"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

131 | dicembre 2015

9788898260768

Palmyra-Parigi: sommovimenti tellurici sulla faglia della civiltà 

testo corale, a cura di Monica Centanni, con contributi di: Sara Agnoletto, Maria Bergamo, Giulia Bordignon, Giacomo Casarin, Maria Grazia Ciani, Simone Culotta, Luca Desolei, Emma Filipponi, Francesca Galliotto, Anna Fressola, Peppe Nanni, Nicola Noro, Stefania Rimini, Ruggero Spagnol, Silvia Urbini, Alessandro Visca

English abstract
1. Mar Mediterraneo: gli epicentri del sommovimento in atto

Palmyra-Parigi 2015: sono soltanto gli estremi topografici e simbolici dell'area-culla della civiltà occidentale scossa da un sommovimento profondo. Un'area incendiata da diversi fuochi che si richiamano e si raccordano reciprocamente, configurando un quadro inedito: sono epicentri di un sommovimento tellurico che sta scuotendo alle radici la costituzione geopolitica e immaginaria del nostro mondo.

Le scosse si avvertono con intensità e forme diverse: a queste differenti, drammatiche, sollecitazioni ci sentiamo convocati a rispondere, sia pure per fragmenta, con una riflessione a più voci che, ancora e sempre, interessa urgentemente l’ambito del nostro studium – la memoria occidentale.

2. Uomini e pietre

Mnemosyne ci aiuti a compilare questo doloroso, macabro, conteggio nel quale le voci relative al corpus dei monumenti della nostra civiltà – offesi, dispersi, distrutti – stanno incolonnate insieme ai corpi delle 35.303 vittime civili – islamici soprattutto, ma anche cristiani e laici – cadute nel corso del 2015, per bombardamenti, scontri di terra, attacchi terroristici, naufragi.

35.303: la cifra, costruita per addizione sulle stime ufficiali, è soltanto indicativa – e certamente non lo sarà per eccesso. 

7 gennaio 2015: assassinio dei giornalisti di Charlie Ebdo, giornale laico – dionisiaco – parigino;
26 febbraio 2015: distruzione delle sculture del museo di Ninive, in Iraq;
6 marzo 2015: distruzione del sito archeologico assiro di Nimrud, in Iraq;
18 marzo 2015: attacco al Museo del Bardo di Tunisi;
2 aprile 2015: strage al campus universitario di Garissa, in Kenya;
26 giugno 2015: attentato a un Hotel di Sousse, Tunisia;
primavera/estate: distruzioni dei monumenti romano-palmyreni;
– inizio delle azioni militari nello Yemen;
11 luglio: autobomba al Cairo;
22 luglio: esplosioni in Nigeria e in Camerun;
13 agosto: massacro a Kukuwa-Gari, Nigeria
18 agosto: esecuzione di Khaled Al-Asaad a Palmyra, Siria;
21 agosto: autobomba esplosa presso la sede della Sicurezza Nazionale al Cairo;
31 ottobre: esplosione di un aereo russo nel cielo del Sinai;
12 novembre: attentati a Beirut, Libano;
13 novembre: attentati nel cuore di Parigi e a St Denis;
18 novembre: attentato a Yola, Nigeria;
20 novembre: attentato a Bamako, Mali;
11 dicembre: occupazione del sito archeologico di Sabratha, Libia;
gennaio/dicembre: 2987 morti e dispersi nel progressivo intensificarsi dei flussi migratori che premono a Occidente dalla sponda sud del Mediterraneo.

In risposta, la vergogna dei muri razzisti alzati dalle nazioni europee, come nuovi confini tracciati con il filo spinato, e l'orrore degli eserciti schierati contro chi chiede asilo.

Scriveva Michele Serra il 21 agosto 2015, alla notizia dell'assassinio di Khaled Al Asaad:

Se il direttore del Louvre o di Pompei o del Prado venisse sgozzato in pubblico e il suo cadavere decapitato appeso a una colonna, con l’accusa di avere difeso il Louvre, Pompei, il Prado e l’arte in essi contenuta, noi saremmo così pieni di orrore e di rabbia che per giorni l’apertura dei telegiornali, e le prime pagine dei giornali, non parlerebbero d’altro. E nei Parlamenti, infocati dall’emergenza, sarebbe quello l’argomento che tiene banco. Non è stato così per la morte atroce del professor Khaled Al Asaad, direttore del sito siriano di Palmyra (uno dei più importanti beni archeologici al mondo), assassinato dall’organizzazione genocida che si fa chiamare Stato Islamico. È ufficiale: noi europei siamo razzisti. Non sappiamo riconoscere “crimini contro l’umanità” se non rivolti contro noi stessi, non sappiamo riconoscere “umanità” se non in noi stessi, e vera cultura se non a casa nostra. Khaled Al Asaad è un martire della cultura e un eroe planetario, il suo volto e il suo nome dovrebbero campeggiare in ogni piazza civile del mondo. Anche Sarajevo fu città martire nella quasi indifferenza di governi e Stati maggiori europei. Ed era sotto il nostro naso. Figuriamoci Palmyra, che è in fondo al deserto, figuriamoci il professore arabo morto perché difendeva, tra le altre cose, anche le vestigia della civiltà classica. Che sarebbe la nostra, almeno così ci dicevano a scuola ("La Repubblica", 21/08/2015).

Ora che il 13 novembre 2015 il fuoco è arrivato a Parigi è chiaro che siamo tutti coinvolti. E non è detto che noi siamo, esclusivamente, le vittime di quanto sta accadendo.

3. Pietre di inciampo

Pulchritudo etiam ab infestis hostibus impetrabit, ut iras temperent
atque inviolatam se esse patiantur; [...]
nulla re tantum aeque ab hominum iniuria
atque illesum futurum opus, quam formae dignitate ac venustate.
Leon Battista Alberti, De re aedificatoria

Voi vi preoccupate per le pietre.
Ma da quattro anni non vi preoccupate dei corpi maciullati dei bambini.
Dichiarazione di un soldato dell'IS

Scolpire una colonna nella pietra significa sfidare il tempo. Voler lasciare un segno che dura appunto quanto dura una roccia. Le colonne millenarie di Palmyra testimoniano della volontà della civiltà – reinterpretata con orgoglio e fierezza da Zenobia, la regina autoctona che osò sfidare l'impero romano – di lasciare un segno nel tempo, nei modi e nelle forme della nostra civiltà, quella greco-romana.

La furia nichilista del fanatismo in versione youtube ha per oggetto le pietre della stratificata civiltà del bacino del Mediterraneo proprio perché sono pietre d’inciampo: pietre millenarie che possono essere sì fotografate e riprodotte all’infinito, ma hanno comunque una collocazione precisa nello spazio e nel tempo.

Nel nostro tempo – il tempo dei materiali biodegradabili o riciclati, dei segni effimeri – possiamo davvero pensare che la nostra epoca non debba lasciare alcun segno? È possibile accontentarsi di uno scambio forsennato di pixel, di cui forse non rimarrà traccia non già nei millenni, ma neppure nei decenni?

Le pacchiane città semi-virtuali – bene rappresentate dallo sfarzo vacuo delle architetture dell'Arabia Saudita e di tutti i Paesi del Golfo, i principali finanziatori dell'IS – possono essere ovunque e in nessun luogo.

Ma Palmyra è Palmyra: le pietre sono quelle. Le pietre che sfidano il tempo ti obbligano a farci i conti. Non raccontano che là una volta c’era Palmyra: le pietre sono ancora là e il racconto spetta a ogni generazione che le vede e le può toccare. Una presenza che schernisce, con il suo semplice esserci, gli incantesimi da baraccone del popolo di internet, le religioni inventate, le bandiere di fantasia, i segni destinati a presto scomparire.

Eppure, così come scindendo un atomo si può arrivare a distruggere la vita sulla terra, quei labili segni – effimeri ma non innocui – possono far scorrere il sangue, possono addirittura distruggere le pietre millenarie. E dare la gloria del martirio politico al loro custode – Khaled Al Asaad – che ha custodito come il bene più prezioso le pietre antiche, come fecero i monaci nelle età barbariche; che ha sacrificato la sua vita semplicemente perché sarebbe stato "ridicolo e vile" andarsene da Palmyra. Questo è l'esempio che può darci la profondità necessaria per reinventare i lineamenti della civiltà.

4. Finis Europae: dove finisce Europa. Una nuova cartografia

No man is an island,
Entire of itself,
Every man is a piece of the continent,
A part of the main.
If a clod be washed away by the sea,
Europe is the less.
As well as if a promontory were.
As well as if a manor of thy friend's
Or of thine own were:
Any man's death diminishes me,
Because I am involved in mankind,
And therefore never send to know for whom the bell tolls;
It tolls for thee.
John Donne, No man is an island

All’interno delle coordinate del Mediterraneo la relazione tra Oriente e Occidente gioca, fin dalle origini, una partita tutta particolare. Dove arrivano i confini di Europa? Nel mito, Europa, rapita in Occidente, viaggia per mare: il nostro mare è il fondale di quella storia che attraversa Oriente e Occidente.

La civiltà nasce intorno a un bacino circoscritto – il Mediterraneo – che si autorappresentava ed era il centro degli interessi strategici del mondo. Un ‘vuoto’– vuoto fertile, vuoto significante – fatto di mare-tra-le-terre, su cui stiamo tutti affacciati, come ci suggerisce Platone nel Fedone, ὥσπερ βατράχους περὶ τὴν θάλατταν οἰκοῦντας, "come rane intorno a uno stesso specchio d'acqua". Mare come spazio della mediazione e della negoziazione – area dello scambio commerciale, strategico e politico – ma anche spazio del pensiero, cioè lo spazio dell'intervallo nel discorso fra le varie culture, che invita a prendere la dovuta distanza e si configura come un collegamento tra una sponda e l’altra, tra isola e isola: una zona più fluida tra una densità e un’altra che, in forza del suo ‘vuoto’, grazie alla sospensione del ‘pieno’, apre canali tra le diverse terre, misurando distanze variabili l’una dall’altra. Il mare come Denkraum, come spazio del pensiero, spazio del dialogo ma anche specchio di una geografia costitutivamente pluriversa, irriducibile all'univocità, dove c'è sempre bisogno di una traduzione e di una koiné, di una lingua franca e comune, tra un sistema culturale linguistico immaginativo e un altro.

Anche Aby Warburg nella tavola incipitaria del Bilderatlas Mnemosyne presenta una carta dell'Humanitas Europaea che ha al suo centro il Mediterraneo: in cui il mare è il territorio comune della civiltà, tanto che il rapporto mare/terra (come nella cartografia 'sbagliata', fantasticamente colorata, di Alighiero Boetti) pare rovesciato. È sempre Warburg, per altro, che ci ricorda l’importanza degli scambi – culturali ed economici – tra le sponde del Mediterraneo e tra il Sud e il Nord dell'Europa come innesco del Rinascimento.

Da alcuni secoli, e più evidentemente nell’accelerazione degli ultimi decenni, la marginalizzazione del Mediterraneo nella carta del mondo ha trascinato con sé la fragilità politica dell’Europa. Di fatto il Mediterraneo oggi sta ai limiti della cartografia ideologica, culturale, economica, della stessa Europa. È l'inquadratura cartografica che sfalsa il quadro; è il particolare taglio di visuale geopolitica che provoca la depressione dei desideri, la contrazione della vitalità, il difetto di energia esistenziale che avvilisce (anche nel senso della contrazione demografica) le popolazioni dei paesi occidentali.

Oltre la crisi si prospetta una nuova fase in cui il Mediterraneo potrebbe reinventare e riguadagnare una forma di centralità. Ai suoi albori la civiltà del Mediterraneo ha peccato di autoreferenzialità: fatte salve rare – utopiche o fantastiche – eccezioni (l'impresa di Alessandro il Grande prima fra tutte), la civiltà greco-romana e poi medievale e umanistica ha per lo più disprezzato le civiltà altre, ignorandone il peso e, in certe fasi storiche, addirittura l'esistenza. Come è stato giustamente notato, l'epocale scoperta del continente americano che in molti calendari storici segna l'inizio della modernità, fu l'esito non già di un progresso dei mezzi tecnici o delle conoscenze geografiche, ma di un cambio di prospettiva che provocò una rivoluzione nelle aspirazioni geopolitiche, e di conseguenza negli interessi economici e nelle traiettorie commerciali degli Stati al tempo egemoni. Dalla metà del XX secolo, mentre sull'area di un'Europa sempre più in sofferenza si disegna il cono d'ombra delle potenze atlantiche, asiatiche e orientali, l'influenza di questo incrociato gioco d'ombre si infiltra anche sul quadrante mediterraneo. Ma paradossalmente proprio nella situazione geopolitica attuale, l'incalzare degli eventi restituisce a questo mare una funzione nevralgica.

Se la riattivazione della memoria storica e culturale sarà capace di far riemergere le immagini di tante, felici, ibridazioni di civiltà che il Mediterraneo ha ospitato, il nostro mare può tornare a essere il laboratorio di una nuova geofilosofia che rimetta in discussione la sudditanza del sud del mondo e che riveda la classificazione – già cinquecentesca e implicitamente gerarchica – di 'primo', 'secondo', 'terzo' mondo. Il Mediterraneo può ritrovare la propria vocazione a essere spazio dell'incontro, e coltivarla moltiplicando ed espandendo le ragioni, anche economicamente produttive, di una civiltà dello scambio.

Ritornando alla cartografia antica si può immaginare il Mediterraneo come un 'primo non-continente' – stranissimo, unico fra i 'continenti' che non è tale perché in realtà consiste del suo 'contenuto': l'acqua del mare contenuta all'interno delle sue sponde. E così come l'acqua – forma che, per dirla con Benveniste, fluisce nel ritmo e che non si irrigidisce nello schema – è l'elemento costitutivo del 'primo non-continente', la cifra urbanistica che qualifica la polis non ha la consistenza schematica del pieno ma la fluidità ritmica del vuoto: è il vuoto dell'agorà, luogo dello spaccio di merci non autoctone, ma anche spazio aperto al commercio di parole e di opinioni, spazio vuoto per il confronto tra pensieri. “Non ho paura di uomini che hanno uno spazio vuoto in mezzo alla loro città per riunirsi, fare patti e scambiarsi imbrogli" – avrebbe detto Ciro, il re dei Persiani, disprezzando quella strana forma urbanistica e sociale, altrove sconosciuta, che i greci, con Erodoto, chiamarono polis. Da quel vuoto nascono, nel V secolo a.C., teatro e politica e, come spettacolare effetto secondario, proprio in quel vuoto, dalla pratica e frequentazione degli agoni teatrali e oratori, si inventa la politica che coincide con il nome di democrazia: è la possibilità data a tutti i cittadini, come hanno mostrato Meyer e Veyne, di prendere la parola in assemblea e di avere un ruolo di responsabilità attiva nella gestione della polis assimilata a una nave di cui tutti i cittadini sono imbarcati non come passeggeri ma come equipaggio. 

Il "metodo Mediterraneo" mostra il suo profilo di pregio quando privilegia la curiosità (estetica, artistica, commerciale) per l'altro; la rappresentazione (teatrale) del diverso; e, più in generale, l'assunzione di una prospettiva non fondamentalista e identitaria ma dialettica, e perciò produttiva di scontri ma anche di incontri, di negoziazioni e di commerci culturali economici e politici. Il frutto di questi presupposti, concettualmente potenti, è che, pur nella rarità delle sue apparizioni storiche, l'idea di democrazia è tuttora l'unico modello globalmente riconosciuto. Ed è esattamente questo modello che viene attaccato sul piano ideologico dal rigurgito di fondamentalismo religioso, tendenzialmente teocratico, dell'IS. 

Si tratta quindi di ridefinire la cornice, il campo di gioco. Un’altra visualizzazione del mondo è possibile: se guardiamo la Tabula Peutingeriana – una grande carta stradale da un esemplare della tarda antichità romana, configurata su una bassa striscia, lunga circa 7 metri – vediamo ad esempio che l'Italia è al centro di un Mediterraneo rappresentato come fosse un oblungo canale: l’Italia è distesa, non più in verticale ma in orizzontale.

Tutto dipende dalla visualizzazione, dall’inclinazione, dall’intenzione dello sguardo. La rappresentazione è sempre invenzione, decisione, arbitraria inquadratura. Conviene allora valorizzare soprattutto i luoghi da cui si irradiano energie, che promettono possibilità di rimettere in gioco le correnti energetiche delle diverse sponde: ritrovare la capacità di riflettere sui poli attivi tra un punto e l’altro, come avviene in quel campo magnetico di forze eccezionali che il Mediterraneo è stato e può tornare a essere.

È urgente disegnare un’altra carta del mondo. E in questa nuova carta, tutta da reinventare e da applicare su più vasta scala, il Mediterraneo, in virtù della propria vocazione a essere spazio dell'incontro e dello scambio, rappresenta il punto cruciale dove le civiltà antagoniste, deponendo progressivamente le ossessioni identitarie che alimentano l'apparente incomponibilità dei conflitti, possono trovare l'occasione per una difficile tregua, per una puntuale e problematica – tanto precaria e impegnativa quanto produttiva – armonia.

5. I morti non sono tutti uguali

Full fathom five thy father lies
Of his bones are coral made;
Those are pearls that were his eyes:
Nothing of him that doth fade
But doth suffer a sea-change
Into something rich and strange.
Sea-nymphs hourly ring his knell.
William Shakespeare, The Tempest

La foto di Aylan ha commosso il mondo: l’immagine del bambino morto per uno dei tanti naufragi di barconi di profughi e raccolto da un soldato sul litorale turco ha dominato per giorni la scena mediatica. Il bambino – paradigma della vittima innocente – è stato proposto come icona della violenza indiscriminata, e immagine-simbolo dei conflitti in atto. Proprio per questo, però, il focus sul bambino marca la differenza tra morte e morte, tra vittima e vittima.

I 137 morti di Parigi, solennemente chiamati per nome nelle celebrazioni ufficiali, sono in stridente contrappunto con le centinaia di vittime anonime degli attentati in Kenya, in Mali e in Nigeria; all’immagine, tenera e commovente, di Aylan che scuote coscienze e sentimenti si oppone l'invisibilità mediatica della morte quasi quotidiana di decine e decine di persone nello stesso mare.

Ma è ammissibile questa pietà selettiva? È solo l'effetto di una strategia di comunicazione e dell'assuefazione dovuta alla routine della cronaca mediatica? O nasconde una oscena distinzione tra morti innocenti e morti meno innocenti, morti importanti e morti trascurabili – tra grandi e piccoli, bianchi e neri, morti 'nostri' e morti degli altri?

Il Mediterraneo è stato, per secoli, la culla della civiltà, luogo di incontro e di scambio; oggi il fondo del mar Mediterraneo è la tomba dei corpi e delle speranze di chi cerca l’Occidente scintillante descritto dai media e si trova di fronte ai muri della paura e dell'egoismo.

2987 corpi di naufraghi recuperati nel 2015; più del doppio la stima dei dispersi nel fondo del mare. L'Occidente con i suoi morti negli attacchi terroristici si trova a pagare anche il conto di questi fantasmi: la presenza materiale di corpi dimenticati che abitano a migliaia i fondali del nostro mare, presenze spettrali che nessun rito ha pacificato. 

Papa Francesco a Lampedusa benedice il crocefisso realizzato con il legno dei barconi dei migranti (luglio 2013)

Ma dal fondo del mare – insegna Shakespeare – basta far suonare il canto dolce di Ariel, bastano i rintocchi di una campana pietosa e le ossa possono riemergere come coralli, e gli occhi dei morti possono diventare perle preziose (Those are pearls that were his eyes è anche il titolo di Engramma n. 94, dedicato alla Tempesta di Shakespeare e ai naufragi che travagliano, in questi anni, il nostro mare).

6. Europa: l'esilio di Mnemosyne

Chi non conosce la storia è destinato a ripeterla.
George Santayana 

L'Unione Europea è un monstrum senza cuore, senza cervello. Ma soprattutto senza memoria. È l'orrore dei muri alzati contro i migranti, anche – soprattutto – da paesi che sembrano aver scordato, improvvisamente, di essere stati e di essere paesi di migranti. Europa non ha voce, se non quella dei suoi governanti quando si tratta di schierarsi in guerre feroci mascherate da missioni umanitarie. Se non quando si tratta di recidere alla radice il tentativo di rivoluzione che la Grecia, ricordando di essere matrice di libertà e democrazia, aveva tentato tra la primavera e l'estate 2015 con il governo Tsipras-Varoufakis, contro il regime di corrotti e profittatori che l'ha ridotta in ginocchio, in preda ai ricatti finanziari delle banche internazionali.

Dov'era Europa quando una banda di mercenari e di fanatici che usurpa il nome dell'Islam, armati dai produttori di armi (Francia, USA, Italia in testa), attaccava e devastava Babilonia, Ninive, e poi Palmyra – una delle sue capitali segrete, una delle sue "città invisibili" che nessuna ricostruzione potrà risarcire?

Europa è il Leviatano – mostruosa anamorfosi del potere, senza anima e senza cervello. Nessuna strategia, nessun progetto. Sull'altro fronte, feroci predoni che dicono di agire in nome di Allah, rinnegando tutto quanto di splendido ha fatto nei secoli la cultura islamica sulle due sponde del Mediterraneo. Alla lucida e vantaggiosa pianificazione dei traffici economici, di petrolio e di armi, che gli stati occidentali intrattengono con i banditi e con i regimi che li sostengono, corrisponde una totale approssimazione nella risposta che, quando c'è, accetta il piano dialettico imposto dai terroristi.

7. Europei (purtroppo) non-bastardi: il mito della purezza

"Bastardi Islamici", il titolo del quotidiano "Libero" dopo i fatti di Parigi del 17 novembre non tradisce soltanto la grettezza e l'ignoranza di chi l'ha pensato, scritto, divulgato; è una dichiarazione molto pericolosa non solo per l'istigazione all'odio, ma perché rivolge in negativo una caratteristica propria della tradizione classica.

In uno studio del 1966 divenuto un classico dell’antropologia contemporanea, Mary Douglas proponeva le categorie di Purity and Danger – 'purezza' e 'pericolo' – come schema di lettura di atteggiamenti culturali legati alla paura della contaminazione e dell’impurità. Applicando queste categorie alla lettura dei profili delle diverse civiltà, potremmo dire che la tradizione occidentale – la tradizione classica – nella sua storia secolare non si presenta certamente come esempio di civiltà della Purezza (purezza come irrigidimento identitario: sociale, culturale, religioso, politico) ma è piuttosto un caso eccellente di civiltà del pericolo: dialogo, meticciato, ibridazione, metamorfosi e mutamenti come meccanismo biologico di sopravvivenza e di espansione vitale.

Iside e Horus (V sec. a.C.) | Demetra e Persefone (V sec. a.C.) | Madonna in trono con Bambino (XI e XV sec.) 

Meglio dire: "Europei purtroppo non-bastardi". Non memori della stratificazione, ibridazione, coniugazione di opposti che è la civiltà. Dediti al culto fondamentalista e iconoclasta – già calvinista, già nazista – di un'orrida, sterilizzata, purezza.

8. Processo di civiltà, processo alla civiltà

L''Oriente' non ha avuto il suo tempo: è sempre stato interrotto, trascinato indietro, sempre cambiato, alterato, separato; i suoi processi storici sembrano aver subìto, a fasi alterne, scarti di velocità imposti da logiche eteronome imperialiste, per quanto ‘civilizzatrici’ nelle intenzioni: il pacis imponere morem, per citare la celebre formula della pacificazione forzata delle provincie in età augustea.

Le potenze colonialiste hanno assemblato pezzi di popoli incompatibili e fatto a pezzi popoli storicamente omogenei. L'Iraq, ad esempio, contiene nei suoi confini squadrati col righello arabi sciiti, iranici sciiti, arabi cristiani, curdi sunniti, arabi sunniti, spesso separati dai parenti dislocati nell'attigua Siria. Questa convivenza forzata e artificiosa di etnie non rappresenta un melting pot venutosi a creare naturalmente come nel caso della storia degli USA, ma è un disastro geopolitico di lunga durata, conseguenza degli accordi post bellici presi a tavolino tra Francia e Inghilterra fin dal 1916.

L''Occidente' ha avuto le sue guerre, si è trasformato, dovrebbe avere avuto il tempo di imparare. L'evolversi della civiltà impone una metamorfosi della civiltà stessa, pena il suo declino e il suo tramonto. Nelle Città Invisibili, Italo Calvino ci insegna che è l'immobilità, l'ossessione dell'immutabile purezza identitaria che minaccia la sopravvivenza e il movimento vitale della memoria:

Obbligata a restare immobile e uguale a se stessa per essere meglio ricordata, Zora languì, si disfece e scomparve. La Terra l'ha dimenticata.

La spartizione della sponda sud del Mediterraneo tra le potenze coloniali ha creato linee di demarcazione fittizie – confini imposti sui territori in modo astrattamente geometrico – all'interno delle quali è rimasta paralizzata ogni possibilità di sviluppo dei paesi arabi interessati. 

La difficoltà di popolazioni e culture diverse a stare negli stessi confini nazionali e quella di popolazioni affini a vivere separate da frontiere innaturali è un’esperienza che riguarda anche l’Europa. Se è difficile per gli europei sentirsi tutti cittadini di un'Unione percepita come entità burocratica e lontana, perché dovrebbe essere diverso per i popoli del variegato mosaico mediorientale, abituati da sempre a gestirsi secondo modelli socio-economici completamente differenti?

Abbiamo esportato forzosamente un modello di stato nazionale che attualmente è in crisi anche in Occidente. Analizziamo la cartina dell'Europa: a quali e quante riconfigurazioni geopolitiche assisteremmo se ogni brandello di paese, regione o provincia che aspira ad affermare la propria identità e autonomia fosse libero di farlo? 

Le carte a colori di "Limes", articolo Stati in gestazione?, 6.11.2014

E viceversa: a quali e quante riconfigurazioni geopolitiche assisteremmo se le ricorrenti spinte partecipative, democratiche e rivoluzionarie che ancora abitano il sottosuolo dell'Europa fossero magnetizzate e attratte in un unico grande processo di trasformazione politica? E se la stessa cosa, come ha esemplarmente mostrato l'episodio della Tunisia, accadesse sulla sponda sud del Mediterraneo?

La civiltà islamica, dopo aver creato tante meraviglie anche nel ‘nostro’ Rinascimento europeo, sembra essersi raggelata e come spenta. In anni recenti gli eventi della Primavera Araba hanno operato una catalisi che ha drammaticamente modificato l’innaturale configurazione geopolitica medio-orientale e nord-africana. Le ingerenze delle potenze occidentali, tuttavia, hanno nuovamente imposto una pesantissima ipoteca sulla storia dei paesi coinvolti, smorzando quasi sempre la portata innovativa e il vento di rinascita dei movimenti. Per cinismo, o per preciso interesse, le potenze occidentali, anziché favorire le istanze partecipative dei giovani rivoluzionari, hanno preferito appoggiare la restaurazione del potere di tiranni o di oligarchi, realizzando così ex post l'interessata profezia – vagamenta venata di suprematismo etnico – secondo la quale non tutti i popoli sarebbero "maturi per la democrazia". Salvo poi esportare militarmente simulacri di democrazia quando le convenienze economiche o strategiche lo richiedano.

Non a caso tra i primi obiettivi di questo sanguinoso 2015 i terroristi dell'IS hanno scelto di colpire il Museo del Bardo, l'edificio da poco rinnovato che custodisce insieme capolavori dell'arte musiva romana e straordinari esemplari di arte islamica, cuore di una Tunisia che, dopo la Primavera del 2011, ha saputo fronteggiare sia i tentativi di restaurazione autoritaria che le tentazioni fondamentaliste. Di fatto, il terrorismo fondamentalista e la retorica ufficiale delle potenze occidentali convergono istintivamente, seppure con strategie e metodi diversi, nell'avversare ogni simbolo culturale e ogni disegno politico che si presentino come sintesi e ponte tra le diverse declinazioni della cultura mediterranea, tra l'Europa e i paesi della sponda sud.

L'improvvida politica dei governi europei ha riverberato all’indietro gli spunti della Primavera Araba, provocando una sorta di ritorno di fiamma di formidabile violenza: dalle parole dei giovani musulmani integrati in Occidente (si veda qui sotto Appendice 3) emerge la consapevolezza che in Medio Oriente la deriva terrorista e la radicalizzazione integralista sono stati favoriti dal sentimento di delusione e frustrazione provocate dalla diffidenza manifestata dall'establishment occidentale nei confronti delle Primavere, sentimento amplificato dal messaggio di scetticismo e di malcelato disprezzo veicolato da tutti i media occidentali, facilmente accessibili anche alla giovane opinione pubblica nei paesi arabi.

L'Occidente sconta, a caro prezzo, cecità, errori, ipocrisie. È stata legittimata la violazione della sovranità di uno Stato attraverso una guerra combattuta senza formale dichiarazione. Ma bombardare il territorio nazionale della Siria equivale a elevare Daesh da organizzazione criminale al rango di Stato riconosciuto. E nel contempo, l'uso sconsideratamente invalso della nominazione "Stato islamico" – Islamic State o Daesh – da parte dei media di tutto il mondo avalla la legittimazione istituzionale che l'IS intende dare di se stesso, favorendo il consolidamento dell'aggregazione di realtà organizzative e religiose diverse, legate originariamente alla minoranza Sunnita dell'Iraq.

Le scelte sbagliate dell’Occidente hanno un peso rilevante sulla crisi del Medio Oriente. È il rifiuto a meditare in termini storici sul passato, una radicale smemoratezza che assolve sistematicamente dalle responsabilità e impedisce di inventare rimedi. Errori da cui nascono altri orrori; errori di rotta da cui scaturiscono sempre nuovi naufragi.

9. Foreign Fighters: la nuova 'legione straniera', ultima utopia romantica

Noi li avremmo forse salvati se li avessimo persuasi che che il loro rifiuto, la loro indignazione, la loro disperazione stessa erano necessari,
se avessimo saputo opporre a questa sinistra facilità di morire la difficoltà eroica di vivere (o di cercare di vivere),
così da fare del mondo un luogo un poco meno scandaloso di quello che è.
Marguerite Yourcenar, "Questa sinistra facilità di morire", in Il tempo grande scultore

La dichiarazione di restaurazione del Califfato si è rivelata vincente e ha prodotto il recente successo politico dell'IS (v. Appendice 1). Tutti i gruppi jihadisti sparsi nel mondo sono stati invitati a confluire sotto l'egida del Califfato: la conseguente diffusione a macchia di leopardo della presenza dell'IS si profila come un risultato politico di inedita, drammatica, efficacia. 

Il conflitto siriano, propagazione di quello iracheno, ha attratto irresistibilmente anche un numero consistenti di combattenti stranieri – chiamati da allora Foreign Fighters – mai raggiunto nelle guerre precedenti. In Afghanistan, nello jihad antisovietico, gli stranieri entrati nelle fila di del movimento erano pressappoco un migliaio, mentre nel secondo conflitto iracheno (2003-2006) sono arrivati a contare oltre 5.000 arruolati (o addirittura il doppio, secondo alcune stime). Oggi, nell'IS militano circa 30.000 stranieri, di cui un sesto sono cittadini europei. La progressione di questi numeri testimonia l’aumento esponenziale dell'adesione allo jihad.

Così argomenta Alessio Angioli:

Di fatto, i wahabiti-salafiti sono i soli ad avere al momento una proposta chiara per ripristinare quell’unità anche formale dell’Islam sunnita che era sempre esistita, da Maometto fino all’abolizione del Califfato, decretata da Ataturk nel 1922. L’unità della umma, la comunità dei fedeli, è un elemento estremamente importante della fede islamica. L’idea del Califfato non è la bislacca e folcloristica trovata di un gruppo di fanatici pazzi. Abolito in tempi relativamente recenti, da decenni in tutti gli ambienti islamisti si dibatteva della necessità di restaurarlo. L’Isis non compare dal nulla. E la sua proposta non si fonda sul nulla. Il Califfato era sempre esistito nell’Islam sunnita perché rispondeva (anche se spesso in termini solo simbolici) al tema dell’unità sopra evocato. Non a caso, la sua (temporanea?) abolizione è avvenuta pochi anni dopo l’accordo Sykes-Picot (1916), la celebre intesa anglo-francese che spartiva il Medio Oriente tra le due maggiori potenze coloniali del mondo, evocando ex nihilo stati che non erano mai esistiti. 1916 e 1922: le due date che i wahabiti-salafiti vogliono cancellare, appena prima che giungano al centenario. In tal modo, i jihadisti mirano ad impossessarsi anche della vecchia bandiera dell’unità araba (tema centrale del nazionalismo laico e socialista) e ad assorbire egemonicamente i desideri legittimi di riscatto che esistono in tutto il Medio Oriente e in tutto il Mediterraneo (comprese le comunità islamiche della sponda Nord). Il Califfato diviene un simbolo, quale in effetti era storicamente, religiosamente e spiritualmente sempre stato per tutti i musulmani sunniti – il simbolo dell’unità della umma, del ritorno a un tempo di grandezza, di orgoglio e di potenza.

Non si può considerare l'IS un blocco monolitico e compatto, quando invece si tratta del precipitato di fenomeni diversi, attraversato da contraddizioni potenzialmente dirompenti che una politica lungimirante dovrebbe evidenziare e fare esplodere. D'altro canto, un fattore aggregante è stata, e certamente è, la grande disponibilità economica di cui l'esercito dell'IS ha potuto disporre per l'arruolamento, per gli armamenti, per la campagna promozionale rivolta ai giovani arabi, ma anche ai giovani europei, di fede islamica o meno. Una disponibilità dovuta principalmente al commercio di due prodotti: il petrolio e i frammenti archeologici. 

In questo quadro, l'attenzione è richiamata da un fattore singolare: la presenza nelle fila dell'IS dei Foreign Fighters – migliaia di giovani europei che negli ultimi tre anni, in misura continuamente crescente (più di 2.400 soltanto nel 2014), hanno raggiunto l'area mesopotamica, tagliando i ponti con la loro vita precedente.

La composizione dell'armata dei combattenti europei apparentemente non mostra tratti unificanti dal punto di vista dell'appartenenza a gruppi sociali. Le storie di queste persone possono trarre origine da situazioni familiari e sociali complicate, ma anche provenire dal ceto medio benestante. Non esiste una spiegazione monocausale e meccanica del fenomeno, la cui consistenza si spiega come l'esito di una serie di tendenze: lo stesso termine 'radicalizzazione', nell’indicare un processo, sottolinea la molteplicità dei fattori che sottendono l’adesione. Generalmente comunque il passaggio alla radicalizzazione religiosa è secondario rispetto alla radicalizzazione ideologica. La capacità di attrazione che questo movimento ha in ambienti e ceti diversi e la velocità con cui è diventato un fenomeno trans-nazionale, indicano, come ha notato Guolo, che l'elemento chiave per l’adesione è una vocazione ideologica più che immediatamente religiosa.

Insieme alla moschea e al quartiere, uno dei punti di reclutamento è il carcere che, anche nel paese che dovrebbe avere presente la lezione di Foucault, ben lontanto da essere luogo di recupero alla vita civile, è agenzia incubatrice di devianza. Scrive Olivier Roy:

Une grande partie d’entre eux a fait un passage en prison. Et puis un beau matin, ils se sont (re)convertis, en choisissant l’islam salafiste, c’est-à-dire un islam qui rejette le concept de culture, un islam de la norme qui leur permet de se reconstruire tout seuls. Car ils ne veulent ni de la culture de leurs parents ni d’une culture 'occidentale', devenues symboles de leur haine de soi ("Le Monde", 24 novembre 2015).

Ma la nuova generazione di militanti si forma soprattutto tramite la rete: il web progressivamente diventa un agente radicalizzante. Se un tempo, per arruolarsi o, prima, per venire in contatto con testi radicali, bisognava affrontare alcune difficoltà – dalla conoscenza dell’arabo alla scarsa reperibilità dei testi stessi – oggi bastano pochi click per poter accedere a qualsiasi materiale propagandistico in tutte le lingue del globo. E l'IS punta sulla rete proprio per la sensibilizzazione e l'arruolamento dei potenziali militanti occidentali.

In questo senso il caso francese è esemplare: alla rivolta delle banlieues del 2005 la risposta dello Stato, per bocca dell'allora Ministro dell'Interno, Nicolas Sarkozy, fu definire i rivoltosi "racaille" ('rifiuto', 'feccia') – a ulteriore conferma dell'assetto gerarchico di una società radicata nelle sue compartimentazioni, nel suo esclusivismo etnico, che non ha saputo ripensare ai suoi fondamenti. "Liberté égalité fraternité" – ma, ben si intenda, soltanto ‘entre nous’, bianchi borghesi cristiani (un aspetto stigmatizzato, fin dal 1992, da Colin Serrau nel film La crise).

I giovani de-islamizzati, che vivevano la religione in modo marginale, si rendono conto che il loro patto con lo stato è venuto meno. È questa la generazione che decide di imbracciare le armi e, data l'incompatibilità tra Francia ufficiale e banlieues, si trova tentata dallo jihad. Scrive ancora Olivier Roy:

La France en guerre ! Peut-être. Mais contre qui ou contre quoi ? Daech n’envoie pas des Syriens commettre des attentats en France pour dissuader le gouvernement français de le bombarder. Daech puise dans un réservoir de jeunes Français radicalisés qui, quoi qu’il arrive au Moyen-Orient, sont déjà entrés en dissidence et cherchent une cause, un label, un grand récit pour y apposer la signature sanglante de leur révolte personnelle [...] La vraie question est de savoir ce que représentent ces jeunes, s’ils sont l’avant-garde d’une guerre à venir ou au contraire les ratés d’un borborygme de l’Histoire. [...] Il s’agit d’abord d’une révolte générationnelle : les deux rompent avec leurs parents, ou plus exactement avec ce que leurs parents représentent en termes de culture et de religion. Les "deuxième génération" n’adhèrent jamais à l’islam de leurs parents, ils ne représentent jamais une tradition qui se révolterait contre l’occidentalisation. Ils sont occidentalisés, ils parlent mieux le français que leurs parents. Tous ont partagé la culture " jeune " de leur génération, ils ont bu de l’alcool, fumé du shit, dragué les filles en boîte de nuit ("Le Monde", 24 novembre 2015).

Le ragioni per cui giovani europei si uniscono all'IS risiedono nel fallimento dell'Europa e nella vacuità esistenziale che questo fallimento alimenta. La militanza nell'IS va a colmare un vuoto offrendo una paradossale ragione di vita, un presa di responsabilità che stenta a trovare altrove una parvenza di senso dell'esistenza.

I Foreign Fighters possono essere visti come una versione aggiornata della Legione straniera. E come spesso accade negli ambienti mercenari, le motivazioni economiche si confondono in maniera inestricabile con la copertura ideologica garantita dalla retorica di una narrazione epico-religiosa e dalla cornice valoriale di stampo comunitario. Un corpo franco radunatosi nell'illusione di una vita avventurosa, sotto una bandiera fuori dalle insegne comuni, ma che va paradossalmente a irregimentarsi nelle regole minuziose di un tempo quotidiano scandito dalla sha'aria

10. Nomoi: la sospensione della legge

Sì, nulla sarà mai come prima. Ma niente è mai stato come prima.
Viviamo nella stupidità e nella barbarie,
Occidente compreso, e mai Voltaire è stato più lontano da noi.
Cesare Garboli

Alcibiade, che sì spesso Atena
come fu suo piacer volse e rivolse
con dolce lingua e con fronte serena
Petrarca, Trionfo della Fama

Inserire nella Costituzione lo stato d’urgenza. Così parla Francois Hollande a camere riunite nella storica reggia di Versailles: “In Francia abbiamo bisogno di un regime costituzionale in grado di gestire la lotta a questo nemico” ha detto il presidente, sottolineando la necessità di “fare evolvere la costituzione per agire contro il terrorismo di guerra”. Hollande cita, in particolare, la necessità di intervenire sull’articolo 16 (relativo ai poteri straordinari del presidente in caso di minaccia allo stato) e sull’articolo 36 (relativo allo stato di guerra e gli interventi militari all’estero) della Costituzione del 1958. Si vorrebbe inserire nella Costituzione l’articolo 11 della legge del 1955, precedente l’era di internet e la promulgazione della nuova Costituzione.

Il messaggio politico non è dunque quello di modificare o riformare la costituzione, bensì "farla evolvere". La sottigliezza linguistica poggia sul presupposto di una naturalità dell’evoluzione della carta costituzionale che si dovrebbe progressivamente adeguare alle sfide che via via si presentano. Hollande fa dunque ricorso a un attenuamento retorico che correda con effetti di enfasi nazionalista: “La Francia è in guerra. Ci attaccano perché siamo il paese della libertà e dei diritti dell’uomo” ha esordito il presidente della repubblica francese. Hollande sottolinea che non si tratta di “una guerra di civiltà, perché questi assassini non ne rappresentano certo una”. Chiude dopo 40 minuti di discorso: “Viva la Francia”. E l’Assemblea canta la Marsigliese, in tono commosso e disciplinato.

L’introduzione di un nuovo articolo ha origine nelle proposte del Comitato Balladur, voluto da Nicolas Sarkozy nel 2007 per riformare la Costituzione: tra le varie proposte il Comitato aveva auspicato una revisione dell’art. 36, proprio suggerendo di introdurre la possibilità della proclamazione dello stato d’emergenza.

Il ricorso a riforme costituzionali come tacito viatico per l’instaurazione di un nuovo corso politico non è uno strumento nuovo nella storia dell’Occidente; l’istituzione di comitati di saggi che preludono a modifiche costituzionali viene da lontano, dalla più antica culla della democrazia: l’Atene del V sec. a.C.

Nel 413 a.C., uscita dalla gravissima crisi militare, politica, generazionale, economica a seguito della fallimentare spedizione siciliana, Atene si dotò di un comitato di dieci saggi (i probouloi) ai quali fu affidato il compito di riordinare le finanze pubbliche e indirizzare le deliberazioni della boulè. La nuova magistratura – i cui contorni, quanto a durata e rendicontazioni della carica, sono significativamente vaghi – doveva affiancare e porre sotto tutela il sistema democratico a cui venivano addossate tutte le responsabilità per la debolezza attuale di Atene.

Dopo pochi anni, la situazione di debilitazione politica ed economica della città è ulteriormente aggravata: nel 411/410, Pisandro, personaggio pubblico dal forte ascendente popolare, suggerisce che “se gli Ateniesi non si fossero retti a democrazia allo stesso modo di prima”, allora avrebbero goduto dell’appoggio – anche economico – del Re persiano. Nelle parole di Pisandro lo stato di emergenza in cui versa la polis ha la priorità sulla riflessione relativa alle conseguenze di un cambio di regime in direzione oligarchica: la salvaguardia di Atene non è possibile “se non ci governeremo in un modo più saggio, se non attribuiremo le cariche agli oligarchi, così il Re avrà fiducia in noi; nella situazione presente dobbiamo cambiare il nostro sistema politico (e poi sarà sempre possibile apportare dei cambiamenti, qualora qualcosa non ci piaccia)”. Il popolo non è persuaso, ma, stando a Tucidide, “informato minuziosamente da Pisandro che non c’era un’altra via di salvezza, da un lato pressato dalla paura, dall'altro sperando che la decisione fosse reversibile e si potesse ripristinare la democrazia, infine cedette”.

Atene, 413-410 a.C. / Parigi, 2007-2015 d.C. Mutatis mutandis, la proposta Pisandro/Hollande è la conseguenza della debolezza di un sistema politico, e nella Francia di oggi l’introduzione dello stato d’emergenza, l’evoluzione benigna di cui parla Hollande, viene dai probuloi del comitato Balladur. La retorica a favore di questi mutamenti istituzionali è sottile: chi propone le innovazioni si pone come difensore della forma democratica ma in realtà ne prepara il sovvertimento – presentato in chiave rassicurante – e si fa scudo con l’elogio retorico della nazione e con l'abuso dei suoi riti (il canto della Marsigliese/Vive la France). Comune è anche il riferimento all’urgenza della situazione presente.

L’"evoluzione della costituzione" a cui si appella Hollande è perfettamente parallela all'evoluzione della democrazia in un regime 'differentemente democratico' che Pisandro suggerisce, e il discorso fatto alla nazione/assemblea dei cittadini francesi/ateniesi prospetta una soluzione apparentemente lineare e aproblematica, che cela l'esiziale contraddizione tra custodia della democrazia e involuzione autoritaria.

Lo 'stato d’eccezione’ è sempre invocato per mettere in atto rotture del quadro istituzionale giustificate agli occhi della cittadinanza da situazioni emergenziali artatamente enfatizzate. Il fine ultimo delle ricorrenti tendenze oligarchiche è sempre lo stesso: minare le fondamenta della partecipazione democratica con il ricatto della paura, barattando diritti certi con illusioni di sicurezza. 

11. Sangue chiama sangue: il ritorno di Erinni

Ecco, lo vedi l'assassino abbracciato alla statua di Atena?
 Vorrebbe essere giudicato qui, nella città,
ma no! non è possibile: questo a noi spetta!
[...] Il sangue versato a terra non si riscatta:
[...] devi risarcirmi facendomi succhiare il tuo sangue.
Eschilo, Eumenidi

Ai corpi dei ragazzi uccisi mentre celebravano la festa di Dioniso al Bataclan fanno da contrappunto i corpi 'crivellati dai colpi' dai militari che hanno giustiziato i giovani attentatori, attaccando in assetto di guerra un quartiere di Parigi (poi correggono: uno degli attentatori forse si è pentito; la ragazza non era kamikaze, non aveva proprio il giubetto addosso...).

Spettacolarizzazione della vendetta: esecuzioni pubbliche e cadaveri dati in pasto alla folla in piazza – anzi, portati nella casa di ciascun cittadino, via internet e Tv, a sfamare l'ancestrale voglia di sangue. Invece che contrapporre al terrorismo un altro codice – il codice della politica e dei suoi sistemi di controllo e difesa – si esibisce come in un telefilm americano di serie B, la storia dei buoni e dei cattivi. I 'buoni' sarebbero ora i poliziotti in assetto di guerra (con l'aggiunta del cane eroe) autori dell'assalto notturno, in stile rastrellamento, nel quartiere di Saint-Denis, prima periferia parigina, a un passo dal cuore della città (è la sede dell'Università Paris VIII e degli Archives Nationales de France). È forse la risposta, perfetta, alle paure dei Francesi che vogliono sentirsi protetti dall'inciviltà: la ‘barbarie’ che si annida e cresce fertilmente nelle banlieux, i quartieri originalmente concepiti da una caritatevole politica di edilizia popolare che, per un evidente errore nella progettazione, sembrano costruiti apposta per allevare marginalità e risentimenti.

La Francia accoglie, assolutamente senza distinzioni di trattamento, cittadini europei e non europei. Concede a tutti coloro che si presentano alle porte della città una casa, spesso un lavoro, un sussidio di disoccupazione, aiuti di ogni genere. La Francia è un paese civile, un paese nel quale la gente si aggrega per strada, nei bar; la Francia è un paese di cultura, nei teatri, nei cinema, nelle sale di concerti – come il Bataclan, che è una vera istituzione a Parigi.

È comprensibile che i francesi, anche i più illuminati, abbiano serie ragioni per interrogarsi e reagire di fronte a un attacco violento alle loro consuetudini di vita, di fronte ad azioni che mettono a dura prova la loro idea di tolleranza. Incomprensibile è la reazione cieca e istintiva del governo francese che, fomentando strumentalmente la rabbia e il disorientamento dell'opinione pubblica esibisce il corpo crivellato del 'nemico' che deve essere oltraggiato, a risarcire l'oltraggio portato ai luoghi della civiltà. Un esercizio di baratto dell'economia della barbarie dettato dalla necessità di far dimenticare al più presto l'incapacità tecnica e le responsabilità strategiche a carico dell'intero apparato governativo che l'episodio terroristico rende lampanti. 

Ma qualcuno si sente davvero risarcito? Qualcuno si sente più rassicurato? 

Comunque, sangue chiama sangue, e troppo spesso la figura del terrorista perde qualsiasi connotazione umana: ai corpi dei giovani massacrati corrisponde l'esposizione di altri corpi di giovani massacrati. Sulla fine di questa pratica di vendetta ancestrale Eschilo credeva di aver detto la parola decisiva, nel 458 a.C. scrivendo le Eumenidi. Invece no. 

Ma almeno qualcuno non si sente risarcito dal ritorno della legge primordiale delle Erinni: alcuni dei famigliari delle vittime di Parigi sono vistosamente assenti dalle celebrazione ufficiali per protesta contro i bombardamenti punitivi che Holland ha organizzato, a distanza di poche ore dagli attacchi terroristici, contro la popolazione civile di Raqqa.

Resta da stabilire, allora, cosa significa 'barbarie': quanto di barbaro c’è non solo in chi agisce il terrore, ma anche nella giustizia sommaria della notte di Parigi, e nei bombardamenti dei ‘liberatori’ occidentali. E in modo ancor più sottile, più pericoloso, la barbarie esibita e celebrata dagli ‘attori’, su entrambi i fronti, si insinua negli spettatori, in chi subisce lo spettacolo, convincendo tutti che quando si passa al codice della guerra viene meno il codice della civiltà: da cittadini a guardiani, e da guardiani a giustizieri, in nome di una giustizia che non ammette repliche, perché avvertita come assoluta e (sacro)santa. In nome di questa giustizia che dimentica l’umanità – giustizia-Themis, assoluta e ancestrale – si compie l'addestramento alla barbarie, l'esasperazione della nostra natura di ‘figli di Marte’ (sulla presenza del dio della guerra nell'imagerie contemporanea si vedano i contributi pubblicati in Engramma n. 127, maggio-giugno 2015).

Ma se non è possibile convertire l'istinto aggressivo connaturato nell'uomo, occorre trovare il modo di neutralizzare quanto meno l’esaltazione ‘epica’ dell'aggressività. James Hillmann riteneva, certo ottimisticamente, che per “deletteralizzare Marte” e disinnescare, almeno parzialmente, l’impulso alla ferocia e alla barbarie fosse opportuno incanalare la sua forza in chiave imaginale: 

Il trasferimento della guerra dal campo di battaglia fisico allo schermo televisivo e alla fantascienza, la traduzione della guerra letterale in guerra mediatica – guerra mediata – e il linguaggio di fantasia dei war game; teatri di guerra e guerre teatrali, azioni di massa, scenari possibili, regia e strategia, prove generali, gli “attori” del conflitto: che tutto questo segnali un nuovo modo di ritualizzare la guerra nell’immaginazione? Se questo è vero, allora la guerra televisiva del Vietnam non è stata perduta. Quei caduti non morirono soltanto per la loro causa (se ci credevano) o per il loro paese (se gliene importava). Furono piuttosto attori sacrificali di un rituale che potrebbe decostruire completamente la guerra, trasformandola in una operazione immaginale. Forse, quella immaginata da Carl Sandburg – “Un giorno faranno una guerra e nessuno ci andrà” – è una fase che è già iniziata. Non occorre andarci, perché il servizio in onore di Marte è officiato ogni sera a casa nostra, alla TV. In una società mediatica, non è forse logico attendersi che la base dei profitti di guerra del capitalismo passi dal complesso militare-industriale al complesso militare-comunicativo/informativo, attuando con ciò la piena simbolizzazione della guerra?

Le immagini però, insegna Warburg, sono dotate di una ‘carica espressiva’ neutra e possono essere polarizzate in chiave positiva o negativa, e la potenza e la pervasività delle attuali rappresentazioni ‘marziali’ nei media (guerre ed esecuzioni) sembrano avere una influenza – incivile e allucinatoria – polarmente opposta a quella auspicata da Hillman.

12. Il potere delle immagini: la persuasione e la retorica

La causalità e l'imprevedibilità del terrore, insieme col suo senso di significatività simbolica sovradeterminata,
produce un tipo diverso di campo di battaglia, senza fronte e retrovie.
Ovviamente questo significa che i mezzi militari più convenzionali,
uno su tutti la conquista e l'occupazione dei territori, sono assolutamente inutili.
W. J. T. Mitchell, Cloning Terror: the War of Images, 9/11 to the present

La rete non è solo lo sportello di reclutamento di emarginati occidentali in cerca di una sponda di risarcimento esistenziale, ma un vero e proprio campo di battaglia – una battaglia per immagini.

"Dabiq" è il magazine di propaganda dell'IS, prodotto e pubblicato dall'Al-Hayat Media Center, una sorgente jihadista che evidentemente si serve di un corpus di personale specializzato e altamente professionalizzato, da cui provengono anche i famosi video del terrore, con decapitazioni e minacce all'Occidente. Al-Hayat, formatosi nel 2014, utilizza softwares di ritocco fotografico e di layout professionale, e diffonde nel web la propaganda attraverso social media e blog. Gli strumenti e le piattaforme di diffusione sono le stesse utilizzate direttamente come beni di consumo e come pubblicità, o per produrre altri beni di consumo: Photoshop, Indesign, Twitter, Facebook, Playstation, vengono riutilizzati normalmente dai programmatori dell'IS per elaborare e diffondere le proprie informazioni. Video come “Flames of the War – Trailer” utilizzano addirittura il medesimo linguaggio comunicativo: il trailer è indistinguibile da una normale presentazione di un qualunque film di guerra mainstream hollywoodiano. Non a caso, come osservato da Serafini, Al-Hayat ha iniziato a distribuire addirittura videogiochi occidentali rivisitati in chiave jihadista.

Le stesse fotografie propagandistiche che ritroviamo in Dabiq sono elaborate secondo codici patentemente mutuati da videogiochi e film.

La propaganda dell'IS sembra essere comunque efficace, se non altro nel grado di minaccia all'opinione pubblica occidentale. È interessante notare come il Dipartimento di Stato americano insieme a Google, Twitter e altre compagnie della Silicon Valley analizza, dal suo punto di vista, i modi per contrastare l'avanzata informatica dell'IS. Guidata dalla National Strategy for Counterterrorism, il Dipartimento che si occupa della revisione delle attività comunicative dello Stato è il Center for Strategic Counterterrorism Communications (CSCC). Ogni giorno l'IS pubblica almeno 90.000 messaggi sui maggiori social networks mondiali e il CSCC stima un budget di circa 5 milioni di dollari annui. Una macchina mediatica di tutto rispetto.

Abu Hajer al-Maghribi, cameramen dell'IS per quasi un anno, riporta, come rammenta Miller, che era almeno fra altri dieci cameramen professionisti come lui, quando nel 2014, alle porte di Raqqa, filmò le ultime ore di vita dei 160 soldati siriani catturati. Sembra che per l'IS la propaganda sia di gran lunga la più importante arma di guerra. La sua strategia militare si modella sui ritmi e le possibilità di veicolazione delle minacce all'Occidente. Campi di battaglia o esecuzioni di prigionieri si trasformano in set cinematografici, dove i carnefici ripetono anche per più volte le stesse mosse per raggiungere il take ideale e scandiscono le parole davanti alla telecamera recitando un copione.

Gli equipaggiamenti tecnologici arrivano dalla Turchia a un media division coordinato da stranieri convertiti. Secondo quanto riporta il "Washington Post", gli stranieri convertiti hanno lo stesso grado e la stessa voce in capitolo degli arabi, così come avviene anche riguardo alle strategie militari. Abu Abdullah al-Maghribi afferma che lo stipendio di un operatore di propaganda dell'IS è più alto rispetto a quello di un soldato semplice.

Oltre a Al-Hayat Media Center esistono:

- Al Furqan: agenzia più diffusa e influente, maggiore distributrice di contributi filmati;
- Al l'tisam: agenzia più piccola della prima, diffonde anch'essa per lo più filmati e immagini di guerriglia;
- Ajnad Media Foundation: si occupa di un'altra parte importante della macchina propagandistica, ovvero l'apparato sonoro. È una vera e propria casa discografica, produttrice, fra l'altro di “My Ummah, Dawn Has Appeared”, diventato inno nazionale del Califfato;
- nel 2014 nasce una stazione radio del Califfato;
- nel 2015 nasce la prima stazione televisiva del Califfato, Khilafa Live, che trasmette news 24/24.

Ma la macchina propagandistica dello Stato Islamico non si ferma qui. Secondo Scott Seban, Al-Hayat avrebbe pubblicato recentemente un post con un piccolo manuale esplicativo su come utilizzare la darknet. L'accesso segreto ai server darebbe la possibilità agli utenti (e ai provider stessi) di mantenere celata la loro identità. In questo modo è quasi impossibile per le autorità tracciare l'uploading di nuovo materiale e le sorgenti da cui i materiali stessi provengono.

Il 4 luglio del 2015 viene pubblicato dalla propaganda dell'IS uno dei video che diverranno fra i più emblematici di quest'epoca: Healing the Chests of the Believing People. Un clip di dieci minuti circa in cui, fra le altre cose, 25 soldati siriani vengono giustiziati da uno squadrone di adolescenti. Il video mette in scena una sorta di performance macabra girata all'interno dell'anfiteatro romano dell'antica città di Palmyra, davanti a una folla di spettatori che non sembrano affatto partecipativi; appaiono anzi alquanto mesti. In un'atmosfera spettrale il sito archeologico diventa scena di un atto teatrale caratterizzato da nudo e perverso realismo, che vuole radicalizzare il concetto di scontro tra culture – l'una in rovina, l'altra che riemerge coraggiosamente dalle sue gloriose ceneri.

Healing the Chests of the Believing People è girato in modo squisitamente cinematografico. Inquadrature studiate nei particolari; primi piani sugli ostaggi destinati ad essere giustiziati, enfasi sul terrore che si prova di fronte all'inesorabile 'giustizia' di Allah; dettagli sui piedi scalzi degli ostaggi che, chiaramente vittime di torture e pestaggi, camminano in fila verso il patibolo, scortati dalle guardie in perfetto assetto da battaglia, vestiti con impeccabili uniformi; soggettiva di un ipotetico giustiziere che cammina tra i cadaveri; replay del momento dello sparo; ecc.

Questi linguaggi tecnicamente sofisticati fanno effettivamente presa sugli elementi occidentali più suggestionabili. Adottando un'immagine tratta dalla biologia si può parlare, con Mitchell, di un fenomeno di "clonazione del terrore":

We are in the midst of a double revolution, one involving the mutation of political violence into international terrorism (and 'war of terror'), the other based in technical innovations in the biological sciences. The convergence of these two revolutions is what I call "cloning terror", by which I mean: 1) the paradoxical process by which the war of terror has the effect of producing more terror, 'cloning' more terrorists in the very act of trying to destroy them, and 2) the horror or terror cloning itself, which presents a spectacle of unleashed forces of biological reproduction and simulation that activates some of our most archaic phobias about image-making. Cloning and terror converge, in other words, at the level of images understood as life-forms – the biopicture.

Secondo il National Counterterrorism Center sono stati circa 3.400 coloro che solo nel 2014 hanno viaggiato verso Iraq e Siria intenzionati ad arruolarsi nelle fila dell'IS (dati del febbraio 2015). Emblematica è la testimonianza di Abdullah al-Belgian (giunto appunto dal Belgio col proprio figlio), che davanti alle telecamere di "Vice" (ora su youtube) afferma scoppiando in lacrime:

God willing the Caliphate has been established, and we are going to invade you as you invaded us. We will capture your women as you captured our women. We will orphan your children as you orphaned our children.

I metodi comunicativi, che per decenni si sono raffinati nel campo della pubblicità e del marketing dei paesi maggiormente industrializzati (metodi che, come noto, si basano sullo shock, sulla 'presa emozionale', sulla creazione di marchi di identità e sull'induzione di falsi bisogni), hanno trovato nel terrorismo un nuovo campo di applicazione.

13. Reality- o Fiction-drama?

Il cine-dramma è l'oppio dei popoli
Dziga Vertov

La tragicità del reale si smaterializza filtrata dall'occhio meccanico della telecamera e di un montaggio che, ricalcando il format dei colossal hollywoodiani e dei videogiochi, inquadrano la realtà come spettacolo sanguinario guardabile. Il documentario Stato islamico nascita di un format di Riccardo Mazzon, Antonio Albanese e Graziella Giangiulio raccoglie molti dei filmati delle case di produzione dell'IS e spiega come questo abbia sapientemente utilizzato l'immaginario dell'Occidente diffuso nella cultura iconoclasta ribaltandolo contro l'Occidente stesso (il video del documentario andato in onda su La7 l'8 giugno 2015 è disponibile su youtube).

I video rimbalzano nel web, ricevono 'like' e sono twittati: in ogni villaggio conquistato dallo Stato Islamico non mancano mai un punto per la connessione internet (e garantirlo è fra le prime preoccupazioni) e maxischermi installati nelle piazze.

Vittime e carnefici vengono convertiti in comparse cinematografiche ed è la macchina da presa che regola le esecuzioni. Così è per esempio nel video della decapitazione dei 21 copti egiziani intitolato A message signed with blood to the nation of the cross in cui la terribile barbarie è inscenata in maniera tecnicamente impeccabile, come se a fronte ci fossero state diverse prove; o nei racconti dei prigionieri costretti a recitare se stessi, come nel filmato prodotto dalla Secutity Database sull'esecuzione di un pilota giordano. E i giustiziati diventano doppiamente vittime: sono spogliati con violenza della loro realtà di esseri umani per rivestire il ruolo di attori della macchina spettacolo.

Le immagini sono indistinguibili da quelle di un film o un reality show: la realtà viene rivestita dei panni di simulacro, spogliata della sua brutalità e manipolata dalla forza di rappresentazione del "cine-mostro", che allo stesso tempo compie un'opera di propaganda proponendo un'estetica che eroicizza i combattenti dell'IS.

Lo studio minuzioso di ogni inquadratura, il controllo sulla scena e il montaggio curato soddisfano l'occhio voyeuristico dello spettatore abituato all'illusione di poter vedere tutto e impediscono alla casualità di entrare in scena immettendo una dose di matericità e di immediatezza che potrebbero vanificare l'illusione epicizzante dei filmati.

Come spiega il documentario, la propaganda si avvale anche di video promozionali in cui viene mostrato invece il normale funzionamento delle città conquistate e le opere infrastrutturali promosse. I formati con cui vengono girate le scene si ripetono a seconda del tema; così, per esempio, ogni volta che l'IS entra in una città conquistata, alla ripresa dall'alto segue una inquadratura del corteo vittorioso e quindi della distribuzione al popolo di caramelle e doni. Come non pensare alle immagini girate durante la Seconda Guerra Mondiale che mostrano l'esercito degli Alleati che entra nelle città italiane liberandole una ad una o ai documentari di promozione del Piano Marshall che mostrano l'opera benefica degli Stati Uniti in un'Italia dilaniata? D'altronde, i registi usano le stesse tecniche, nella stessa prospettiva propagandistica.

14. Infirmitas dell'Occidente

Non si tratta di conservare il passato ma di realizzare le sue speranze.
Mentre oggi il passato continua come distruzione del passato.
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell'illuminismo

L’immagine, così virtuale e postmoderna, del Califfato e della sua vocazione distruttiva, di che cosa è specchio? L’infirmitas politica e intellettuale dell’Occidente cerca di proiettare l’ombra dei barbari esterni per schivare interrogativi tanto radicali quanto ineludibili, dimenticando che 'il nemico è la forma del mio proprio problema'. E la prima colpa evidente consiste nell’oblio delle responsabilità remote e recenti, europee e americane, che hanno portato alla desertificazione delle strutture statuali nell’area mesopotamica, nonché alla devastazione di Babilonia e del Museo Archeologico di Baghdad, il preludio esemplare della vandalica distruzione di Palmyra.

Ma lo sguardo corto, l’incapacità di leggere in prospettiva i gravi fatti della cronaca mediorientale sono anche un sintomo della perdita di quella capacità di analisi delle concatenazioni storiche che, da Erodoto in poi, hanno consentito l’autoconsiderazione dell’Europa. Allo stesso modo, per riprendere la domanda iniziale, l’IS incarna una pulsione paranoica e totalizzante alla quale troppi vorrebbero opporre una fissazione identitaria esattamente speculare: il testo, il Libro sacro, diventa pretesto per la soppressione dell’alterità e della complessa tessitura del Mondo umano; come ha ben colto Barcellona, “le parole diventano lettera senza spirito, non hanno più l’enigma che interroga, che trattiene nello spazio ermeneutico, che coinvolge nella indeterminazione semantica, che mantiene il dubbio”. Il letteralismo assassino si installa nel cuore malato di un’epoca nella quale dilegua la politica, dove scompare lo spazio pubblico in cui i progetti e i desideri si confrontano e una mediazione, sempre puntuale e precaria, metabolizza i conflitti trattenendo le parti nel limite a margine dello scontro distruttivo.

Il terrorismo e il suo corrispondente speculare – quella forma di razzismo strisciante che si esprime nel vago sentimento di disprezzo etnico spesso sottinteso alla presa di posizione di governi e commentatori occidentali – sono espressione di una brutale semplificazione regressiva, di una pulsione elementare e unilaterale che segnala il rattrappirsi della civiltà, della capacità umana di creare architetture complesse, incanalare energie divergenti e contrarie piegandole nella costruzione del bene comune: rendere abitabile, e in tutti i sensi ospitale, la Terra e restituire senso all’esistenza proprio sottraendosi al ricatto di istinti primordiali e irriflessi.

Di fronte alle predicazioni sanguinosamente infondate di Al Baghdadi non vale assumere una postura altrettanto isterica e inautentica, così legittimandolo per contrapposizione, quanto elaborare una risposta strategica che riconosca le responsabilità, le contraddizioni e le crepe culturali, sociali e politiche, interne anche all’Occidente, che hanno determinato la condensazione di questo e di altri fenomeni regressivi. Il contrario del fondamentalismo terroristico non è una paranoia equivalente, ma l’assunzione di una costellazione di pensiero politico plurale, per tentare di rappresentare simultaneamente tutto il ventaglio delle differenti aspirazioni umane. Una condizione dinamica, intreccio di logos e eros, di mito e agonismo che rappresenta da sempre l’ambizione, sempre tradita, della promessa occidentale.

15. Elogio del coraggio: contro la retorica della paura

Notre Père qui êtes aux cieux
Restez-y
Et nous nous resterons sur la terre
Qui est quelquefois si jolie
Avec ses mystères de New York
Et puis ses mystères de Paris
Qui valent bien celui de la trinité.

Padre nostro che sei nei cieli
restaci
E noi resteremo sulla terra
Che a volte è così bella
Con i misteri di New York
con i misteri di Parigi
Che valgono bene i misteri della santissima trinità.
Jacques Prevert, Pater noster

L’immagine avvilente di Bruxelles, la capitale dell’Unione Europea, 'chiusa per paura' durante il fine settimana seguente gli attentati di Parigi, milioni di prenotazione di viaggi disdettate, la litania di trasmissioni televisive che hanno sciorinato interminabili dibattiti sul panico: la notizia non è che il cielo sopra Parigi è annebbiato da un timore vago e indeterminato e che prospera un’industria della paura sulla quale speculano agenzie governative, partiti e persino settori imprenditoriali. La novità sta nel fatto che l’esibizione esaltata delle proprie incontrollate fobie, individuali o collettive, sia una pratica pubblicamente ammessa, che sia degna di essere amplificata anziché trattata come un’oscenità inconfessabile, una reazione emotiva sproporzionata a pericoli che, distribuiti sull’arco della popolazione, rappresentano una probabilità statistica insignificante.

Esiste dunque un diritto alla paura? O, meglio, la pulsione istintuale può entrare nell’agenda pubblica, incidere nei bilanci statali come eccezione privilegiata rispetto alle esigenze tanto conclamate dell’austerità, provocare non solo una grave compressione dei diritti costituzionali ma anche modificare stili di vita e innalzarsi ad argomento privilegiato del dibattito politico, senza che il contagio del panico venga contenuto, canalizzato, contrastato?

Nei Sette contro Tebe, Eschilo dice che no: proprio nel momento del pericolo non c'è margine per isterismi e paure che possono fare franare la tenuta della nave-città. Così parla Eteocle al coro spaventato per l'aggressione nemica:

Vi domando – bestie che siete insopportabili: credete forse che sia questo il modo migliore per salvare la nostra città? Vi sembra di far coraggio ai nostri uomini accerchiati dentro le mura, prostrandovi così, davanti alle statue degli dei, a strillare e a sbraitare, voi, detestabili da chiunque abbia cervello? [...] Con queste corse, di qua e di là, in preda al panico, frastornate i nostri cittadini e fate serpeggiare scoramento e viltà; e favorite invece, quanto meglio non si potrebbe, i nemici che stanno là fuori. E così noi, qui dentro, ci roviniamo da soli, con le nostre mani!

Primo compito della politica è 'governare' la nave, impedire il naufragio. Fluctuat nec mergitur è il motto che accompagna il navigium Isidis nello stemma di Parigi (il motto Fluctuat nec mergitur da il titolo al contributo Urbini-Pirazzoli, in questo stesso numero di Engramma).

Ma non basta che la barca stia a galla, che non affondi: la nave-città va tenuta sulla cresta dell'onda, va trovata la rotta tra i frangenti. Mestiere del terrorismo, che porta nel nome la sua essenza e il suo scopo, è incutere terrore; mestiere dei cittadini è non subire il ricatto della paura, ma avere coraggio.

È anche, e soprattutto, un problema di antropologia politica, di condotta esistenziale, di comprensione profonda di che cosa significa essere cittadini. Come afferma Hannah Arendt in Vita activa:

Lasciare la casa, prima per intraprendere qualche avventura o qualche gloriosa impresa e più tardi semplicemente per dedicare la propria vita agli affari della città, richiedeva coraggio perché solo nella casa ci si poteva preoccupare della propria vita e sopravvivenza. Chiunque volesse accedere alla sfera politica doveva prima essere pronto a rischiare la vita, e un amore troppo grande per la vita impediva la libertà, era un segno certo di spirito servile. Il coraggio diventava quindi la virtù politica per eccellenza, e solo gli uomini che ne erano in possesso potevano essere ammessi a una comunanza che era politica nel contenuto e negli scopi e che pertanto trascendeva il mero essere-insieme imposto a tutti – schiavi, barbari e greci – dalle urgenze della vita. La “buona vita”, come Aristotele chiamava la vita del cittadino, non era quindi solo migliore, più libera de preoccupazioni pratiche o più nobile della vita ordinaria, ma di una qualità del tutto differente. Era “buona” in quanto, per aver acquistato padronanza delle necessità della nuda vita, per essersi liberata dalla fatica e dal lavoro, e per aver superato l’istinto, innato in tutte le creature viventi, della sopravvivenza, non era più legata al processo biologico della vita.

Non si tratta di indulgere a romantiche illusioni di eroismo sovrumano ma di ritagliare la figura del cittadino e la sua virtù priva di rassegnazione, la risultante di due qualità umane, l’amore per la libertà e il coraggio: un coraggio misurato, sobrio, a bassa intensità che non connota l’individuo avulso dalla città ma il tessuto relazionale del corpo cittadino, informato dalla tensione civile che promana dalla pratica simultanea delle coordinate della civiltà europea: libertè, egalitè, fraternitè – una coraggiosa fraternità tra liberi e uguali.

Se oggi c’è una tradizione da rinverdire, un patrimonio da difendere, anche contro le perversioni identitarie, è il tesoro perduto della politica, di un pensiero che – da Machiavelli a Hannah Arendt – spinge gli uomini a intraprendere insieme nuove imprese. Per distrazione, per smemoratezza storica, per viltà, non siamo andati a difendere Palmyra e abbiamo, tutti noi, lasciato solo il suo valoroso custode. Anche queste parole, anche questo nostro colloquio risulterà retorico e non persuaso, insensato e fatuo, se non congiuriamo, ora, che questo non si ripeta più.

L'errore è ciò che non abbiamo fatto; così Ezra Pound (Cantos, LXXXI):

To have gathered from the air a live tradition / or from a fine old eye the unconquered flame / This is not vanity. / Here error is all in the not done / all in the diffidence that faltered.

Aver raccolto nell'aria una tradizione viva / o da un bell’occhio antico la fiamma inviolata. / Questa non è vanità. / L’errore sì, è in ciò che non si è fatto, /sta tutto nella diffidenza che ci fece esitare.

16. L'attacco a Dioniso

What are you doing here? / What do you want? / Is it music?
We can play music. / But you want more.
You want something & someone new. / Am I right?
Of course I am. / You want ecstasy / Desire & dreams.
Things not exactly what they seem. [...]
Let's recreate the world. / The palace of conception is burning.

Che ci fai tu qui? / Che vuoi? / Musica?
La musica la possiamo fare. / Ma tu vuoi altro.
Tu vuoi qualcosa e qualcuno di nuovo. Non è così?
Ovviamente è così. / Tu vuoi l'estasi / Il desiderio e i sogni.
Le cose non sono essatamente come sembrano. [...] 
Reinventiamoci il mondo. Il palazzo è in fiamme.
Jim Morrison, What are you doing here

La redazione di "Charlie Ebdo", la sala per concerti Bataclan, lo Stade de France: gli obiettivi degli attacchi di Parigi del 7 gennaio e del 13 novembre 2015 appaiono – e sono – precisamente mirati. Il fatto che gli attentati dell'lS nella capitale europea abbiano preso di mira: una rivista irriverente e libertaria; un edificio destinato alla danza, alla musica, alla festa dei sensi; uno stadio in cui la pulsione distruttiva al conflitto è convertita nella passione ludico-agonistica, è un segnale chiaro e inequivocabile di quale sia l'obiettivo dell'aggressione. Si tratta di un'operazione di guerra ideologica, e sotto attacco è l'estetica quotidiana della vita civile che in una vignetta pubblicata da "Charlie Ebdo", a poche ore dagli attentati del 18 di novembre, veniva così riassunta:

Rire. Boire. Manger. Danser. Chanter. Sourire. Écouter de la musique. Se promener. S’engueuler. S’aimer. Dormir. Baiser. Caresser. Protéger. Dire. Regarder. Débattre. Jouer. Respirer. Lire. Écrire. Apprendre. Sortir. Aller au cinéma. Choisir. Se cultiver. Râler. Embrasser. Toucher. Dessiner. Raconter. Partager. Critiquer. Fumer. Parler. Draguer. Divertir. Penser. Se gratter le cul (ou le nez). Déconner. Charrier. Vibrer. Rêver. S’émerveiller. Se distraire. Être en retard. Pardonner. Aimer… Vivre… Et rien céder sur nos liberté.

Copertina di "Charlie Hebdo" numero 1217, 18 Novembre 2015

 

Nel mirino dei fondamentalismo puritano è tutto quanto nel modello occidentale pare scontato, e per questo viene percepito come un dato di normalità – lo scenario neutrale, divenuto invisibile per consuetudine, della vita personale e politica di qualunque cittadino. Quello scenario è invece il frutto di conquiste culturali preziose che proprio l'attacco terroristico ci richiama a valorizzare e a rilanciare.

Una tentazione primaria e primitiva – percentualmente bene rappresentata nei commenti, non solo giornalistici, alle azioni terroristiche di questi mesi – è reagire all'attacco contrapponendo le certezze, tanto granitiche quanto generiche, della 'nostra civiltà', dei 'nostri valori': un atteggiamento che denuncia la nostalgia per una società minuziosamente regolata sui calendari di – sempre perdute e remotamente auree – 'tradizioni'; una postura difensiva che in certo senso sembra invidiare al radicalismo islamista le stesse intrattabili certezze che quello esibisce. Risposta facile e muscolare che cede prontamente alla provocazione, contrapponendo all'IS la retorica di un'altra identità forte di un rigorismo religioso altrettanto marcato. Si manifesta così una patologia identitaria, le cui aspirazioni coincidono per molti versi con quelle del nemico assoluto che si proclama di voler combattere. Non a caso l'affermazione marziale di identità e la denuncia del relativismo portano come conseguente corollario alle proposte di chiusura delle discoteche e di instaurazione di forme, più o meno dichiarate, di coprifuoco – un punto che si ritrova speculare anche nei programmi del fondamentalismo islamico.

La difesa della 'nostra civiltà', che sul piano moralistico si spende nella vieta querimonia sulla 'crisi dei valori' e nella deplorazione dei deserti prodotti dal relativismo, si risolve puntualmente in disegni repressivi polizieschi e in pericolose derive puritane. Ma sporcare e complicare atti e gesti quotidiani dei cittadini con controlli ossessivi e militarizzare il mondo, a cominciare dai centri storici delle città capitali di arte, cultura e vita occidentale, significa mettere in atto dispositivi che, dimostratisi nei fatti assolutamente inefficaci nella prevenzione di atti terroristici, sono segnali simbolicamente importanti di una desistenza volontaria proprio da quello stile di libertà di azione e di espressione che è nel mirino dell'attacco terrorista. Come dire – il 'terrore' consegue al primo colpo il suo obiettivo, che è precisamente quello di inibire l'istanza di libertà che caratterizza, fin dalle origini, il modus vivendi del cittadino occidentale. Una resa, più che una desistenza. 

Il contrasto a un fenomeno di barbarie, cioè di semplificazione, non si gioca opponendo una posizione altrettanto istintiva ed elementare, concettualmente debole.

Da un lato subiamo l'attacco dell'impulso distruttivo, primario, di Ares; dall'altro la coazione alla repressione poliziesca – polizia come "degenerazione della forma politica" (per dirla con Rancière), o come "patologizzazione di Atena" (per dirla con Hillman). Ancora una volta, soltanto il pensiero della complessità può salvarci: la riattivazione di flussi energetici, e di strumenti e di forme che sappiano convogliarli. Ricchezza e ambiguità produttiva tra identità e differenziazione riassunta nella coppia di nomi, sempre polari e sempre congiunti, di Apollo e di Dioniso.

Nella sua gravitazione interna, la piccola costellazione ellittica Apollo/Dioniso guadagna un punto di controversa armonia. "Apollo, il dio della luce, accieca Edipo, l'uomo che al dio si affida"; ma la tendenza apollinea all'iperdefinizione identitaria, il rigore che si irrigidisce in una postura irreversibile, vietandosi qualsiasi trasformazione e qualsiasi divenire, incrocia la corrente energetica dionisiaca e si addolcisce, si stempera; quell'eccesso di luce che annullerebbe il chiaroscuro e il gioco delle ombre di Dioniso si smorza. Sull'altro fuoco dell'ellisse, l'ebbrezza estatica dionisiaca che ha la sua deriva nella perdita assoluta del limite, nella voragine buia del niente ("Ade e Dioniso sono lo stesso" – ci ammonisce Eraclito), si tempera; e la pulsione che potrebbe sbordare nell'esaltazione dell'edonismo più volgare ed effimero si converte in pieno godimento del piacere. In coppia, Apollo è dio della forma, non dell'identità; Dioniso è dio del ritmo, dell'eccitazione, dell'esaltazione della percezione e dell'attivismo vitale, della rappresentazione tragica della complessità, non il dio di chi vagola, svagato e irresponsabile, nel deserto dell'insignificanza.

Dioniso, il dio più giovane di tutti gli dei, che migra da Oriente a Occidente; che sempre, da sempre, viene da Oriente senza mai dimenticare la sua origine ma mettendola continuamente in gioco. Dioniso-Liber, il dio che libera: il dio della libertà a cui si è ispirata la rivoluzione del '68 – la più autentica, e la meno sanguinaria, rivoluzione della nostra epoca.

Lo spirito di libertà sotto attacco non trova una risposta seria nella tentazione reazionaria di arroccarsi su un'identità irrecuperabile, e neppure nello stordimento immemore che si illude di obliare l'urgenza del presente. La risposta è nel segno dell'intensità esistenziale che intreccia desiderio e progetto: armonia Apollo/Dioniso. E in questa polifonia, nella scommessa sulla forma di una città in cui il ricordo delle città perdute è custodito, ma senza alcuna nostalgia. Ci insegna Italo Calvino ne Le città invisibili:

E mentre al tuo cenno la città una e ultima innalza le sue mura senza macchia,
 io raccolgo le ceneri delle altre città possibili che scompaiono per farle posto
 e non potranno più essere ricostruite né ricordate.
 Solo se conoscerai il residuo d’infelicità che nessuna pietra preziosa 
arriverà a risarcire, potrai computare l’esatto numero di carati cui il diamante finale deve tendere, e non sballerai dall’inizio i calcoli del tuo progetto.

Perché sorga un'altra città, devono scomparire le altre "città possibili" e lasciarle il loro posto: città che non potranno più essere ricostruite né ricordate. Ma Mnemosyne è comunque, silenziosamente, all'opera, e soltanto il coraggio di custodire il "residuo d'infelicità" della perdita, la consapevolezza che niente mai risarcirà le pietre distrutte, può permettere di trovare "l'esatto numero di carati" del progetto.

Solo così, ricordando coraggiosamente, silenziosamente, quel che è perduto, potremo costruire – non ricostruire – la città.

E sarà Palmyra, ma avrà un'altra forma e un altro nome.

Appendice 1 | Scheda sulla genesi dell'IS. Dal conflitto afghano (1978) alla proclamazione del Califfato (2014).

1978-1979 | In Afghanistan il governo di Taraki avvia una serie di riforme di stampo socialista, tra le quali la riforma agraria e la laicizzazione forzata della società. Numerosi gruppi radicali si oppongono a questa linea politica autoritaria: le due fazioni in gioco sono un governo filo-russo e l’opposizione musulmana che difende la sua identità religiosa. Il governo USA, guidato da Roland Reagan, vede in questo conflitto l’occasione per contrastare il potere sovietico in Medioriente e decide di appoggiare i ribelli. L'Arabia Saudita rifornisce i ribelli di denaro, l'America di armi in una particolare convergenza di interessi: gli USA intendono confinare l'espansione dell'URSS, gli stati arabi sostengono la fazione religiosa radicale per garantire la prosecuzione di una forma di controllo sull'Afghanistan.

anni '80 | Le formazioni radicali afghane dichiarano lo jihad contro il "potere empio": la definizione dell'opposizione al regime come "guerra santa" cambia la natura del conflitto e ne amplia l'orizzonte perché impone il richiamo alla solidarietà degli altri paesi islamici contro il nemico comune. Scoppia il fenomeno del cosiddetto “volontariato pan-islamista” con l'adesione da parte di gruppi radicali esterni all'Afghanistan: rispetto all appartenenza nazionale ciò che conta è la lotta per l’affermazione dell'Islam radicale. Di fatto è il primo episodio bellico in cui combattenti richiamati dallo jihad hanno un ruolo militare attivo.

1989 | Osama Bin Laden organizza il reclutamento dei combattenti, pronti ad aiutare i ribelli afghani in nome dello jihad. Dalla rete che così si crea nasce al-Qaeda. 

1989-1992 | Dopo il ritiro dell'URSS, avvenuto nel 1989 senza aver risolto il conflitto né aver stabilizzato il paese, segue una pesantissima guerra civile che termina con la proclamazione della Repubblica Islamica dell'Afghanistan. I combattenti volontari ritornano nei loro paesi (anche Osama Bin Laden fa ritorno in Arabia Saudita nel 1991), o in altri fronti di guerra: l'obiettivo fisso è portare avanti lo jihad, ma le esperienze condotte negli anni ‘90 fuori dell'Afghanistan (nelle Filippine, in Bosnia in Algeria) finiscono puntualmente con la sconfitta degli jihadisti.

1990 | Nell'estate del 1990 Saddam Hussein decide di invadere il Kuwait: inizia la prima guerra nel Golfo. I sauditi, temendo che questo sia il preludio per un’invasione più ampia, chiedono aiuto agli USA. Una delle fazioni wahhabite più intransigenti, tra cui milita lo stesso Bin Laden, si oppone allo sbarco degli americani – visti come empi crociati che violano con la loro presenza la sacralità del territorio arabo – e chiede di replicare l'esperienza afghana, proclamando un nuovo jihad.

anni '90 | Si crea una frattura tra il potere centrale saudita e la parte islamista del movimento wahhabita; la maggioranza del movimento si schiera con il potere centrale ed espelle i radicali. Bin Laden, costretto a lasciare il paese, si rifugia in Sudan, poi, a metà degli anni ‘90, torna in Afghanistan dove nel frattempo era salito al potere un nuovo movimento islamista radicale: i Taleban. Dopo la vittoria, il movimento dei Taleban instaura in Afghanista un emirato e indica nel Mullah Omar il proprio leader: è il primo embrione di stato islamico. In questo contesto al-Qaeda si pone come forza di coordinamento dello jihad, ripensato su scala globale: tutte le organizzazioni jihadiste radicali sono richiamate a operare secondo obiettivi e strategie comuni. L'idea fondamentale è che è una volta ultimata la fase di contrasto contro i singoli "regimi empi", va disegnato un campo unico di confitto globale; il nemico principale è individuato nel potere che regge gli stessi "regimi empi": gli Stati Uniti, il "nemico lontano". Al centro dell'azione è ora l'obiettivo del "nemico lontano": le forze non andranno più disperse sul fronte dei piccoli jihad locali, ma si dovrà procedere per colpi eclatanti e rilevanti su scala globale; ciò implica uno sviluppo clandestino dell'azione, piuttosto che lo scontro sul campo aperto.

11 settembre 2001 | L'attacco alle Twin Towers a New York e al Pentagono a Washington rappresenta il culmine dell'azione: l'attacco spettacolare è stato programmato e preordinato per anni. Gli USA contrattaccano con l'invasione dell'Afghanistan: è la fine del governo dei Taleban, e un colpo di arresto all'evoluzione dell'embrionale stato islamico. Al-Qaeda passa alla clandestinità: Al Zawahiri e Bin Laden ricoverano in Pakistan, dove molti militanti del movimento muoiono a seguito di attacchi USA.

2003 | Negli USA il dibattito fra l’ala realista e i neo-conservatori all’interno dell'amministrazione Bush porta alla necessità di trovare una sostituire i sauditi nel quadro delle alleanze in Medioriente. Bisogna cambiare la base logistica in Medioriente, pur mantenendo il controllo del petrolio e posizioni strategiche: viene scelto l'Iraq. L'intervento americano in suolo iracheno viene motivato con l'accusa a Saddam Hussein di possedere armi di distruzione di massa. Il regime cade dopo qualche mese di aspri combattimenti. Il governo USA è costretto a dichiarare di non aver trovato traccia di armi di distruzione di massa.

post 2003 | In Iraq si manifesta una resistenza interna all'invasione americana che ha varie componenti e comprende sia i sostenitori del precedente regime baathista di Saddam, sia i vari movimenti islamisti radicali. Si proclama lo jihad contro il nemico americano e in poco tempo avviene la seconda chiamata alle armi pan-islamista, dopo quello afghana contro i sovietici.

2003-2006 | I jihadisti in Iraq si alleano e danno vita alla formazione al-Jama'at al-Tawhid wa al-Jihad, guidata da Abu Musab al-Zarqawi. L’obiettivo è combattere una guerra su più piani: contro gli americani, contro gli sciiti iracheni ma anche, contemporaneamente, seminare nel territorio embrioni di stato islamico. Inizialmente Al-Qaeda è in posizione di dissenso, ma il partito iracheno al-Tawhid è sempre più forte e strutturato: tutti i combattenti che arrivano in Iraq cercano di entrarvi e si costituisce una nuova formazione detta al-Qaeda tra i due fiumi, a siglare un patto tra le due fazioni che prevede che il nuovo gruppo giuri fedeltà a Bin Laden. Contemporaneamente al-Zarqawi prosegue sulla sua linea: stato islamico subito e guerra anche al "nemico vicino".

2009 | Le sorti della guerra sembrano pendere dalla parte degli USA; al-Qaeda tra i due fiumi si scinde e aderisce, per la maggioranza, al nuovo movimento dell'ISIS, Stato Islamico dell'Iraq e della Siria: il movimento segue le linee di al-Zarqawi. Il fondatore, autoproclamato Califfo, è Abu Bakr al-Baghdadi: scompare ogni riferimento ad al-Qaeda.

2011 | In quattro paesi, Tunisia, Libia, Egitto e Siria, si manifestano convulse fasi di opposizione ai regimi che ne determina il crollo. È la stagione delle, cosidette, "Primavere arabe", che soltanto in Tunisia avranno un esito positivo, in senso democratico. In Siria l'opposizione chiede un mutamento di regime contro Assad. La composizione etnico religiosa, in questo paese, è opposta a quella irachena: la maggioranza demografica è sunnita mentre la maggioranza politica è sciita di matrice alawita. Scoppia la guerra civile, il paese si decompone e lo spazio lasciato aperto viene occupato dall'IS che espande il proprio raggio d'azione al di fuori dell'Iraq.

2014 | In Siria è proclamata la costituzione dell'IS, lo Stato islamico. La propaganda dell'IS è rivolta anche ad attirare adesioni dai paesi non islamici ed è contrassegnata da un massiccio utilizzo dei media, con docufilm e reportage delle azioni – dalla vita quotidiana al martirio – dei suoi aderenti.

2014-2015 | Lo Stato Islamico estende il suo territorio verso occidente e verso nord, occupando territori importanti dal punto di vista strategico o economico (per la presenza di giacimenti petroliferi) fino a scatenare la reazione prima americana e poi, più recentemente, russa. Con la proclamazione dello Stato Islamico, tutti i gruppi o i singoli jihadisti sparsi nel mondo sono invitati a confluire sotto l'egida del Califfato. Dopo il primo jihad afghano e il secondo qaedista, questo è il terzo jihad che arruola una nuova generazione di combattenti.

dicembre 2015 | Nell'IS militano circa 30.000 non siriani, fra i quali si stima vi siano circa 5000 cittadini europei.

APPENDICE 2 | Una battaglia di parole

Alawiti
Confessione minoritaria musulmana di matrice sunnita, diffusa lungo la costa Siriana.

Califfato
Il Califfato è una forma di governo tradizionale tipica dell’area musulmana, a capo della quale si trova il Califfo, termine derivante dall’arabo خلافة (khilāfa), che significa "successione". La forma di governo ha avuto origine alla morte di Maometto, quando venne instaurata al fine di garantire l’unità politica della umma. In tale veste il Califfo costituisce la rappresentanza del potere temporale di Allah sulla Terra.

Daesh (Dāʿish) داعش
Acronimo in arabo di al-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa l-Shām (Stato Islamico dell’Iraq e della Grande Siria), dove la parola araba Shām indica la regione geografica della Grande Siria (o propriamente Levante) comprendente, oltre alla Siria, il sud della Turchia, il Libano, la Giordania, la Palestina e Israele. Con il termine si denominava la formazione islamista, attiva in Siria e in Iraq fino alla proclamazione, nel giugno 2014, della nascita di un Califfato nei territori sotto il suo controllo. Da allora la denominazione è diventata semplicemente Stato Islamico (IS) per sottolineare la sua dimensione universale e transfrontaliera.

Dār al-ḥarb دار الحرب
Il termine, il cui significato letterale è “dimora della guerra”, "dimora del Kufr" (vedi: Kufr), non è presente né nel Corano né nei Detti del Profeta. Indica il territorio esterno al Dār al-Islām, dove non vige la legge islamica (shari’a); il Dār al-ḥarb può includere anche paesi a maggioranza musulmana. Non vigendo la shari’a, nel Dār al-ḥarb coloro che non professano la religione islamica non godono dell'"accordo della dhimma” (che all'interno del Dār al-Islām garantisce una certa protezione e libertà di culto, almeno alle "Gente del Libro": vedi Dhimmi). Sayyd Qutb (1906-1966) teorizzò per primo uno jihad ("guerra santa", ossia l'"esercizio del massimo impegno") contro il Dār al-Harb, ossia contro qualsiasi stato non appartenente al Dār al-Islām.

Dār al-Islām دار الإسلام
Il termine, il cui significato letterale è “casa dell’Islam”, indica tutti quei territori amministrati da musulmani e sottoposti alla giurisdizione islamica. In questi territori hanno diritto di vivere esclusivamente i musulmani e, con diverse limitazioni, gli appartenenti alle cosiddette religioni “del Libro” (Ahl al-Kitāb), mentre ne sono esclusi i politeisti e gli atei. L’assetto del mondo musulmano attuale, che tende a uniformarsi sul modello degli stati occidentali, ha reso obsolete queste norme, per quanto sia tutt’ora impedito costruire luoghi di culto dedicati a divinità politeistiche. Con la scomparsa del califfato ottomano di Istanbul, abolito da Atatürk nel 1924, il mondo islamico perde la sua unità e si ritrova suddiviso in nazioni e protettorati delle potenze europee. L’ambizione all’unificazione del Dar al-islam non è mai cessata (visto che la vocazione dell’Islam è la sua estensione su tutto il pianeta) e, anzi, nella seconda metà del XX secolo è diventata un principio fondante per i movimenti islamisti e pan-arabi. Attualmente l’unificazione del Dar al-islam è perseguita, come primo obiettivo, dallo Stato Islamico.

Dhimmi ذمي‎
Con tale termine si indicava un suddito non musulmano di uno Stato governato dalla shari’a. Inizialmente utilizzato per indicare esclusivamente la “Gente del Libro” (ahl al-Kitab), ovvero ebrei e cristiani, in certi periodi storici fu utilizzato anche per zoroastriani, mandei e infine indù, sikh e buddisti. Questi sudditi, che avevano meno diritti legali e sociali dei musulmani, erano comunque "protetti" in quanto godevano i diritti di un patto di protezione contratto con l’autorità statale.

Fatwā فتوى‎
Il termine, che significa "parere consultivo", "pronunciamento", fa riferimento alla spiegazione della legge islamica data da un esperto nella legge religiosa (Mufti) riguardo a una questione specifica, normalmente su richiesta di una persona o di un giudice, per risolvere un problema sul quale la giurisprudenza islamica (Fiqh) non è abbastanza chiara. Tali incertezze possono verificarsi quando la società musulmana si trova ad affrontare nuove questioni, siano esse di ordine etico o pragmatico, legate al progresso tecnologico e ai cambiamenti sociali. Essendo la fatwā un'opinione personale, per quanto autorevole, non ha necessariamente una diretta esecutività.

IS الدولة الإسلامية‎ 
Acronimo indicante lo Stato Islamico (Ad-dawlah al-islamīyah). Lo Stato Islamico è una forma di governo basato sull’applicazione rigorosa della shari’a, la legge del Corano. Dopo la morte del profeta Maometto, i vari califfi che si sono succeduti alla guida dello stato islamico hanno garantito l’applicazione della shari’a. Nel corso del XX secolo, ideologi come Abu l-A'la al-Maududi, l'ayatollah Ruhollah KhomeiniIsrar Ahmed e Sayyid Qutb hanno riformulato e definito precisamente questo concetto.

ISIL
Acronimo indicante lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante (Islamic State of Iraq and the Levant).
vedi: Daesh

ISIS
Acronimo indicante lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (Islamic State of Iraq and Syria).
vedi: Daesh

Jihād
Il termine, sommariamente tradotto come "guerra santa", rappresenta uno dei pilastri fondamentali dell’Islam e indica il massimo impegno che il musulmano deve esercitare per tenere salda la religione islamica. Esistono due dimensioni dello jihad: il grande jihād, ovvero la battaglia interiore contro il peccato e le pulsioni passionali dell’io, e il piccolo jihād, ovvero lo sforzo militare da esercitare solo in caso di un attacco personale. Attualmente – e nell'uso mediatico – si è soliti utilizzare questo termine esclusivamente per indicare la dimensione militare della "guerra santa".

Kufr كفر
‎Il termine è traducibile come “empietà massima", anche nel senso di apostasia.
vedi: Takfir

Panarabismo
Ideologia volta alla creazione di un’entità unitaria e sovranazionale di tutti i popoli arabi e arabofoni. La declinazione politica di tale ideologia naque nella seconda metà del XIX secolo, come risposta dei popoli arabi soggetti al dominio turco dell’Impero Ottomano e come manifestazione della volontà di costituire un’entità il cui carattere identitario non fosse esclusivamente la religione. Nasce da ideali panarabi anche la Lega Araba, istituita nel 1945, così come l’unione federale tra Egitto e Siria del 1958.

Panislamismo
Ideologia politica e religiosa che ambisce all’unificazione del Dār al-Islām in un’unica istituzione statale. Con la scomparsa del califfato ottomano di Istanbul, abolito da Atatürk nel 1924, il mondo islamico perde la sua unità e si ritrova suddiviso in nazioni e protettorati delle potenze europee. Si tratta di un'ideologia fortemente antimperialista e anticolonialista, ostile alle interferenze occidentali in Medio Oriente e negli altri paesi musulmani. La forma statale che più asseconda quest’ideologia è il Califfato.

Peshmerga بشميركا
Parola di origine curda che indica letteralmente "coloro che intendono battersi fino alla morte". Di fatto i peshmerga sono i combattenti appartenenti alle forze armate della regione autonoma del Kurdistan ircheno e, più in generale, tutti i curdi impegnati in azioni militari o in guerriglia.

Pashtun
Sono un gruppo etnico-linguistico che abita la regione montuosa compresa tra l’Afghanistan sud-orientale e il Pakistan occidentale. Parlano la lingua pashtu e seguono un codice d’onore di epoca preislamica integrato nella religione musulmana.

Shari’a شريعة
Il termine indica, con un’accezione metafisica, la “legge di Dio”. Tratta dai testi sacri dell’Islam, viene pragmaticamente interpretata in ambito giurisdizionale e applicata come codice legislativo. Lo Stato Islamico garantisce l’applicazione della shari’a.

Shura
Il consiglio della shura, finalizzato a consigliare il Califfo nelle sue decisioni, è composto da credenti esperti di fede e dall’élite politica e religiosa.Tale consiglio ha inoltre il compito di designare il Califfo, o l’Emiro, al momento della successione. Il criterio solitamente è basato sulla militanza, ma non è detto che il leader, la cui carica è a vita, non possa emergere per altri meriti. Il suo potere non è autonomo, ma concepito come una delega da parte di un'altra autorità: Dio stesso, la sovranità divina. Il Califfo, chiamato ad applicare integralmente la shari'a, appare come il mero esecutore della volontà divina.

Sunna
Il primo significato del termine è “consuetudine”, "tradizione", “costume”, ed è riconducibile a un codice di comportamento sociale, culturale e religioso. La Sunna, codificata sulla base di racconti relativi alla vita del Profeta tramandati oralmente per secoli da soggetti “degni di fede”, è uno dei testi sacri dell’Islam. Il suo valore è normativo e fornisce una chiave di interpretazione in contesto giuridico o in altri ambiti non espressamente definiti dal Corano. Assieme a quest’ultimo, che ha la priorità, la Sunna costituisce la shari’a.

Takfir ﺗﻜﻔﻴﺮ
Con il termine takfir si designa chi è, o pretende di essere, musulmano senza esserlo: lo si scomunica mettendolo al bando dell’Umma, la comunità dei credenti. Il sangue del takfir è definito “lecito”, ovvero il takftir è passibile della pena di morte. Il takfir dunque è giudicato gravemente e imperdonabilmente empio, e decretato come tale da una sentenza di ultimo grado applicabile dagli Ulema, ossia i dottori della legge, con la condanna per "empietà massima" (o apostasia). Nell'Islam classico, la stessa autorità costituita era autorizzata a infliggere la condanna a morte al reo, in mancanza di un suo repentino pentimento (che tuttavia non necessariamente comportava la sospensione della pena).

Talebani 
Il termine in lingua pashto ṭālebān (plurale) indica gli studenti dei testi sacri dell’Islam delle scuole coraniche dell’area iranica. La resistenza di questi giovani organizzatisi militarmente durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan ha fatto si che il termine venisse associato al movimento islamico di stampo fondamentalista, che aveva ed ha come obiettivo l’instaurazione del Califfato e l’applicazione della shari’a.

Ulema
Sono i dottori della legge, i dotti musulmani di scienze religiose, ovvero sapienti della conoscenza della Volontà di Dio. Si occupano dello studio del Corano e della Sunna, che insieme costituiscono, sotto il profilo giuridico, la shari’a. Il termine in area sunnita viene sostituito da mullā, che significa “maestro” o “signore”.

Umma
Il termine indica la comunità dei credenti, l’intero mondo musulmano senza alcuna accezione etnica, linguistica o nazionale. Con tale nome venne definita la prima organizzazione politica dei fedeli musulmani organizzata a Medina dal profeta Maometto.

Watan
Il termine indica un solo grande stato unitario arabo, inteso come patria, nazione.

Yahilliyyia
Con tale termine si designa quella condizione di “ignoranza” nella quale vivevano gli arabi prima che il profeta Maometto ricevesse la Rivelazione. Secondo l’ideologo islamista Sayyid Qutb (1906-1966), nel corso del XX secolo si era tornati a una condizione “di barbarie” analoga a quella dell’epoca pre-islamica, poiché all’antica venerazione degli idoli di pietra si era sostituita la venerazione di idoli simbolici quali la Nazione, il Partito o il Socialismo. Qutb vedeva nell’instaurazione di uno Stato Islamico, che garantisse l’applicazione della shari’a, l’unico modo per contrastare la yahillyyia.

APPENDICE 3 | Conversazione tra uno studente italiano laico e uno studente italiano musulmano sulla relazione tra Islam e IS

Gli scrivo e mi arriva troppo sollecita la sua risposta, una premessa che pare lasciare poco spazio alla conversazione: “Se stai scrivendo un articolo sullo Stato Islamico, secondo me sbagli totalmente a concentrarti sull'Islam. Perché l'IS non c'entra nulla con l'Islam.”

Un'ora prima avevo scritto a Samer, amico sunnita praticante, che mi avrebbe fatto piacere ascoltare il suo parere rispetto agli attentati di Parigi e alla situazione del suo paese d'origine, la Siria. Dopo il suo avvertimento, chiarisco che mi interessa comprendere il rapporto tra Islam e IS, qualora ve ne sia uno, e ne parlo con lui perché, nell'attuale inascoltabile babele di voci mediatiche, è importante conoscere il parere di uno studente italiano di fede islamica sull'IS, in relazione alla sua religione. Così inizio: “Che valori persegui come musulmano?”

Risponde: “È impossibile identificare dei valori universalmente riconosciuti da tutto il mondo islamico. Ti riferisci ai sunniti o agli acuiti, o ad altre confessioni islamiche? Anche all'interno di queste non è possibile identificare valori universali, perché i valori sono legati alla cultura e alle tradizioni di un luogo. Se parli con un sunnita in Arabia Saudita non avrà gli stessi valori di un sunnita in Indonesia. Detto questo esistono i 5 pilastri dell'Islam ...”

Ha ragione a mettere in evidenza che la dottrina islamica ha una storia complessa da cui sono derivate divisioni, trasformazioni e innovativi fermenti culturali che, partendo dalla penisola arabica, ne hanno permesso il diffondersi in un'area vastissima. Con tutte le sue frammentazioni, si contano oggi quasi 2 miliardi di fedeli dell'Islam sparsi in tutto il mondo.

Insisto: “Ma chiedo a te, personalmente, che sei musulmano e occidentale. Rispondimi parlando per te, non in nome dell'Islam. Quali sono i tuoi valori?”

“Ritengo che i miei valori derivino dalla mia fede” mi spiega. “Ritengo che il mio essere onesto sia un insegnamento che ho imparato dall'Islam, così come l'Islam mi ha insegnato la carità e la tolleranza. Mi ha insegnato a non rubare, a rispettare il prossimo e a non danneggiare l'altro”.

Ma questi – penso io – sono principi generali di convivenza; sono gli stessi principi che apprendiamo anche tramite l’educazione cristiana. In bocca al mio amico suonano come parole al tempo stesso strane e ovvie. Ma cos'altro mi aspettavo?

“E che valore hanno per te la Guerra Santa e l'idea di morire per Dio?” chiedo, molto direttamente.

Risponde con calma: “Per quel che mi riguarda, da musulmano, nessuna violenza è accettabile. La morte in onore di Dio non esiste. Esiste il sacrificio in una guerra di difesa, dove il tuo Stato è in guerra, perché attaccato. Tutti quei soldati che lo difendono e muoiono per difenderlo sono considerati dei martiri; ma la morte intenzionale, arbitraria, è considerata suicidio ed è peccato.”

Ampliando il discorso, gli chiedo: “Credi anche tu che gli estremismi in Medio Oriente siano il frutto della politica colonialista e dei soldi occidentali?”

“L'estremismo in Medio Oriente è legato a crisi economiche, povertà, mancanza di accesso all’educazione. Ma c'è anche l'arruolamento di cittadini occidentali, motivato pure da altre pulsioni: crisi di identità, emarginazione sociale, senso di diversità, confusa volontà di ribellione".

Ingenuamente lo incalzo: “La Guerra Santa dell'IS, potrebbe scagliarsi contro uomini e istituzioni Islamiche?”

Risponde preciso: “Io non la chiamerei davvero Guerra Santa, perché quelli dell'IS non hanno nessuna conoscenza dell'Islam, né le loro pratiche possono in alcun modo essere considerate islamiche. Ed è un dato di fatto che le prime vittime dell'IS sono proprio i musulmani”.

“E del fatto che l'IS procede verso una forma di istituzionalizzazione, e che da movimento terroristico si va facendo stato, che cosa ne pensi?"

Dalla risposta capisco che il mio amico, in quanto musulmano che viene da quella terra, ha le idee molto chiare sull'argomento, e sono idee incompatibili con le ragioni dell'IS:

“Oggettivamente, l'IS ha ora un grande seguito. Si tratta di una realtà di cui ormai bisogna tenere seriamente conto. È normale che l'IS cresca, se viene sostenuto il regime di Assad in Siria, se non si offre una soluzione all’egemonia iraniana e se l'Iraq rimane una regione senza controllo. L'IS offre sicurezza a persone che hanno perso tutto. E spesso queste persone sono costrette all'adesione. Le dinamiche dietro allo Stato Islamico sono molte, ma quel che posso dire è che non è un movimento che ha legittimità religiosa o ideologica.

Con loro non si può né si deve trattare. Vanno sradicati. È importante capire che crescono non perché la gente crede in quello che fanno, ma perché in quel contesto, per la popolazione sotto il ricatto della sopravvivenza (e sotto i bombardamenti occidentali), non c'è alternativa”.

Incalzo: “Se l'IS non avesse una sua credibilità, tanti giovani europei non andrebbero lì ad addestrarsi, non è così?”

“Questo è un altro discorso. Poche migliaia di persone non fanno l’IS. Le ragioni per cui alcuni giovani europei si uniscono all’IS risiedono nel fallimento dell'Europa e anche, per molti musulmani, nei mancati processi di integrazione, nella propaganda islamofoba, nelle discriminazioni e nell'impossibilità di realizzarsi come cittadini a pieno diritto. La ragione non va ricercata nell'ideologia dell'IS. Non riconosco dignità ideologica all'IS: è la degenerazione morbosa di una civiltà in fase depressiva e implosiva, a cui non bisogna dare credito, con cui non bisogna trattare, ma che sarà necessario curare".

Nota bibliografica

Geopolitica del Mediterraneo | C. Schmitt, Terra e mare, Una riflessione sulla storia del mondo [1942, 1954, 1981], tr. it. Milano 2002; M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, Milano 1994; sulla essenza politica della democrazia: P. Veyne, C. Meier, L’identità del cittadino e la democrazia in Grecia [1988], tr. it., Bologna 1989; J. Rancière, L’odio per la democrazia [2005], tr. it. Napoli 2007; su forma-schema e forma-ritmo: E. Benveniste, Problemes de linguistique generale, Paris 1966.

Foreign FIghters | A. Aringoli, Lo Stato Islamico e la globalizzazione neoliberista, “Pandora. Rivista di teoria e politica”, 2 dicembre 2015; F. Bianchi, Banlieue, droga e mitra, “L’Espresso” 47/201 (26 novembre 2015); M. Graziano, Dieci tesi sulla guerra in Francia, “Limes” 11 (2015); R. Guolo, L'ultima utopia. Gli jihadisti europei, Milano 2015; F. Pichon, Laïcité cattolica e jihadisti secolari: la maionese francese è impazzita, “Limes” 1 (2015).

Potere delle immagini in relazione alla propaganda IS | In generale sui differenti campi di battaglia del terrorismo contemporaneo: M. Coviello, Le temporalità delle immagini della guerra al terrore, "Carte semiotiche" (2013); W. J. T. Mitchell, Cloning Terror: the War of Images 2001-2004, in The Life and Death of Image. Ethics and Aesthetics, edited by D. Costello and D. Willsdon, New York 2008; W. J. T. Mitchell, Cloning Terror: the War of Images, 9/11 to the present, Chicago 2011. Sull'apparato mediatico dell'IS: E. Friedland, Islamic state selling message with glossy english magazine, August, 4, su www.clarionproject.org, 2014; www.motherboard.vice.com; J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Bologna 1993; G. Miller, Inside the surreal world of the Islamic State's propaganda machine, "The Washington Post" (novembre 2015); J. Paraszczuk, A drowned Syrian Boy as ISIS Propaganda, 11 Sep, in www.theatlantic.com (2015); www.rt.com. Per quanto riguarda la risposta americana alla propaganda di Isis: M. Serafini, Per reclutare i giovani Isis mette in rete il videogame jihadista, www.corrieredellasera.it (ottobre 2014); www.state.gov, per quanto riguarda il CSCC del Dipartimento di Stato; G. Wallas, Human Nature in Politics, New York 1908; M. Wolf, Teorie delle comunicazioni di massa, Milano 1985; www.warsintheworld.com, sito americano focalizzato su news e resoconti di guerra nel mondo. 

Reality- o Fiction-Drama? | Per il riferimento al "cine-mostro": J.-L. Comolli, Vedere e potere: il cinema, il documentario e l'innocenza perduta, Roma 2006; R. Mazzon, A. Albanese, G. Giuangiulio, Stato islamico nascita di un format

Infirmitas dell'Occidente | P. Barcellona, Elogio del discorso inutile. La parola gratuita, Bari 2010

Le divinità in gioco | Su Atena, Ares, Apollo: J. Hillman, Figure del mito, Milano 2015. Sulla sublimazione della pulsione distruttiva nel gioco: J. Huizinga, Sui limiti del gioco e del serio nella cultura [1933], “Aut Aut” 337 (2008), 95-122; E. Benveniste, Le jeu comme structure, “Deucalion” 2 (1947), 159-167; E. Fink, Il gioco come simbolo del mondo[1960], tr. it. Roma 1969; R. Caillois, Les jeux et les hommes. Les masque et le vertige, Paris 1967; J. Huizinga, Homo Ludens [1939], tr. it. Torino 1973; A. Dal Lago, Descrizione di una battaglia, Bologna 1990; AA.VV, Indagini sul gioco, “Aut Aut” 337 (2008).

Coraggio politico | H. Arendt, Vita activa [1958], tr. it. Milano 1976; M. Abensour, Hannah Arendt, Contro la filosofia politica [2006], tr. it. Milano 2010.

Dioniso, il dio della libertà | Sulla polizia anti-politica: J. Rancière, Il disaccordo [1995], tr. it. Milano 2007; G. Deleuze, Differenza e ripetizione [1968], tr. it. Milano (1971) 1997. A proposito dell'inefficacia delle risposte securitarie: Thomas Piketty, Oltre la sicurezza: per battere l'odio lotta alle disuguaglianze, "La Repubblica" (22 novembre 2015).

Genesi dell'IS | A. Aringoli, Lo Stato Islamico e la globalizzazione neoliberista, “Pandora. Rivista di teoria e politica”, 2 dicembre 2015; R. Guolo, L'ultima utopia. Gli jihadisti europei, Milano 2015; R. Guolo, Il partito di Dio. L'Islam radicale contro l'Occidente, Milano 2004; R. Guolo, Generazione del fronte e altri saggi sociologici sull'Iran, Milano 2008; G. Kepel, Jihad ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico [2000], tr. it. Roma, 2001; O. Roy, Global Muslim: le radici occidentali del nuovo Islam [2002], tr. it Milano 2003.

English abstract

This collective essay presents sixteen contributions, and three Appendices, by Sara Agnoletto, Maria Bergamo, Giulia Bordignon, Giacomo Casarin, Maria Grazia Ciani, Simone Culotta, Luca Desolei, Emma Filipponi, Francesca Galliotto, Anna Fressola, Peppe Nanni, Nicola Noro, Stefania Rimini, Ruggero Spagnol, Silvia Urbini and Alessandro Visca. The pieces, published under the editorship of Monica Centanni, ponder on the complex meanings of the dramatic clashes of cultures and civilisations centring on the Mediterranean region, and having Paris and Palmyra as the two main foci of terrorist violence in the year 2015. The human, cultural, and political tragedies of the present situation are considered from a variety of perspectives and approaches. The principal topics discussed are the ongoing conflicts and migrations in the Mediterranean, the EU political agenda towards the Middle and Near East, the perception of death as experienced in Western or mid-Eastern countries and cultures (an issues that includes foreign fighters, as well as migrants, and civilians, with different attitudes towards victimisation), the enduring European fascination with the myth of racial purity, and the evident return of mythological patterns in the present-day conflicts in the Mediterranean.

keywords | 2015; terrorist attacks; Palmyra; Paris; Mediterranean culture. 

Per citare questo articolo / To cite this article: Testo corale a cura di M. Centanni, Palmyra-Parigi: sommovimenti tellurici sulla faglia della civiltà, “La Rivista di Engramma” n. 131, dicembre 2015, pp. 17-108 | PDF




doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2015.131.0004