"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

“Bello gloria maior eris”. Alcuni riferimenti formali e ideologici per l’Ara Pacis Augustae

Giulia Bordignon

Le condizioni di straordinaria integrità visiva dell’Ara Pacis Augustae – quasi una sintetica concrezione lapidea dell’intera arte di età augustea – sono frutto in realtà di una ricomposizione novecentesca compiuta a partire da innumerevoli frammenti (v. il saggio di Simona Dolari e il contributo di Filippo Malachin in questo numero di “Engramma”): questo dato di fatto però non può non indurre lo storico a interrogarsi su quali possano essere stati i modelli o i precedenti architettonici, scultorei, iconografici e infine ideologici a cui gli artisti di Augusto hanno fatto riferimento.

Si tratta invece, sorprendentemente, di un interrogativo che nella bibliografia critica relativa al monumento è assai raramente o frettolosamente affrontato, quasi che l’evidenza dell’intero – l’Ara assertivamente ricostruita nel giro di pochi mesi, nel 1937-38  – abbia reso superflua una riconsiderazione storico-critica del tipo formale dell’altare, a tutto favore delle interpretazioni iconologico-crittografiche dei suoi preziosi pannelli (v. in questo stesso numero di “Engramma” il contributo di Luigi Sperti). Vale la pena, dunque, proporre alcune riflessioni in merito alla questione dei modelli: ne emerge un quadro che da un lato iscrive l’Ara Pacis entro precise coordinate culturali, dall’altro lato sottolinea – proprio a partire dall’intreccio di tali coordinate – gli elementi di autonomia e unicità del monumento augusteo.

Dalle parole dell’imperatore Tiberio, riportate nel IV libro degli Annales di Tacito, apprendiamo che Augusto – in genere sempre cauto nell’accettare riconoscimenti pubblici – “non impedì l'erezione a Pergamo di un tempio a sé e alla città di Roma” (Tac., Ann. IV, 37: "Cum divus Augustus sibi atque urbi Romae templum apud Pergamum sisti non prohibuisset"). Si tratta del primo tempio dedicato al princeps e all’Urbe costruito in una provincia, e di una delle prime concessioni di Augusto al riconoscimento di un suo statuto eccezionale, tale da associare la devozione personale al princeps al culto di Roma, collocandolo di fatto supra ceteros mortales (per usare anacronisticamente un'espressione pliniana), e preparandone, già in vita, la divinizzazione.

Già oltre un secolo prima di Azio, nel 133 a.C., Pergamo era diventata provincia romana, alla morte del sovrano Attalo II che, privo di figli, aveva lasciato in eredità al popolo di Roma il proprio regno. Accanto al lascito delle terre, il sovrano di Pergamo aveva affidato a Roma un altro, straordinario, lascito: una delle più importanti opere d’arte del tardo ellenismo, la celebre ara monumentale eretta dal suo predecessore Eumene II, verosimilmente dopo la vittoria sui barbari Galati del 184 a.C. e dedicato, con tutta probabilità, a Zeus e ad Atena Nikephoros.

   

 Possiamo dunque considerare l’altare pergameno come il più grandioso precedente architettonico noto e disponibile agli artisti augustei, quasi un riferimento obbligato per la realizzazione dell’Ara Pacis. Per struttura, il monumento attalide rappresenta una versione consapevolmente votata al gigantismo delle are cosiddette 'a pi greco'  (oppure 'a U') che a partire dall’età arcaica costellano il mondo ellenico, dall’altare di Era a Samo (VI sec. a.C.) a quello di Artemide a Efeso (IV sec. a.C.) e a quello di Poseidone a Tenos (I sec. a.C.): anche la mensa interna dell’Ara Pacis si lascia iscrivere in questa stessa tradizione morfologica, pur mantenendo dimensioni assai più limitate. 

Ed è proprio la netta differenza tra la grandiosità dell’ara attalide (35x33 m) – edificata per celebrare la vittoria del sovrano sui nemici – rispetto alle misure di quella augustea (11,60x10,60 m) – realizzata per celebrare la pace del princeps – a costituirsi come elemento significativo di confronto: nello scarto dimensionale è possibile misurare la valenza politica dello strategico ‘ritegno’ di Augusto, e la sua ritrosia nell’accettare in Roma riconoscimenti pubblici che potessero denotare l’aspirazione a una grandeur politico-culturale di tipo monarchico orientale, che già aveva caratterizzato il suo rivale Antonio. Il potere del princeps si doveva esplicare non tanto nella maestosità del monumento, quanto nella sua perfezione formale e nella raffinatezza del suo ornamentum.

Il raffronto dell’altare pergameno con l’ara augustea, in effetti, più che da un punto di vista strutturale e architettonico, è significativo soprattutto per quanto riguarda la complessità del messaggio ideologico trasmesso mediante i rilievi che ornano pervasivamente i due monumenti.

Sul lato ovest dell’Ara Pacis vediamo, nei pannelli che affiancano l’ingresso nel registro superiore, l'esaltazione di Roma mediante la rappresentazione del mito delle origini, grazie agli episodi che vedono protagonisti i suoi eroi fondatori.

   

Si tratta di due scene su sfondo agreste: da un lato il sacrificio di una scrofa ai Penati da parte di Enea appena giunto nel Lazio (ma la figura sacerdotale è stata interpretata anche come Numa Pompilio); dall’altro la scena (fortemente reintegrata negli anni Trenta) della lupa che allatta Romolo e Remo, cui assistono Marte e Faustolo (rispettivamente il padre ‘biologico’ e quello ‘putativo’ dei gemelli. Nei pannelli dominano gli elementi naturalistici (rocce, piante e animali), che si offrono come sfondo delle scene raffigurate ma sono anche collegabili alla decorazione fitomorfa, carica di significati simbolici, del registro inferiore e delle pareti interne del recinto (su cui v. in questo numero di "Engramma" il contributo di Luigi Sperti).

Anche nell’ara di Pergamo il cosiddetto ‘piccolo fregio’, che ornava le pareti del portico intorno alla mensa interna, illustra mediante episodi del mito le origini divine della città: vi sono narrate infatti le vicende di Telefo, figlio di Eracle e fondatore di Pergamo e della dinastia attalide.

     

L’incontro tra l’eroe semidivino e la madre di Telefo, Auge figlia del re arcade Aleo; l’abbandono di madre e figlio da parte di Aleo, cui un oracolo aveva predetto la morte per mano della discendenza; il ritrovamento del piccolo Telefo da parte di Eracle; le battaglie di Telefo in Misia, dove viene ferito da Achille; il viaggio dell’eroe ad Argo dove viene miracolosamente guarito dalla stessa freccia di Achille; l’istituzione di culti nella città di Pergamo; e infine le scene funebri che preludono all’eroicizzazione di Telefo dopo la morte: questi e altri episodi, quasi la riproposizione scultorea di un poema epico riletto in chiave ‘romanzata’, sono narrati nelle lastre che formano il fregio. Il ‘piccolo fregio’ di Pergamo costituisce forse il primo esempio antico di rappresentazione diegetica, ossia di narrazione continua che sviluppa sinotticamente, nello spazio, il tempo delle vicende dei personaggi raffigurati: ritroveremo questa forma narrativa anche a Roma, ad esempio nelle colonne coclidi di età imperiale. Ogni episodio della vita di Telefo è diviso dal successivo mediante l’inserimento di elementi naturali, alberi o rocce raffigurati con realismo e ricchezza di dettagli; l’ambientazione mimetica caratterizza anche gli sfondi di alcune lastre: indicazione, insieme alle diverse dimensioni delle figure, di una profondità spaziale mutuata dalla pittura contemporanea.

Molto diverso per linguaggio stilistico, è invece il ‘grande fregio’ che corre all’esterno dello zoccolo dell’ara pergamena: se le vicende di Telefo all’interno del portico sono narrate in forme composte e misurate, che richiamano ad esempio alcuni modelli dell’arte funeraria ateniese di età classica e tardo-classica (V-IV sec. a.C.), la Gigantomachia – è questo il soggetto del grande fregio – è invece improntata a un linguaggio patetico, emotivamente carico, ancora secondo i canoni e il gusto formale dell’età ellenistica (e difatti probabilmente la decorazione dello zoccolo è anteriore a quella interna del portico).

    

La storia eroica di Telefo si giustappone al fregio esterno anche nel tema: alle vicende tutte terrene dell’eroe si affianca l’immane lotta cosmica degli dei contro i giganti, creature primordiali, semiferine, dominate dagli istinti e ribelli all’ordine voluto dagli olimpi. Sull’ala settentrionale dello zoccolo compaiono infatti le divinità dell’Oceano, mentre dall’ala sud muove Dioniso con il suo corteggio; da nord, la lotta prosegue con le divinità della Notte, per ricongiungersi al lato sud mediante l’intervento degli dei della Luce; fulcro del conflitto, sul lato est, le figure di Zeus e di Atena, a cui l’ara è dedicata.

La storia di Telefo rappresenta dunque le origini eroiche della città, mentre la Gigantomachia allude al trionfo della dinastia attalide vittoriosa nello scontro con i barbari Galati, che erano rappresentati sconfitti, in gruppo scultoreo a sé stante, anche nel ‘grande donario’ presso il tempio di Atena a Pergamo.

    

Anche nell’Ara Pacis, alla raffigurazione del mito delle origini del fronte ovest si associa sul fronte est la rappresentazione della potenza di Roma; ma qui l’atmosfera della rappresentazione è di segno opposto rispetto allo scontro di dimensioni cosmiche del monumento attalide.

In un paesaggio idillico e ubertoso, la personificazione di Tellus/Cerere, la Terra feconda – ovvero Venere/Pace, madre di Enea e divina progenitrice della gens Iulia (v. in “Engramma” il saggio di Monica Centanni, Maria Grazia Ciani) – accoglie in grembo due putti, mentre due Aure, personificazioni dei venti di terra e di mare, assistono alla scena, che rappresenta la pace augustea “terra marique parta” (Res Gestae II.13.43); dall’altra parte è stata ricostruita la presenza della personificazione di Roma, che siede, in armi ma pacificata, su un trofeo di scudi e corazze (v. in “Engramma” il contributo di Giacomo Calandra).

Se dunque i rilievi dei lati est e ovest dell’Ara Pacis e quelli del piccolo fregio pergameno sono accomunati dal linguaggio formale e dagli spunti tematici (l’esaltazione della città e delle sue origini mediante le vicende dell’eroe esposto e poi riabilitato), andrà però sottolineata per l’Ara Pacis – certo in parte anche a causa del limitato spazio disponibile – la scelta di non narrare la storia leggendaria della fondazione come un racconto continuo, quanto piuttosto di farne singoli episodi allegorici, di sapore didascalico-morale. I pannelli del lato ovest dell’Ara Pacis si costituiscono infatti come veri e propri exempla: i ‘miracoli’ dell’allattamento della lupa e del sacrificio della scrofa sono quadri devozionali offerti alla pietas degli antichi osservatori. Sul lato est, le divinità raffigurate non sono altro che personificazioni che incarnano per figura la potenza e la pace dell’Impero: all’agitato e grandioso kosmos dell’ara pergamena si sostituisce, a Roma, l’oikoumene concretamente pacificata da Augusto.

Sia l’altare pergameno sia quello augusteo, comunque, proiettano nel linguaggio del mito i valori dell’attualità. A confermare la valenza politica dei soggetti mitici nell’arte pergamena possiamo richiamare anche la collocazione da parte di Attalo, presso il lato meridionale del Partenone ad Atene, del cosiddetto ‘piccolo donario’ (Pausania I, XXV, 2: "Πρὸς δὲ τῶι τείχει τῶι Νοτίωι γιγάντων, οἳ περὶ Θράικην ποτὲ καὶ τὸν ἰσθμὸν τῆς Παλλήνης ὤικησαν, τούτων τὸν λεγόμενον πόλεμον καὶ μάχην πρὸς Ἀμαζόνας Ἀθηναίων καὶ τὸ Μαραθῶνι πρὸς Μήδους ἔργον καὶ  Γαλατῶν τὴν ἐν Μυσίαι φθορὰν ἀνέθηκεν Ἄτταλος, ὅσον τε δύο πηχῶν ἕκαστον"). Si trattava di quattro gruppi di statue, raffiguranti rispettivamente la Gigantomachia, l’Amazzonomachia, la sconfitta dei persiani a Maratona e quella dei Galati in Misia: due battaglie del mito, quelle contro i Giganti e contro le Amazzoni, stanno in serie con altri due scontri altrettanto leggendari tra civiltà e barbarie, quello dei Greci contro i Persiani, e, da ultimo, quello attuale ma non meno epocale dei Pergameni contro i Galati. L’uso politico del mito – e in particolare la Gigantomachia – trovava d’altro canto sull’Acropoli un immediato riscontro ‘a colpo d’occhio’ proprio nella decorazione scultorea del Partenone, che nelle metope presenta Gigantomachia, Amazzonomachia, Centauromachia, ed espisodi che vedono dei ed eroi impegnati nella guerra di Troia.

È dunque ai temi scultorei del Partenone che la decorazione dell’ara pergamena intendeva esplicitamente richiamarsi, non tanto nelle forme quanto nel messaggio ideologico: la grande Atene periclea rinasce – nelle intenzioni dei sovrani attalidi – nella nuova Pergamo regale. Lo slittamento tipologico – il tempio (di Atena) come riferimento per la realizzazione dell’altare (di Atena Nikephoros e Zeus) – non sorprende se consideriamo il fatto che anche il Partenone, oltre e più che un edificio religioso, era soprattutto un grande anathema, un monumentale dono votivo della città riconoscente alla dea per la vittoria sui barbari persiani.

Come Pergamo attalide, così Roma augustea guarderà, anche se con un differente sguardo retrospettivo, all’Atene periclea: anche Augusto opera infatti un mirato intervento architettonico sull’Acropoli accanto al Partenone, permettendo la costruzione dinnanzi all’accesso principale del tempio di una tholos monoptera dedicata 'a Roma e ad Augusto', proprio come aveva già fatto a Pergamo. All’arte periclea dunque anche Augusto si richiama sotto il profilo formale, in quanto la riconosce come l'espressione massima della civiltà ellenica, e considera questa ripresa anche una certificazione mitopoietica del nuovo potere politico.

   

La rappresentazione dell’identità politico-culturale della polis periclea aveva trovato in effetti nel programma iconografico del Partenone la sua espressione più eloquente, in particolare in un elemento decorativo che compare per la prima volta nell’arte greca nel V secolo a.C.: il fregio continuo celebrativo, posto all’esterno del naós del Partenone, con la rappresentazione della celebrazione delle Panatenee.

Si tratta di una processione che parte dall’angolo sud-occidentale della cella e muove in direzioni opposte sui due lati, per ricongiungersi sul fronte est del tempio, dove assistiamo alla scena della consegna rituale di un peplo ad Atena, alla presenza dei dodici dei e degli eroi eponimi della città. Per ognuna delle due direzioni sono riconoscibili tre nuclei figurativi a partire dalla peploforìa: una pompé cultuale con gli animali destinati al sacrificio, una parata di quadrighe, una parata di cavalieri. Diverse sono state le ipotesi interpretative relative all’identificazione del corteo raffigurato: le Panatenee, ovvero le solenni feste quadriennali in onore della dea; l’istituzione dei giochi da parte di Erittonio, mitico re di Atene; la prima Panatenaica dopo la distruzione persiana; la processione eroicizzante dei Maratonomachi; due contemporanee processioni sacrificali con mete distinte sull’Acropoli, il megas bomos e l’archaios naos. L’ipotesi più interessante legge nel fregio due processioni che, nel contesto della festa in onore di Atena, rispecchiano la suddivisione politica e religiosa della città: nonostante le lacune, è possibile riconoscere una partizione ritmica nel numero e nell’iconografia delle figure, che alluderebbe nel lato sud alla struttura socio-politica, democratica, della città (le dieci tribù in cui Clistene aveva suddiviso i cittadini), nel lato nord e ovest all’antica suddivisione pre-clistenica secondo le dodici fratrie, ‘confraternite’ cittadine che conservavano nel corpo civico un’originaria valenza religiosa.

   

La decorazione architettonica a fregio continuo torna, pur in forme molto diverse, come elemento prepotentemente caratterizzante sia nell’altare pergameno (che però tratta di in tema mitico), sia soprattutto nell’Ara Pacis. È infatti nel rilievo del naós del Partenone che l’Ara Pacis trova il riferimento più immediato ed esplicito per quanto riguarda la rappresentazione della propria identità politica e contemporaneamente religiosa, nell’intreccio tra istituzioni statali e cultuali della processione dei lati nord e sud. Non sarà superfluo ricordare qui che la dedicazione dell’Ara non fu una dedicazione dinastica da parte di Augusto o della sua famiglia, bensì un atto pubblico, voluto dal Senato e dunque dalla città riconoscente al princeps.

   

Sui lati sud e nord dell’Ara Pacis si snoda una composta processione di personaggi: si tratta di un unico corteo, visto da opposti punti di vista. La duplice pompé è suddivisa sui due lati in gruppi che si corrispondono, secondo le mansioni che caratterizzano le figure: sacerdoti e assistenti al culto; magistrati; e infine uomini donne bambini (la famiglia del princeps), la cui identità è ricostruibile solo parzialmente (anche a causa dei rilevanti interventi di restauro a cui le lastre sono state sottoposte nel corso della loro storia: v. il contributo di Simona Dolari in questo stesso numero di "Engramma"). L'azione compiuta dal corteo non è del tutto certa: la scena potrebbe rappresentare il reditus di Augusto, cioè la cerimonia di accoglienza tributata al princeps al ritorno dalle campagne di pacificazione nelle Gallie e in Spagna; oppure potrebbe rappresentare l'inauguratio della stessa Ara Pacis, cioè la cerimonia durante la quale, nel 13 a.C., si procedette a delimitare e consacrare lo spazio sul quale sarebbe sorto l'altare.

Sulle ante della mensa interna compaiono ulteriori scene di culto, come il corteo delle vestali e una processione sacrificale, che forse raffigurano le cerimonie che si svolgevano ritualmente ogni anno presso l’ara. Nel fregio continuo esterno, religione (i sacerdoti, e in particolare quei collegi sacerdotali che Augusto aveva di recente riformato), stato (i magistrati), famiglia (i congiunti dell’imperatore) si trovano raffigurati tutti sullo stesso piano, in connessione con l’esaltazione mitico-allegorica di Roma: sono i valori della pietas di Enea (rilanciato come eroe fondatore di Roma proprio in quegli anni da Virgilio), ossia del programma politico-ideologico-morale propugnato e attuato Augusto.

Sebbene non sia possibile istituire confronti puntuali tra le due serie di rilievi, la composizione generale del corteo, i volti idealizzati e anonimi dei personaggi in secondo piano, le toghe panneggiate – abbigliamento formale di cui lo stesso Augusto rilancia la moda, come manifestazione del ripristino della dignitas antica (Svet., XL: "[Augustus] habitum vestitumque pristinum reducere studuit") – conferiscono all’insieme una allure che ricorda indubbiamente l’esempio partenonico, e che conferma la volontà di Augusto di rappresentarsi come primus inter pares tra le alte cariche della res publica. Ma al ritmo ordinato della composizione corrisponde una attenzione nella resa dei dettagli che non possiamo ascrivere esclusivamente al modello ateniese. Il fregio del Partenone non è infatti l’unico riferimento formale cui si richiamano le figure della processione augustea, che peraltro dovevano risultare ben più vicine e visibili agli osservatori di quanto non lo fossero quelle del modello greco, collocate a una notevole altezza e nascoste nell’ombra della peristasi del tempio.

 

L’intimità familiare che lega espressivamente alcuni personaggi, ad esempio, è rintracciabile con maggior evidenza nelle steli funerarie attiche del V-IV sec. a.C. (già chiamate in causa per il pergameno fregio di Telefo), piuttosto che nella raffigurazione, tutta politica, delle Panatenee. Si veda in particolare il gruppo che segue la figura di Agrippa, morto l’anno precedente l’inaugurazione dell’Ara (elemento che conferma, indirettamente, la valenza ideale della rappresentazione). In generale, comunque, le forme del rilievo della processione augustea risultano unificate da un’intenzione certamente ‘classica’ nell’insieme, adatta alla solennità ufficiale del tema rappresentato.

 Possiamo infine considerare congiuntamente i programmi figurativi dei tre monumenti, in quanto concepiti organicamente come interazione di più livelli di lettura: è la complessità semantica dell’insieme, più che le parentele dei singoli aspetti figurativi, a stringere il collegamento tra il Partenone, l’Ara di Pergamo e l’Ara Pacis. Nel Partenone, distribuite su più registri figurativi, troviamo infatti per la prima volta associate insieme tanto la celebrazione delle origini mitiche della città (nei frontoni), quanto l’esaltazione delle sue vittorie (nelle metope). Ancora, in più rispetto a Pergamo (ma come nell’Ara Pacis di Augusto), il Partenone presenta la prima raffigurazione celebrativa dell’assetto politico-istituzionale, e insieme religioso, della città (nel fregio continuo).

     

Sui frontoni, alla presenza delle divinità olimpiche ma anche di divinità terrestri e naturali, quali fiumi e astri, vediamo a est la nascita di Atena dalla testa di Zeus (nascita di Atena, sull’Olimpo), e a ovest la sovranità della dea sulla regione dell’Attica, resa fertile da Atena in seguito alla sua vittoria nella gara con Poseidone (fondazione di Atene, sulla terra). Le due scene alludono alle origini più che mitiche, addirittura divine, della città, quasi a identificare la polis con la sua dea. Sulle metope sono raffigurate non solo battaglie divine come la Gigantomachia o la Centauromachia contro gli esseri semiferini del mito, ma anche gli episodi pre-storici, eroici, della guerra di Troia (Ilioupersis) e quella contro le Amazzoni. Il mito, in una accezione quasi didascalica che contrappone alla civiltà greca la inumanità di mostri e barbari, è il rispecchiamento leggendario delle recenti guerre contro i Persiani, i potenti barbari, appunto, sconfitti pochi anni prima da Atene. Nel fregio continuo che corre in alto lungo le pareti esterne del naos, troviamo invece raffigurata l’attualità della vita istituzionale e religiosa della città, posta allo stesso livello del racconto mitologico (frontoni) e del racconto epico-eroico (metope).

 

Nel Partenone vediamo proiettato, nel triplice registro figurativo, un parimenti triplice registro temporale, dall’eternità del divino alla puntualità del presente: il tempo degli dei – e dunque il tempo del mito – nei frontoni; il tempo degli eroi – ovvero il tempo della storia gloriosa del passato – nelle metope; il tempo degli uomini – l’attualità socio-politica di Atene – nel fregio (Centanni 2004). Allo stesso modo potremmo riconoscere questi tempi simbolici a Pergamo, nella Gigantomachia (mito), nel fregio di Telefo (storia), nel donario con i Galati sconfitti (attualità). E analogamente potremmo leggerli nell’Ara Pacis di Augusto, nei rilievi con le divinità del lato est (mito), quelli con il racconto delle origini del lato ovest (storia), infine l’esaltazione del presente, nel fregio dei lati nord/sud e nelle scene rituali della mensa (attualità).

Riepiloghiamo schematicamente i temi trattati nei tre monumenti:

CONTRASTO TRA CIVILTÁ E BARBARIE
- Partenone: metope (Gigantomachia, Centauromachia, Amazzonomachia, Ilioupersis)
- Ara di Pergamo: fregio esterno (Gigantomachia)

ORIGINI MITICHE E DIVINE DELLA CITTÀ
- Partenone: frontoni (nascita di Atena e contesa per l’Attica); fregio (re ed eroi sul lato est)
- Ara di Pergamo: fregio interno (il mito di Telefo)
- Ara Pacis: pannelli lato ovest (sacrificio ai Penati e Lupercali; pannelli lato est: dea Roma/Marte e Tellus/Venere)


ESALTAZIONE DELL’ORDINAMENTO POLITICO
- Partenone (fregio: le Panatenee)
- Ara pacis (fregio: reditus di Augusto/inauguratio dell’ara)

I tre monumenti illustrano questi temi all’interno di un sistema rappresentativo complesso, ma possiamo sottolineare in particolare alcune affinità e alcune differenze tra l’Ara Pacis e i suoi due precedenti. L’Ara augustea sembra avere in comune con l’altare pergameno soprattutto la celebrazione delle origini eroiche, e dunque umane, della città; per contro, l’esaltazione della sua natura divina, cui alludono le personificazioni di Roma e di Tellus/Venere, è analoga a quella dei frontoni del Partenone (Atena/Atene nata da Zeus e garante della fecondità dell’Attica). Con il Partenone (e non con l’altare pergameno) l’Ara Pacis condivide la rappresentazione della propria identità civica e politica, nella forma ‘egalitaria’ della processione religiosa e civile. Dall’arte pergamena invece l’Ara Pacis sembra derivare l’attenzione per la resa ‘pittorica’ dei dettagli e dell’ambiente naturale, e vale la pena di ricordare qui che anche il fregio vegetale potrebbe avere importanti precedenti pergameni (v. in questo numero di "Engramma" il contributo di Luigi Sperti).

Significativamente a Roma non troviamo rappresentato, come invece accade a Pergamo e ad Atene, alcun episodio di scontro bellico, tratto dal mito (la Gigantomachia) o dalla storia (i barbari): non c’è spazio, nell’Ara dedicata alla Pax Augusta, per la guerra – né tanto meno per i nemici, anche sconfitti. Si tratta di una precisa scelta programmatica – l’esaltazione della nuova, felice, età dell’oro che si realizza in questi anni – che anche Ovidio illustra nei Fasti, proprio in uno dei brani letterari antichi che citano il monumento augusteo: “Vieni, o Pace, e rimani, dolce, in tutto il mondo. / Se mancano i nemici, anche i trionfi vengono a mancare: / ma tu darai ai nostri principi una gloria maggiore che in guerra. / Che il soldato impugni le armi solo per difendersi da altre armi! / Che il fiero suono della tromba risuoni soltanto nella festa!” (Fasti I, 697-722: “Pax, ades et toto mitis in orbe mane. / dum desint hostes, desit quoque causa triumphi: / tu ducibus bello gloria maior eris. / sola gerat miles, quibus arma coerceat, arma, / canteturque fera nil nisi pompa tuba”; v. in "Engramma" il saggio di Monica Centanni, Maria Grazia Ciani).

Sin qui abbiamo considerato i referenti monumentali cui l’Ara Pacis pare richiamarsi e che possiamo ancora interrogare – da un punto di vista formale ma soprattutto ideologico e culturale – per l’importanza dei resti archeologici pervenuti fino a noi. Non meno importanti sono però altri riferimenti, di cui purtroppo abbiamo scarsissime testimonianze archeologiche materiali, che ci aiutano ad ampliare la rete di significati per comprendere meglio l’Ara Pacis, non tanto come integro ‘miracolo’ dell’arte augustea, ma nei suoi presupposti storici e culturali.

L’Ara Pacis, come abbiamo visto, si configura nella sua mensa interna come un altare 'a pi greco', ma il suo recinto marmoreo fa riferimento a un’altra morfologia, quella degli altari ‘a corte’ che trova sviluppo soprattutto dalla fine del V sec. a.C. e poi nel corso dell’età ellenistica, tanto che possiamo inserire in questa morfologia la stessa  ara di Pergamo, con il suo monumentale peristilio. Per quanto riguarda possibili raffronti puntuali con l’Ara Pacis, l’‘altare della Pietà’ (Éleos) nell’agorà di Atene (fine V sec. a.C.: v. Pausania I, 17, 1) sembra però costituire il riferimento più appropriato, sebbene anche in questo caso la forma del monumento sia soprattutto il frutto di ipotesi archeologiche.

Si tratta di una mensa sacrificale rettangolare racchiusa entro un témenos composto di lastre marmoree (8,50x9,00 m), con un duplice ingresso; gli archeologi hanno proposto una ricostruzione del recinto secondo la quale le lastre ai lati dei due ingressi erano decorate da rilievi con episodi mitici di particolare intensità emotiva, di pathos esemplare (Orfeo ed Euridice; le Peliadi uccidono il padre; le Esperidi abbandonate da Eracle; Teseo, Piritoo ed Eracle negli Inferi), capaci di suscitare la ‘compassione’ cui l’altare era intitolato. Gli exempla mitici raffigurati su lastre marmoree, il duplice accesso al témenos, le dimensioni e la stessa dedicazione a una personificazione divinizzata rappresentano validi elementi di confronto con l’Ara Pacis. Dalla Tebaide di Stazio (I sec. d.C.), apprendiamo inoltre che l’altare ateniese non aveva statua di culto, e che era circondato da un boschetto (Stat. Theb. XII, 481-509) analogamente alla stessa Ara Pacis, collocata in un paesaggio naturale, poco edificato, nel cuore del Campo Marzio.

Come abbiamo visto con il richiamo al Partenone, l’Ara Pacis fa riferimento anche ad altre tipologie architettoniche, che funzionano soprattutto come referenti ideologici dell’altare augusteo. In particolare – nel clima del rilancio dei culti religiosi più arcaici e del restauro dei templi più antichi di Roma da parte di Augusto – un ruolo non irrilevante potrebbe aver avuto il riferimento ai templa minora della tradizione italica.

L’aspetto interno del témenos dell’Ara Pacis – quello di un recinto a doghe, pergolato e decorato di festoni di frutta – è stato collegato infatti a questa definizione antica tratta dal ‘dizionario enciclopedico’ redatto dal grammatico Festo (II sec. d.C.?): “I templa minora sono creati dagli àuguri recingendo determinati luoghi, delimitati con formule stabilite, con tavole di legno o con drappi, in modo che non abbiano più di un’apertura. Dunque il tempio è il luogo recintato e consacrato in modo tale da restare aperto su un solo lato e avere angoli ben fissati a terra” (Festo, s.v. Templum: “Minora templa fiant ab auguribus quum loca aliqua tabulis aut linteis sepiuntur, ne uno amplius ostio pateant, certis verbis definita. Itaque templum est locus ita effatus, aut ita septus, ut ea una parte pateat, angulus quod adfixus habeat ad terram”).

Con la ripresa di forme ‘all’antica’ – cioè arcaiche rispetto al momento della sua edificazione – accostabili a quelle dei templa minora, l’Ara Pacis potrebbe costituire un esempio intenzionalmente esplicito, in senso retrospettivo e quasi antiquario, di quella ‘pietrificazione’ degli edifici sacri di cui parla Vitruvio nel IV libro del De architectura (IV, 2, 2), ovvero di quel momento di passaggio dalle originarie strutture in legno delle costruzioni arcaiche a strutture in marmo.

Al di là dell’effettiva perspicuità formale rispetto al monumento augusteo (è evidente il rilievo dato nella descrizione dei templa minora alla presenza di una sola apertura, mentre l’Ara Pacis è caratterizzata da un doppio ingresso, come l’ateniese ‘altare della Pietà’), la definizione di templum minus si può mettere in connessione con la notizia che Augusto, fin dal 41 a.C., assume la carica religiosa di àugure, il sacerdote in grado di trarre gli auspici che confermano o meno il favore degli dei.

Lo stesso nome di ‘Augusto’, come ci informa Svetonio, ha una forte connotazione religiosa: “In seguito [Ottaviano] assunse il soprannome di Augusto […] perché, mentre alcuni senatori erano del parere di attribuirgli quello di Romolo, quasi fosse stato il vero fondatore di Roma, prevalse la proposta […] di chiamarlo invece Augusto, non solo per l’originalità del nome, ma anche per la valenza della parola: si chiamano augusti, infatti, i luoghi resi sacri dalla religione, e in cui si prendono gli auguri per consacrare qualcosa, sia che questa parola derivi da auctus [accrescimento], sia che derivi da avium gestus o da gustum [ovvero il volo degli uccelli o il loro modo di cibarsi, da cui si traggono gli auspici]” (Svet., Vita di Augusto, VII: "Gai Caesaris et deinde Augusti cognomen assumpsit, alterum testamento maioris avunculi, alterum Munati Planci sententia, cum, quibusdam censentibus Romulum appellari oportere quasi et ipsum conditorem urbis, praevaluisset, ut Augustus potius vocaretur, non tantum novo sed etiam ampliore cognomine, quod loca quoque religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicantur, ab auctu vel abu avium gestu gustuve").

Le leggende relative alle origini di Roma, d’altro canto, narrano che anche Romolo fondò la città dopo aver tratto gli auspici dal volo degli uccelli: Augusto, anche nelle sue vesti di augur, è dunque il nuovo Romolo, il ri-fondatore dell’urbe. Il riferimento ai tradizionali, arcaici templa minora, dunque, potrebbe riferirsi alla funzione sacrale di Augusto come alter Romulus (secondo Romolo), anche in relazione agli episodi mitici della fondazione di Roma raffigurati sull’Ara stessa, e a quella ‘nostalgia’ delle origini dell’Urbe, che tanta parte ha nella poesia di età augustea.

Per quanto riguarda i possibili modelli dell’Ara Pacis qui considerati, dunque, assai complesso  si rivela il confronto con esempi di altari monumentali, o addirittura con templi precedenti l’ara augustea. Ciascuno dei monumenti greci, ellenistici o romani citati trova diversi punti di tangenza con l’Ara Pacis, ma nessuno di essi si può considerare l’unico modello di riferimento: anche da qui, forse, deriva il silenzio della bibliografia critica in merito al tema.

L’aspetto originale e innovativo dell’Ara Pacis sta invece proprio nel rapporto molteplice con i suoi diversi, possibili, modelli: l’appropriazione del passato compiuta dall’architettura augustea seleziona e ricombina in modi inediti gli esempi precedenti e se ne serve adattandoli al nuovo contesto, senza però perdere il legame semantico con l’ambito originario (anzi spesso alludendovi esplicitamente), e ottenendo significati – e forme – pienamente attuali.

Una versione di questo contributo è stato parzialmente pubblicata in cartaceo nel Quaderno del Centro studi Architettura Civiltà e Tradizione del Classico dell'Università Iuav di Venezia Ara Pacis. Le fonti, i significati e la fortuna, Venezia 2007 (pubblicato in occasione della giornata di studi sull'Ara Pacis con Eugenio La Rocca e Henner Von Hesberg, 6 e 7 febbraio 2007).

Riferimenti bibliografici

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Thompson 1952
H. A. Thompson, The Altar of Pity in the Athenian Agora, in “Hesperia”, 21, 1 (gennaio-marzo 1952), pp. 47-82

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Bordignon, "Bello gloria maior eris". Alcuni riferimenti formali e ideologici per l’Ara Pacis Augustae, “La Rivista di Engramma” n. 75, ottobre/novembre 2009, pp. 171-190 | PDF di questo articolo