"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

123 | gennaio 2015

9788898260683

Memoria del giudizio

Architetture della memoria (con uno sguardo al Memoriale dell’Olocausto di Peter Eisenman a Berlino)

Maria Bergamo

English abstract

זֵ֣כֶר צַ֭דִּיק לִבְרָכָ֑ה וְשֵׁ֖ם רְשָׁעִ֣ים יִרְקָֽב

La memoria del giusto è benedetta, ma il nome degli empi svanirà
Proverbi 10, 7

Esiste un sottinteso, inespresso in tutti i riti celebrativi della memoria civile e tuttavia importante, che va sempre tenuto presente, pena l'appiattimento a un'enfasi retorica astratta e, al fondo, genericamente pietistica: il ricordo non è un’azione neutra e puramente commemorativa, ma una presa di posizione. Sulla storia, sui fatti si opera una scelta, si definisce il giusto e l’ingiusto. Si compie un giudizio, insomma. In questo senso ricordare è azione di risarcimento di una giustizia violata, condanna contro l’iniquo che non sarebbe giusto lasciare sepolto nell’oblio, né cancellare nell'oscurità della damnatio memoriae, ma che è urgente mettere in evidenza. In questo senso la memoria – e soprattutto la memoria civile – è un atto di accusa.

La coscienza individuale e pubblica si configura però per vie complesse e profonde, e non può trovare alimento né rigenerazione solo nella ripetitiva trasmissione di film e documentari sull’Olocausto – come da palinsesto mediatico. La memoria ha processi linguistici e simbolici esigenti, che non si accontentano di facili ritualità, e non si lasciano catturare nella griglia consolatoria dei calendari prestabiliti.

E se l’atto del ricordare è cosciente e intenzionale gesto politico, è vero anche e i sentieri della memoria sono imprevedibili e labirintici. E attraversano ciascuno di noi. “Nous sommes tous des monuments a la mémoire” scrive l’artista Ramuntcho Matta in questo stesso numero di Engramma: non è un pensiero molto distante dall’idea di costruire luoghi, immaginare palazzi e “stanze della memoria” interni alla mente, secondo gli esercizi mnemotecnici dei retori classici e medievali; né è lontano dalle teorie psicanalitiche e neuro-psicologiche per cui la memoria individuale e collettiva, o inconscio, è un bacino di ricordi, scosso da onde mnestiche, da impulsi elettrici che illuminano come engrammi, o che confondono piani diversi come lapsus – a dire che rispetto al visibile e all'espresso c'è un sottosuolo di energie, non sempre incanalabili, non tutte dicibili in forma lucida. La memoria si nutre di eventi, ma anche di figure, di simboli personali o collettivi, e li organizza e ri-organizza in una rete di significati densi e stratificati. L’arte, più di ogni altra cosa, ha il potere di far emergere questa latente carica semantica, e riplasmare la materia dei ricordi in nuove forme, che spesso, più o meno volontariamente, si fanno prossime alle antiche.

In questo senso, uno dei dispositivi con cui la memoria si accende e si rigenera, creando cortocircuiti tra forme e simboli antichi e contemporanei, si trova nel Memoriale dell’Olocausto di Berlino di Peter Eisenman. Proviamo a leggere questo monumento sotto la luce inedita di una proiezione di Berlino verso Gerusalemme, e verso la fine dei tempi*.

Berlino

Nel 2005 si inaugura a Berlino il Monumento per l’Olocausto, e precisamente il Denkmal für die ermordeten Juden Europas, situato nel pieno centro della città, e non a caso su un’area che avrebbe dovuto essere oscurata dall’ombra della Kuppelhalle e scomparire di fronte alle dimensioni della Grossen Platz progettate da Albert Speer, accanto alla Cancelleria di Hitler, a poche decine di metri dal Reichstag, della Bradenburger Tor e di Pariser Platz.

Il progetto, che porta la firma di Peter Eisenman, è un’opera grandiosa: una distesa di 2711 stele, tutte anonime, tutte grigie e uguali, poste secondo una griglia ortogonale, appena increspata da un moto ondulatorio. Non c’è celebrazione o eroismo, non c’è consolazione e patetismo, non c’è nemmeno rievocazione o narrazione storica, solo un Campo – Stelenfeld – con un numero sterminato di blocchi ordinati. Eppure per chi giunge dall’alto della strada, già al primo sguardo la ripetizione ossessiva nello spazio enorme (19.000 mq), la razionalità della distribuzione e l’afasia delle stele senza nome suscitano un grande impatto.

Le immagini che si agitano nella memoria non sono quelle dei sacrari della Prima guerra mondiale – montagne di nomi dei "caduti per la patria" – ma quelle viste nei documentari e nelle foto ritrovate dopo la Seconda guerra mondiale: file di deportati davanti ai treni, folle di prigionieri ordinati nei campi di concentramento, mucchi di abiti e cadaveri, resti umani e di umanità, catalogati con agghiacciante scrupolo. La morte rende tutti uguali, certo, ma è la privazione di identità individuale che fa di una vita un numero perso fra tanti, l'orrore forse più spaventoso della stessa morte.

Addentrandosi tra le stele, però, ci si rende conto che non si tratta di una spianata uniforme: il terreno cambia di livello, si scende e si risale, perdendosi sempre più tra i blocchi di cemento, che da lastre di qualche decimetro di altezza diventano imponenti monoliti. Le stele infatti sono tutte uguali in larghezza (2,375 m) e lunghezza (95 cm), ma l'altezza varia da 20 cm a 4 m. Il cielo grigio di Berlino si chiude sopra le strette vie, i rumori della città si fanno ottusi, lo spazio opprimente, labirintico e senza tempo. Molto è stato detto e scritto sull’effetto metaforico, ma anche emotivo, della discesa e dello spaesamento dello Stelenfeld. Ma ciò che si vuole sottolineare in questa sede è che, proprio attraverso la digradazione del suolo, i blocchi apparentemente uguali risultano di altezze sempre diverse. Ogni stele diventa unica, e dalla loro diversità prende origine il movimento visibile in superficie. Si potrebbe dire che Peter Eisenman crea un’operazione simile alle costellazioni di Anselm Kiefer, o alle "Pietre d’inciampo" di Gunter Deming, restituendo a ogni singolo blocco un’unicità dimensionale. Una sua propria, muta, individualità. La tragedia si sposta così dal piano dello scontro ideologico a quello individuale e quotidiano, e, proprio come avviene nello spazio espositivo e documentario sotterraneo del Centro Informazioni collocato proprio sotto lo Stelenfeld, nei racconti delle migliaia di storie di uomini e donne, rivive la Storia.

Ma un’altra immagine riporta a un piano sovra-storico, escatologico, e funge da imago agens nella “stanza della memoria”. L’interpretazione simbolica si arricchisce di un ulteriore riverbero di senso, spostandosi nella dimensione, ancora più complessa, della tradizione religiosa giudaica, mentre le coordinate geografiche si spostano verso oriente: verso la città di Dio, verso Gerusalemme.

Gerusalemme

Pochissimi studiosi – e comunque soltanto come suggestione rapidamente accennata e mai approfondita – hanno notato la incredibile somiglianza tra il Memoriale di Berlino e uno dei più importanti cimiteri ebraici, quello che si estende alle pendici del Monte degli Ulivi lungo la Valle di Giosafat, appena fuori dalle mura di Gerusalemme.

Anch’esso si presenta come una distesa di stele tutte uguali, poste in orizzontale, senza ornamenti, digradanti lungo la collina. Colpisce anche qui il rigore geometrico, la ripetizione del modulo, la spazialità che sconfina a perdita d’occhio. Nel cimitero di Gerusalemme il movimento ondulatorio che il dislivello naturale del terreno conferisce all'insieme delle stele, corrisponde “in positivo” a quello creato artificialmente da Eisenman sul fondo del Memoriale: il saliscendi tra i sepolcri sul Monte degli Ulivi crea un effetto di straniamento simile a quello che si avverte tra le stele berlinesi, e se il chiarore della pietra tipica di Gerusalemme amplifica il riverbero della luce e la sensazione di astrazione, il grigio cupo dei blocchi tedeschi riproduce un effetto analogo, per contrappunto e per distanza. L’immagine simbolicamente posta 'a fronte' è chiara, la citazione evidente.

D’altronde, il cimitero del Monte degli Ulivi è il più vasto e il più importante cimitero ebraico del mondo: si estende per oltre 250 dunam (250.000 mq) a est del Monte del Tempio e costituisce una sorta di temenos sacro, insieme nazionale e religioso, per tutto il popolo ebraico, poiché da più di 3000 anni accoglie le tombe dei figli più illustri di Israele. I grandi dell'antico popolo giudaico e del moderno stato israeliano sono tutti sepolti lì: secondo la tradizione sono lì le tombe dei profeti biblici Aggeo, Zaccaria e Malachia; lì è anche il mausoleo di Assalonne, figlio del re Davide; lì sono i sepolcri dei capi delle dinastie israelitiche e dei più importanti rabbini e interpreti delle Scritture; e ancora poeti, letterati, uomini politici, sionisti, industriali, costruttori di Gerusalemme e delle città nuove, distribuiti in sezioni bukhare, georgiane, ashkenazite, hassidiche. Tutte insieme costituiscono la spina dorsale storica del popolo giudaico. La citazione di quel luogo a Berlino non ha quindi soltanto una valenza estetica o culturale: è anche un dispositivo simbolico che avvicina le stele anonime per le vittime dell’Olocausto a quelle dei più importanti correligionari, dando a quelle vite e a quelle morti che stanno esposte al cielo sopra Berlino una dignità pari alle vite e alle morti poste sotto il sole di Gerusalemme.

Ma è possibile cogliere nel luogo anche un ulteriore livello semantico, grazie all'interpretazione che la tradizione ebraica fornisce alle parole pronunciate dai Profeti:

“Poiché, ecco, in quei giorni e in quel tempo,
quando avrò fatto tornare i prigionieri di Giuda e Gerusalemme,
riunirò tutte le nazioni
e le farò scendere nella valle di Giosafat,
e là verrò a giudizio con loro
per il mio popolo, Israele, la mia eredità,
che essi hanno disperso fra le genti.
Si affrettino e salgano le genti
alla valle di Giosafat,
poiché lì siederò per giudicare
tutte le genti all’intorno”.
(Gioele 4, 1.12)

Per via di etimologia, un sottile discrimine semantico separa il nome Giosafat, “il Signore giudica”, dalla toponomastica del luogo prescelto per il più importante tra i cimiteri ebraici: è la Valle di Giosafat, ma anche la Valle della Decisione. Tuttavia, senza perdersi nel raffinato gioco della lettura esegetica, è fondamentale rilevare che secondo la tradizione più diffusa e tuttora conosciuta, quello è il luogo dove Dio darà inizio al Giudizio Universale. Là Dio, nell’Ultimo Giorno, siederà a giudicare i popoli, e in particolare – un tema molto ricorrente nella letteratura biblica – si vendicherà contro coloro che hanno osato toccare il “suo” popolo – Israele.

Il cimitero nella Valle di Giosafat assume quindi un ruolo critico nell’escatologia ebraica, mentre le molteplici letture dei testi si complicano fino ai limiti dell’ortodossia: essere seppelliti in quel luogo significa essere fra i primi che prenderanno parte al Giudizio e alla vita eterna e, secondo alcune esegesi, essere addirittura esonerati dalla “separazione dell’anima alla tomba” e dalla “migrazione attraverso passaggi sotterranei” nel giorno della resurrezione dei morti.

Immediatamente percepibile è la proiezione spaziale del luogo, che diviene un polo di attrazione universale, il luogo dell'ultimo avvicinamento di tutte le genti. Ma è anche il centro propulsivo di un moto centrifugo: ancora la tradizione narra di come gli ebrei di Gerusalemme mandassero la terra del Monte degli Ulivi alle comunità ebraiche disperse dopo la Diaspora perché la spargessero sulle tombe dei loro cari morti lontano dalla Terra Promessa.

Eisenman, nel citare figurativamente e compositivamente il Cimitero di Gerusalemme nel suo Monumento a Berlino, non solo collega il più doloroso teatro della storia degli ebrei allo scenario più celebrativo della loro elezione, ma attiva un’analogia – resta da chiarire fino a che punto consapevole – attingendo a un significato molto più difficile della mera commemorazione. Tra le pieghe della memoria infatti riemerge l'idea del giudizio: il giudizio finale delle Scritture, ma anche il nuovo e più duro giudizio sull’Età Moderna. A dire che se Dio nell'ultimo giorno tornerà a giudicare, dovrà sedere a Berlino, nel Campo di stele delle vittime della Shoa.

English abstract

Reflection on an architecture of memory and on the analogy between the Jerusalem cemetery and the Berlin Memorial. Eisenman, in figuratively and compositionally citing the Jerusalem Cemetery in his Berlin Monument, activates an analogy by drawing on a much more difficult meaning than mere commemoration. In fact, between the folds of memory the idea of judgment re-emerges: the final judgment of the Scriptures, but also the new and harsher judgment on the Modern Age. To say that if God returns to judge on the last day, he will have to sit in Berlin, in the stele field of the victims of the Shoa.

keywords | Architecture; Memory; Peter Eisenman; Holocaust Memorial; Berlin; Gerusalemme.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2015.123.0005