"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

117 | giugno 2014

9788898260621

Mythos, immagini e montaggio cinematografico: la lezione di Victor Oscar Freeburg

con una Introduzione di Michele Guerra

da: Victor Oscar Freeburg, L’arte di fare film [1918], Diabasis, Parma 2013, a cura di Michele Guerra
edizione originale The art of photoplay making, The Macmillan Company, New York 1918

English abstract
Composizione pittorica nelle forme fluide

Si è già detto che i valori pittorici nel film ideale dovrebbero essere organizzati in modo tale che, se l’azione dovesse improvvisamente fermarsi in uno qualsiasi dei momenti pittorici che la storia deve contenere, il “fotogramma” ottenuto potrebbe essere considerato bello sulla base degli stessi standard che normalmente applichiamo alla pittura. Questa esigenza di composizione artistica dipende dal fatto che in molte azioni rappresentate figurativamente certi istanti pittorici, o momenti, sono più impressionanti e memorabili del movimento pittorico. Ora, senza contraddire quanto precedentemente detto, mostreremo che molti soggetti in natura e nell’arte sono più belli e memorabili in movimento piuttosto che in forma statica, e che quindi il compositore cinematografico esperto deve essere in grado di selezionare e comporre efficacemente non solo i momenti, ma anche i movimenti.

La sua formazione inizierà con lo studio della danza e della pantomima, arti antiche che utilizzano essenzialmente la bellezza e l’espressività del movimento umano. Trarrà ispirazione osservando i movimenti affascinanti degli uccelli, degli animali e dei pesci, degli alberi, delle nuvole e delle onde, movimenti che nessuna delle arti antiche può rappresentare. Osserverà come pittori e scultori hanno affrontato il problema di suggerire, senza poter rappresentare, i movimenti attraverso un mezzo statico. Sentirà tutta la responsabilità e intuirà la grande ricompensa quando si renderà conto che per la prima volta nella storia è diventato possibile catturare e rappresentare nell’arte qualsiasi movimento che l’occhio umano possa percepire, persino quei movimenti non visibili a occhio nudo.

Potrebbe essere utile vedere in quali casi il movimento di un soggetto è più bello o attraente dello stesso soggetto a riposo. Prendiamo ad esempio la semplice figura di un cerchio. Che cosa è più bello da vedere, il cerchio di un bambino che rotola sul manto erboso o lo stesso cerchio nelle mani del bambino o appoggiato sull’erba? Il cerchio roteante che i bambini descrivono con entusiasmo oppure un qualsiasi cerchio fisso, come un anello d’oro?

Il cerchio che gira ha un grande fascino sia nel gioco dei bambini che nell’arte della danza. Per questo motivo Giulio Romano non si è accontentato di raffigurare Apollo e le Muse in cerchio, ma ha voluto suggerirne il movimento. Ora consideriamo uno schema di cerchi statici con lo stesso centro, come per esempio il disegno su un bottone. Nessuna composizione statica di cerchi potrà mai essere tanto affascinante quanto quella dinamica che si crea sulla superficie di uno stagno quando un sasso è appena andato a fondo. Qualsiasi sia la spiegazione, è sempre vero che il bambino quanto la nonna osservano con piacere i cerchi che si originano da un punto fisso e che si rincorrono in tutte le direzioni fino a svanire in questo vano inseguimento. Nessuna istantanea di questo schema di cerchi potrebbe mai provocare lo stesso piacere visivo. Un effetto simile può essere ottenuto da cerchi che si contraggono verso un unico centro, un fenomeno che si può osservare dal binario della metropolitana quando il treno si allontana nel tunnel. Un fenomeno di questo tipo è quello del vortice d’acqua dove le linee si precipitano a spirale verso il basso fino a svanire in un punto. Se è vero che questi effetti sono più belli in movimento che in forma statica, il compositore cinematografico è ben felice di poterli rappresentare nel film.

Ma dovrebbe anche spingersi oltre: dovrebbe trasferire questi principi fondamentali di fascino visivo su qualsiasi soggetto filmico laddove possano essere applicati. Il cerchio che gira, per esempio, può essere applicato a giochi, danze, manovre militari, gruppi di animali, e via dicendo, producendo sempre un risultato che è visivamente pittorico. Le linee curve dello scrosciante Niagara possono essere trasferite su una folla che si riversa fuori da un edificio. Le linee precipitose e splendenti di un’onda che si scaglia su una roccia possono essere utilizzate da un gruppo di danzatrici che sventolano i foulard; le linee irradianti di un fuoco d’artificio possono riapparire in una truppa di soldati che si schiera su una dolce collina. Le linee ondulate di un nastro che fluttua nel vento possono, a rallentatore, ricordare un gregge di pecore che scende da un sentiero di montagna, o il fronte di un esercito che ondeggia di fronte all’attacco nemico. Il regista può rappresentare questi effetti ottici esattamente come li vede in natura o nella realtà conosciuta, oppure li può trasferire, come abbiamo detto, o ancora può utilizzare lo stesso effetto simultaneamente su due soggetti diversi, armonizzando così i suoi valori. Le donne possono danzare in presenza delle onde; le truppe possono avanzare sotto i fuochi d’artificio.

Sono molti i casi dove l’istantanea non è neanche lontanamente efficace quanto l’immagine in movimento. Uno dei primi soggetti del cinematografo è stato il treno, che appariva come un puntino lontano e poi diventava sempre più grande fino ad avanzare minacciosamente verso l’osservatore in modo talmente reale e improvviso che gli faceva quasi sentire il risucchio dell’aria. In qualunque direzione andasse il treno, la prospettiva convergente o divergente impressionava l’occhio in un modo che non poteva essere reso nella pittura o adeguatamente descritto a parole. Il movimento è un elemento unico nelle mani del compositore cinematografico, elemento che egli dovrebbe integrare artisticamente con il resto della sua composizione in forme fluide. Dovrebbe fare ancora di più, e armonizzare le immagini in movimento con il significato della storia. Perciò il treno che si avvicina potrebbe creare una sorta di climax, di culmine, mentre il treno che svanisce all’orizzonte potrebbe simboleggiare la tristezza di un addio.

Tralasciando la discussione delle linee, curve o rette, troviamo fenomeni altrettanto belli nelle superfici in movimento. La superficie fluttuante del mare, quella ondeggiante di un campo di grano nella brezza di giugno, suggeriscono effetti ottici che potrebbero essere utilizzati in un gruppo di danzatori o, in modo meno formale, nella folla di gente al mercato. Anche le tessiture in movimento dovrebbero essere studiate per il loro effetto cinematografico; solo il cinematografo può trasmettere il fascino mutevole della neve che cade, la calma imponenza dei banchi di ghiaccio alla deriva di un fiume, il luccichio scuro delle spirali di fumo, o la magia delle immagini suggerite dalle nuvole estive. Questi fenomeni dovrebbero apparire in momenti opportuni del film, come nelle fotografie di viaggio, e il regista deve tener conto dei principi del loro fascino visivo quando si occupa dei costumi e della gestione delle folle.

Il movimento del tono, ovvero, il passaggio graduale dallo scuro al chiaro, dall’indistinto al distinto, e viceversa, è stato già sfruttato a volontà dai registi. Le classiche dissolvenze in apertura e in chiusura, quando ben realizzate, sono indubbiamente piacevoli da vedere. Ma questo cambiamento di tono sarebbe molto più efficace se fosse associato a un cambiamento di schema. Una delle bellezze naturali eternamente irraggiungibili dai pittori è il gioco di colori creato dal sole che tramonta dietro una soffice rete di nuvole. Perché i coloristi non riescono mai a rappresentare un tramonto che sia bello e convincente? Semplicemente perché il valore ottico consiste nel graduale, sottile cambiamento di tonalità e di schema piuttosto che nella composizione statica di una dato istante. Per fare un altro esempio, quale pittore potrebbe mai riprodurre il delicato effetto della scia di una stella cadente che improvvisamente smette di brillare? Tali valori pittorici del movimento effettivamente sono una sfida anche per il cinematografo, che comunque non fa che rafforzare l’idea che ci sia tutto un regno di bellezza non solo nelle forme statiche ma anche in quelle fluide, e che può essere trasmesso nell’arte solo se si riproduce la forma fluida.

Trasmettere questa bellezza fluida è la missione del compositore cinematografico. Il suo compito, benché invitante, è difficile, poiché egli è il pioniere in questo nuovo campo dell’arte. Innanzitutto deve saper vedere la composizione giusta dei movimenti che stanno tra l’inizio e la fine di ogni scena, come ha fatto Cecil de Mille per gli studios Lasky. In Joan, the Woman (1916; vedi, in rete, qualche sequenza del film) raggruppamenti e transizioni all’interno di una data scena sono resi in modo tale da soddisfare la richiesta di ritmo ed equilibrio nella composizione pittorica. 

Ma la composizione del movimento all’interno di una scena è semplicemente la parte più facile ed iniziale del problema generale che riguarda la composizione di forme fluide. Il nodo della questione è l’organizzazione di movimenti separati e apparentemente non collegati in una totalità caratterizzata da unità, enfasi, equilibrio e ritmo. Sareste in grado di organizzare in un’unica e soddisfacente composizione il cerchio che gira, il vortice, la cascata, l’onda, il fuoco d’artificio, il nastro, il treno, il mare, il campo di grano, la neve che cade, i banchi di ghiaccio alla deriva, le spirali di fumo, le nuvole, le stelle cadenti, e il tramonto? Quale elemento mettereste per primo, quale terzo o settimo, quale per ultimo? Quale elemento scartereste e quale rimarchereste? Se vi chiedessero di proiettare cinque colori uno dopo l’altro su uno schermo, in che ordine li proiettereste in modo da produrre l’effetto visivo più piacevole? Un film da cinque bobine contiene centinaia di azioni girate in cinquanta o cento ambientazioni diverse. Se il film vuole essere considerato arte ne consegue che tutte le sue varie parti devono essere assemblate e montate in maniera tale che la composizione ultima appaghi l’occhio dall’inizio alla fine della proiezione. E questo valore pittorico fluido deve ovviamente essere coordinato con il significato drammatico della storia.

È del tutto evidente che la composizione nel film è completamente differente dalla composizione nella pittura o nella fotografia, nella scultura o nell’architettura. Gli stimoli visivi in quelle arti non svaniscono mentre li guardate, restano lì finché l’oggetto d’arte resiste. Ma il film è una fonte inesauribile di aspetti in continuo dissolvimento. E la composizione del film è una combinazione di immagini-che-non-si-vedono-più con immagini-già-viste e con immagini-ancora-da-vedere. In altri termini, la composizione cinematografica fa leva simultaneamente sulla memoria, la percezione, e le aspettative dell’osservatore. Perciò è simile alla composizione musicale, ovvero l’arrangiamento di suoni che continuano a originarsi e a svanire. Ascoltando la musica, l’orecchio, per così dire, ricorda, sente e anticipa, proprio come vedendo un film l’occhio ricorda, vede e prevede. Il compositore cinematografico può dunque rivolgersi alla musica quando deve pensare ai principi di composizione in forme fluide.

L’analogia tra una serie di suoni e una serie di immagini è perfetta. Entrambi hanno durata, intensità e qualità di tono. Un’immagine può essere intensa e nitida come una nota può essere accentata, i toni o colori possono essere organizzati a basso o alto contrasto, proprio come le note possono essere arrangiate in chiave alta o bassa. Una serie di note suonate simultaneamente può costituire un accordo proprio come una serie di colori rappresentati simultaneamente può costituire un’immagine statica. Una successione di note non è bella se non possiede ritmo o melodia; allo stesso modo una successione di stimoli visivi non è bella se non possiede un certo ritmo o armonia. Quando ascoltiamo la musica, le note che scompaiono nel silenzio continuano a essere vividamente presenti nella memoria e hanno una connessione naturale con le note che devono ancora arrivare. Allo stesso modo, gli elementi pittorici che scompaiono dalla nostra vista rimangono nella nostra memoria e influenzano la percezione degli elementi pittorici che li seguono. Dei test psicologici potrebbero dimostrare che l’occhio, dopo aver visto una parte di una data sequenza di elementi pittorici, rimane in attesa, o per così dire, sente di avere certe aspettative sul resto della sequenza, e sarebbe sconvolto se quello che segue non fosse armonioso nella forma, tono o colore. Similmente, chiunque può verificare da sé, ascoltando della musica, che quando una parte di una sequenza è stata suonata, l’orecchio, per così dire, si aspetta o è accordato con le note che completano il ritmo e la melodia.
Quindi è chiaro che qualsiasi regista cinematografico che si ritiene un artista piuttosto che un sergente istruttore, che desidera un giorno produrre un film che sarà considerato un classico, deve imparare a comporre le forme fluide, ad applicare i principi di unità, enfasi, equilibrio, e ritmo, agli elementi visibili che continuamente si originano e svaniscono e che egli proietta sullo schermo. Tutto ciò sarà per lui un ideale difficile da realizzare, poiché, a differenza del musicista, egli deve adattare la sua composizione in forme fluide alle necessità di una storia già definita; ma le difficoltà non esimono l’artista dalla responsabilità di mirare all’ideale.

La situazione non è poi così scoraggiante; è un dato di fatto che l’artista sia emancipato piuttosto che limitato nell’organizzare i movimenti in una totalità. Innanzitutto, deve utilizzare tutta la varietà di movimento, dall’immobilità assoluta o assenza di movimento, attraverso il movimento rallentato, fino a quello estremamente veloce. Può presentare questi valori di movimento simultaneamente oppure in qualunque successione. Il suo soggetto può essere ad esempio una costa rocciosa sullo sfondo, una nave che attraversa maestosamente le delicate onde del mare e un idrovolante in picchiata in primo piano. Altre volte può rendere la graduale accelerazione di movimento attraverso una massa di gente apparentemente imperturbabile e impassibile che viene spinta ad agire da una furia ingovernabile. Secondariamente, i movimenti possono essere utilizzati per qualsiasi scopo, dall’eruzione di un vulcano al battito di ciglia di un gufetto. In terzo luogo, il movimento può dirigersi ovunque rispetto all’osservatore, direttamente o in diagonale, verso di lui o via da lui. Può entrare nel suo campo visivo da ogni lato, dall’alto oppure dal basso. In quarto luogo, l’osservatore in sala può prendere il posto della cinepresa e seguire l’oggetto in movimento, ottenendo, per esempio, l’effetto del paesaggio che scorre dal finestrino del treno, o la terra che si allontana sotto un aeroplano. Infine, attraverso l’espediente della doppia esposizione, un’immagine può dissolversi in quella successiva, come una nota musicale può fondersi con un’altra. Il musicista che dirige un’intera orchestra non ha più libertà d’azione del compositore cinematografico.

Bisogna tenere a mente una differenza fondamentale tra composizione musicale e composizione cinematografica: in un film non ci sono pause, non c’è assenza di immagini che corrisponda al silenzio che separa le note musicali. Sullo schermo i confini degli elementi pittorici non possono essere ben separati, ma devono essere così vicini come i negativi di una pellicola. Ne consegue che la fase di montaggio deve essere curata con attenzione. Se le immagini non sono montate in modo adeguato sicuramente non supereranno la prova estetica nel momento della proiezione.
Prima di tutto, una composizione in forme fluide deve avere unità, altrimenti non la si può definire una composizione singola, o nemmeno una composizione. Abbiamo tutti visto film che avevano l’unità di una collanina fatta di diamanti, rubini, bottoni da scarpe, perle, monete bucherellate, pezzi di vetro, perline dei pellerossa, e pepite d’oro, oppure di una sequenza di suoni nel seguente ordine: un fischio, una nota di pianoforte, una voce, un rullo di tamburo, la nota di un flauto, la nota di un organo, l’abbaiare di un cane, il rintocco di una campana, e la nota di un piffero. Il ricordo di ognuno di questi suoni è in contrasto con la percezione del successivo, e nessuno di questi suoni ci porta ad attendere quello dopo. Una tale organizzazione degli elementi non risulta in una totalità e non potrà mai fare una buona impressione.

Il film della Fox A Daughter of the Gods [1916, diretto da Herbert Brenon] è una considerevole violazione del principio di unità. Le fate buone e le streghe cattive del folclore nordico si aggirano con molta sicurezza negli harem orientali o lungo le coste africane; le sirene abitano con Babbo Natale e gli gnomi sono a loro volta trasformati in Uomini di Valore, o Portatori della Croce, i quali chiaramente rievocano Giovanna D’Arco. Il tema poetico della trasmigrazione delle anime è in contrasto con una vera e propria arca di Noè o l’insieme dei seguenti animali: gatti, rospi, scimmie, mucche, cammelli, maiali, pecore, cani, cavalli, e coccodrilli, che socializzano con uccellini azzurri, fringuelli, piccioni, pappagalli, gabbiani, e cigni. Un bellissimo accampamento arabo viene subito dimenticato quando vediamo l’onda agitata di un mare che normalmente è calmo, e questo viene a sua volta annientato dalla scena spettacolare di una città in fiamme. Un tale miscuglio, oltre ad essere illogico e senza senso, non dà alcuna impressione di unità all’occhio.

In una melodia, le note devono essere nella stessa chiave e anche suonate dallo stesso strumento; in una composizione cinematografica le immagini, benché di soggetti diversi, dovrebbero avere la stessa chiave visiva. In effetti i cigni e i piccioni possono avere la stessa chiave, ma i coccodrilli e le pecore no. Le sirene e le bellezze dell’harem possono avere la stessa chiave, ma non le sirene e i cammelli. Le linee, i toni, le stesse tessiture dei piccioni e dei cigni oppure delle bellezze dell’harem e delle sirene possono essere in armonia tra loro; ma le linee, i toni, le tessiture dei coccodrilli e delle pecore non lo sono. E l’assenza di armonia è evidente anche qualora questi soggetti siano mostrati a diversi minuti di distanza sullo schermo.

A Daughter of the Gods è carente sia dal punto di vista di unità della storia che di unità dei richiami visivi; ma sarebbe comunque artisticamente scarso anche se avesse il secondo e non il primo. Pensate come Humoresque di Dvorak suonerebbe se le prime note fossero suonate da un violino, le successive da un trombone, poi da un piano, da un ukulele, un organo a pipa, una cornetta, un violoncello, e così via fino alla fine del pezzo. Una performance di questo genere può presentare una certa continuità, può presentare le note musicali nel loro ritmo e tono originali, e può quindi essere caratterizzata da una certa unità di contenuto, ma sarebbe una totale farsa perché mancherebbe completamente di unità di espressione. Ma i richiami uditivi eterogenei e caotici non sono peggio dei richiami visivi eterogenei e caotici: un film non può avere un effetto duraturo sull’osservatore se non offre una sequenza completa di soggetti, linee, forme, toni, colori, tutti organizzati in modo unitario.

Ma un’unità fluida, come quella statica, deve avere enfasi su qualcosa. Proprio come in una storia alcuni personaggi ed eventi hanno più importanza di altri, così in una sequenza di immagini alcune hanno un maggiore impatto visivo di altre. E la necessità di enfasi non è per nulla incompatibile con la necessità di unità. Infatti l’unità implica l’enfasi in quanto comporta la subordinazione e la coordinazione delle sue parti. Un metodo per assicurare l’enfasi in un film è quello di aumentare il ritmo delle immagini quando la storia sta per raggiungere il momento culminante. Ciò è illustrato ammirevolmente nel film di Griffith Intolerance, dove egli è riuscito a unire le climax delle sue quattro storie intrecciate [è disponibile, in rete, l’intero film]. E mentre il film si avvicina a questo insieme di momenti culminanti, l’azione nelle scene è accelerata e le scene stesse si accorciano gradualmente fino a diventare dei meri flash, producendo un effetto a intermittenza che sovraccarica l’occhio con la sua potenza. Un altro tipo di enfasi drammatica può talvolta essere il risultato di un tempo decrescente, cioè ritardando l’azione nelle scene, e allungando le scene stesse, quindi producendo un graduale effetto di solennità e maestosità dell’azione.

Anche il tono delle immagini, ovvero la nitidezza degli elementi, può essere alterato per produrre enfasi. Una scena che inizia in un tono basso di grigi chiari e scuri può gradualmente intensificarsi in una maggiore limpidezza fatta di bianco acciaio e nero ebano; per poi, dopo il momento di enfasi, tornare a un tono più basso. L’enfasi può anche essere il risultato dell’organizzazione dei valori tonali laddove il soggetto lo permette. Per esempio, l’occhio apprezza particolarmente e lo spettatore ricorda sicuramente una scena di chiaro di luna in blu, se appare isolata tra una serie di scene che rappresentano la luce giallastra del giorno.

Il compositore di forme fluide deve sempre assicurarsi che la sua composizione non diventi una mera sequenza di elementi che spariscono. I pittori, che hanno a che fare con forme statiche, spesso riescono a suggerire il movimento; eppure in ogni caso un quadro è effettivamente un momento di movimento bloccato, e la sua capacità di impressionare l’osservatore si deve in parte al fatto che possa dedicare tutto il tempo che vuole alla contemplazione di quel dato momento. Ma in un film gli elementi svaniscono mentre li guardiamo, e qualcosa di simile succede anche nella musica, dove però possono anche non svanire del tutto, perché il compositore arrangia una ripetizione ritmica di certe note o motivi fondamentali. In un’opera di Wagner, per esempio, la nota o motivo ricorrente si imprime gradualmente nelle nostra mente finché ce la ricordiamo perfettamente e ne percepiamo il significato. Perciò il musicista con le sue forme fluide ed evanescenti riesce a creare un effetto statico, una base di riposo dove l’attenzione dell’ascoltatore può soffermarsi per contemplare. Quindi nel film un bel soggetto, una bella composizione statica che appare sullo schermo solo per pochi attimi, può essere ripetuto a intervalli regolari fino a che la sua completa bellezza è impressa nell’occhio e nella mente dell’osservatore.

La ripetizione enfatica è consigliabile soltanto, ovviamente, quando l’immagine o elemento pittorico è veramente degno di enfasi. La figura, gruppo, oggetto, paesaggio, o qualunque elemento pittorico ripetuto, deve avere qualcosa di più di un mero valore superficiale, qualcosa che non possa essere apprezzato pienamente a una prima occhiata, una bellezza visiva e un significato drammatico che aumentano se reiterati. Proprio come un motivo in musica o un ritornello in poesia acquisiscono una nuova bellezza ogni volta che ricompaiono in un nuovo contesto, così anche un’immagine ripetuta in un film dovrebbe acquistare nuovi significati e bellezza ogni volta che ricompare in una sequenza di nuove immagini. Un esempio interessante di motivo ricorrente si trova in Intolerance. La scena di una giovane donna che culla un bimbo in una rozza culla, accompagnata da un sottotitolo tratto dalla poesia di Walt Whitman Out of the cradle endlessly rocking “Fuor dalla culla che perenne dondola”, è ripetuta dozzine di volte, che sembrano centinaia. Che cosa l’immagine voleva simboleggiare non fu colto da tutti gli spettatori del film, ma coloro che ne videro la simbologia furono molto colpiti dalla forza persuasiva di questo motivo ricorrente. In Intolerance, come in qualunque altro film, sarebbe stato artisticamente efficace utilizzare la ripetizione con variazione. In Intolerance, per esempio, il motivo generale poteva essere la madre che mette il figlio a dormire, ma l’elemento della culla e l’ambientazione domestica potevano variare a seconda del paese e del periodo storico rappresentati nel film. In ogni caso, l’enfasi può risultare da un’immagine ricorrente, che, una volta diventata riconoscibile, si imprime nella mente.

Inoltre, si può creare l’enfasi attraverso il contrasto di forme fluide. Conosciamo tutti l’effetto del contrasto quando una serie di elementi sono mostrati simultaneamente. Se un uomo alto e uno basso sono sulla scena contemporaneamente l’uomo alto sembra più alto di quello che è realmente e l’uomo basso sembra più basso di quello che è. Si può ottenere lo stesso effetto mostrando gli elementi uno dopo l’altro. Una macchia di rosso sullo schermo sembrerà ancora più rossa se è preceduta da una macchia di verde. Questi effetti sono dovuti alle leggi ottiche e non ai sentimenti, ai gusti o alle esperienze del singolo osservatore. Le linee verticali degli alti e snelli abeti saranno ancora più enfatizzate se messe in contrasto con le lunghe linee orizzontali del mare. Gli effetti di contrasto non devono chiaramente essere limitati al campo dei colori e delle linee. Un palazzo può essere messo a contrasto con un tugurio, o una signora con una sgualdrina. Di qualsiasi contrasto si tratti, esso deve essere un contrasto di genere, cioè una differenza tra elementi simili. Per esempio, un gatto può essere messo a contrasto con una tigre, ma non con un iceberg. Quest’ultimo è uno scontro, non un contrasto.

Oltre ad avere unità ed enfasi, per essere ancora più piacevole, l’intera sequenza di elementi che compaiono e svaniscono in un film deve anche rispettare il principio di equilibrio. Nel capitolo precedente, abbiamo spiegato cosa si intende per equilibrio di soggetto, linea e tono in un dipinto, cioè in una composizione in forme statiche. È chiaro che anche le forme fluide devono essere in equilibrio. Non basta che il finale di un intreccio sia in equilibrio con l’inizio di quella storia, è anche importante che i valori visivi alla fine di un film siano in equilibrio con i valori all’inizio di quel film. Ancora una volta troviamo un’analogia con la musica. L’ultima nota ritorna alla prima, si crea un equilibrio, e l’orecchio è appagato. Ma l’equilibrio non può limitarsi all’inizio e alla fine. Un equilibrio continuo è consigliabile: in una sequenza di una dozzina o più immagini alcune di esse dovrebbero essere in equilibrio con altre in termini di linee, toni o schema generale. In una sala cinematografica vedete una serie di immagini di questo tipo: una contadinella che fa pascolare le pecore; un primo piano del suo viso, che si sofferma sulle sopracciglia; un primo piano del cane attaccato da un serpente a sonagli; una truppa di arcieri e lancieri che assaltano una vecchia torre grigia; e un giovane pescatore in mare che trascina le reti. Tutto ciò non sembra particolarmente promettente, eppure, se omettiamo le sopracciglia e il serpente a sonagli in quanto inutili aggiunte, potremmo trovare un certo equilibrio visivo tra i toni grigio chiaro delle pecore e della torre, tra le linee nette formate dalle manovre della barca e gli archi e le frecce, perfino tra il bagliore scintillante dei pesci e le punte delle lance. Ammesso che il pescatore, la contadinella e uno degli arcieri siano coinvolti nella stessa storia, il risultato potrebbe essere una sequenza di immagini piuttosto artistica, dopotutto.

L’equilibrio può essere applicato anche al tempo, nonché al soggetto, ai toni e alle linee di una composizione cinematografica. Proprio come in musica le semiminime, le minime e le semibrevi sono distribuite proporzionalmente, anche in un film dovrebbe esserci un equilibrio generale di durate pittoriche. Proveremmo sicuramente un senso di squilibrio vedendo un film in cui le scene delle prime due bobine durassero tutte quindici secondi o meno e le scene delle restanti bobine durassero tutte due minuti o più.

Un film che è caratterizzato da unità, enfasi ed equilibrio sarà una creazione artistica ancora più bella se possiede la qualità del ritmo. Nel capitolo precedente, abbiamo cercato di spiegare cosa si intende per ritmo nelle linee e toni pittorici che sono colti simultaneamente dall’occhio. Chiunque capirà che il ritmo incide sui valori pittorici che l’occhio percepisce in momenti successivi; proprio come in musica incide sui valori uditivi che l’orecchio percepisce in momenti successivi. Abbiamo sottolineato che il ritmo consiste non in una ripetizione matematica ma in una ripetizione con variazione. In una composizione di forme fluide il ritmo deve ovviamente essere progressivo, partendo dal passato, attraverso presente, fino al futuro. In una composizione cinematografica, quindi, gli elementi pittorici che sono immediatamente presenti ai nostri occhi dovrebbero formare una progressione ritmica con gli elementi appena scomparsi e quelli che devono ancora apparire.

Supponiamo di avere tre belle immagini di una villa, una fabbrica, e un ruscello, ogni scena della durata mezzo minuto. Supponiamo di organizzarle in questo ordine: villa –fabbrica – ruscello – villa – fabbrica – ruscello – villa – fabbrica – ruscello, e così via. L’effetto non sarebbe di certo ritmico. Oppure supponiamo di avere tre note musicali, C, E e G e di arrangiarle come semiminime nel seguente ordine: C – E – G – C – E – G, eccetera. L’effetto non sarebbe di certo ritmico. Ma queste tre note arrangiate in vari toni e lunghezze costituiscono i cento o più squilli di tromba utilizzati dalla Marina Militare americana. È praticamente impossibile che un regista cinematografico organizzi le scene in ripetizioni matematicamente uguali. Ma è molto probabile che la sua sequenza di immagini si presenti come del tutto priva di schema. Come un musicista non può sperare di ottenere una melodia scrivendo le note su pezzetti di carta e pescandoli a caso da un cappello, allo stesso modo il regista cinematografico non può ottenere per caso una sequenza ordinata di scene.

Abbiamo detto che le immagini, come le note musicali, possiedono tono, intensità, accento, durata e frequenza. L’abilità di ottenere un bel ritmo con l’insieme di questi valori deve essere il risultato non del calcolo, ma del genio. E quando si ottiene il ritmo, i suoi effetti sullo spettatore saranno inevitabile, anche se egli non potrà mai capire né spiegare che cosa esattamente ha reso la sequenza di immagini così piacevole da guardare.

Il compositore cinematografico deve ricordare che nel tentativo di raggiungere unità, enfasi, equilibrio e ritmo nella composizione di forme visive e fluide, incontrerà ogni tipo di difficoltà e impedimenti tipici del pioniere. La persona venale che pensa solo al guadagno gli dirà di lasciare tutte queste sottigliezze alle vecchiette o a chi scrive libri sull’arte di fare film. La “star” pretenderà di avere almeno tre primi piani in ogni bobina, come se il valore pittorico di un film fosse garantito solo quando lo spettatore può contare le ciglia e i molari della “star”. Il pubblicitario pretenderà che il cattivo sia torturato e bruciato vivo in una nave carica di dinamite, o eliminato in qualche altro modo “pittoresco”. Ma il pioniere non si farà intimorire da intimazioni, beffe e minacce, e seguirà fermamente il barlume dell’arte, poiché sarà convinto che la gente che ha apprezzato e pagato per vedere il meglio nella scultura, architettura, pittura, poesia, dramma, e musica, un giorno apprezzerà e pagherà per vedere il meglio nella nuova arte della composizione cinematografica. Ogni arte ha una propria unicità, che le permette di distinguersi da tutte le altre arti. Il ruolo distintivo del cinema è di offrire un piacere raffinato a un pubblico colto, mettendo in movimento gli elementi visivi che continuamente compaiono e scompaiono, che la natura può produrre o l’immaginazione può trasformare in materiale artistico.

Ma il compositore cinematografico può anche non riuscire a fare una composizione perfetta di questi elementi visivi fluidi, e anche se ci riesce, può non esserne pienamente soddisfatto. Dobbiamo quindi procedere e considerare altri mezzi e modi per rendere un film interessante per il pubblico.

“A young and enthusiastic champion of the cinema”: Victor Oscar Freeburg e la natura del film

dalla Introduzione di Michele Guerra a: Victor Oscar Freeburg, L’arte di fare film [1918], Diabasis, Parma 2013

Victor Oscar Freeburg, che nel 1917 veniva definito “giovane ed entusiasta campione del cinema” da un anonimo giornalista del New York Times, è senza ombra di dubbio tra i teorici del cinema meno riconosciuti. In anni recenti il suo nome è ricomparso a sprazzi in alcuni studi di rilievo, ora per ricostruirne l’attività di docente – Freeburg fu il primo a tenere un corso universitario sul cinema – ora per valutare la portata estetica e teorica di alcune sue proposte calate all’interno del vitalissimo dibattito sul film negli Stati Uniti degli anni Dieci. Ciononostante, il nome di Freeburg rimane ancora largamente sconosciuto ai più e, al di là del lungo misconoscimento dei teorici americani che per decenni ha oscurato anche i lavori sul cinema dello psicologo Hugo Münsterberg o del poeta Vachel Lindsay, pare che intorno a Freeburg sia calata una cappa di silenzio e, in certa misura, di sufficienza.

La traduzione italiana del suo primo libro sul cinema, The Art of Photoplay Making (1918), permette oggi di avere a disposizione per lo meno i tre lavori maggiori dei teorici americani di quel periodo: L’arte del film di Vachel Lindsay (uscito nel 1915, ampliato nel 1922 e pubblicato in italiano solo sette anni fa, nel 2006, per Marsilio Editori, a cura di Antonio Costa), Film di Hugo Münsterberg (uscito nel 1916, tradotto una prima volta nel 1980 e poi riproposto pochi anni fa con l’aggiunta di altri, più brevi, scritti sul cinema, per Bulzoni Editore, a cura di Domenico Spinosa) e questo L’arte di fare film di Freeburg, in cui, come vedremo, quel “fare” gioca un ruolo fondamentale che pure potrebbe essere costato caro al suo autore. Del resto, uno degli obiettivi di questa introduzione sarà proprio collocare il libro di Freeburg all’interno di una ricca letteratura sul film che in ambito nordamericano, e in quello stretto giro di anni che va grosso modo dal 1912 ai primi anni Venti, sembra non potersi slegare da un approccio pragmatico avviluppato alle tecniche di composizione dello “scenario” e più estesamente del film, un atteggiamento che rivela non solo l’urgenza di capire come funzioni questa nuova forma di espressione, ma, anche più, la mai celata occasione economica e commerciale che essa presuppone. Sarà poi interessante notare come molte delle idee di Freeburg sul cinema anticipino, talora in forma embrionale, talaltra in forma decisamente più compiuta, alcuni dei temi chiave di molta teoria del cinema contemporanea, quale soprattutto quella ispirata dalle scienze cognitive. Ma andiamo con ordine.

“His own career has been somewhat of a movie”

Victor Freeburg nacque il 22 marzo 1882 a Stanton, in Iowa, dove si era stanziata una corposa comunità di immigrati svedesi. I genitori, Andrew V. Freeburg e Maggie Erickson Freeburg, erano emigrati negli Stati Uniti dalla Svezia rispettivamente nel 1856 e nel 1873 e si erano sposati a Jefferson, in Iowa, il giorno di Natale del 1876. Victor era il terzo di sette fratelli, di cui i primi due morti nei primissimi anni di vita. Spostatosi verso Est per ragioni di studio, Freeburg ottenne il suo bachelor’s degree e il suo master’s degree dalla Yale University, rispettivamente nel 1905 e nel 1908 e fu a Yale che intensificò e affinò le sue attività di scrittore, pittore e drammaturgo, arrivando a scrivere anche un dramma intitolato Sunset e interpretato, nel 1908, da Sinclair Lewis, di tre anni più giovane di Freeburg e suo compagno di università – si laurearono nello stesso anno. 

Dopo la laurea, Freeburg conseguì nel 1915 un dottorato alla Columbia University, discutendo una tesi incentrata sul tema del travestimento nel teatro elisabettiano, che divenne immediatamente un libro e che riecheggia nel suo primo libro di cinema soprattutto nel capitolo XIII dedicato alla “costruzione di un intreccio”. Durante gli anni di studio, Freeburg aveva insegnato dapprima alla U.S. Naval Academy ad Annapolis tra il 1906 e il 1907, poi tra il 1908 e il 1913 al College of the City di New York, per diventare quindi docente di inglese all’Haverford College, in Pennsylvania, tra il 1913 e il 1915, luogo da dove scrisse, nel gennaio del ’15, la prefazione a Disguise Plots in Elizabethan Drama. Con il medesimo incarico – “Instructor of English” – la Columbia University lo richiamò nel giugno di quello stesso anno e Freeburg insegnò inglese per quell’unico anno accademico, cioè fino al giugno 1916.

A partire dall’ottobre del 1915, la Columbia chiese però a Freeburg di prendersi in carico un extension course in “Photoplay Composition”. Si trattava di un corso che non aveva alcun peso al fine del conseguimento della laurea – un corso che non dà crediti, diremmo oggi – pensato sia per studenti immatricolati alla Columbia che fossero interessati ad approfondire le loro conoscenze sul cinema e la loro pratica con la scrittura per il film, sia per adulti del tutto esterni all’università, o addirittura – a partire dal 1919 – per corsisti a distanza. Freeburg insegnò con passione fino al luglio del 1917, quando si dimise per raggiungere l’U.S. Navy nell’ultima fase della Prima guerra mondiale. Fu in Marina che terminò L’arte di fare film, il libro che – come l’autore stesso dice nella prefazione, firmata nel gennaio del 1918 dall’U.S. Naval Training Camp di Pelham Bay Park, New York – raccoglie alcune delle idee maturate all’interno dei corsi tenuti alla Columbia tra il 1915 e il 1917 e che dunque si presenta anche come documento utile a capire cosa e come insegnava Freeburg.

Finita la guerra, Freeburg sarebbe tornato a insegnare “Photoplay Composition” solamente nella “Summer Session” del 1919, per venire poi definitivamente sostituito da Frances Patterson, la quale aveva già avuto l’incarico come supplente nel 1917, durante l’assenza di Freeburg per motivi militari, e che terrà il corso fino alla fine degli anni Trenta. Non può dirsi che né da un punto di vista didattico, né da uno più estesamente culturale, Patterson fosse in sintonia con Freeburg, del quale mai nemmeno adottò i libri. La cosa potrebbe apparire sorprendente: c’è chi sostiene addirittura che Patterson sia stata un’allieva di Freeburg – per quanto nemmeno Dana Polan abbia trovato conferma di questo dato.

Inoltre, nel suo Cinema Craftmanship (1920), Patterson riconosce l’influenza decisiva di Brander Matthews, advisor di Freeburg al tempo del dottorato. È dunque plausibile che i due si conoscessero anche piuttosto bene, ma l’unico riconoscimento rinvenibile nei lavori di Patterson rispetto all’attività di Freeburg sta nel fatto che in Cinema Craftmanship venga riportata, come modello di eccellenza, una sceneggiatura uscita dai corsi di Freeburg, senza che peraltro quest’ultimo venga mai citato.

Freeburg, per parte sua, non smise di interessarsi di cinema dopo l’esperienza di insegnamento alla Columbia e non abbandonò le idee sviluppate nell’Arte di fare film, nonostante i suoi interessi e il suo eclettismo lo impegnassero in molti e diversi progetti. Tra il 1919 e il 1922, Freeburg fu l’editor di “The Swedish-American Trade Journal”, una sorta di bollettino della Swedish Chamber of Commerce of the United States of America e in quello stesso giro di anni –1920/1921 – tra le sue carte vi è traccia di un progetto, al quale tenne molto e che mai si realizzò, per una crociera intorno al mondo pensata per scrittori, artisti e intellettuali, progetto nel quale si fondevano la sua passione per i viaggi e la tendenza a creare sinergie culturali.

Un anno dopo essersi sposato, nell’agosto del 1922, con Mildred Ekblad a New York, Freeburg pubblicò un secondo volume sul cinema, Pictorial Beauty on the Screen, nel quale tornava a sviluppare alcune delle tesi già esposte nel primo libro, concentrandosi più precisamente sulle tecniche di composizione ispirate a canoni pittorici e sviluppando alcune idee sul ritmo del film solo abbozzate nel precedente studio. Lo scopo rimaneva sempre il medesimo, vale a dire cercare di capire – anche a un livello fisiologico e psicologico – l’effetto del film sugli spettatori attraverso lo studio delle leggi di composizione, e tuttavia il secondo volume anticipa gran parte delle indagini iconografiche sul film che caratterizzeranno certa teoria degli anni Venti e Trenta.

Tra il 1931 e il 1936, ritroviamo Freeburg al lavoro come redattore presso il Milbank Memorial Fund, un’istituzione impegnata in campo sanitario per la quale Freeburg collaborava, probabilmente senza entusiasmo, al bollettino “The Milbank Memorial Fund Quarterly”. Durante i sei anni in cui vi prestò servizio, scrisse un unico articolo sui centri di salute nella Yugoslavia rurale.

Negli anni a seguire, Freeburg si ritirò a Rockport, Massachussets, interessandosi di pittura e dipingendo lui stesso, dedicandosi, tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta, soprattutto al pittore svedese Gustavus Hesselius (1682-1755), che era emigrato nel Delaware nel 1711, e allo studio di cifre e codici, retaggio degli anni in Marina. Di entrambe le attività vi sono ampie tracce nell’archivio di Yale. Nel 1943, all’età di sessantuno anni, sposò in seconde nozze Dorothy Dumble, di ventotto anni più giovane, un’insegnante di inglese nata in Ohio che nell’ultimo scorcio degli anni Trenta aveva insegnato al Robert College di Istanbul. Stabilitisi a Rockport, i due rimasero sposati per dieci anni fino al 1953, quando l’11 di gennaio Victor Freeburg morì. Fu sepolto a Lindsborg, in Kansas, dove si era nel tempo trasferita la sua famiglia e dove erano sepolti i suoi genitori e alcuni tra i suoi fratelli. In quello stesso anno, Dorothy Freeburg raccolse i manoscritti e i documenti sopravvissuti ai vari spostamenti e decise di donarli alla Yale University, dove Victor aveva mosso i primi passi.

Il cinema all’Università

Non è semplice capire perché Victor Freeburg sia finito ad insegnare cinema, perché la Columbia University abbia scelto proprio lui. Aveva un curriculum accademico segnato dalla letteratura inglese e dal teatro elisabettiano, in modo particolare dallo studio dell’opera di Shakespeare, ma non aveva mai scritto di cinema, nemmeno sulle ormai molte riviste di settore esistenti. In quegli anni, avevano sede a New York due importanti riviste settimanali come “Moving Picture World” e “Moving Picture News”, che a partire dai primi anni Dieci avevano già cominciato a ospitare riflessioni importanti sul cinema e la sua estetica. Alcuni critici della prima ora, come ad esempio Kenneth MacGowan che scriveva su “The Seven Arts”, si erano già segnalati per le loro acute riflessioni sulla multimedialità del cinema e sulla bellezza pittorica nei film, riflessioni che potrebbero avere influenzato le elaborazioni teoriche di Freeburg. Vi era poi un numero ragguardevole di autori di volumi sul film, molti dei quali gravitanti peraltro proprio su New York, che a partire dal 1911/1912 avevano cominciato a scrivere libri per formare i nuovi professionisti del cinema – e in certi casi anche i nuovi professionisti della visione del film. Questi libri non erano nella più parte e in prima istanza pensati come contributi estetici o teorici, ma come veri e propri manuali principalmente incentrati sulla scrittura per il cinema. Libri tecnici, dunque, non privi di guizzi teorici di notevole interesse e tempestività, il cui obiettivo primario era quello di formare dei buoni sceneggiatori, in un momento in cui lo “scenario” era considerato – come vedremo tra poco – non solo l’elemento più importante del film, ma soprattutto quello di cui c’era urgente bisogno. 

Prima del 1915 erano già stati pubblicati On Picture-Play Writing: a Hand-Book of Workmanship di James Slevin (1912), The Technique of the Photoplay, di Epes Winthrop Sargent (1913), Writing the Photoplay, di J. Berg Esenwein e Arthur Leeds (1913), The Photoplaywrights’ Handy Text-Book di Florence Radinoff (1913), The Photoplay Writer di Leona Radnor (1913), The Art of the Photoplay di Eustace Hale Ball (1913), Moving Pictures: How They Are Made and Worked (sic!) di Frederick A. Talbot (1914), The Photoplay di James Taylor (1914), Playwriting for the Cinema: Dealing with the Writing and Marketing of Scenarios di un autore prolifico e di spiccati interessi sociologici come Ernest A. Dench (1914), il notevole The Photodrama di Henry Albert Phillips (1914), che porta un sottotitolo quasi da trattato rinascimentale – The Philosophy of Its Principles, the Nature of Its Plot, Its Dramatic Construction and Technique Illumined by Copious Examples – Motion Picture Making and Exhibiting di James B. Rathbun (1914), che supera Phillips quanto a sottotitolo: A Comprehensive Volume Treating the Principles of Motography; the Making of Motion Pictures; the Scenario; the Motion Picture Theater; the Projector; the Conduct of Film Exhibiting; Methods of Coloring Films; Talking Pictures; etc.

Dopo il 1915, il trend nella pubblicistica di argomento cinematografico non diminuirà, ma questo elenco ci basta per dire che di gente che scriveva di cinema ce n’era già un certo numero negli Stati Uniti quando alla Columbia si pensa di fondare un corso di composizione cinematografica. Il corso della Columbia fu ampiamente favorito dalla spinta di produttori come Adolph Zukor e Jesse L. Lasky, i quali erano primariamente interessati a farne una fucina di soggettisti che soddisfacesse lo spasmodico bisogno di sceneggiature – e di buone sceneggiature. Come in molti ricordano, una sentenza della Corte Suprema del 1911 aveva improvvisamente messo il mondo del cinema di fronte al problema del diritto d’autore e alla necessità di produrre soggetti originali per non incorrere in spese o sanzioni, col che si spiegherebbe la “scenario fever” – come la chiama Peter Decherney – che avrebbe portato alla pubblicazione di riviste professionali, di un numero spropositato di manuali di sceneggiatura e alla formazione di sceneggiatori professionisti nonché di “scenario editors” deputati alla scelta dei soggetti migliori. Henry Albert Phillips, nell’introduzione al suo The Photodrama del 1914, ammette che le fortune di editors e sceneggiatori riposavano sulla paura che i produttori avevano cominciato a provare nei confronti del copyright. 

Il lavoro di editor era considerato di estrema importanza e pertanto ben retribuito: come fa notare Edward Azlant, Roy McCardell – che la Biograph assunse come story editor già nel 1898 – percepiva 150 dollari la settimana e il suo lavoro, come quello dei suoi colleghi, sarebbe stato destinato ad aumentare notevolmente se pensiamo all’impennata della domanda di sceneggiature tra il 1905 e il 1910 – in concomitanza all’esplosione dei nickelodeon –, tale per cui un editor poteva arrivare a leggerne una media di sessanta al giorno. Secondo i calcoli di Eustace Hale Ball, nel 1913 i cinema americani registravano, sul totale degli Stati, circa sette milioni di presenze al giorno, mentre Charles Pettijohn, nel suo The Motion Picture, pubblica una tabella degli “America’s Most Distinctive Products” in cui si legge che gli Stati Uniti producono l’85% dei film mondiali, davanti all’80% delle automobili e al 75% del grano. Sono dati che, indipendentemente dalla loro precisione, lasciano percepire il bisogno di idee per fare film.

L’istituzione del corso universitario si rendeva necessaria, però, non solo per riequilibrare domanda e offerta, ma anche per ovviare al fatto che qualsiasi scribacchino tentasse di far fortuna inviando idee spesso letteralmente illeggibili alle case di produzione. Ecco perché i manuali di sceneggiatura – quello di Taylor come quello della Radinoff o di Phillips – insistono sull’importanza della buona conoscenza della lingua inglese (!); Radinoff addirittura apre con un capitolo intitolato “Illiteracy”, e diversi autori arrivano a redigere minuziosissime regole di redazione in cui si specifica come vanno scritti titolo, cast, sinossi, scene, quali regole tipografiche e di impaginazione seguire, come rilegare il dattiloscritto così da rendere più agevole la lettura dell’editor, che di norma cestina testi mal presentati. Spesso, a fine libro, comparivano intere sceneggiature modello e indirizzari con i recapiti delle maggiori case.

Possiamo allora cominciare a capire come si è arrivati alla scelta di Freeburg: un docente di inglese, che ha già esperienze di insegnamento – a differenza di nomi più tecnici – e che è già inserito nella Columbia. Dana Polan, facendo leva sul già citato articolo/intervista apparso sul “New York Times”, nota che Freeburg viene chiamato a insegnare quel corso, ma non ha nessun ruolo nella sua ideazione – che probabilmente si dovette a James Egbert, responsabile degli extension courses della Columbia, nonché ai buoni uffici tra il presidente dell’Università Nicholas Murray Butler e i già citati Zukor e Lasky. Secondo Polan, la scelta sarebbe ricaduta su Freeburg per due ragioni, che non si escludono a vicenda. La prima riguarderebbe la tendenza, nelle università americane del tempo, ad affidare ai junior faculty – cioè a chi si è messo in cammino verso la tenure, la qualifica a professore – i nuovi progetti su cui si è deciso di investire; la seconda riguarderebbe il fatto che Freeburg veniva da studi di teatro che, soprattutto in quegli anni in cui il film veniva di preferenza detto “photoplay” o “photodrama”, potevano sembrare perfettamente adatti per l’insegnamento della composizione cinematografica. Aggiungiamo poi il fatto che già due anni prima dell’attivazione del corso, la Columbia si era mossa per promuovere un piano di conservazione del film, che avrebbe dovuto prevedere la formazione di un archivio e di un museo e che avrebbe ovviato in parte all’enorme problema dell’irreperibilità e della distruzione dei film su cui anche Freeburg si soffermerà nel suo libro. Ebbene, l’ispiratore di questo processo era stato il già citato professor Brander Matthews, advisor di dottorato di Freeburg – il quale lo ringrazia caramente in apertura al volume sul teatro elisabettiano – e poi mentore anche di Frances Patterson. Risulterebbe facile pensare che Matthews avesse avuto un ruolo nella scelta, o almeno nella proposta, di entrambi i docenti di cinema.

Dana Polan, poi, si meraviglia del fatto che Freeburg non citi mai, nemmeno di sfuggita, il cinema nel suo libro sul teatro elisabettiano – avrebbe potuto farlo visto il tema conduttore del volume, ma forse non sarebbe stato prudente per una dissertazione di dottorato nel 1915! – eppure potrebbe essere stato proprio Shakespeare un elemento chiave per la chiamata di Freeburg. Se infatti si leggono i libri di cinema scritti negli anni Dieci, nel periodo caldo della domanda di educazione all’arte di fare film, Shakespeare è in assoluto il modello più citato: lo citano Phillips e Hannon come esempio di costruzione dell’azione drammatica e lo cita Lindsay come vetta irraggiungibile, ma cui naturalmente aspirare, per il cosiddetto “film d’azione”; nell’Arte di fare film, come c’era da aspettarsi, il nome di Shakespeare o di sue opere ricorre ben trentadue volte. D’altra parte, nel cinema americano delle origini, ben prima che la Columbia dovesse porsi il problema di chi chiamare a insegnare cinema, Shakespeare risultava una fonte piuttosto sfruttata, vuoi perché si trattava di materiale sicuro – cioè libero da diritto d’autore – vuoi perché le sue opere garantivano una copertura molto ampia al livello di strati di pubblico. Si può allora dire che Victor Freeburg diventa d’un tratto papabile per il posto di instructor nel corso estensivo di “Photoplay Composition” perché giovane membro della Columbia, con già alcuni anni di insegnamento alle spalle, allievo di Matthews e per di più versato in anglistica e teatro shakespeariano. Il resto si imparerà strada facendo.

English abstract

From 1915 to 1918, Victor Oscar Freeburg taught an extension course in Photoplay Composition at Columbia University, the first academic film course ever. In 1918 he published a book, The Art of Photoplay Making, in which he gathered the main topics of his lectures. Focusing on the new forms of plot composition, visual appeal, and economic needs implied by the new medium, Freeburg entered the very participated debate on film in the America of 1910s, becoming immediately one of the most respected film theorists.

 

keywords | Mythos; Images; Victor Oscar Freeburg; Theatre; Montage.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Guerra, Mythos, immagini e montaggio cinematografico: la lezione di Victor Oscar Freeburg con una Introduzione di Michele Guerra, “La Rivista di Engramma” n. 117, giugno 2014, pp. 110-129 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2014.117.0007