"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

98 | maggio/giugno 2012

9788898260430

Una partitura (post)drammatica

Per una lettura di Einstein on the Beach di Robert Wilson

Daniela Sacco

English abstract

1976-2012: le due date scandiscono la distanza temporale che intercorre dalla prima dello spettacolo Einstein on the Beach, andato in scena il 25 luglio del ’76 al Festival d’Avignone, e la più recente ripresa che quest’anno porta l’opera in tournée nelle principali scene internazionali, tra cui lo scorso marzo le due repliche italiane al Teatro Valli di Reggio Emilia. Alla notizia della riedizione dello spettacolo, che ha segnato in modo indelebile la storia del teatro musicale e non, la prima domanda è se per quest’opera il tempo è passato,  se lo spettacolo a 35 anni di distanza risulta vecchio, superato o nella migliore delle ipotesi provoca una sensazione ‘vintage’. E la risposta corale - a giudicare dalle innumerevoli recensioni che hanno registrato il suo passaggio - è no: Einstein on the Beach è vivo, come lo era all’atto della sua creazione, e lo è senza essere stato modificato, almeno nella struttura compositiva, di una virgola. Evidentemente, viene da pensare, quanto si ha modo di vedere in giro per il mondo dell’universo teatrale contemporaneo non mostra qualcosa di più rispetto a quello che a suo tempo ha significato quest’opera. Il codice di scrittura scenica introdotto da Wilson rompendo con la tradizione è lo stesso codice che, assunto nel corso degli anni, riconosciamo variamente applicato nelle tante forme di teatro contemporaneo, spesso definito d’avanguardia. Gli attori in scena sono ovviamente diversi, gli orchestrali anche, le coreografie, un tempo firmate da Andy de Groat, sono oggi affidate a Lucinda Childs che nel ’76 le eseguiva in scena, le tecnologie utilizzate sono potenziate, ma la struttura e composizione dell’opera rimangono invariate così come la musica di Philip Glass. Ed è proprio sulla struttura, su cui la musica viene a sua volta costruita in un processo di riproduzione e amplificazione, che si concentra la peculiarità ed eccezionalità dell’opera e l’indagine proposta qui di seguito, che non intende essere una recensione allo spettacolo ma proporre una riflessione di filosofia del teatro sullo spettacolo di Wilson.

Einstein on the Beach, bozzetto di struttura dell’opera

Le creazioni di Robert Wilson, e in particolare Einstein on the Beach, sono considerate tra i principali e primi esempi di teatro ‘postdrammatico’, la cui definizione è da attribuirsi anzitutto a Hans-Thies Lehmann. Quello che distingue il teatro postdrammatico, collocato a partire dagli anni ’70 del Novecento, da quello drammatico, che indicativamente lo precede, è secondo Lehmann la non dominanza del testo ridimensionato a elemento tra gli altri che concorrono alla creazione dello spettacolo nel suo insieme. E per testo Lehmann intende in primis la ‘favola’, la narrazione, che è considerata il cuore del teatro drammatico ed è ricondotta alla mimesis praxeos secondo una interpretazione della Poetica di Aristotele consolidata dall’età moderna. Mimesis praxeos, ossia imitazione dell’azione, che avviene secondo verisimiglianza e regole drammaturgiche precise, rispettose dell’unità di tempo e di spazio e aderenti a una tracciato logico. Il teatro postdrammatico, di fondo antiaristotelico, allora negherebbe queste unità e sarebbe eminentemente caratterizzato dalla frammentazione, dalla frattura logica e dalla inconsistenza delle trame che vengono totalmente assorbite nella scrittura scenica, nella composizione globale dell’evento teatrale. Quindi nel passaggio dalle avanguardie storiche alle neoavanguardie degli anni ’50 e ’60 fino alle esperienze postdrammatiche proprie della fine del XX secolo, si assiste alla destrutturazione della tensione all’unità e alla totalità unificata che il dramma – secondo una lettura modernista e logocentrica - ottemperava nel rispetto delle regole logiche di composizione delle vicende trasposte sulla scena. Nel teatro postdrammatico non si cerca più di realizzare sulla scena la totalità coerente di una composizione costituita da parole, suoni, gesti, azioni perché questi elementi vengono riorganizzati secondo un montaggio che tende alla frammentazione e si smarca dal criterio di unità e sintesi propria del dramma moderno. Viene meno quindi la volontà di sviluppare una vicenda oppure questa viene relegata in secondo piano di modo che la categoria del nuovo teatro è ‘la situazione’, ‘l’insieme dinamico’ piuttosto che la vicenda.

Lehmann denuncia la totale equivalenza che la modernità ha posto tra teatro e dramma e l’esclusione di altre realtà determinate di teatro oltre che, di conseguenza, l’occultamento della comprensione del fenomeno teatro in tutta la sua complessità. Equivalenza che non solo ha portato l’esclusione del teatro contemporaneo postdrammatico, ma anche quello che definisce il teatro ‘predrammatico’, ossia la tragedia greca; per cui: “La tragedia antica, i drammi di Racine e la drammaturgia visiva di Wilson sono, certamente, delle forme di teatro. Ma si può dire – se ci si basa sull’accezione moderna del dramma – che la prima è di natura ‘predrammatica’, che i drammi di Racine sono indubitabilmente del teatro drammatico, e che le ‘opere’ di Robert Wilson devono essere qualificate come postdrammatiche”. Lehmann non entra nel merito della peculiarità del teatro predrammatico, semplicemente lo qualifica come altro e storicamente precedente rispetto al teatro drammatico, individuando un confine rispetto a cui si collocano sia il teatro drammatico che il teatro postdrammatico. È però a partire dalla dichiarazione di questi confini che si pone una interrogazione su ciò che possono avere in comune le due forme di teatro, quella precedente e quella successiva, nello smarcarsi entrambe dal teatro definito drammatico.

Quello che si vuole sostenere qui, a partire dalla considerazione dell’opera di Wilson e oltre le speculazioni di Lehmann, è che non è tanto la presenza della narrazione o della favola a fare la drammaticità di un’opera teatrale, ma la composizione della sua struttura, che di fatto può trascendere le epoche. Teatro predrammatico, teatro drammatico e teatro postdammatico, nell’accezione di Lehmann, se da un lato si distinguono per il ruolo attribuito al testo, dall’altra sono ‘teatro’ nella misura in cui si compongono ugualmente secondo una struttura che ne garantisce il ‘drama’, l’azione, lo svolgimento, l’efficacia e questo oltre la priorità attribuita al testo o alla narrazione di una storia, o di un filo narrativo con un inizio e una fine.  Questa struttura che orchestra la frammentazione è il meccanismo del montaggio, ossia il minimo comune denominatore all’opera sia nel teatro ‘predrammatico’ che in quello ‘postdrammatico’, la stessa struttura elementare di base. Il montaggio per dare vita alla tensione drammatica non è un caotico assemblaggio di frammenti, ma una giustapposizione di elementi eterogenei che si struttura per contrappunto, per polarità semantica, dove le parti sono accostate principalmente secondo un rapporto di conflittualità, secondo il principio del contrasto, della contrapposizione.

E questo si può affermare per la tragedia greca come per l’opera di Robert Wilson. Un’indagine sulla tragedia greca, tenendo come riferimento teorico la riflessione di Aristotele sulla poetica, permette di cogliere il carattere compositivo e frammentario della drammaturgia antica, che risulta costituirsi secondo una combinazione di parti giustapposte attraverso polarità semantiche, attraverso un intreccio di eterogenei e antitetici. Nel caso di Eschilo ad esempio, il contrasto, l’attrito, il contrappunto, che sono l’effetto della giustapposizione semantica, fungono da indicatori di senso che creano e dirigono il movimento del dramma: sono il motore che dà energia all’azione, gli snodi, i nessi lungo i quali si conduce e si alimenta l’azione dipanandosi via via nello svolgimento della tramatura. E la struttura del dramma, nella disposizione alternata di scene in sequenza e interventi dei personaggi - nella scansione e alternanza concatenata di prologo, parodo, episodi, stasimi, esodo - è l’elemento fondamentale che concorre a dare forma allo stile, a contenere, articolandola a livello micro e macroscopico, la peculiarità semantica polare della scrittura eschilea. Anche la scansione della forma lessicale che caratterizza di volta in volta gli interventi lirici o recitativi dei diversi personaggi, rispetta la regola del contrappunto, nell’alternarsi ad incastro del parlato rispetto al canto e al recitativo: le rhesis, i brani, i dialoghi sticomitici, e di canti e corali con diversificata composizione strofica e relativa variazione ritmica del metro che ne caratterizza i versi. L’alternarsi e l’incastrarsi di tutte queste parti, all’interno delle quali la polarità semantica si riverbera in un continuo gioco di rimandi, danno il ritmo del tempo e la collocazione nello spazio, ossia strutturano il movimento della composizione tragica nella sua dimensione temporale e spaziale, per dare forma all’accadimento, allo svolgimento dell’azione. Nella scansione e distribuzione degli elementi che vengono composti dialetticamente nel dramma ed entrano così in relazione, la staticità propria dell’unità viene vanificata; la dynamis che tale composizione provoca innesca il movimento, lo sviluppo dell’azione. In questo senso è da leggere l’affermazione di Aristotele secondo cui il mythos è ‘imitazione dell’azione’, ossia riproduce nella composizione drammaturgica dei fatti in scena l’accadere degli eventi. E l’altro elemento essenziale costitutivo della tragedia, e del teatro più in generale, tendenzialmente trascurato nella molto riduttiva lettura moderna della Poetica di Aristotele, è la vista. Tra i cinque elementi costitutivi dell’arte tragica, accanto al più importante, il μῦθος, il filosofo riconosce la vista, l’ ὄψις che, rispetto ai caratteri, al linguaggio, al pensiero e alla musica ha una prevalenza su tutti gli altri (ὄψις ἔχει πᾶν). Il mythos inoltre è indicato anzitutto come “composizione di fatti” (λέγω γὰρ μῦθον τοῦτον τὴν σύvθεσιν τῶν πραγμάτων), oltre che ‘μίμησις πράξεως’ su cui la lettura modernista sembra essersi concentrata esclusivamente.

Una peculiarità del teatro postdrammatico, come di tutto il teatro novecentesco improntato a una forma mentis che possiamo definire propria di un ‘pensare per immagini’, è sicuramente la prevalenza del fattore visivo. È opportuno quindi ridare a questo elemento il valore riconosciuto già da Aristotele (che completa quello della mimesis praxeos), e leggere nel teatro di Wilson il suo dispiegamento, ossia il dispiegamento della visione, dell’ὄψις.

Ciò di cui Einstein on the Beach sembra proprio sbarazzarsi è la narrazione. La non narratività di quello che viene portato in scena è quanto viene da subito dichiarato dai suoi autori, per cui lo spettacolo non intende raccontare la storia del famoso scienziato. Pur utilizzando indizi che rimandano alla sua biografia (il titolo nasce dalla suggestione di una fotografia in cui Einstein appare su di una spiaggia, i costumi usati in scena riprendono dettagli del suo modo di vestire, la sua figura impersonata da un violinista), l’intenzione è di mettere in scena “un’opera ritratto”, come l’ha definita Philip Glass, senza raccontarne trama e vicende. Accade allora che molti elementi utilizzati rimandino ad Einstein, ma siano usati con libertà e aperti a un’ulteriorità di senso che la narrazione di una vicenda avrebbe potuto imbrigliare. Lo stesso approccio è stato utilizzato da Wilson per altre figure storiche a cui ha dedicato alcune sue opere, ad esempio The Life and Times of Sigmund Freud o The Life and Times of Joseph Stalin e, di fatto, la creazione di tutti i suoi spettacoli sin dall’inizio della carriera procede secondo una dinamica modulare, ripetendo, riprendendo e ampliando in ciascun nuovo spettacolo i motivi affrontati in quelli precedenti, e creando così una continuità. È uno stesso pensiero che si rivela di volta in volta nella poetica specifica di ciascuna differente opera; e Wilson per rendere questo concetto usa la metafora eraclitea del fiume, diverso in ogni suo punto ma sempre uguale a sé stesso, svelando in questo modo l’assunto del suo creare pensato ad immagine del divenire, dove l’immagine è il fondamento del divenire.

Foto che ritrae Albert Einstein su di una spiaggia

Per quanto la continuità modulare tra le opere fa sì che molte osservazioni che si possono fare per uno spettacolo valgano in generale per tutta la sua poetica, ciò non toglie che Einstein on the Beach costituisca, in continuità con le prime esperienze databili dal ’65, un passaggio importante per la compiutezza della sua poetica. E la presenza della partitura musicale realizzata da Glass, perfettamente consonante alla struttura dell’opera, segna lo scarto rispetto alle opere precedenti costruite anch’esse su personaggi le cui vicende storiche sono trasfigurate poeticamente in scena. In Einstein on the Beach la sperimentazione sullo spazio e il suono va a completare quella sul tempo e la visione a cui era approdato con i lavori precedenti. Se la storia di Einstein non è quanto Wilson intende raccontare nell’opera, la sua immagine è però evocativa della rivoluzione del modo di intendere lo spazio e il tempo di cui lo scienziato è stato portavoce, rivoluzione che, di riflesso, vuole essere rappresentata in scena come trasformazione del modo di intendere e vivere lo spazio e il tempo del teatro, distintiva della poetica del regista statunitense rispetto al teatro che lo ha preceduto. Come ha osservato Franco Quadri, se nelle altre creazioni di Wilson l’intrusione di un personaggio storico poteva risultare puramente pretestuosa, questo è ‘veramente uno spettacolo su Einstein’, e Wilson per parlare dello scienziato è sceso sul proprio terreno, perché ‘oltre che col suono, ha a che fare ininterrottamente e esclusivamente col problema dello spazio e col problema del tempo nel teatro’. (Quadri, p. 17)

Secondo Frédéric Maurin: “al tempo astratto, assoluto, omogeneo e meccanico come lo concepiva Newton, segue in Wilson un tempo instabile, irregolare: lo stesso che ha messo a nudo Einstein e che il regista può giocare a interrompere, a lavorare a invertire o a far scomparire secondo i suoi bisogni”.(Maurin, p. 49) Il tempo si spazializza, si offre come uno spazio da costruire, viene pensato esclusivamente rispetto a esso, e il ritmo che regola i movimenti degli attori, così come la musica, è creato rispetto allo spazio. Questo aspetto è illustrato metaforicamente anche attraverso dettagli che compaiono in scena: gli orologi collocati in scena sono orologi senza lancette oppure con lancette che si muovono all’inverso, o orologi che impiegano venti minuti per segnare un’ora. Ma è soprattutto agito nello spazio attraverso le coreografie dei movimenti che per rendere il senso di questo tempo si alternano nella polarità tra lentezza e velocità. Quindi, ad esempio, alla lentezza della prima immagine che appare nella prima scena del primo atto, ossia l’immagine di una locomotiva che avanza impercettibilmente dal fondo della scena, si giustappone il movimento veloce e carico di energia dell’attrice - Lucinda Childs nel ’76, Kate Moran nel 2012 - che dal proscenio disegna una diagonale composta da otto passi in avanti e otto passi indietro: l’effetto è tale che “la diversità dei tempi si sovraimprime sulla scena, i tempi diversi si urtano nella percezione”.

La slow motion è un elemento essenziale nel teatro di Wilson perché la sua importanza è legata a una percezione dello spazio e del tempo diversa da quella canonica. Infatti gli esperimenti sul ralenti nascono nei suoi primi lavori teatrali dall’osservazione di persone portatrici di handicap, che gli permette di comprendere e riprodurre sulla scena i meccanismi di una percezione diversa. L’attenzione per una percezione altra sembra la costante nei primi lavori e conferma l’esigenza da parte di Wilson di appropriarsi di un codice diverso di percezione del reale, come bagaglio fondamentale per la costruzione della sua poetica; si pensi anzitutto al caso di Raymond, il ragazzo sordomuto che appare in The Deafman Glance, ma anche al caso schizoide di Cindy in Ouverture, o a Francine in The Life and Time of Joseph Stalin, o alla balbuzie di Christopher Knowles in A letter for Queen Victoria. Sono tutti casi in cui Wilson scopre una percezione sensoriale distinta dalla comprensione verbale che in casi di ‘normalità’ ha la preponderanza nel rapportarsi al reale. Ad esempio l’atrofia del tempo, che è resa dal ralenti del movimento, ha l’effetto di provocare l’ipertrofia dello sguardo, per cui, come afferma Wilson: “più gli attori si muovono lentamente, più si vedono cose”. È evidentemente questa percezione, che ha un rapporto diverso con il tempo e lo spazio, a interessarlo e che vuole portare sulla scena.

L’alternanza polare tra lentezza e velocità è totalmente finalizzata alla costruzione di una struttura drammatica generale regolata dal ritmo. Come ha dichiarato Glass, ‘contrapporre scene contrastanti’ è un espediente drammaturgico, è funzionale all’efficacia dell’opera che deve poter essere recepita dallo spettatore. Così, secondo Glass, ‘l’assenza di un “significato” connotativo diretto ha reso molto più facile allo spettatore personalizzare questa esperienza attribuendole un “significato” particolare, emerso dal suo vissuto, mentre l’opera in sé rimaneva risolutamente astratta’. La questione del significato viene fatta quindi rimbalzare dall’autore allo spettatore, che costruisce a piacere la storia o il senso di ciò a cui assiste; lo spettatore è libero di interpretare come crede senza essere vincolato a precise direttive.

La contrapposizione, principio drammaturgico fondante, nell’opera di Wilson trova espressione soprattutto attraverso la ripetizione e variazione. La struttura dello spettacolo, che è la base su cui si costruisce il tutto ed è pensata e resa in immagini, è costruita totalmente sulla ripetizione e variazione. “Io comincio da una forma – afferma Wilson – anche prima di sapere l’argomento. Comincio da una struttura visiva e all’interno di questa forma, conosco il contenuto”. (Wilson in Mourin, p. 87) La struttura elementare di base, concepita come un edificio – Wilson ha abbandonato gli studi di architettura per dedicarsi al teatro – viene riempita di contenuti scelti secondo dei meccanismi associativi, che si dispongono nella griglia di partenza. Così Einstein on the Beach si struttura in quattro atti, della durata di un’ora circa ciascuno, inframmezzati da cinque Knee Plays, o giunture (letteralmente: ‘scene ginocchio’) della durata di circa dieci minuti, che inquadrano ogni atto dando così l’idea di un’opera pensata nella sua interezza come corpo o organismo anatomico. Ciascun atto si compone a sua volta di due scene eccetto il quarto e ultimo atto che è composto da tre; nel corso dei diversi quadri che formano questa struttura, tre elementi costituiti da immagini emblematiche o tipi di ambiente-immagine, ossia un treno, un tribunale e un campo-macchina spaziale si alternano e ripetono per tre volte trasformandosi via via. La struttura è modulare secondo il ripetersi, l’accorparsi e l’alternarsi della scansione dei numeri 1-2-3. Di modo tale che nei primi tre atti i tre elementi si ripetono due volte con alternanze e combinazioni di ambienti interni ed esterni: così il treno (1), il processo (2) e il campo-macchina spaziale (3) si dispongono nell’ordine 1-2 (nel primo atto), 3-1 (nel secondo atto), 2-3 (nel terzo atto), andando a formare in successione la serie 1-2-3/1-2-3. Infine, nel quarto atto ricompaiono tutti e tre gli elementi però trasformati. 

Scena 1B del II Atto

Gli elementi che compongono gli atti, nel ricomparire nelle varie scene, implicano ogni volta un mutamento del punto di visione e della prospettiva, per cui nella prima scena il treno appare avanzare lentamente dal fondo della scena da destra verso sinistra, nella seconda scena invece si intravvede la coda del treno; il tribunale, che appare frontalmente nella prima scena con accanto un letto, nella seconda è sezionato e appare per metà come prigione; il campo è percorso da un’astronave/macchina del tempo che attraversa lo spazio e nella seconda scena si avvicina in primo piano; nella terza scena gli elementi che tornano sono trasfigurati: il treno è trasformato in edificio che ne mantiene i contorni, il tribunale è sostituito interamente dal letto che prima gli stava accanto e si trasfigura ulteriormente all’arrivo dell’astronave/macchina del tempo di cui alla fine si intravvede l’interno. Nella metamorfosi delle scene si riconoscono così gli elementi nel loro continuo differire. I Knee Plays agiscono sia da taglio che da sutura, quindi appartengono a pieno titolo alla struttura e però la destabilizzano: rispetto all’opera totale possono introdurre un principio di discontinuità, d’alternanza e di specularità. La struttura dello spettacolo quindi si definisce come ha osservato Maurin attraverso “una dialettica spazialista con il divenire, attraverso un ritmo temporale che nasce, come una tavola visiva, dai rapporti di equilibrio e di simmetria, di disequilibrio e d’asimmetria, tra differenti unità costitutive”. Infatti, oltre alla polarità lentezza/velocità anche la polarità ripetizione/variazione ha l’effetto di rovesciare l’ordine strettamente cronologico del tempo.

Scena da Knee Play

Ciò non toglie che le immagini utilizzate, quali il treno o l’astronave, avessero nelle intenzioni di Wilson anche un valore storico rispetto alla vita di Einstein, indicando “in qualche modo la misura della durata della sua vita”, ad esempio il treno come mezzo di trasporto ai tempi dell’infanzia dello scienziato e l’astronave come emblema dello sviluppo della tecnologia al momento della morte. Allo stesso modo un disco nero che ricopre un quadrante di un orologio con due luci alle estremità del diametro intende ricondurre per analogia all’eclissi di luna che nel 1919 ha confermato la teoria della curvatura dello spazio formulata dallo scienziato. Gli eventi storici, i dettagli accaduti realmente sono così trasfigurati nel prodotto artistico in entità mitico-poetiche; per questa ragione il teatro di Wilson è stato letto anche come una delle ‘mitologie artistiche dei nostri tempi’ o un teatro ‘neomitico’. Secondo Maurin, non si tratta tanto di immagini della storia, ma “di immagini tagliate della storia”, per cui nella creazione interviene il decoupage, il taglio, l’estrazione del dato, del fatto storico che viene ricollocato in un nuovo contesto, e per questo trasfigurato poeticamente. Sono immagini mitiche indifferentemente Medea o Prometeo, Einstein o Freud, piuttosto che Stalin o Faust, tutte figure che compaiono in forme diverse nei suoi spettacoli e tutte figure riassorbite nel contesto virtuale di un catalogo d’immagini della storia dell’umanità, che sembra fungere, come ha notato Marranca, da immenso archivio da cui attingere a piene mani.

Si comprende ulteriormente questa accezione di mitico se si intende il teatro immagine di Wilson come indicativo del montaggio del visuale proprio dell’epoca contemporanea, perché di fatto il metodo dell’artista americano si realizza, come ha scritto Maurin, attraverso un vero e proprio “pensare in immagini”. È attraverso il montaggio di immagini che Wilson assembla elementi eterogenei e compone le sue opere. Anche una sola immagine è considerata da Wilson un elemento mitico e in quanto tale di per sé già una storia: in occasione di un’intervista l’artista americano dichiara che l’ideazione di un’opera comincia dalla definizione dello spazio e della struttura con cui viene composta la scena: “la prima cosa che faccio quando penso a una pièce sono i diagrammi della scena. È quello il mio punto di partenza. Una volta stabilito il mio spazio la storia è narrata. Per esempio basta mostrare una sala di una corte e la cosa essenziale è detta, perché sei già di fronte a una situazione mitica”. (Wilson in Adnan, p. 18)

Sulla scena si assiste a un ripetersi e variare di motivi che, anche rispetto alla resa scenica di azioni propria del teatro drammatico o alla narrazione di eventi (la mimesis praxeos), può essere spiegato come un processo di ‘metamorfosi’ come lo ha definito Lehmann. Le ripetizioni e variazioni trasportano lo spettatore in un “universo immaginario fatto di trasformazioni, d’ambiguità e di corrispondenze” in cui realtà uguali e eterogenee vengono collegate in una pluralità di piani. In un cosmo che può essere inteso come mitico, come il microcosmo degli spettacoli wilsoniani, non c’è termine migliore per rendere il senso del movimento e della trasformazione della forma che quello di metamorfosi. Come “il fenomeno precede la narrazione” allo stesso modo, si può affermare, sempre con Lehmann, il carattere fenomenico delle opere di Wilson: l’aspetto morfogenetico in cui cogliere e catturare il trasformarsi della forma.

Wilson compara esplicitamente il suo teatro ai processi naturali, la vita che intende portare in scena è parte della molteplicità cosmica, in un’idea di cosmo dove non è affermata la divisione tra spazio e tempo, soggetto e oggetto, per cui lo spazio non è concepito secondo un apriori kantiano, implicito nella visione newtoniana ed euclidea, ma è un pullulare di processi, è saturo di dispersioni, diffrazioni, variazioni. Anche le parti costitutive dell’opera sono chiamate da Wilson con una terminologia pittorica e naturalistica: i Knee Plays, che utilizza in tutti i suoi spettacoli, corrispondono a dei ‘ritratti’ perché si compongono di oggetti o persone in primo piano; le scene in cui compare il treno o il processo sono intese come ‘nature morte’ perché si collocano in una profondità di campo intermedia; e le scene di danza e movimenti degli attori nello spazio sono ‘paesaggi’, perché utilizzano tutto lo spazio del palcoscenico e sfruttano tutta la profondità di campo. A questi tre tipi di spazio corrispondo inoltre tre gradi di intensità espressiva del gesto che va da un’intensità minima a una media a una massima.

Scena da Knee Play

Einstein on the Beach è tutto costruito sulla combinazione di strati vocali, musicali e verbali realizzati secondo le stesse modalità di ripetizione e variazione progressiva, per cui accade che una stessa scena è ripetuta in momenti diversi e atti diversi dello spettacolo con minime variazioni: quindi ad esempio il movimento dell’attrice lungo la diagonale si ripete, ma spostato rispetto al punto spaziale in cui veniva fatto prima, o un’azione viene ripetuta quasi identica salvo qualche variazione nei movimenti o un suono si ripete ma leggermente modificato. Anche la drammaturgia – quella che Marranca ha definito “una drammaturgia del testo disperso” poiché si tratta più che altro di testi, per la precisione undici brani in tutto, che vengono cantati o parlati in ordine sparso da qualche personaggio – si struttura secondo la stessa modalità, ossia si sviluppa nella ripetizione di una stessa frase che può progressivamente addizionarsi di parole; si tratta di parole che fungono da unità sonore, che valgono come atomi di materialità fonica che si amalgamano al suono e al movimento.

Il senso della ripetizione in Wilson sta tutto, come ha colto Maurin, nella funzione “di dire o mostrare lo stesso diversamente, di dire o mostrare l’altro dello stesso; in breve, di salvare la differenza dallo scoglio della ridondanza”. (Maurin, p. 119) Nella ripetizione si riverbera il rapporto tra l’unità e la molteplicità. Si tratta della stessa funzione e significato della ripetizione utilizzata nella scrittura da Gertrud Stein, che ha profondamente influenzato la poetica di Wilson. Nel ‘presente continuo’ teorizzato dalla scrittrice americana un oggetto o un personaggio è mostrato nella sua identità da prospettive ogni volta differenti. È il senso della famosa espressione “a rose is a rose is a rose”, secondo cui una rosa può essere rossa per la prima volta dopo un secolo di poesia inglese; espressione che quindi non è da intendersi come una conferma del principio logico dell’identità di una cosa con se stessa quanto, al contrario, l’affermazione del riverbero della novità, della sua identità vivente, nella ripetizione e variazione continua. L’iterazione, afferma Mourin, ha il potere di “cristallizzare l’essenza” e questo però avviene nello spostamento continuo, per cui questa ‘essenza’ è ogni volta differente poiché l’istante con il quale coincide non è mai lo stesso. Secondo Gertrud Stein nella ripetizione, come nell’insistenza che qualifica il movimento della vita, ogni volta c’è una differenza perché si colloca ogni volta nel presente, in un presente che è ogni volta differente. La rosa si dice ogni volta nella differenza, garantisce la ripetizione: è ciò che sposta e differisce continuamente l’identità ontologica; è ciò che acuisce la differenza precisa di ogni fenomeno.

Il modello di scrittura di Gertrude Stein è considerato da Lehmann come riferimento drammaturgico rilevante per comprendere l’istanza antinarrativa propria del teatro postdrammatico. Wilson è giudicato il regista ideale per la realizzazione scenica delle opere teatrali e non di Stein, ignorate o considerate a lungo non trasponibili. A permettere l’affermazione di questa ‘filiazione’ è lo stesso Wilson che dichiara come la lettura di The Making of Americans lo abbia portato a fare teatro. La Stein con il termine ‘Landscape Play’ introduce l’idea che il teatro, la scena e il testo sono da intendersi come paesaggio, ossia esprime la volontà di rapportarsi al teatro, a quanto si realizza sulla scena, sia dal punto di vista dell’autore che dello spettatore, come si trattasse della contemplazione di un parco o di un paesaggio, dove quindi la spazialità e la visione che la coglie hanno un ruolo assolutamente preponderante.

Significativamente, lo scrittore e drammaturgo americano Thornton Wilder, amico di Stein, autore di prefazioni ai suoi libri e influenzato nella scrittura teatrale anch’esso dall’opera The Making of Americans, spiega l’assimilazione da parte di Stein del teatro al paesaggio nella dimensione del presente propria del mito e che trascende la narrazione: “Un mito non è una storia che si legge da sinistra a destra, dall’inizio alla fine, ma una cosa che si ha costantemente davanti agli occhi. Può essere ciò che voleva dire Gertrude Stein quando pensava a una pièce di teatro come un paesaggio”. (Lehmann, p. 95) La dimensione del presente come propria del mito è allo stesso tempo la dimensione del presente che Wilder afferma come paradosso del teatro: “sul palco è sempre ‘ora’: i personaggi sono sempre in piedi sul quel rasoio-bordo, tra il passato e il futuro, che è proprio dell’essere coscienti; le parole salgono alle loro labbra in una spontaneità immediata”. (Wilder, p. 25) Il teatro contemporaneo e postdrammatico ha voluto catturare totalmente questo presente, cercando di metterlo in scena. Così il principio del “continuo presente”, gli intervalli di tempo presente che condensano nell’attimo il passato e il futuro, reso nella scrittura di Stein, trovano concretizzazione sulle scene con l’annullamento della narrazione drammatica o storica, di protagonisti definiti o personaggi identificabili con nettezza.

Scena 3C del IV Atto

Allora è la novità ciò che Wilson cerca nella ripetizione: cerca l’effetto della resistenza e del decentramento percettivo mettendo ogni volta in gioco l’identità di quanto viene ripetuto. Questo vale per l’opera intesa nel complesso, come ripetizione e variazione di scene nel passaggio da un atto all’altro, e vale per ciascun elemento che compone la scena, dalla musica alla coreografia. Così la musica definita minimalista o post-minimalista creata da Glass per Einstein on the Beach segue gli stessi meccanismi della struttura drammaturgica, per cui il materiale elementare di base, seguendo la modalità della ripetizione e variazione del processo additivo e ciclico, dà vita a sequenze in continua trasformazione che danno il senso del movimento e del divenire, l’effetto di staticità dato della ripetizione è apparente: secondo lo stesso Glass la “musica non si ripete mai, ma cambia per tutto il tempo”. E di riflesso, anche per ciò che concerne la coreografia, a seconda della prospettiva viene di volta in volta colta la variazione di uno stesso elemento.

L’opera di Wilson è indicativa di come l’opsis, la visione, sia attivata e composta secondo delle regole che definiscono la struttura compositiva delle immagini e queste regole rispondano al meccanismo del montaggio. La frammentarietà con cui si qualifica la caratteristica dell’opera postdrammatica, spesso con un’accezione caotica, nega solo apparentemente il principio della mimesis praxeos: come si è già detto, nello spettacolo di Wilson i Knee Plays sono elementi di frattura, di intervallo, ma allo stesso tempo sono elementi di sutura, di relazione e collegamento. La frammentazione è un processo ambivalente, nella separazione e nell’intervallo c’è al tempo stesso la coordinazione, la relazione, il collegamento, il dialogo tra le parti: in questa duplicità sta il principio del montaggio. E questo stesso principio, che si struttura secondo la dinamica del contrasto, del contrappunto, della polarità semantica, è riconoscibile all’opera sia nella drammaturgia antica in cui si tende a leggere soprattutto il meccanismo della mimesis praxeos che in quella postdrammatica in cui si vede concretizzato soprattutto l’opsis. E però è rinvenibile all’opera anche dietro le narrazioni del teatro moderno riconosciuto come propriamente drammatico, là dove a far dramma è per l’appunto il meccanismo compositivo polare e non la presenza o meno della storia.

Ne consegue che sostenere la postdrammaticità come negazione della mimesis praxeos implica attribuire al mythos, all’intreccio che dà forma alla narrazione delle storie, una logicità che appartiene invece pienamente solo al logos – al pensiero logico razionale che ha posto l’identità di una cosa con se stessa, la consequenzialità sillogistica, il principio di causalità, escludendo ambiguità e polarità semantica – e non riconoscere invece nella struttura del mythos la tramatura del meccanismo del montaggio, che non risponde a quella logicità ma al principio del contrasto e per l’appunto dell’ambiguità e polarità. La categorizzazione proposta da Lehmann avviene all’interno dell’acquisizione indebita che il logos ha fatto del mythos, riconducendolo alla propria logicità; e nel momento in cui il pensiero ‘postrammatico’ o ‘postmoderno’ vuole sottrarre al mythos questa logicità per affermare l’opsis, la pura visibilità di contro alla narrazione, non può che negarlo tout court. Il pensiero contemporaneo e la riflessione sul teatro contemporaneo può invece salvare il mythos se ne riconosce la sua coappartenenza all’opsis. Una coappartenenza che si fonda sulla condivisione della stressa struttura compositiva elementare di base, ossia quella del montaggio, che è meccanismo mitopoietico per eccellenza. Allora l’opsis, la pura visibilità, il darsi sensibile della cosa non contraddice l’intreccio narrativo, il mythos, ma ne è la sua parte costitutiva, il suo complementare. Ciò che qualifica la loro apparente differenza è una questione di prospettiva, si tratta, come ha scritto Rancière, di vedere lo stesso fenomeno da due punti differenti, ossia di vedere l’infinitamente piccolo (il particolare, il materiale) piuttosto che l’infinitamente grande (l’ideale come tipo, come sintesi del molteplice), o di riconoscere all’opera nell’uno come nell’altro il medesimo meccanismo basilare del montaggio, al di là della diversa combinazione che può regolare la connessione o sconnessione tra le parti, facendo prevalere l’intreccio o la visibilità. L’opera di Wilson è quindi drammaturgica nella misura in cui, nella struttura compositiva, risponde al meccanismo del contrappunto, della polarità che regola l’articolazione per montaggio all’opera sia nella ‘mimesis praxeos’ che nell’opsis, i due poli che danno forma al mythos. Quindi è attuale, ancora oggi rispetto alla sua prima edizione non solo perché risponde al codice ancora vivo che ha inaugurato ma anche perché risponde alla regola, elementare, della partitura drammatica.

Riferimenti bibliografici

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Wilder 1956
Thornton Wilder, Thornton Wilder interviewed by Richard H. Goldstone, “Paris Review” 15, Winter 1956.

English abstract

On the occasion of the international revival of Einstein on the Beach, Robert Wilson’s masterpiece dated 1976, this paper proposes a reflection on the topicality of the work that changed, among other things, the history of musical theater: the originality of Wilson’s play lies in its dramatic structure which deeply renews contemporary staging and still remains faithful, at the same time, to the basic principles of dramaturgical composition. While Hans-Thies Lehmann considers Wilson’s work as one of the best examples of ’postdramatic’ theatre, because of the subordinate importance of the ’story’ that lies underneath staged narration, this paper asserts that it is not the fairytale that ‘makes drama’ but its structural composition which, always, follows the principles of montage: that is, the juxtaposition of heterogeneous elements composed by counterpoint, by semantic polarity, where the parts are combined and connected mainly by a relationship based on conflict, contrast and opposition. This mechanism ‘makes drama’ when is at work both in ’predramatic’ theater – e.g. in Aeschylus’ Greek tragedy – and in ’postdramatic’ theater, because it consists of the same elementary structure: montage can be considered the mythmaking mechanism par excellence.

keywords | Postdramatic theatre; Robert Wilson’s Einstein on the Beach.

Per citare questo articolo / To cite this article: D. Sacco, Una partitura (post)drammatica. Per una lettura di Einstein on the Beach di Robert Wilson, “La Rivista di Engramma” n. 98, maggio-giugno 2012, pp. 39-50 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2012.98.0006