati, in cui verticalità e orizzontalità non sono più le coordinate essenziali e l’involucro continuo oppone lo spazio raccolto a uno aperto, trasparente. Non un’analogia di immagine, dunque, ma il ricorso a principi di destabilizzazione nei confronti di un mondo non più interpretabile secondo parametri consolidati (v. Virilio 1966a, Gassiot-Talabot 1967).
Un’analogia spaziale accomuna il Guggenheim e i volumi cilindrici delle torri di osservazione, dove non è tanto il profilo a tagli orizzontali che Virilio fa notare – enfatizzato invece anche in letture successive – quanto lo spazio interno elicoidale continuo e generato da un piano inclinato. Per quanto riguarda l’esempio scelto tra le architetture corbusiane del secondo Dopoguerra, Virilio scarta opere in béton brut come l’Unité d’habitation di Marsiglia e la Cappella di Ronchamp, riconosciuti capisaldi del neobrutalismo, e si concentra su Chandigarh di cui descrive nella didascalia la sola sede dell’Assemblea, mentre inserisce nel panello anche la facciata della sede dell’Alta Corte di giustizia. Rileva l’assonanza nell’impostazione delle facciate sull’acqua che Virilio rintraccia fra queste architetture e la base sottomarina di Lorient, possibile fonte di ispirazione formale, come afferma nel breve testo esplicativo. È il rigore dell’impaginato che mette in evidenza, l’angolo retto che resta per Virilio la cifra caratterizzante della poetica corbusiana, l’ortogonalità la cui “tirannia”, spiegherà più tardi, è all’opposto della poetica del movimento Architecture principe, dove la piega e il movimento – la danza – sono gli elementi generatori (Virilio Lotringer, 2001, 39).
Abitare l’in-abituale – Séries et transformations 3
Vi è un’ultima considerazione da fare su questa complessa sezione e riguarda le “transformations”, che finora, a differenza delle “Séries”, non sono emerse: per rintracciarle bisogna guardare a un’immagine, la penultima nella lunga sequenza, in cui l’ingresso in cemento di un bunker è delimitato da due muri in pietra secca. Si tratta di un ‘bunker passivo’, un rifugio non armato, “établi dans un ancien tumulus, sur le golfe de Morbihan”, nella Bretagna del sud: un’architettura funeraria trasformata in struttura militare che “signale la persistance du site du funéraire au militaire” ed è testimonianza di una permanenza d’uso del luogo che supera le funzioni che nel tempo gli vengono attribuite. Il tema non è qui ulteriormente approfondito, ma se ne possono rintracciare senso e importanza per Virilio in altre sedi. In Architecture criptique, dove la stessa immagine è riportata, Virilio osserva:
Après vingt ans d'abandon, l'armée réoccupe peu à peu les bunkers comme l'organisation Todt avait remantelé les forts de Vauban, Vauban des sites gallo-romains qui s'étaient élevés eux-mêmes dans des tumulus. Ainsi se perpétue, au-delà de l'histoire épisodique des styles, celle du contenu des lieux (Virilio 1966c, s. p.).
La vita di un luogo è più significativa di quella delle architetture che su di esso si avvicendano, perché “c’est l’usage qui qualifie l’espace, et non l’inverse”, scrive in Essai sur l’insecurité du territoire, dove le considerazioni sul rapporto tra spazio e funzione, architettura e abitare sono riunite in un capitolo dall’eloquente titolo “Habiter le inhabituel”. La storia dell’architettura si limita a dare conto degli spazi, delle loro dimensioni metriche e delle funzioni assegnate originariamente, senza indagare le dimensioni affettive o le trasformazioni legate all’abitare. La funzione uccide l’architettura e l’architettura funzionalista è suicida, perché non riesce a produrre vita oltre a quella stabilita in partenza, elidendo la diversità dei possibili, cancellando la molteplicità delle situazioni che costituiscono la vita di un edificio (v. Virilio 1976, 202). È invece vitale riconoscere gli adattamenti anche paradossali o trasgressivi, fare attenzione all’utilizzo critico dello spazio, rendere abitabile attraverso l’uso ciò che non è stato concepito per questo: si può dormire sulla panchina di una stazione della metropolitana, o trasformare i bunker della Forteresse Europe in bungalow (v. Virilio 1976, 208): i placidi bungalow cui accennava nel programma della mostra.
“Se la forma scompare la sua radice è eterna” (Jalāl al-Dīn Rūmī) – Esthétique de la disparition
Le ultime immagini di “Séries et transformations” sono il tumulo divenuto bunker e un rifugio interamente sotterraneo, la cui presenza è segnalata da una scala che tra due muri scende nel sottosuolo. Architetture che si trasformano o si nascondono, spariscono dalla superficie per continuare a esistere sotto il suolo.
Aprono, in questo scomparire e nascondersi, all’ultimo capitolo della mostra, “Esthétique de la disparition”, dove appaiono le immagini suggestive di bunker semi-sommersi dalla sabbia, rovesciati, inclinati, in instabile equilibrio su una duna erosa dal mare. La sezione ha inizio con il dettaglio dell’angolo superiore di una costruzione in cemento ormai quasi completamente sparita nella sabbia. La stessa fotografia chiude la sequenza di immagini nel catalogo: la sparizione è qui la conclusione di un discorso e l’apertura a possibili altri discorsi, secondo la linearità dettata dalla lettura in successione delle pagine di un libro. Nella mostra, pur organizzata secondo un percorso, la disposizione spaziale consente di stabilire collegamenti visivi tra oggetti non contingui, e permette la simultanea visione di più immagini, innescando un discorso che riesce a enfatizzare alcune relazioni per poi tornare su se stesso in modo sempre diverso.
Cinque sono i modi in cui si declina l’estetica della sparizione, come si può leggere nella tavola: camuffare, esumare, inclinare, sprofondare, sviare. Tutti sono modi legati a una delle caratteristiche più significative dei bunker, la mancanza di fondazioni: queste sono sostituite dalla piattaforma su cui la costruzione poggia e dalla enorme massa propria che funge da baricentro. Si tratta di una soluzione che offre al bunker una relativa autonomia rispetto al terreno su cui si trova e gli consente di non riportare danni seri dal movimento del terreno causato dai proiettili nemici.
Bâti sur un radier, afin de compenser l’éventuel déséquilibre provoqué dans son environnement immédiat par les cratères des explosions, le bunker n’est plus réellement fondé, il flotte sur un sol qui n’est plus un socle mais une étendue mouvant et aléatoire qui s’apparente en le prolongeant à l’étendue maritime qui lui fait face (Archives Centre Pompidou).
Senza fondazioni, senza radici – l’avere radici profonde è un rischio troppo grande, osserva Virilio, tutto quindi deve essere in movimento per sfuggire alla distruzione – questi oggetti possono sparire, modificarsi, trasformarsi in altro: un bunker rovesciato non è più un bunker, scompare come bunker e continua a vivere come un’altra cosa. La sparizione si manifesta attraverso il rovesciamento, l’insabbiamento, la riemersione e anche il camuffamento, come nel caso della torre di osservazione che assume le sembianze di un campanile. Travestirsi, cambiare identità è un modo di sparire, di essere altrove, osserva Virilio riferendosi al magnate americano Howard Hughes in Esthétique de la disparition (Virilio 1980), libro in cui il tema oscilla tra sparizione e assenza, sospensione dell’essere e dell’esserci, al tempo della velocità e del cinema, emblemi della sottrazione di consistenza all’attimo.
L’estetica della sparizione, così come è raccontata nella mostra, rappresenta la percezione di ciò che non c’è più, e ha come possibile punto di origine l’“estetica del nascosto” che percorre tutta la Poetica dello spazio di Gaston Bachelard, dove l’immaginazione, prima della conoscenza razionale, comprende il contenuto di spazi chiusi, inaccessibili e questo contenuto, proprio perché immaginato, già esiste. Così, riferendosi ad armadi, cassapanche e cassetti chiusi, Bachelard afferma: “per noi, il cui compito è descrivere ciò che si immagina prima che sia conosciuto, ciò che si sogna prima di verificarlo, tutti gli armadi sono pieni” (v. Bachelard [1957] 20112, 28, 141). L’architettura criptica, “infra-architecture”, come la definisce Virilio nel 1966, nascosta allo sguardo, continua a vivere a nostra insaputa (Virilio 1966c), e ciò che possiamo fare è conoscere percettivamente il suo contenuto, divenirne consapevoli attraverso l’immaginazione. Ciò che continua a mostrarsi nell’atto dello scomparire – lo spicchio di cemento che resta sospeso tra apparenza e sparizione – sembra avere, si potrebbe aggiungere, la stessa potenza del frammento in Friedrich Schlegel: “Ein Fragment muß zugleich einem kleinen Kunstwerke von der umgebenden Welt ganz abgesondert und in sich selbst vollendet sein wie ein Igel” (Fragmente, 206). Come una piccola opera d’arte, il frammento, in sé compiuto e chiuso come un riccio, è separato dall’universo, del quale però racchiude l’intero senso. Pur senza fondazioni, con una forma che scompare e diventa altro, il bunker rivela di possedere in realtà radici estese. Si legge nel testo introduttivo di quest’ultimo capitolo della mostra:
Avec le lent retrait des dunes, ces monolithes prennent d’étranges posture, carcasses vides, abandonnées, basculées dans le sable, comme la mue d’une espèce disparue… Mais cette disparition est illusoire et son esthétique masque en fait l’extension du champ de la guerre : avec la seconde guerre mondiale s’achève en effet la génération des fortifications de surface, l’espace militaire se dissimule désormais dans les souterraines comme dans les sous-marins, la surface de la terre est intégralement exposée au feu du ciel trop vaste, l’insécurité qui est la nôtre ne peut être valablement décrite, puisqu'un seul submersible nucléaire recèle dans ses flancs la totalité de la puissance destructrice utilisée lors de la guerre Mondiale (Archives Centre Pompidou).
Dentro la terra e sotto il mare, le nuove fortezze non pretendono di manifestarsi attraverso una forma e la loro pervasività è totale. Prosegue il testo:
La machine d’assaut, la machine de guerre, est donc devenue ici la totalité de la guerre puisqu'avec la dissuasion, l’arme et la cuirasse ne font plus qu’un. L’art de la fortification de surface peut disparaître, l’esthétique de sa disparition signale seulement que désormais les forces de destruction sont plus grandes que celles de la construction (Archives Centre Pompidou).
L’apparente precarietà e la lenta sparizione del bunker nascondono il carattere onnipresente e permanente, nel suo continuo variare, delle nuove forme della guerra.
Uomini, bunker e letteratura. Due episodi intorno a Bunker archéologie
Tra le decine di immagini esposte nella mostra, pubblicate nel catalogo e nove anni prima sulla rivista “architecture principe”, non ci sono rappresentazioni dell’interno dei bunker. Anche quando è preso in considerazione l’aspetto della inabitabilità del bunker, del suo essere elmo, corazza, abitacolo, il fatto che aderisca così strettamente al corpo dell’occupante come un sarcofago, un guscio, e impedisca ogni movimento che non sia quello stabilito dalla funzione, anche in questo caso, non vi sono immagini a mostrare tale condizione: le fotografie sono sempre prese dall’esterno. Nel saggio, Virilio descrive la sua prima discesa all’interno di un bunker, il senso di oppressione tra i muri inclinati, lo spazio stretto, ridotto ulteriormente dallo spesso strato di sabbia che copriva il pavimento (v. Virilio 1975, 8):
La sensation d’écrasement, ressentie dans le circuit à l’extérieur de l’ouvrage, est encore accentuée ici. Les différents volumes sont trop étroits pour une activité normale, pour une réelle mobilité du corps ; tout l’édifice pèse sur les épaules de l’occupant. Comme un habit à peine trop grand vous embarrasse autant qu’il vous couvre, l’enveloppe de béton et d’acier vous gêne aux entournures et tend à vous figer dans une serai-paralysie assez proche de celle de la maladie. Ralenti dans son activité physique mais attentif, anxieux des probabilités catastrophiques de son environnement, l’habitant de ces lieux du péril est oppressé par une singulière pesanteur ; en fait, il possède déjà cette rigidité cadavérique que la protection de l’abri était censée lui éviter (Virilio 1975,13).
Un involucro che consente nulla di più del gioco necessario all’esecuzione dei movimenti previsti, abituando il corpo alla rigidità della morte.
Per Virilio che tra i primi ha intrapreso il viaggio lungo l’intero bordo occidentale del continente europeo per restituire attraverso le immagini il Vallo atlantico, parrebbe che solo le parole siano in grado di dare conto della impossibilità per l’uomo di vivere il bunker. Le immagini dei bunker svuotati, pieni di sabbia, stracci, biciclette abbandonate forse non riescono altrettanto a trasmettere quelle sensazioni.
Virilio si affida alle parole di Ernst Jünger per enfatizzare il carattere arcaicamente inquietante del bunker e pone, nel catalogo, in esergo al capitolo “Le monolithe”, un passo tratto da Giardini e strade. Si noti che, con due sole eccezioni, tutte le citazioni che Virilio riporta a commento di immagini o in apertura di capitoli appartengono ad autori germanici: Hölderlin, Rilke, Jünger, Heidegger, quasi a voler cercare nel pensiero tedesco il senso del rapporto tra uomo natura tecnica e guerra. Il brano citato descrive i bunker come “dimora di industriosi ciclopi metallurgi, privi dell’occhio interiore”, luoghi dove, come “nel ventre delle piramidi o nel fondo delle catacombe”, si manifesta “lo spirito del tempo”, “idolo”, “intelletto” che come il sole nei templi aztechi ha a che fare “con il sangue, con la potenza della morte” (v. Jünger [1942] 2008, 89). Jünger, al tempo ufficiale della Wehrmacht, che aveva combattuto la Prima guerra mondiale come soldato semplice riportandone le impressioni in Nelle tempeste d’acciaio, racconta la sua esperienza nel Secondo conflitto, in Giardini e strade, il primo volume del diario quasi quotidiano in cui annota eventi storici, episodi banali, pensieri, letture che scandiscono per lui la marcia verso ovest, nell’invasione tedesca di Belgio, Lussemburgo e Francia.
Con la compagnia comando entro nel bunker che ci è assegnato, dotato di venti brande e, poiché qui non mi riesce tanto facile prendere sonno, ho tempo di dare un’occhiata in giro nel nuovo ambiente. È più freddo e inospitale di altri luoghi simili visti durante la Guerra mondiale – già solo per il fatto che le dimore di allora erano costruite in legno e terra, rimpiazzati oggi da ferro e cemento. L’architettura è bassa e greve, neanche fosse progettata per delle tartarughe, e le pesanti porte di acciaio, che si chiudono ermeticamente, con uno scatto, contribuiscono a dare l’impressione di essere costretti dentro una cassaforte. Lo stile è tetro, sotterraneo, un intreccio tra l’opera vulcanica di un fabbro e quella grossolana di un ciclope (Jünger [1942] 2008, 79-80).
Il bunker è inabitabile, privo di umanità e calore: anche quando Jünger riesce a ottenere un sacco a pelo di seta rosso, preferisce abbandonare il rifugio in cemento per trasferirsi in una capanna di giunchi che si fa costruire: “rifugio solitario” dove “dopo aver fissato tanto a lungo il cemento del bunker”, scrive, le fascine delle pareti e il tetto di giunchi “sono molto gradevoli e caldi da vedere” (Jünger [1942] 2008, 85).
E infine gli steli slanciati servono a guarnire le pareti e i tetti di tutte le costruzioni che non siano, come i bunker, destinate esclusivamente al combattimento – le latrine, i posti di guardia delle sentinelle, le capanne in cui gli uomini si lavano, cucinano, ripuliscono le armi e che, come nidi, o come intrecci di foglie, sono precariamente attaccate al cemento degli edifici. Se i bunker e i recinti di filo spinato spiccano con la loro pesantezza plumbea nel paesaggio invernale, le fasce gialle e le capanne vi aggiungono un particolare tratto di libertà (Jünger [1942] 2008, 106).
Ferro e cemento non possono competere con il legno e la terra e i giunchi, divenuti anche ornamento appaiono, ruskinianamente, emblema di libertà.
Il bunker rappresenta per Jünger un luogo alienante e straniante per il soldato che deve viverci durante la guerra. Al bunker come luogo in cui si sperimenta la condizione limite dell’esistenza umana, è invece dedicato un romanzo di uno scrittore francese poco conosciuto, Jean-Paul Clébert. Vivere per un tempo lungo, imprecisabile, chiusi all’interno di un bunker, cercando di reinventare coordinate spaziali e temporali, di trasformare la condizione sospesa cui un bunker sotterraneo costringe, in una forma di esistenza, è il tema di Le blockhaus, uscito in Francia nel 1955. Clébert (1926-2011) aveva raccontato in Paris insolite (1952), la sua vita di vagabondo nella Parigi dei primi anni ’50, quando aveva messo se stesso alla prova in un’esistenza senza mezzi, fatta di incontri, conversazioni, ascolti con chi quel tipo di esistenza portava avanti nello spazio e nel tempo aperti al possibile che il periodo della ricostruzione offriva: in quegli anni in cui tutto era ancora indefinito, ogni strada sembrava percorribile,anche quella di una libertà assoluta . Nel romanzo successivo, Le blockhaus, appunto, immagina invece la vita di sei uomini nello spazio bloccato e immobile di un grande bunker-deposito scavato in una falesia della costa normanna, dove i sei, operai forzati al servizio della Organisation Todt nella costruzione del Vallo atlantico, si rifugiano fuggendo dai bombardamenti dello sbarco. Il crollo di un grosso blocco di cemento blocca ogni via d’uscita e gli uomini si ritrovano in uno spazio privo di aperture, privo anche di feritoie, con i soli fori di aerazione collegati chissà dove con l’esterno. Abbondanza di viveri, vestiario e candele prolungano la sopravvivenza del gruppo, che prova in modi diversi a ricostruire la propria vita in attesa di un salvataggio che arriverà molti anni dopo. Clébert mette a reagire i sei personaggi con la dimensione claustrofobica del bunker e fra di loro, provando a immaginare a quali stratagemmi di sopravvivenza come esseri umani i sei ricorrono. C’è chi si immerge nei ricordi, chi riempie le pareti di graffiti, chi, come l’ex insegnante Rouquet, cerca di trovare il senso razionale di quel luogo che invece si sottrae a ogni tentativo di decifrazione e di relazione con il mondo. Indifferente al trascorrere del tempo, al variare della luce e delle stagioni, agli stessi punti cardinali – l’orientamento che Rouquet scopre essere indispensabile per comprendere i luoghi, per collocarsi in uno spazio, e che perciò stabilisce arbitrariamente in un punto qualsiasi del bunker – quell’universo chiuso è fatto di stanze che si susseguono lungo percorsi ad angolo retto. Un “sottomarino di pietra”, secondo un’immagine cui anche Virilio ricorrerà, vasto, labirintico, ma dal soffitto basso, incombente, non concepito per esseri umani. Anche coricati gli uomini avvertono “cette masse de béton, sur soi, écrasante et lourde. Une espèce de cercueil, de caveau de famille” (Clébert, [1955] 2012): l’involucro che per Virilio pesa sulle spalle dell’occupante, il sarcofago che ne preclude i movimenti e diventa preludio di morte.
Uscito in sole trecento copie, tradotto in inglese nel 1958, il romanzo è portato al cinema nel 1973 da Clive Rees, in un film, The Blockhouse, dove la tragicità della condizione dei sei uomini è espressa attraverso i dialoghi e gli sguardi che si scambiano, mentre il bunker resta uno spazio indistinto, ostile solo in quanto chiuso, non per il suo carattere di invivibilità. Anche in questo caso, come nelle fotografie di Virilio, sembra che la condizione antiumana del bunker al suo interno sia irrapresentabile in immagini.
Nachleben di "Bunker archéologie"
Per due anni la mostra "Bunker archéologie“, progettata per essere itinerante, viene ospitata in diverse località della Francia per essere infine donata al museo delle fortificazioni di Thionville (Pompidou). C’è un certo interesse intorno al tema, anche se sarà a partire dal decennio successivo che i bunker e le attrezzature militari dismesse diventeranno argomento di dibattito architettonico e urbanistico. Un paio di episodi negli stessi anni della mostra, testimoniano le prime avvisaglie di questo dibattito e dei risvolti che potrà prendere.
Il lavoro di Virilio diventa per certi versi fulcro talvolta in modo diretto, talvolta a distanza, tra posizioni anche polemicamente divergenti che può essere interessante ricostruire, per tratteggiare, a chiusura di questa analisi della mostra, il contesto in cui prende forma.
Nel 1974 e 1977 compaiono due opere che offrono dei bunker, del “mur de l’Atlantique”, della “Forteresse d’Europe” due punti di vista contrapposti. Il primo è il libro dello storico Paul Gamelin, Le Mur de l’Atlantique. Le Blockhaus de l’illusoire, uscito nel trentesimo anniversario dello sbarco in Normandia. Si presenta come una breve guida che illustra con foto d’archivio le fasi di costruzione della fortezza d’Europa, ed evidenzia le caratteristiche tattiche e le fallaci valutazioni strategiche. Le enormi batterie innalzate per lanciare proiettili verso la Gran Bretagna, con i “Dom bunker”, le casematte-cattedrali dove i cannoni venivano nascosti dopo il tiro, i posti di osservazione e le postazioni di tiro camuffati da grandi magioni tradizionali, caffetterie sulla spiaggia o villette, le complesse strutture quasi interamente interrate, da cui emerge solo la parte superiore delle cupole corazzate, le rotaie anticarro allineate lungo la spiaggia, i cavalli di Frisia sul bagnasciuga: tutte componenti della complicata macchina che non mirava solo a difendere e attaccare, ma anche a creare l’illusione di impenetrabilità e imbattibilità. Il carattere illusorio è rimarcato dalla spiazzante copertina dorata del volume: ingannevole come il faraonico progetto che forse, ipotizza l’autore, adeguatamente armato sarebbe stata davvero inespugnabile. Il tema è dunque l’efficacia o meno dell’enorme struttura, il valore bellico di quei resti che deve essere trasmesso alle generazioni future attraverso il lavoro documentario e non, si legge nella sintesi in quarta di copertina, con approcci da archeologi improvvisati, con un implicito, ma chiaro riferimento polemico alla ricerca di Virilio:
Le Mur de l’Atlantique, trente ans après, s’efface dans le sable des plages où, forteresse oubliée, il est devenu objet d’intérêt pour les néo-archéologues et les estivants curieux. Les autres, tous les autres, à commencer par les enfants, se demandent ce que peuvent bien faire, le long des côtes, ces monceaux de ciment gris (Gamelin 1974).
Assai diverso come impostazione e finalità è il libro fotografico di Jean-Claude Gautrand, uscito nel 1977. Realizzate lungo la costa francese a partire dal 1973 ed esposte nel 1976, dunque in contemporanea o quasi con la mostra di Virilio, in alcune gallerie a Parigi e altrove (v. Floriddia 2012), le fotografie mostrano i bunker come inquietanti rovine. Non integri manufatti in grado di sopravvivere alla storia che li ha prodotti, né documenti di un passato ancora presente, ma affascinanti resti sottoposti all’azione del tempo, più che a quella della guerra, con tutta la potenza evocatrice ed emotiva che questi sono in grado di esercitare sull’osservatore. Il titolo scelto, La forteresse du dérisoire, sembra rispondere a distanza al libro di Gamelin: non tanto la grande illusione – l’illusoire –di essere inespugnabili, quanto la pochezza, la vanità, di costruzioni che dovevano essere indistruttibili e purtuttavia il loro stato attuale mostra quanto risibile fosse quella volontà. La struttura sembra rifarsi all’ultima sezione della mostra di Virilio, “Esthétique de la disparition”, in cui i bunker scivolano, sprofondano, spariscono: “Forteresses”, “Glissement”, “Enlisement”, “Cassures”, “Voies d’accès”, “Engloutissement”, “Traces”, sono i titoli sotto cui sono raccolte le foto di Gautrand (v. Gautrand 1977).
L’album fotografico è accompagnato da due scritti del critico tedesco Georg Ramseger e dell’artista francese Jean-Pierre Raynaud. Il primo mette in guardia dalla malìa di queste rovine recenti, dal fascino della loro massa brutale. Il secondo invece cede a quel fascino, esaltandone la grandiosità e l’esemplarità per l’architettura contemporanea. Per tutti, è il significato estetico del bunker che prevale: immagine, forma, repellente o attraente, oggetto astratto fortemente materico e affascinante nel suo essere chiuso in sé. Raynaud nel 1969 comincia a costruire la propria abitazione a Parigi come una fortezza, un parallelepipedo con pochissime aperture, che a poco a poco, con l’aggiunta di torrette, inferriate, filo spinato viene a prendere l’aspetto di un bunker. L’interno è interamente rivestito delle tipiche piastrelle bianche quadrate che caratterizzano le sue opere di quel periodo e che trasformano la casa in un razionalissimo guscio astratto (v. La Maison de Jean-Pierre Raynaud, M. Porte 1993).
Michel Cournot, critico di “Le Nouvel Observateur”, recensisce piuttosto duramente il libro di Gautrand, in cui rileva “l’irresponsabilità di certi spiriti affascinati dalle bizzarrie”, esteti con “il gusto per il paradosso elitarista” e a questi contrappone l’opera di Virilio, riflessione “sulla tecnica e il potere che merita attenzione” (Cournot 1977). Lo stesso Cournot, che curiosamente non si occupa mai direttamente di Bunker archéologie, aveva scritto nel 1974, sempre per “Le Nouvel Observateur”, un commento al libro di Gamelin, per illustrare il quale ricorre a un’immagine della chiesa di Nevers, in uno strano cortocircuito in cui la recensione sembra il pretesto per contrapporre alle tracce del delirio hitleriano la scandalosa ricerca di una nuova architettura che sulle stesse tracce si fonda (Cournot 1974).
Tra i due poli rappresentati dalle opere appena citate, si inseriscono altri punti di vista, alcuni dei quali si possono individuare in due commenti a Bunker archéologie che portano alla luce due questioni molto diverse: da un lato la constatazione del diffuso bisogno di chiudere i conti con la Seconda guerra mondiale attraverso un processo di elaborazione avventurosa e romantica di quegli eventi, dall’altro la necessità di conservarne le tracce per leggerne lo sviluppo all’interno di un percorso storico che dall’antichità arriva al presente. Georges Schlocker, nel suo articolo, Ueberlebenmaschinen, die das Leben verbergen, uscito sul “T[ages]-A[nzeiger]” di Zurigo, sottolinea l’urgenza di chiarire il posto dei bunker nell’architettura contemporanea per porre in guardia verso la “retromode” che in Francia in quegli anni trasforma l’era nazista in un’opera wagneriana, mentre ciò di cui c’è bisogno è una lettura oggettiva di quei manufatti, macchine per la sopravvivenza che sono sopravvissute a se stesse ma che hanno nascosto la vita anziché proteggerla (v. Schlocker 1975).
L’archeologo Giovanni Uggeri, nella recensione della mostra e del catalogo che pubblica nel dicembre 1976 in “Archeologia medievale” e intitola Archeologia dei bunker, prende invece spunto dal lavoro di Virilio per porre l’accento sulla necessità di salvaguardare le strutture belliche recenti per il loro valore documentario rispetto alla storia militare, sociale, architettonica e della tecnica. Le sue osservazioni, che significativamente escono su “Archeologia medievale”, la rivista fondata l’anno prima da Riccardo Francovich con cui si inaugurano gli studi su questa disciplina, si rivolgono in modo polemico alla cultura archeologica italiana e europea che, sottolinea Uggeri, è dominata dal “peso strapotente della classicità” e tende a cancellare ogni altra traccia lasciata dagli uomini per riportare alla luce le vestigia più antiche. Un’accusa che giustappone la cancellazione fascista di duemila anni di storia urbanistica ai Fori imperiali e la recente distruzione delle fortificazioni che nell’ultimo conflitto erano state costruite a Capo Soprano, sulle colline di Gela, per riportare alla luce i resti di fortificazioni greche. In quest’ultimo caso, osserva Uggeri, sarebbe stato interessante studiare il “ritorno a punti chiave nella difesa costiera del Mediterraneo, ma con soluzioni nuove in dipendenza dei nuovi sistemi d’incursione”. Quindi: “Il Bunker è istintivamente il bubbone terrificante della guerra che agghiaccia ancora le nostre memorie e di cui vogliamo liberarci. Ma cercare di dimenticare, distruggendo ancora, è proprio la strada giusta?” (v. Uggeri 1976, 487). Domanda che nei successivi decenni si porranno storici, funzionari, amministratori, architetti, per i quali il catalogo di "Bunker archéologie”, pubblicato altre due volte in edizioni diverse, diventerà un imprescindibile punto di riferimento.
Ma non sarà in questa direzione, di conservazione di documenti-monumenti, che il lavoro di Virilio proseguirà: l’obiettivo che aveva enunciato nel presentare la mostra, di scavare e portare alla luce la “cultura dell’annientamento”, sarà al centro dei suoi libri e delle sue mostre successive che parleranno di perdita di senso dello spazio in un mondo dominato dalla velocità, di disastri e catastrofi. Il bunker rimarrà riferimento costante, nella sua densità e compattezza senza appigli né fessure, rizomatico e purtuttavia senza radici, inquietante e inafferrabile come solo i monoliti sanno essere.
Regesto documenti archivistici
I documenti preparatori dell’esposizione sono conservati negli archivi del Centre Pompidou (Archives Centre Pompidou), suddivisi in quattro cartelle e non singolarmente numerati. I materiali contenuti consistono in: dattiloscritto del catalogo, scheda tecnica della mostra, comunicato stampa, fatture, fotografie della mostra, corrispondenza e contratti relativi al prestito e alla donazione dei materiali, preventivi di spesa, copia eliografica del layout della mostra, stampe delle fotografie esposte, stampe delle fotografie eseguite nel corso della mostra, testi e didascalie per ognuna delle sezioni.
– ACP 1992W001/002 “Bunker archéologie – Paul Virilio” catalogue textes dactylographiés.
– ACP 1992W002/001 “Bunker archéologie – Paul Virilio”: correspondance.
– ACP 1994W033/074 “Bunker archéologie – Paul Virilio”: communiqué de presse, tapuscrit du catalogue, cartons d’invitations, correspondance, photographies, diapositives, contrats, budget, factures, devis, coupures de presse, projet, 1975-1976.
– 1994W033/297 “Bunker archéologie – Paul Virilio”: fiche technique, communiqué de presse, devis transport, photographies, correspondance, contrats, 1975-1978.
Riferimenti bibliografici
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P. Virilio, S. Lotringer, After architecture: a Conversation translated by Michael Taormina, “Grey Room” 3 (Spring 2001), 32-53.
Filmografia
- The blockhouse, regia di Clive Rees, 1973.
- La Maison de Jean-Pierre Raynaud, regia di M. Porte, 1993.
English abstract
It is well-known that Paul Virilio’s first and seminal book, Bunker archéologie came into being as the catalogue for an exhibition in 1975. Less well-known are the occasion and the context the exhibition was conceived for, the way the “archaeological exploration” of the bunker and its “myth-making” process was recounted through the setting up of the exhibition. The documents preserved in the Archives of Centre Pompidou in Paris allow us to reconstruct the purpose, project and form of the exhibition; they cast new light on some aspects of the book and suggest intertwinings with other research Virilio was working on at the same time as well as with contemporary events and books on the same topic.
This essay analyses texts and photographs, notes and drawings and compares them with Virilio’s writings; it identifies possible sources and resonances. And, after following the exhibition itinerary along its five stages – war landscape; anthropomorphy and zoomorphy; the monuments of peril; series and transformations; an Aesthetics of disappearance – it proposes two further paths. In the first, Virilio’s approach to human life inside a bunker is compared with those emerging from two literary episodes, Gardens and Roads by Ernst Jünger and The Blockhaus by Jean-Paul Clébert; in the second, attention is focused on some interpretations of the bunker that begin to appear in the 1970s, between history and aesthetics, preservation and architecture. None of them coincides with the direction that Virilio will give to his further investigations. The aim he announced in the presentation of the exhibition – to excavate and bring to light a “culture of annihilation” – will be central to his future books and exhibitions that will tackle, on one hand, the loss of sense of space in a world dominated by speed, and on the other, disasters and accidents seen as the events that permeate our idea of the world. The bunker, in all this, will remain a constant reference, in its compact density, rhizomatic yet rootless, disquieting and unseizable.
keywords | Centre Pompidou; François Mathey; Jean-Paul Clébert; War and architecture; Atlantic Wall; Rootless Architecture; Monolith; Bunker architecture.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: M. Maguolo, Decriptare il bunker. “Bunker archéologie” di Paul Virilio, Paris dicembre 1975-febbraio 1976, “La Rivista di Engramma” n. 185, ottobre 2021, pp. 16-60 | PDF