"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

11 | ottobre 2001

9788894840094

La Morte in persona

Claudia Daniotti

English abstract

Il piccolo dipinto di Hans Baldung Grien conosciuto come “Eva, il serpente e Adamo come Morte”, conservato a Ottawa, costituisce un esempio iconograficamente e semanticamente rilevante e complesso dello stretto nesso che, all’inizio del Cinquecento, lega racconto biblico e rappresentazione della Morte, Eros e Thanatos, mortalità e peccato originale. La difficoltà di riconoscere nel dipinto un consueto e codificato soggetto iconografico e l’incompletezza delle letture finora avanzate costituiscono il punto di partenza dell’ipotesi interpretativa qui proposta, formulata alla luce di riferimenti e riscontri contestuali contemporanei, sia letterari che iconografici.

La National Gallery of Canada di Ottawa conserva un piccolo dipinto su tavola, datato agli anni intorno al 1520, che solo nel 1969, quando riemerse da una lunga e ancora in parte oscura storia collezionistica (Koch 1974, 29-30), venne attribuito a Hans Baldung Grien.

Dal fondo scuro della tavola emerge la figura di una giovane donna dai capelli biondi e dalla pelle candida, le gambe incrociate, quasi accennando un passo di danza. Stringe nella mano destra, nascondendola dietro la schiena, una mela rossa, mentre con la sinistra afferra la coda di un grosso serpente, arrotolato intorno al tronco dell’albero in primissimo piano, sulla destra. È proprio in questo punto di contatto, in questo nodo iconografico e semantico al centro del quadro, che si concentra la complessità della scena, pressoché unica nel suo genere. Appena sfiorato a una estremità, il serpente dal corpo livido e dagli occhi di fuoco si avventa a mordere un braccio scuro e rinsecchito che afferra il polso della donna, il braccio del terzo protagonista del dipinto. Nascosta in parte dall’albero che sorge in primo piano, questa creatura è colta nell’attimo preciso in cui inizia la corruzione della carne: qualche parte del suo corpo è ancora rivestita dalla pelle, mentre altrove si scoprono muscoli e tendini e solo in minima parte emerge lo scheletro, rivelando un osso o un’articolazione. La mano che si allunga a cogliere una mela dai rami dell’albero ha unghie ricurve e lunghe come artigli e così pure il solo piede di cui questa creatura sia dotata, il destro. Quello sinistro, infatti, è sostituito da uno zoccolo, che non può non ricordare quelli degli esseri demoniaci e infernali. Ben poco resta del viso: pochi capelli grigi alla sommità del capo, un’orbita vuota e senz’occhi, ancora un naso e un orecchio, un sogghigno inevitabile scoperto dalle labbra perdute e quasi una maschera scura calata sul volto. Qua e là – sulla tempia, sul polso e sulla gamba sinistri – compaiono lacerti di pelle chiara e all’apparenza un po’ iridescente che ricorda la pelle del serpente, messa in piena luce sul tronco dell’albero. Due alberi cadenti si intravedono in secondo piano, proprio alle spalle della fanciulla; ai piedi dell’albero in primo piano, quasi incongruamente vista l’oscurità dominante, sboccia timidamente una margherita.

Di fronte a una donna nuda che stringe nella mano una mela e a un cadavere in evidente e principiante stato di decomposizione, non c’è dubbio che ad animare la scena siano le figure di Eva e della Morte, poste in quello che appare come un piccolo e rado bosco che, vista la presenza dell’albero e del serpente, non può che essere il giardino dell’Eden. Se i diversi studi dedicati, dal 1970 ad oggi, al dipinto di Ottawa ne hanno indicato il soggetto, pressoché univocamente, in una Tentazione d’Eva (Whitfeld 1971, 73; Praz 1972, 8; Hartmann 1978, 7), è sul cadavere, immediatamente riconosciuto come la personificazione della Morte, e sul motivo della sua presenza che si sono delineate posizioni diverse, capaci di assegnare alla tavoletta intenzioni programmatiche e rappresentative complesse e anche opposte. Riprendendo quanto scritto da Clovis Whitfield, Jean Wirth lesse la tavoletta come una “esegesi luterana della caduta, fondata su San Paolo e Sant’Agostino” (Wirth [1979] 1985, 255). Era stato Mario Praz a indicare il soggetto del dipinto come la stipulazione di un patto: “L’orgoglio (Eva) conduce al peccato (il serpente) che conduce alla morte (lo scheletro) che mena all’inferno (il piede biforcuto)” (Praz 1972, 8).

Ma a che cosa è teso questo patto? La catena di gesti e azioni che lega i tre protagonisti non è interpretabile in modo univoco: è forse Eva che, stringendo la coda del serpente, ne provoca la reazione e viene tempestivamente salvata dall’intervento di Morte? Oppure le parti sono invertite ed è Morte ad afferrare il braccio di Eva e, per questo, viene attaccata dal serpente? È il patto un sodalizio fra i tre protagonisti oppure è stato concordato solo tra due di loro e viene ora violentemente interrotto dall’irruzione del terzo escluso? È una Eva che, consapevole di ciò che sta per compiere, si allea volontariamente con il Male, cristianamente incarnato dal serpente, per distruggere l’umanità, donandole la morte? Oppure sta stringendo un patto col serpente, classicamente inteso come forza vitale e generativa, per contrapporsi alle forze della Morte? Non è facile sciogliere questo nodo, che è insieme iconografico e semantico.

La via che conduce alla risposta va cercata proprio nella figura di Morte: particolarissima, non perfettamente sovrapponibile a nessuno dei cadaveri che popolano la produzione artistica di Baldung, colta non nello stato, ma nell’attimo preciso dell’inizio della corruzione della carne. Una Morte che, inspiegabilmente, viene morsa da un serpente e che, altrettanto inspiegabilmente, allunga un braccio per cogliere una mela rossa dai rami dell’albero che la sovrasta. Nessuna precisa tradizione iconografica è in grado di rendere ragione di questo dipinto nel suo complesso come nel singolo particolare. L’unico istante in cui Morte compare al fianco di Eva è nel giardino dell’Eden nel momento fatale della Caduta, cioè dell’evento che costituisce il fondamento della giustificazione cristiana dell’origine della morte. Ingannata dal serpente, Eva mangia del frutto proibito e persuade Adamo a fare altrettanto. La disobbedienza provoca la comparsa di una quarta figura, quella della Morte, che, proprio per questo motivo, appare spesso, in dipinti e miniature, nel giardino dell’Eden, nel momento in cui Eva accetta, o sta per accettare, il frutto offertole dal serpente. Nel compiersi dell’atto proibito, si anticipa, e quindi si raffigura, la necessaria conseguenza, già minacciata (Gen. 2, 17), di quell’attimo di tentazione e di accettazione. Nel dipinto di Ottawa, Eva e il serpente stanno accanto e intorno all'albero e la Morte appare sulla scena emergendo da dietro il tronco scuro che ancora in parte la nasconde. In tutto questo sembra esserci un grande assente: Adamo.

Nel 1974, a conclusione del suo scritto sul Baldung di Ottawa, Robert Koch scrisse per primo, in modo peraltro più accennato che argomentato e quasi come un’affermazione di poco conto gettata lì a suggestione di ricerche future:

The personification of Death may also be seen as a representation of Adam himself as a corpse, the fate to which his body was destined at the Fall  [La personificazione della Morte può anche essere vista come una rappresentazione di Adamo stesso come un cadavere, il destino al quale il suo corpo è stato destinato alla Caduta] (Koch 1974, 29).

Adamo non è assente, ma non va cercato su un pannello pendant o su una supposta parte perduta della tavola: Adamo è già presente, dentro il quadro. Gli studi successivi non hanno mancato di cogliere e sviluppare questa intuizione, quella di un “Adam metamorphosed into the Death consequent upon the Fall” (Kent Hieatt 1980, 224) (Adamo trasformato nella Morte conseguente alla Caduta), fino al 1985, quando Joseph Leo Koerner condensò questa lettura in un nuovo titolo, indicando il dipinto come “Eve, the Serpent, and Adam as Death” (Koerner 1985, 90). 

Una sicura ed evidente ripresa posturale può essere il punto di partenza per ipotizzare una tale sovrapposizione e coincidenza iconografica. Il disegno di Baldung raffigurante la Morte con vessillo rovesciato di Basilea trova il proprio modello nell’Adamo del Peccato originale di Dürer, oggi all’Albertina. Ma la scelta del modello implica anche una similarità semantica, una “theological resonance”:

The decaying corpse is linked to Adam because it was through Adam’s sin that death came into the world (Koerner 1985, 72).
[Il corpo in corruzione è legato ad Adamo perché è attraverso il peccato di Adamo che la morte è entrata nel mondo].

  

Accettando la mela e trasgredendo così al comandamento di Dio, Adamo condanna sé stesso e l’umanità intera alla morte. Causa della perdita dell’immortalità, Adamo “becomes the emblem of his own effect” [Diventa l’emblema del suo stesso effetto] (Koerner 1985, 72). È costruendo un ponte tra il macabro, così lontano, per tanti versi, dal pensiero cristiano, e il mito cristiano dell’origine della morte che Baldung “links the conventional image of death (the animated corpse) to its specific historical origin in the Fall” [Lega l’immagine convenzionale della Morte (il cadavere animato) alla sua specifica origine storica nella Caduta) (Koerner 1985, 72).

Adamo diventa ciò cui il suo gesto, proibito, volontario e colpevole, conduce: è nel dipinto di Ottawa che Adamo e Morte, causa ed effetto, si compenetrano, iconograficamente e semanticamente, fino a fondersi in un’unica figura, fino a dare luogo a una vera e propria contrazione iconografica.

Il mito cristiano dell’origine della morte prende avvio, come già osservato, nel momento della Caduta: ingannata dal serpente, “la più astuta della bestie selvatiche” (Gen. 3, 1), Eva colse il frutto dell’albero proibito e ne mangiò, convincendo Adamo a fare altrettanto. L’ira divina causata dalla disubbidienza si abbatte in modo personale sui colpevoli, chiudendo loro per sempre la strada dell’Eden e prendendo la forma di una maledizione che avrà conseguenze immediate e future, coinvolgerà tutto il genere umano, sarà condanna e profezia. Le parole del castigo sono formulate ad personam: ognuno dei tre protagonisti della Caduta riveste, in quell’evento, un ruolo diverso, pecca in modo diverso e assume una diversa responsabilità. Se il serpente dovrà strisciare in aeternum sul proprio ventre, la punizione inflitta alla donna la vuole sottoposta al marito e la consegna al destino dell’eterna e dolorosa generazione: a causa del peccato, la trasmissione della vita diventa possibile solo attraverso la sofferenza (Gen. 3,16). Sarà infatti dopo il pronunciamento della condanna che Adamo – il solo, nell’intera creazione, a poter nominare le cose – assegna e, letteralmente, destina alla propria compagna il nome di Eva, “perché essa fu la madre di tutti i viventi” (Gen. 3, 20). E infatti questo nome deriva dal verbo ebraico “hawah”, che significa “vivere”: essa è quindi, nomen omen, “la vivente”. Ma le parole più solenni e potenti sono quelle che decretano il castigo di Adamo:

Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sarai stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai! (Gen. 3, 17-19).

Il castigo di Adamo prende corpo e forma all’interno di una maledizione ben più ampia, quella del suolo, che diventerà sterile e ribelle. Trarne cibo e sostentamento sarà estremamente faticoso, e questo fino a un limite ben preciso: quello del ritorno alla terra, alla polvere da cui l’uomo era stato tratto: fino al limite della morte. Alla materia da cui e di cui era stato fatto, l’uomo era destinato a tornare: e infatti l’ebraico “adam” significa “fatto di terra” e deriva dalla voce “adamah”, “suolo”. Eva, precisamente e letteralmente, non è “fatta di terra”: lo è solo indirettamente, perché tratta dal corpo di Adamo, costruita da una sua costola (Gen. 2, 21- 22).

Ma ciò che più importa qui rilevare è che, stando alla lettera del testo biblico, solo Adamo viene condannato alla morte. È pur vero che “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gen. 1, 27); infatti, tutta l’umanità viene, nella maledizione divina, condannata a morte. Ma non si può non riconoscere come, nel momento in cui questa condanna viene formulata, essa non si rivolga all’uomo inteso nella più ampia accezione di genere umano, ma personalmente e distintamente ai due sessi diversi, al maschio e alla femmina.

Quale colpa poteva essere tanto grave e imperdonabile da meritare un simile castigo? Su quale fosse la natura del Peccato originale – e sulla Caduta più in generale – la Chiesa si è interrogata fin dal tempo dei Padri. È a Sant’Agostino che si deve la prima, più completa e importante formulazione del problema della Caduta, elaborata in modo tale da configurarsi come un vero e proprio “sistema del peccato” (Delumeau [1983] 1987, 450). Secondo Agostino, la disubbidienza a Dio avrebbe precipitato l’uomo in una condizione completamente alterata rispetto allo stato perfetto primevo: Adamo ed Eva – e con essi tutta l’umanità loro discendente – vennero esclusi dall’eternità, consegnati alla miseria, assoggettati alla degradazione temporale, al dolore e alla morte. Essi persero la sottomissione delle passioni alla volontà che Dio aveva loro concesso: se non ci fosse stato il peccato, sotto il pieno controllo degli istinti sessuali, la generazione sarebbe stata disciplinata dalla volontà, senza che intervenisse “alcun moto voluttuoso”. Ecco allora i due più potenti e invincibili figli del peccato: la mortalità e il desiderio sessuale. Essi non sono “naturali”, creati insieme all’uomo, ma conseguenza dell’atto proibito, entrati nella storia umana per punire la prima e grande disubbidienza. Negli scritti di Agostino peccato ed esperienza sessuale sono legati da un rapporto assai stretto che, dopo secoli di riflessioni, commenti, glosse, diventerà una vera e propria identificazione, compiuta da Cornelio Agrippa di Nettesheim nel De originali peccato, composto intorno al 1518. In esso si legge che “Non aliud fuisse originale peccatum quam carnalem copulam viri et mulieris”.

La rilettura del racconto della Genesi operata da Agrippa, che riconosce nell’esperienza sessuale il peccato originale, coinvolse anche il serpente tentatore. La tradizione popolare e folklorica non aveva mai dimenticato l’antichissima associazione, risalente ai riti di fertilità mediterranei, tra il serpente e il membro maschile. Una targa di bosso risalente al 1529 ripropone visivamente questa identificazione: il serpente, proprio in virtù del suo comparire tra le cosce della figura in basso a sinistra, rivela chiaramente la propria natura fallica. D’altra parte, esso era stato identificato nella Bibbia con Satana, Principe del male, rivelando così una natura demoniaca.

Memore di queste diverse tradizioni, compresenti e ugualmente vive, Agrippa identificò il serpente con il sesso maschile. Egli rilesse pertanto il racconto biblico della Caduta in una chiave erotica nuova: tentata dal serpente, Eva indusse Adamo al peccato, cioè all’uso del proprio organo sessuale e questo costituì e provocò la Caduta. Sesso e morte, doni di Satana, diventano due aspetti dello stesso, tragico evento. All’interno di un dramma tanto grande e irreparabile, quale ruolo e quale responsabilità assegnare, singolarmente e personalmente, ad Adamo ed Eva?

La lettura medievale della Caduta può essere riassunta nelle parole di Paolo a Timoteo: “E non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione” (I Timoteo, 2, 14). Debole e malvagia, facilmente corruttibile e viziata dall’inferiorità intellettuale di cui Dio l’aveva voluta capace, la donna aveva ceduto alle lusinghe e alle promesse del serpente: era stato il suo gesto sconsiderato a condannare Adamo e l’umanità intera. “Sei tu la porta del diavolo […] sei stata tu a circuire colui che il diavolo non era riuscito a raggirare” (Tertulliano, De cultu feminarum, I, 1-2). A Eva, non ad Adamo, si era rivolto il serpente: sapeva che la debolezza della donna sarebbe stata facilmente vinta, sapeva che solo attraverso la sua bellezza sarebbe riuscito a giungere a colui che non avrebbe mai ceduto alla tentazione direttamente. La debolezza della donna, il suo assenso, il suo cedimento, la sua disobbedienza non solo meritavano il castigo, ma, soprattutto, attribuivano a lei, e solo a lei, la colpa.

Ma non è questo che il XVI secolo avrebbe visto nella Caduta: alla radice dell’evento che definisce la condizione umana come mortale, il Cinquecento avrebbe scoperto una donna audace e coraggiosa, forte e determinata, disposta a sfidare il divieto divino pur di raggiungere la sapienza promessale dal serpente. Queste caratteristiche diventano proprie delle protagoniste femminili di un tema iconografico medievale che conosce una nuova fortuna all’inizio del Cinquecento: quello del Potere delle donne, che recupera dall’antichità classica e dalle Sacre Scritture le storie di Sansone e Dalila, di Aristotele e Fillide, di Salomè e Giovanni Battista o Erode. Di fronte a una donna forte e ben conscia delle proprie armi di seduzione, l’uomo, benché famoso e quasi invincibile, si rivela debole, esitante, completamente succube della compagna; ma ciò che costituisce l’ulteriore e, ai nostri fini, più importante comune denominatore è che, se l’iniziativa viene presa e portata a compimento da una donna, chi ne subisce le conseguenze è sempre un uomo. La scena della Caduta, del momento in cui Eva offre il frutto proibito ad Adamo, è stata non di rado inserita in questa sequenza come primo esempio storico – e quasi prototipale – all’origine degli altri. Se Lucas van Leyden ha aperto con quest’immagine ben due cicli silografici dedicati al Potere delle donne, esistono numerose testimonianze iconografiche – autonome o parte di un ciclo – di un Adamo debole e insicuro e di una Eva coraggiosa e ardita. Da Hans Burgkmairad Albrecht Dürera Lucas Cranach, prende corpo una Eva che non teme di accettare la mela e di condividerla col compagno e che appare più vicina dell’Eva peccatrice e colpevole medievale alla giovane donna del Baldung di Ottawa. Per comprendere in modo più ampio e puntuale questo dipinto è necessario, ancora una volta, fare attenzione a quanto scrisse Agrippa di Nettesheim proprio in quegli anni. Egli, basandosi sul racconto della Caduta fatto nell’Apocalisse di Mosè e su un preciso passo della Genesi (2, 16-17), ricorda come Dio non proibì direttamente ad Eva di mangiare dell’Albero della Conoscenza: Eva, nel momento della formulazione del divieto, non era ancora stata creata. Il divieto divino fu rivolto solo ad Adamo:

Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente morirest (Gen. 2, 16-17).

  

     

Questo non significa che, dal momento della sua creazione, anche ad Eva non si estendesse il divieto; ma non c’era motivo, nel caso della trasgressione, di punirla con la morte, espressamente minacciata, invece, ad Adamo (Kent Hieatt 1983, 299).

Cornelio Agrippa, sulla scorta di quanto già affermato da Agostino, sostiene che niente viene perduto nel momento in cui Eva mangia del frutto; solo quando Adamo accetta il frutto dalle mani di Eva e ne mangia, il peccato può dirsi completo. A cedere non è la sola parte sensuale e passionale dell’anima umana, simboleggiata da Eva – secondo la lettura allegorica della Genesi compiuta da Filone Alessandrino nel I sec. d.C. – ma la sua componente razionale, la più alta e nobile, simboleggiata da Adamo.

Ecco allora che tutti questi tasselli possono essere ricomposti e riuniti per delineare e formulare l’ipotesi interpretativa qui proposta. Nel dipinto di Ottawa Eva non ha nulla della connotazione negativa e colpevole che il Medioevo le aveva assegnato: essa è una donna che, spinta dalla curiosità, tende fiduciosa la mano alla promessa del serpente, portatore di un messaggio nuovo e diverso rispetto a quello conosciuto da Adamo. Il gesto, deciso e violento, con il quale Adamo afferra il braccio di Eva, non può non palesare e condensare un’atmosfera erotica estremamente evidente in altre, contemporanee opere di Baldung.

  

Ma nell’attimo in cui afferra con desiderio il braccio di Eva e nel momento in cui il serpente si scaglia su di lui, Adamo coglie il frutto della sapienza. Egli è personalmente, direttamente e inequivocabilmente colpevole. Ecco allora la minaccia divina concretizzarsi all’istante: Adamo diventa sotto i nostri occhi la Morte, o meglio, Il Morte. “Death is also Adam, and his mortal clutch expresses human desire. Lust and his consequences, sin and punishment, are the glue which makes the knot in this painting inextricable” [La Morte è anche Adamo e la sua stretta mortale esprime il desiderio umano. La lussuria e le sue conseguenze, il peccato e il castigo, sono la colla che rende il nodo in questo dipinto inestricabile] (Koerner 1985, 90).

La metamorfosi ha luogo davanti ai nostri occhi, ma mortalità e Primo Uomo erano in realtà legati da lungo tempo, da sei secoli almeno, quando comparve l’iconografia della Tomba di Adamo: un teschio, uno scheletro o un cadavere posto ai piedi della croce di Cristo ed espressamente indicato come quello del Primo Uomo. La colpa antica, compiuta da un uomo, poteva essere riparata solo da un sacrificio altrettanto grande e ugualmente volontario e necessario, quello di un altro uomo, Cristo, Nuovo e Secondo Adamo (1 Corinzi 15, 21-22). Necessario Cristo, per redimere e portare la salvezza all’umanità; ma necessario anche Adamo, perché se non ci fosse stato alcun peccato non ci sarebbe stata alcuna redenzione. È per questo che l’Exultet, nella liturgia del Sabato Santo, recita:

O certe necessarium Adae peccatum […]
O felix culpa […].

Come ha scritto John Phillips:

Without the Fall then would be no sacred history, no Heilgeschichte, because there would be nothing from which humanity could be saved […] The Fall is not a misfortune but a blessing [Senza la Caduta non ci sarebbe stata nessuna storia sacra, nessuna Heilgeschichte, perché non ci sarebbe stato nulla da cui l’umanità dovesse essere salvata. È per questo che la Caduta non è una disgrazia ma una benedizione] (Phillips 1984, 78-79) .

Allo stesso modo la colpa di Eva assume il carattere di necessità: essa è causa prima della caduta di Adamo e dell’umanità, ma è solo grazie al suo aver accettato il frutto della sapienza che si rende possibile la Redenzione e il compimento della Storia della Salvezza.

Di fronte all’uguaglianza di Adamo ed Eva prima della Caduta, si fa strada la diversità delle loro colpe e delle conseguenti punizioni. Adamo ha violato la fedeltà verso il suo Signore: come ha osservato Jeffrey Russell (Russell [1984] 1987, 99), questa è esattamente la colpa commessa dal Diavolo, che, volontariamente, proprio come Adamo, decide di venir meno al rapporto di fedeltà e di sudditanza che lo legava a Dio. In tutto questo non può non leggersi un legame, da una parte con l’ideologia feudale, e dall’altra con la tradizione cristiana che concepiva il peccato come “rottura del giusto ordine”. Lo zoccolo animale dell’Adamo-Morte di Ottawa potrebbe pertanto essere un rimando non genericamente al mondo infernale, ma al Signore stesso di quel mondo, all’angelo caduto con cui Adamo condivideva la colpa.

Ciò che condanna Adamo alla morte, e che, nel dipinto di Ottawa, lo fa diventare Morte, è la volontarietà della sua colpa: Eva è stata tentata e forse ingannata, ma egli, messo di fronte alla possibilità del peccato avendo la piena consapevolezza delle conseguenze del suo assenso, accetta volontariamente il frutto proibito. Nel dipinto di Ottawa, Adamo coglie di persona quel frutto direttamente dall’Albero della Conoscenza “e quindi, morso dal serpente, diventa egli stesso mortale” (Centanni, Fantasmi).

La colpa di Eva, in definitiva, è quella di “abandonig the interdipendence of true love for the indipendence of a dangerous adventure” (Phillips 1984, 102) (Abbandonare l’interdipendenza del vero amore per l’indipendenza di un’avventura pericolosa). Ciò che di Eva viene messo in primo piano è la sua audacia, la sua curiosità, il suo voler percorrere una strada di cui non vede la fine né il punto di arrivo, ma affascinante proprio perché sconosciuta e mai tentata: comunque, la sua strada. Phillips riferisce espressamente di una Eva salvata, scagionata dalla colpa. Questo è ciò che Baldung sembra raffigurare a Ottawa: una donna in grado sì di sedurre il proprio compagno, ma non passibile di condanna per questo.

È nel momento sommo della Caduta, quando Adamo pecca e viene immediatamente punito, che la Eva di Ottawa compie un ultimo gesto: quello di nascondere una mela dietro la schiena, in modo che Adamo non possa vederla. Non sono rare le opere, grafiche e pittoriche, che raffigurano Adamo ed Eva con due o anche con tre mele. In riferimento al dipinto di Ottawa, Wolfgang Hartmann scrive che “qui la prima mela, appena colta, simboleggia il peccato, mentre la seconda sta per la morte”(Hartmann 1978, 8). Effettivamente la mela già colta e stretta in mano da Eva può indicare il peccato già avvenuto, così come quella che Adamo sta cogliendo può indicare la morte conseguenza futura. Ma ad Ottawa la Morte c’è già, è conseguenza, reale e presente, del peccato. La chiave può essere allora quella fornita – e purtroppo scarsamente argomentata – da Jean Wirth:

Nascondendo alla morte la mela dell’Albero della Vita, riallacciandosi al serpente della Saggezza che aveva calpestato, la donna qui sfida la finitezza e si ricorda dell’Eritis sicut Dei (Wirth [1979] 1985, 256).

Nel mezzo del giardino dell’Eden, racconta la Genesi, erano presenti due alberi, quello della Vita, permesso, e quello della Conoscenza del bene e del male, vietato. Agostino afferma che condizione principe per la conservazione dell’immortalità era mangiare i frutti dell’Albero della Vita. Nel dipinto di Baldung compare un solo albero, quello della Conoscenza, dal quale Adamo sta cogliendo un frutto, esattamente quello il cui morso avrebbe portato nel mondo la morte (Isidoro di Siviglia, Etymologiarum sive originum libri XX, lib. XI, II, 31). L’altro albero, quello della Vita, potrebbe essere alluso e presentato solo attraverso un suo frutto, quello che Eva stringe nella mano destra e nasconde, mentre afferra con la sinistra la coda del serpente che a quella eterna vita aveva promesso di aggiungere la sapienza capace di rendere pari a Dio. Quel serpente cristianamente diabolico e classicamente promessa di rinascita e rigenerazione, portatore e tramite di vita e di morte insieme, che chiude un circolo di vita non interrotta: “In der wechselseitigen Verstrickung von Frau und Schlange, Schlange und Tod, Tod und Frau wird dieser ewige Kreislauf in bildliche Form gebracht” [Nel vicendevole coinvolgimento di donna e serpente, serpente e morte, morte e donna, viene data forma visiva a questo ciclo eterno] (Hartmann 1978, 17). Nelle raffigurazioni del Peccato originale non è insolito vedere come Eva porga un frutto ad Adamo e ne nasconda un secondo. Se la nostra interpretazione è corretta, Eva, attraverso le due mele, dona ad Adamo la morte e tiene per sé, celandola alla vista del compagno, la vita. D’altra parte, i miti antichi – che il Rinascimento andava riscoprendo – sapevano di una ciclicità della vita femminile che non conosce interruzione né fine, una sorta di “immortalità naturale” che si trasmette esclusivamente di madre in figlia, costruendo un circolo dal quale gli uomini sono fatalmente e necessariamente esclusi. È la storia di salvezza di Demetra e Kore, ma anche quella tentata e fallita di Teti e Achille, di Eos e Titone, di Calipso e Ulisse, di Dono e Demofonte. Nel mito antico, come nel dettato biblico, ciò che muore è maschile: l’uomo è destinato alla caducità, alla fine, a non generare e a non rinascere: a morire.

Nel mito ciò che le Parche recidono, come nel caso di Achille, di Demofonte, e di tutti i miti di immortalità perduta, è la vita di un bambino maschio. Il maschio dice la mortalità: il maschio finisce (Centanni 1995, 192).

Ed è Adamo ad essere personalmente condannato da Dio alla morte: la sua scelta, la volontarietà del peccato nella consapevolezza dell’errore e della punizione, lo destinano al castigo terribile e supremo. Nel racconto della Caduta di Ottawa non esiste una scansione e una successione cronologica degli avvenimenti, articolata in passato e futuro, in cause ed effetti: tutto questo viene concentrato in una contrazione iconografica e temporale, un attimo che è, letteralmente, assoluto, un solo istante in cui “simultaneamente avvengono seduzione, desiderio, peccato, morte e caduta” (Centanni, Fantasmi, 15).

E la morte non può che abbattersi su Adamo, la personificazione della Morte non può che avere sesso maschile. Non è questa la figura di un morto, non è un’allegoria, un’allusione, e quindi una strada mediata, alla morte. Non è nemmeno la personificazione della Morte che tante volte Baldung aveva raffigurato e che raffigurerà ancora, fino alla fine della sua vita: la figura che coglie la mela e che, per questo, viene morsa dal serpente, non è semplicemente questo. Quella figura di Morte è anche una persona ben precisa, è anche Adamo, si identifica con lui. Quella figura è il Primo Uomo che, davanti ai nostri occhi, si fa Morte: Adamo, il maschio peccatore, è la Morte in persona.

Riferimenti bibliografici
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    M. Centanni, Velare, svelare: dai misteri pagani a Le età della donna di Hans Baldung Grien, in AA.VV. Il gesto nel rito e nel cerimoniale dal mondo antico ad oggi, a cura di S. Bertelli e M. Centanni, Firenze 1995, 176-198.
  • Centanni Fantasmi
    M. Centanni, Fantasmi dell’antico, in corso di stampa.
  • Delumeau [1983] 1987
    J. Delumeau, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, tr. it. Bologna [1983] 1987.
  • Hartmann 1978
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  • Kent Hieatt 1980
    A. Kent Hieatt, Eve as reason in a tradition of allegorical interpretation of the Fall, “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes” XLIII (1980), 221-226.
  • Kent Hieatt 1983
    A. Kent Hieatt, Hans Baldung Grien’s Ottawa Eve and its context, “The Art Bulletin” 65 (1983), 290-304.
  • Koch 1974
    R.A. Koch, Hans Baldung Grien. Eve, the serpent and Death (Masterpieces in the National Gallery of Canada, n.2), Ottawa, 1974.
  • Koerner 1985
    J.L. Koerner, The Mortification of the Image: Death as a Hermeneutic in Hans Baldung Grien, “Representations” 10 (1985), 52-101.
  • Phillips 1984
    J.A. Phillips, Eve. The history of an Idea, San Francisco 1984.
  • Praz 1972
    M. Praz, Il patto col serpente, Milano 1972.
  • Russell [1984] 1987
    J.B. Russell, Il diavolo nel Medioevo, tr. it. Bari [1984] 1987.
  • Whitfield 1971
    C. Whitfield, Révélations sur une tentation d’Eve, “Connaisance des Arts” 232 (1971), 72-81.
  • Wirth [1979] 1985
    J. Wirth, La fanciulla e la morte. Ricerche sui temi macabri nell’arte germanica del Rinascimento, tr. it. Roma [1979] 1985.
English abstract

Hans Baldung Grien's painting “Eve, the Serpent and Adam as Death”, preserved in Ottawa, is an iconographically relevant example of the sixteenth-century connection that links the biblical tale and the representation of Death, Eros and Thanatos, mortality and original sin. In this panel, the bodies are grand in scale and fill the entire space, pale foreground colours are used against a dark background. The main elements are intertwined; the serpent is coiled around the tree trunk and also around Death, who he holds to the tree.  The serpent, which has red eyes, closes its jaws around the wrist of Death's left arm, which is at the same time grasping the left arm of Eve. Among Baldung's treatments of the Fall, the new element in Eve, the Serpent and Death is the active role of the snake; Adam's decrepit condition, halfway between nude and skeleton, suggests the work of poison, as if from the serpent, and the snake's grip on Adam recalls the biting of the apple in the Fall. The apple that each of the figures holds is the symbolic origin of the present scene.

keywords | Hans Baldung Grien; Eve, the Serpent, and Adam as Death; German Renaissance. 

Per citare questo articolo / To cite this article: C. Daniotti, La Morte in persona, “La Rivista di Engramma” n. 11, ottobre 2001, pp. 7-21 | PDF