"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Ritratto immaginario

Presentazione e lettura di approfondimento di: Bernard Berenson, Amico di Sandro, a cura di Patrizia Zambrano, Electa, Milano 2006

Daniele Pisani

English abstract


 

Nel 1899 Bernard Berenson pubblica sulla “Gazette des Beaux-Arts” Amico di Sandro. L’articolo, originariamente edito in due parti, esce ora in formato di libro per Electa, con ampio e informato saggio introduttivo di Patrizia Zambrano. Amico di Sandro è, come noto, un caso clamoroso di totale errore d’interpretazione: la figura del pittore Amico di Sandro, cui Berenson propone di attribuire una serie di dipinti di area fiorentina della seconda metà del Quattrocento, altro non è infatti che una fasulla costruzione storiografica, compiuta da parte del celeberrimo connoisseur americano. l’interesse della riproposizione dell’articolo di Berenson trae tuttavia origine proprio dall’erroneità della sua proposta attributiva. Nel caso di Amico di Sandro l’errore è, detto in altri termini, il frutto di una serie tale di forzature che le ragioni che ne presiedono la messa in atto finiscono con il risultarne esemplarmente poste in luce.

Rileggere l’articolo di Berenson invita così a sollevare decisive questioni metodologiche. Non solo induce a interrogarsi sulle ragioni che condussero Berenson a realizzare la propria ardita costruzione storiografica – e i suoi contemporanei ad accettarla – ma anche a tentare di coglierne l’importanza strategica all’interno di una precisa idea della storia dell’arte. Riconoscere – senza con questo giustificare o fare proprie – le ragioni di Berenson significa confrontarsi con una concezione per molti versi alternativa della storia dell’arte, colta nell’atto di compiere un clamoroso errore, certo, ma intenta a compierlo per ragioni che meritano, perlomeno, ascolto.

“A more agreeable subject of contemplation”. A proposito di: Bernard Berenson, Amico di Sandro: lettura di approfondimento

“Voi partendo da basi positivistiche giungete a un edonismo critico inevitabile...” (Roberto Longhi, lettera a Bernard Berenson del 4 settembre 1912).

In una pagina di Du côté de chez Swann il narratore della Recherche osserva come il soprannome popolare di Botticelli “evoca, in luogo dell’opera autentica del pittore, l’idea falsa e banale che se n’è volgarizzata”; la fama dell’artista fiorentino – dopo la ‘scoperta’ di John Ruskin, dei Preraffaelliti e di Walter Pater – è ormai tale da presentare tracce di consunzione. Certo è che, al di là dell’immenso interesse suscitato dall’opera di Botticelli a cavallo tra XIX e XX secolo, si consuma intorno ad essa una vivace bagarre attribuzionistica, che ha come posta in palio il quadro complessivo della pittura fiorentina del secondo Quattrocento. Nel 1899 irrompe sulla scena, con un articolo in due parti intitolato Amico di Sandro e pubblicato sulla “Gazette des Beaux-Arts”, Bernard Berenson.



Non è direttamente la figura di Sandro che il celebre connoisseur prende in considerazione nel proprio saggio. Quanto si propone è, invece, di concentrare la propria attenzione su una serie di quadri – attribuiti in quel momento a Filippo e Filippino Lippi, Botticelli e Ghirlandaio – che ai suoi occhi non solo appaiono “intimamente connessi l’uno all’altro”, ma sembrano presentare precise “linee di parentela”.



Come illustrerà nel Frammento sul metodo dell’attribuzione del 1902, uno dei principali compiti del connoisseur consisterebbe nel rintracciare somiglianze, nell’individuare “le differenze tra il lavoro in esame e le opere degli altri membri del gruppo”. Nel caso specifico, il gruppo è costituito dall’opera dei più celebri pittori fiorentini degli anni settanta e ottanta del Quattrocento. In Amico di Sandro, Berenson tenta di mostrare come, alla nostra conoscenza di tale scena artistica, manchi almeno un tassello.



Il procedimento di Berenson consiste nell’analisi di una serie di dipinti, disposti in ordine cronologico, uno alla volta. Nessun programma viene enunciato, la lettura sembra procedere in tono pacato e descrittivo. Si tratta però di un’apparenza, nemmeno tanto mascherata. La descrizione è infatti intercalata da brevi, sobrie deduzioni, che nel giro di poche pagine giungono a definire un quadro di allucinata precisione. Dall’osservazione di una prima opera, una Madonna con il bambino e due angeli della Galleria Nazionale di Capodimonte, Berenson subito deduce l’esistenza di “un pittore che verso il 1475 stava imitando da vicino Botticelli”, di “un pittore non del tutto spregevole ma privo di autonomia”, che in sostanza “si limita a svalutare le forme di Sandro e a sovraccaricare la sua intonazione sentimentale”.



Su tale esile base, con una sicurezza rabdomantica Berenson affianca a questa Madonna una serie di dipinti che, a suo giudizio, appartengono alla stessa mano. Si tratterebbe della mano di una ‘personalità artistica’ in corso di formazione; all’occhio del connoisseur sarebbe concesso non solo di coglierne le peculiarità, ma anche lo sviluppo e gli influssi subiti. È innegabile, a suo giudizio, come questo Anonimo pittore si sia formato nella bottega di Filippo Lippi insieme a Botticelli e che abbia proseguito nella definizione del proprio ‘stile’ illuminato, come di luce riflessa, da quest’ultimo, così da meritarsi il nome di “Amico di Sandro”. Al tempo stesso, gli risulta evidente la crescita compiuta da questo artista, “da un imitatore di Botticelli senza carattere in una ben distinta personalità artistica”. Non solo. Dall’analisi delle sole opere, e prescindendo del tutto dalla considerazione di altre forme di fonti, è addirittura possibile delinearne l’atteggiamento nei confronti della propria arte (rispetto a Botticelli “non prende la sua arte così sul serio, è piuttosto una specie di improvvisatore”) e il carattere (si tratta di “un temperamento più lieto e più facile in confronto a quello di Sandro”): di fatto, l’anonimo artista è “una specie di Sandro in versione più debole, in grado di descrivere una piccola orbita intorno ad un nucleo di obiettivi artistici affine a quello di Botticelli”, una ‘personalità artistica’ “non dotata e profonda come quella di Botticelli, e certamente più fascinosa ma meno austera di quella di Filippino”.



In una manciata di pagine Berenson ha così individuato un nuovo artista, di cui sino a quel momento nessuno aveva mai nemmeno sospettato l’esistenza. Della coeva storia dell’arte – qualche anno prima Cavalcaselle ne aveva attribuito buona parte dei dipinti a Filippino, ed è soprattutto a questa interpretazione che Berenson sa di doversi opporre – finge di non curarsi. Sono le opere a parlare, sono soltanto le opere che si debbono far parlare. Tutto, del resto, essere dichiarano. Alcuni dipinti, ad esempio, “richiamano troppo Filippo per essere di Filippino”; i panneggi che avvolgono le figure che vi compaiono, dal canto loro, “rivelano la mano del pittore che ha imparato da Fra Filippo come disegnarli e che poi ha preso a modificarli sotto l’influenza di Botticelli, e sotto la spinta della sua propria vena di improvvisatore”; e se tra Amico e Filippino sussistono somiglianze, è perché “quest’ultimo, nei suoi anni più precoci e ricettivi”, è “stato fortemente influenzato dal primo”.



L’occhio del connoisseur è onniveggente. Non desta in lui sorpresa neppure l’“opprimente malinconia” che caratterizza le figure rappresentate da Amico: dai loro tratti, anzi, si evince che l’artista, morto giovane (“Viene in mente una personalità veloce nello sviluppo e, come accade spesso in questi casi, una vita destinata ad essere breve, come di chi sa di avere poco tempo davanti a sé per compiere i propri desideri”), sarebbe sempre stato oscuramente consapevole del proprio destino (negli ultimi anni, avrebbe così sentito il bisogno di ritornare ai propri modelli giovanili, “alle tipologie e alle consuetudini della sua prima attività”). Il ‘prospetto cronologico’ di Amico è, in tal modo, perfetto: perfetta ne è l’esistenza, nella circolarità, infallibile dal canto suo la capacità del connoisseur di vedere e di correlare. Tanto la vita di Amico è a sua volta un’opera d’arte, quanto il ritratto che Berenson ne offre.



Con poche eccezioni, agli occhi dei contemporanei la ‘costruzione’ operata da Berenson risulta convincente. Amico di Sandro anzi, ben introdotto nei circoli più chic, grazie alle impeccabili referenze risulta ospite privilegiato dei migliori salotti dell’epoca; le opere dell’artista, dal canto loro, raggiungono una notevole quotazione sul mercato dell’arte. l’interesse nei confronti di Berenson e di Amico a un certo punto travalica di gran lunga dal mondo dell’arte: trova ad esempio posto nel romanzo La Dame qui a perdu son peintre (1909) di Bourget, in cui compaiono sia un fantomatico “Amico di Solario” che il critico alla moda Courmansel, in cui sono ben riconoscibili i vezzosi tic dello snob Berenson. E del resto perché mai sospettare, anche da parte della comunità scientifica, dell’ipotesi – per quanto non suffragata da indizio alcuno – di una figura suggestiva come quella di Amico? Come dubitare del rigore dell’argomentazione, così rigorosamente morelliana? Peccato solo che Amico di Sandro non fosse mai esistito.



Fu soprattutto Herbert Horne a mettere in crisi, nel corso dei suoi studi botticelliani del primo decennio del Novecento, la costruzione di Berenson. È infatti notevole la rapidità con cui, non appena venga posta al vaglio, quest'ultima si sciolga rivelandosi del tutto inconsistente, a tal punto da invitare a interrogarsi sulle ragioni profonde che condussero Berenson a elaborarla. E non vi è dubbio che alla base del saggio Amico di Sandro stia una precisa idea della pittura del Quattrocento, delle sue peculiarità, delle sue figure e del suo sviluppo, al cui interno la figura di Amico, così prossima a Filippo e Filippino Lippi e soprattutto a Sandro, può ben costituire una pedina decisiva. Ne va sia della definizione di ciascuna delle diverse ‘personalità artistiche’ coinvolte, che dell’attribuzione loro di una posizione nel quadro d’insieme. La posizione di Sandro è, infatti, a dir poco strategica, in prossimità com’è delle maggiori figure pittoriche del Quattrocento fiorentino. Amico consente ad esempio di mediare e caratterizzare, tanto dal punto di vista generazionale che da quello artistico, il passaggio tra Botticelli (e il 'Quattrocento') e Filippino (e il 'Seicento'): è, in altri termini, la pedina determinante di un’‘idea’ del Rinascimento.



Proprio l’assenza di prove documentarie, piuttosto che un ostacolo, costituisce allora un’occasione più unica che rara, un invito a organizzare il catalogo di un artista assumendone le opere come “unica fonte di informazione esauriente”. D’altronde, come noto, nell’arco di tutta la sua carriera Berenson polemizza con ogni forma di storiografia che si fondi sull’analisi del contesto e sull’indagine e sull’intreccio delle varie forme di fonti: giacché in tal modo, a suo parere, si otterrebbe soltanto di “seppellire l’opera d’arte sotto mucchi di cianfrusaglie”. Nel 1948, in Aesthetics and History in the Visual Arts, si dirà convinto della necessità di “denunciare e togliere di mezzo le innumerevoli quisquilie tecniche, biografiche, teologiche e freudiane [...]. La storia dell’arte dovrebbe preoccuparsi più di problemi che di personalità. I problemi sono risolti passo per passo. Di ciascuno di questi passi dovremmo fare una personalità artistica, senza badare agli individui che incarnano l’oggetto della ricerca”. 



Mentre implicitamente indica come anche la personalità di Amico sia da intendersi come un ‘problema’, Berenson dichiara così il proprio disprezzo per tutte quelle informazioni contestuali che, ai suoi occhi, altro non rappresentano che impacci: “Gli individui e i loro nomi sono un serio e fastidioso impiccio ma noi non possiamo ignorarli. Queste opere esistenti esauriscono la personalità artistica [...]. Aneddoti, associazioni, ed ogni cosa che non sia chiaramente rivelata nelle opere esistenti è irrilevante e ritarda il nostro diretto contatto con esse”. E, questo, per una ragione profonda e tutt'altro che trascurabile, ossia che l’arte comunica i sentimenti inesprimibili di cui è pregna soltanto “by personal contact”. Occorre di conseguenza impedire a qualsiasi ‘elemento esterno’ di immischiarsi tanto nella fruizione quanto nell’analisi dell’opera d’arte, giacché frapporre qualcosa – di qualsiasi cosa si tratti, ad esempio delle fonti – all’immediatezza del rapporto che tra il fruitore e l’opera deve stabilirsi significa denaturarla. È proprio per questo che Berenson può così spudoratamente disinteressarsi di qualsiasi appiglio gli venga offerto al di fuori del dipinto. Ed è per questo che, d’altro canto, può capitargli – nel caso di Amico di Sandro – di mancare così totalmente il bersaglio.



In tutta la sua peculiarità, la posizione di Berenson emerge soprattutto una volta avvenuta la confutazione della sua ipotesi. In Italian Painters of the Renaissance, del 1932, di Amico non vi è traccia. Soltanto nell’Appendice VI a The Drawings of the Florentine Painters, del 1938, egli riprende in considerazione la sua vecchia, e ormai unanimemente rifiutata, costruzione. Ne rivendica la solidità, se – afferma – essa è stata in grado di trarre in inganno quasi tutti; e mentre, nel sostenere di possedere, ora, “a better eye, a better method, and greater knowledge”, ammette implicitamente il proprio errore, d’altro canto fa risalire il suo superamento a un affinamento delle proprie qualità, piuttosto che a un confronto – imposto da altri studiosi, come Georg Gronau e Carlo Gamba, oltre che Horne – con i dati di fatto. Ma, soprattutto, Berenson continua a dichiararsi pervicacemente convinto che il suo saggio Amico di Sandro abbia costituito una “useful hypothesis”, “una costruzione di temporanea utilità”, e pertanto a dimostrarsi poco propenso a sopprimere la “delightful, if mythical, personality” che ne sta al centro. A questo riguardo, aggiunge:

An artist who began with the best of the younger Botticelli, and ended early with the best of the young Filippino, was a more agreeable subject of contemplation than the Filippino who, after doing most of the pictures I gave to Amico, matured into the Filippino we have always known [...], with such a tendency to anticipate those exaggerations which for the vulgar constitute the Baroque.

La considerazione secondo cui, all’interno di una serie di “subjects of contemplation”, l’esistenza di Amico sarebbe “more agreeable”, la dice davvero tutta sulla posizione di Berenson: supremamente indifferente non solo rispetto all’effettiva esistenza delle ‘personalità artistiche’. Queste ultime a loro volta – è lui stesso ad affermarlo – sono in primo luogo dei problemi, e non delle persone in carne ed ossa; se ciò che infatti le designa, ossia i nomi, sono per Berenson “un programma, una visione, una speranza”, dal canto loro gli artisti stessi sono “disincarnate torch-bearers, with no civic existence whatever”. La storia dell’arte va fatta, come si è visto, “senza badare agli individui che incarnano l’oggetto della ricerca”.



Eliminate le personalità, restano le opere. Per leggerle, Berenson adotta un metodo di dichiarata ascendenza morelliana. Con il proprio procedimento comparativo/classificatorio, tipico delle scienze naturali, applicato però alle scienze umane, Morelli si proponeva di render conto di quella certa ‘aria di famiglia’, presente tra alcune opere, per risolvere questioni attribuzionistiche e stilare cataloghi sempre più rigorosi. Il cosiddetto “metodo morelliano” era, non a caso, stato messo a punto proprio osservando opere di Botticelle e Filippino Lippi. Non sorprende così che esso sia stato alla base della formazione del giovane Berenson, ancora diviso fra interessi letterari e artistici. Pure le incalzanti deduzioni di Amico di Sandro si strutturano sul sistema indiziario delle “linee di parentela” morelliane: come rileva nel saggio introduttivo Patrizia Zambrano, lo scritto di Berenson appare come “una sorta di modello da laboratorio del metodo morelliano, un caso esemplare per dimostrarne l’efficacia e la validità”, che però al tempo stesso – vista la programmatica indifferenza al contesto, con tutte le “cianfrusaglie” di cui è fatto, da parte di Berenson – lo conduce ad absurdum, quasi si trattasse di un curioso esperimento in vitro.



Che, allora, il tentativo da parte di Berenson di reperire nelle Vite del Vasari una figura di artista da identificare, almeno ipoteticamente, con l’anonimo Amico sia condotto con malcelata frettolosità – quasi come un prezioso vezzo, negligentemente apposto in chiusura – risulta del tutto coerente. Potrebbe trattarsi, propone Berenson, di tale Berto Linaiuolo, un artista che compare nelle vite di Chimenti Camicia e Baccio Pontelli; ma, una volta avanzata la proposta, subito la lascia a se stessa. La espone come qualcosa di estraneo. Altro è parlare di Amico di Sandro, altro di tale Berto Linaiuolo: “Preferisco continuare a chiamare il nostro Anonimo – così si chiude l’intero saggio – ‘Amico di Sandro’”.


English abstract

Presentation of the book “Amico di Sandro” by Bernard Berenson, edited by Patrizia Zambrano and published by Electa. The “Amico di Sandro” is, as is well known, a sensational case of a total interpretation error: the figure of the painter Amico di Sandro, to whom Berenson proposes to attribute a series of paintings from the Florentine area of ​​the second half of the fifteenth century, is in fact nothing more than a false historiographic construction, carried out by the famous American connoisseur. The interest in re-proposing Berenson’s article, however, derives precisely from the erroneousness of its attribution proposal. In the case of Amico di Sandro, the error is, in other words, the result of such a series of forcing that the reasons that govern its implementation end up being exemplary highlighted.

keywords | Benard Berenson; Sandro Botticelli. 

Per citare questo articolo / To cite this article: D. Pisani, Ritratto immaginario. Presentazione e lettura di approfondimento di: Bernard Berenson, Amico di Sandro, a cura di P. Zambrano, Electa, Milano 2006, “La Rivista di Engramma” n. 48, maggio 2006, pp.1-8. | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2006.48.0004