"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

141 | gennaio 2017

9788898260867

Voce, suono, sperimentazione*

La musica di Bowie come teatro

Pierpaolo Martino

English abstract

In Bowie i testi, sebbene molto densi e allusivi, rappresentano solo una componente del suo discorso musicale: si tratta di narrazioni parziali che hanno bisogno di una forma diversa di scrittura, che è quella sonora. La testualità del pop, come hanno infatti dimostrato studiosi come Franco Fabbri, Simon Frith, John Shepherd e Philip Tagg, eccede il verbale per includere elementi necessariamente performativi.

Frith sottolinea, nello specifico, come nelle canzoni le parole altro non sono che un segno della voce:

Una canzone è sempre una performance e le parole della canzone sono sempre parlate, ascoltate, nell’accento di qualcuno. Le canzoni sono più spettacoli che poemi; le canzoni operano in quanto discorso e il discorso agisce generando significati non solo semanticamente, ma anche in quanto struttura di suoni che rimandano direttamente all’emozione e a indicazioni sul carattere. I cantanti utilizzano accorgimenti verbali, come altri non verbali, per rendere le proprie idee – enfasi, sospiri, esitazioni, cambiamenti di tono.

In questo senso, analizzando la forma canzone non si possono prendere in considerazione le parole senza i suoni e viceversa. Più che dalle parole, l’ascoltatore è attratto dalle intonazioni e dal timbro di chi canta; allo stesso modo, nella musica strumentale saranno determinanti, come vedremo, le intonazioni, gli accenti degli strumentisti. Del resto, come hanno dimostrato Bachtin e Volosinov, nel linguaggio quotidiano l’intonazione – in quanto espressione di una particolare valutazione – è un aspetto centrale nello scambio tra parlanti.

Per comprendere a fondo l’importanza del suono/scrittura nell’universo bowiano occorre misurarsi nuovamente con la dimensione corporea, in un processo in cui il suono – in quanto voce e musica – diventa necessariamente spazio teatrale.

In un saggio intitolato La musica, la voce, la lingua Roland Barthes afferma:

La voce umana è il luogo privilegiato (eidetico) della differenza: un luogo che sfugge ad ogni scienza perché non esiste scienza (fisiologia, storia, estetica, psicanalisi) che esaurisca la voce: per quanto si classifichi, si commenti storicamente, sociologicamente, esteticamente, tecnicamente la musica ci sarà sempre un resto, un supplemento, un lapsus, un non detto che si designa da solo. Questo oggetto sempre differente è posto dalla psicanalisi tra gli oggetti del desiderio in quanto mancante, cioè tra gli oggetti a: non c’è nessuna voce umana al mondo che non sia oggetto del desiderio – o di rifiuto: non esiste voce neutra […]. Ogni rapporto con la voce è necessariamente amoroso, ed è perciò che la differenza della musica, come la necessità di valutazione, di affermazione, si manifesta nella voce.

Siamo dunque attratti in varie forme e gradi dalla voce altrui. La voce può essere oggetto d’amore o di repulsione ma mai di indifferenza. Occorre capire quali siano i meccanismi con cui ci relazioniamo, percepiamo, valutiamo il suono di una particolare voce.

Il discorso di Barthes su lingua, suono e musica pone un accento particolare sulla nozione di differenza. Si tratta di una differenza che non si costruisce nella pratica musicale, che non è frutto d’esercizio accademico, ma capacità di far parlare il proprio corpo, nel senso di far sì che il proprio corpo parli, in modo quasi autonomo, proiettandoci verso una risposta necessariamente affettiva. Barthes definisce, appunto, la grana della voce “la materialità del corpo che parla la sua lingua materna”; si tratta di una definizione che parte dall’ascolto, dalla pratica d’ascolto e non solo dalla teoria. Nel celebre studio intitolato La grana della voce, Barthes parte dall’esperienza, dalla sua particolare esperienza di ascoltatore e quindi dal suo amore per un cantante, Panzéra, che egli contrappone – in quanto espressione di un canto della grana vocale – al più accademico Fischer-Dieskau.

Nel canto Barthes individua – a partire da Julia Kristeva – due componenti testuali: il feno-canto e il geno-canto. Il primo rimanda a tutti i fattori relativi alla struttura della lingua, al genere e alle forme codificate, ossia esprime la personalità, la soggettività dell’artista ed è al servizio della comunicazione, della rappresentazione. Il geno-canto è, invece, il volume della voce che canta e che dice, lo spazio in cui i significati germinano dall’interno della lingua e della sua materialità […], è la dizione della lingua. Qui Barthes per dizione intende pronuncia. Il geno-canto eccede la mera articolazione per farsi appunto pronuncia. Esso, a differenza del feno-testo, trova il suo spazio ideale nella gola e non nei polmoni. È il canto di una fisicità in divenire e che risulta imprevedibile; in questo senso esso è presente anche nella musica strumentale e trova espressione nel tocco, nella pronuncia musicale, che nel caso del pianoforte e degli strumenti a corda interessa non tanto il braccio, quanto i polpastrelli delle dita.

A nostro avviso si tratta di un canto che si colloca fuori dalla comunicazione dominante, ma che risulta tuttavia in grado di creare dei percorsi alternativi di significato, attraverso la significanza. Lo stesso Barthes rispondendo, attraverso il suo saggio, alla voce di Panzéra dimostra l’enorme rilevanza della grana vocale sotto il profilo comunicativo. La grana non è al di fuori del discorso musicale, ma va intesa come qualità del tutto particolare che esige risposte particolari.

Il saggio di Barthes, risulta assolutamente rilevante proprio in quanto invito all’ascolto, in quanto specificazione della molteplicità che risiede nel canto, nella voce e nella musica. Nella canzone le voci sono vive, lontane eppure vicine, esse raccontano una vita, anzi un insieme di vite, di episodi, di performance, di incontri del quotidiano, intonando parole comuni, con gesti, inflessioni comuni. Le grandi voci della canzone, sono in definitiva le voci che mettono in scena delle vite possibili. Sono voci la cui grana è stata scritta negli anni attraverso il dialogo, la scambio, l’incontro con altre voci e altri musicisti.

Il significato di una canzone, si è detto, non è legato esclusivamente alle parole, esso scaturisce dalle intonazioni aperte, incerte, dalla memoria nella grana, che risuona del corpo e con il corpo. Per questo la voce di Bowie è in grado di cantare mille personaggi, mille passioni diverse attraverso una singola parola, un singolo nome o lemma sonorizzato, pronunciato con un colore con un accento ogni volta diversi. In questo senso anche le sue numerose interpretazioni delle grandi canzoni del passato risultano complesse enunciazioni che raccontano al presente, storie del passato e al passato storie del presente. La voce di Bowie è inoltre in grado di creare un ponte tra narrazioni e linguaggi diversi grazie alla capacità di far risuonare nel suo corpo una grande varietà di stili – dal rock al pop, dal jazz al blues, al soul – appresi nel corso di tutta una vita, attraverso l’ascolto della vita e dei suoni di altri musicisti.

La voce stessa di Bowie è quindi uno strumento destabilizzante e imprevedibile che fa pensare all’arte come forma di divenire piuttosto che di essere e soprattutto come spazio profondamente ironico. Il cantante enfatizza volontariamente la sua voce utilizzando inflessioni spesso esagerate, grottesche, per far comprendere al pubblico che ogni sua canzone è una performance consapevole. Bowie, in breve, non fa che mettere in scena la sua voce; di qui gli improvvisi cambi di registro e i salti di ottava con cui giocare con l’identità di genere o le alterazioni elettroniche che, sin dai tempi di The Laughing Gnome, ci proiettano in una sorta di palcoscenico sonoro.

È possibile parlare, soprattutto per il Bowie più maturo, di un uso carnevalesco della voce, in cui inflessioni, accenti, rumori e suoni che rimandano all’articolazione corporea (si pensi all’incipit del recentissimo ‘Tis a Pity She’s a Whore da Blackstar) riescono a rendere visibile, presente il corpo apparentemente assente del performer. Altri aspetti della teatralizzazione della voce da parte di Bowie sono rappresentati dal suo uso del melisma, e dal falsetto con cui riesce ad accedere attraverso il suo corpo maschile ad uno spazio sonoro femminile.

C’è poi nell’opera dell’artista inglese una componente drammatica essenziale che è data dal dialogo tra il cantante e i suoi musicisti. L’unicità della grana vocale, come si è detto, è un parametro di valutazione che va oltre la voce in senso stretto, per interessare ogni sorta di strumentista. Il suono è immagine, è immagine sonora, è voce, è un dire che prescinde dal detto e che è significativo di per sé. Nella sua capacità di attraversare molteplici generi musicali, articolando un sound pluristilistico e pluridiscorsivo Bowie è riuscito a dialogare con paesaggi e personaggi sonori imprevisti e imprevedibili, sempre eccedenti, e spesso inauditi.

È vero, da un certo punto di vista, che il Bowie degli anni Sessanta, userà spesso lo spazio sonoro creato dai suoi musicisti, come sfondo, come tela, per certi versi come palco, in cui mettere in scena la sua performance vocale. Lo stesso pop sinfonico di Space Oddity può essere pensato in questi termini; dall’incipit con chitarra acustica dagli echi folk, agli sviluppi per certi versi psichedelici, la forte tensione drammatica e per certi versi spettacolare del brano viene infatti creata dalla numerose sovraincisioni vocali che mettono bene in scena l’idea di un personaggio amletico che si cerca, si interroga, interrogando al tempo stesso gli ascoltatori.

È con The Man Who Sold the World che assistiamo all’articolazione di una complessa dialogica musicale il cui senso sta tutto nel rapporto tra Bowie e altri attori sonori. L’hard-rock-soul, scuro e per certi versi spoglio dell’album vede in Tony Visconti (che sarà anche produttore del disco) il protagonista di una tela sonora in cui assistiamo ad una ridefinizione del ruolo del basso, che giocherà qui una funzione contrappuntistica rispetto alla voce di Bowie, persino più rilevante rispetto a quella svolta dalla chitarra di Mick Ronson, il cui protagonismo viene problematizzato – sin dalla primissima traccia intitolata The Width of a Circle – proprio dal bassismo colto, visionario e ironico di Visconti. Bowie suonerà con molti bassisti di spessore, dall’iconico Trevor Bolder a George Murray, da Tony Levin a Gail Ann Dorsey, ma il lavoro di Visconti nel secondo album bowiano, che tra l’altro oltre a produrre diversi suoi dischi suonerà il basso anche in diverse tracce di lavori bowiani più recenti, resta un esito tra i maggiori nell’ambito bassistico postmoderno. Il disco – che si pone, come si è detto, come complessa meditazione sul tema della follia – è caratterizzato da un’urgenza sonora senza precedenti e resta ancora oggi una delle cose migliori di Bowie; celebre è in tal senso la title-track caratterizzata qui da un arrangiamento essenziale e una connotazione per certi versi latino-americana e che rivivrà in futuro nelle iconiche reinterpretazioni di Kurt Cobain e Michael Stipe.

Si è già detto di Mick Ronson – attraverso la sua apparizione a Top of The Pops nella performance di Starman – come di un’icona fondamentale dell’universo bowiano; Ronson era, va detto, un chitarrista capace di un approccio distaccato e ironico rispetto al ruolo di protagonismo ricoperto dai rockers alla chitarra in pieno boom hippy. Era insomma in grado di essere un inside-outsider al pari di Bowie; il suo contributo nell’ambito del periodo glam di Bowie resta, in questo senso, indiscusso.

L’ultimo album degli anni Settanta a vedere Ronson al fianco di Bowie sarà Aladdin Sane, lavoro in cui, tra l’altro Ziggy attuerà la sua ultima metamorfosi. La title-track dell’album oltre a presentare, come si è detto, rimandi intertestuali a Waugh, resta celebre per la sua complessa articolazione sonora, in cui il canto lineare di Bowie, lascia spazio al pianismo free di Mike Garson, in grado di mettere letteralmente in scena quell’idea di follia con cui Bowie si misurerà più volte nella sua opera; una follia sonora, che eccede il jazz codificato fino ad allora ospitato e autorizzato in ambito pop, e che, proiettando verso le sperimentazioni berlinesi introduce bene al senso di outsideness che nutrirà la poetica bowiana nella seconda metà degli anni Settanta; un approccio simile lo ritroveremo soltanto in 1.Outside del 1995 che vedrà ancora Garson come uno dei protagonisti di una delle più complesse tele sonore bowiane.

Diamond Dogs del 1974, invece, proietta letteralmente l’ascoltatore su di un palcoscenico sonoro in cui il cantante diventa protagonista di una trama dialogica all’interno della quale è lui stesso ad interagire con aspetti, voci, maschere e inflessioni sonore diverse di se stesso. Nell’album Bowie oltre a cantare suona la chitarra, il moog, il mellotron e soprattutto i sassofoni contralto e tenore. È interessante notare come per tutta la sua carriera Bowie continuerà a suonare il sassofono in maniera sempre divertita, decentrata e decentrante, mettendo in scena una sorta di dilettantismo che diventerà punto di forza della sue performance strumentali. Qui in particolare si può parlare più che della singola voce di Bowie, di una pluralità di voci. Fa infatti qui il suo debutto, nella splendida sequenza composta da Sweet Thing/Candidate/Sweet Thing, la celebre voce baritonale di Bowie, una voce marcatamente teatrale, enfatica, che sembra citare il music-hall ma che soprattutto sembra problematizzare il gesto canoro stesso come esercizio coercitivo di autenticità. Ma Diamond Dogs è anche l’album delle citazioni e dei rimandi ironici, uno tra tutti quello al chitarrismo (cock-rocker) di Keith Richards dei Rolling Stones in Rebel, Rebel (e Rock’n Roll with Me).

Young Americans metterà in scena un esercizio simile di citazione, appropriazione e riscrittura di un genere musicale ben definito, in questo caso il philly soul di cui Bowie era un grande estimatore, ma che qui declinerà in un senso del tutto nuovo, utilizzando su quel sound un certo make up che, se da un lato ricorda la logica glam, dall’altro, nel celebre brano di chiusura, Fame, scritto a quattro mani con John Lennon, proietta verso le intuizioni postmoderne di Prince (che per ironia della sorte scomparirà proprio nello stesso anno della scomparsa di Bowie).

Station to Station del 1976 rappresenta a detta anche dello stesso Brian Eno uno dei migliori dischi di tutti i tempi. Il celebre brano di apertura traduce il suono bowiano in puro spettacolo, in fatto drammatico, attraverso una giustapposizione senza precedenti di soluzioni sonore che qui più che altrove dicono di un Bowie in grado di anticipare il futuro, di proiettare l’ascoltatore verso una fruizione e comprensione musicale nuova e inaudita. Molto interessante al di là dei soundscape chitarristici e dei cluster pianistici iniziali, sarà la figura di basso ribattuta, eseguita secondo la logica barthesiana a cui si è fatto riferimento con un suono ben preciso ossia presumibilmente quello di un Fender P Bass, picked, suonato tramite un plettro da George Murray, che diventerà poi il bassista di riferimento di Bowie per il resto degli anni Settanta.

Quella che molti definiscono trilogia berlinese è in realtà composta da tre narrazioni piuttosto diverse e in cui, tuttavia, si può parlare di una certa continuità in rapporto soprattutto ai primi due capitoli, ossia Low e Heroes. Il primo dei due è una sorta di colonna sonora di un paesaggio mentale desolato e desolante, in cui il dolore e l’alienazione del protagonista creano una bellezza senza precedenti, nella quale si alternano linearità narrativa e sperimentazione, poesia e dissonanza, erotismo vocale e sonorità liquide dei sintetizzatori, suonati da Brian Eno (che qui farà uso delle sue celebri "oblique strategies"). Come nota Hugo Wilcken in uno dei migliori testi di analisi bowiana degli ultimi anni, dedicato nello specifico al primo degli album berlinesi, il senso di Low resta tutt’oggi molto complesso e tuttavia si può dire in sintesi che ha parecchio a che fare con l’idea di con-fondere una sensibilità sperimentale, di matrice Europea e un canale comunicativo essenzialmente americano. E qui è possibile cogliere ancora una volta un rapporto molto stretto tra l’arte di Bowie e la pop art di Warhol. Low metteva in scena un senso di alienazione modernista e una commistione senza precedenti di ritmi R&B, elettronica e minimalismo prescindendo da ogni approccio narrativo tradizionale.

Heroes si pone ancora oggi come uno degli album più iconici e noti del corpus sonoro bowiano. Anche qui si registra la simultaneità e compresenza di pulsioni contrastanti e contradditorie, ma in fin dei conti è ciò che succede quando si cerca di leggere a fondo, di indagare con passione e intelligenza l’umano. La title-track stessa vive di questa perfetta sintesi tra semplicità e complessità, lirismo e spessore; l’arrangiamento stesso del brano dice attraverso la sua stratificazione – nello specifico attraverso le molteplici sovrapposizioni di chitarra incise da Robert Fripp – la molteplicità insita in Bowie. C’è poi l’aspetto legato ai numerosi brani strumentali presenti nei due album che al di là delle geniali intuizioni e architetture sonore proposte da Eno e Bowie sembrano per certi versi comporre uno spazio sonoro silenzioso e accogliente, in cui la voce di Bowie sembra tacere per un attimo e mettersi in ascolto della voce e delle pulsioni affettive degli ascoltatori. Interessante notare come la stessa Heroes era nata come uno strumentale su cui poi il cantante su invito di Eno decise di aggiungere una linea vocale all’ultimo minuto; una vicenda che sembra porre il fruitore bowiano nella posizione di eroe possibile all’interno delle complesse vicende sonore narrate nei dischi. Questi dischi saranno inoltre fondamentali per la nascita di un’esperienza centrale in ambito anglofono quale fu la new wave.

Le soluzioni sonore dei due album successivi, e in particolare i virtuosismi chitarristici di Adrian Belew in Lodger e Robert Fripp in Scary Monsters, sembrano tuttavia raccontare un’altra storia, ossia un altro approccio nella poetica bowiana, in cui gli spazi dilatati, le soluzioni quasi cinematografiche dei due album precedenti sembrano messi da parte in nome di una scrittura veloce, ritmica e a tratti pungente. È possibile in questo senso vedere una certa continuità tre le soluzioni sonore di questi due dischi. Lodger, che contiene esiti musicali molto diversi tra loro, non fu inciso nei celebri Hansa studio di Berlino, ma in America. L’iconico brano di apertura Fantastic Voyage mette in scena un avvincente teatro vocale bowiano, con vibrato e altri virtuosismi canori che sembrano proporre un melodismo centrato e accessibile. Ma il brano successivo African Night Flight non fa che decostruire quest’idea attraverso un canto decentrato, in uno spazio sonoro in cui dominano le chitarre di Belew e le tastiere di Eno. C’è poi nel disco il primo episodio bowiano a presentare un andamento dub reggae declinato secondo una logica funk; il cantante tornerà ad esperimenti del genere con l’album Tonight del 1984. Non mancano nel disco i rimandi a un certo funk bianco, che in quegli anni diventerà un tratto distintivo di una band newyorkese quale i Talking Heads.

Scary Monsters del 1980, da molti considerato l’ultimo grande album di Bowie, presenta sin dalla primissima traccia, intitolata It’s No Game N. 1, un art-pop sofisticato nutrito da un dialogismo destabilizzante in cui il Bowie centrato di Fantastic Voyage sembra quasi parodizzato nello scambio verbale tra Bowie e Michi Hirota, che declina in un senso del tutto diverso un’idea possibile di teatralità giapponese. Qui al contrario di Lodger è il secondo brano (intitolato Up the Hill Backwards) a dipingere, almeno nelle prime battute, un paesaggio pop rassicurante con un Bowie corale e che tuttavia viene immediatamente destabilizzato dal solismo tagliente e acido della chitarra di Fripp. Uno dei momenti sonori più iconici dell’album resta tuttavia l’incipit di Ashes to Ashes, che sembra dire un ciclo – che è poi quello artistico di Bowie – che non può concludersi e in cui le tastiere di Andy Clark interrogano lo slap di George Murray in uno dei giri di basso più belli della storia della popular music, dove tre note La♭, Mi♭ e Si♭ vengono ripetute un numero di volte variabile – ma che potrebbe essere anche infinito – dimostrando come la cornice di un testo (offerta qui dal basso di Murray), può, ancora una volta, secondo una logica derridiana, essere la sua parte più rilevante, ponendosi così come interrogazione e risposta rispetto alle enunciazioni canore bowiane.

L’album di maggior successo commerciale di Bowie resta tuttavia Let’s Dance del 1983 prodotto da Nile Rodgers, il chitarrista degli Chic, una delle band più influenti della scena Disco di fine anni Settanta. Le due tracce più note del disco sono senz’altro la title-track e China Girl; si è detto di come Bowie prima delle registrazioni dell’album fosse stato coinvolto nelle riprese di Furyo, ebbene China Girl va inserito all’interno di questo rinnovato interesse di Bowie nei confronti dell’Oriente; va detto tuttavia che qui la ragazza del titolo diventa un oggetto, un’immagine che Bowie e Rodgers traducono in maniera fin troppo diretta in una figura di chitarra per quarte, dal sapore orientale, costretta, per certi versi mortificata, dall’andamento ritmico del brano da classica pop song anni Ottanta. Unica nota di merito di China Girl resta la figura di basso del verse in quanto, nella sua cantabile e chiara geometria, riesce a caricarsi di un’affascinante connotazione erotica. In breve qui la musica sembra raccontare una storia più interessante di quella offerta dai contenuti verbali, cosa che accade anche nella title-track, che al di là della narrazione amorosa prevedibile, affascina soprattutto nel suo porsi come elogio della possibilità di scrittura del corpo attraverso il ballo e la danza. Il ballo è infatti linguaggio diretto, intercorporeo, non-mediato. Utilizzando la terminologia di Julia Kristeva si potrebbe dire che la comunicazione attivata attraverso la danza e il ballo si articola su una dimensione semiotica (piuttosto che simbolica), una dimensione in cui un insieme di segni corporei – suono, ritmo, pulsazione – mette in discussione la possibilità, ovvero l’esclusività, di un linguaggio comunicativo governato da norme simboliche.

Qualche anno più tardi Bowie collaborerà con un altro celebre chitarrista americano, attivo soprattutto in ambito jazz, Pat Metheny. I due lavoreranno a un brano pubblicato nel 1984, incluso poi nella colonna sonora scritta da Metheny per Il gioco del falco, film del 1985 diretto da John Schlesinger e intitolato This is Not America. Si tratta di una composizione che rimanda chiaramente al sound del Pat Metheny Group con un bel lavoro di tastiere di Lyle Mays e nella quale tuttavia Bowie inscrive una delle sue performance vocali migliori, in cui sembra muoversi con agilità tra il suo tono baritonale e dei falsetti, che sembrano dare perfettamente corpo al senso di negazione di un’identità precisa, peraltro uno dei temi possibili del film. Il migliore degli episodi musicali degli anni Ottanta resta tuttavia, a nostro avviso, Absolute Beginners per la straordinaria sintesi operata qui da Bowie tra passato e presente, tra un certo mood anni Cinquanta (che poi rimanda alle atmosfere descritte da MacInnes nel romanzo) e un’enunciazione canora in grado di farsi scrittura urgente e maledettamente presente, simile a quella di MacInnes appunto, nel ricordo eccedente e avvolgente di un passato trascorso a Soho con suo fratello Terry che era morto qualche mese prima delle incisioni del singolo. Ci sono poi gli archi e soprattutto i fiati e i rimandi al jazz che mettono in stretto rapporto il brano agli altri contributi pensati da Gil Evans, per la colonna sonora del film di Temple.

Per il disco che segna il suo rientro sulle scene negli anni Novanta, ossia Black Tie White Noise del 1993 il cantante si avvarrà della collaborazione di uno dei più grandi jazzisti americani dell’epoca, ossia Lester Bowie (con cui ironicamente condivideva il cognome). Il solismo acido, altisonante, graffiante e dissonante del celebre trombettista (leader e fondatore degli Art Ensemble of Chicago) resta una delle cose migliori del disco, soprattutto in brani quali You’ve Been Around e Jump They Say. È interessante notare come la stima e l’ammirazione del cantante inglese per Lester Bowie si tradurrà in un omaggio strumentale, Looking For Lester, incluso nel lavoro, in cui la tromba di Bowie si muove in maniera libera, non costretta in un contesto sonoro disco funk, con un risultato che sembra rimandare al Miles elettrico degli anni Ottanta. La penultima traccia dell’album assume invece il senso profondamente ironico di un meta-tributo, di un tributo ad un tributto fatto l’anno prima da Morrissey allo stesso Bowie attraverso un suo brano I Know it’s Gonna to Happen Someday (che voleva essere una parodia di Rock’n Roll Suicide del Bowie-Ziggy) incluso nell’album Your Arsenal del 1992 prodotto dallo stesso Mick Ronson (che in un complesso gioco di specchi ritroviamo in veste di chitarrista nella cover presente in Black Tie White Noise).

Il disco degli anni Novanta più discusso del corpus bowiano resta senz’altro 1.Outside, della cui complessa dimensione letteraria e multimodale si è detto nello scorso capitolo. Ciò che qui ci interessa è la straordinaria inventiva e innovazione che presenta la componente più strettamente musicale dell’album (che, va detto, non va comunque isolata dalla dimensione testuale più ampia del disco). In molti hanno insistito sul rapporto di continuità con i lavori della trilogia berlinese; in effetti la produzione a cura di Brian Eno rappresenta un aspetto centrale nella definizione dei suggestivi soundscapes che caratterizzano il lavoro. Ma un aspetto probabilmente ancora più affascinante e interessante del lavoro è dato dal ricorso al tipo di jazz libero e imprevedibile di cui si è detto a proposito di Aladdin Sane. Non è un caso che nel disco ritroviamo al piano un Mike Garson in forma smagliante, affiancato da uno dei più grandi batteristi contemporanei, ossia Joey Baron, figura chiave della scena downtown newyorkese a partire dalla metà degli anni Ottanta. Seminale sarà il suo lavoro all’interno di formazioni quali il Bill Frisell Trio con Kermit Driscoll al basso e i Naked City (nonché i Masada) guidati dal sassofonista e compositore John Zorn. In 1.Outside Baron introduce – attraverso i suoi fill, le sue improvvisazioni e le sue inversioni (si ascolti in particolare A Small Plot of Land) – un altro accento, un altro tempo, o meglio un’interruzione e un intervallo rispetto alla logica e al ritmo spesso troppo codificati del pop, dando corpo a un senso di outsideness che non fa che rendere più potente l’enunciazione bowiana.

Un lavoro diametralmente opposto è rappresentato da Earthling del 1997 in cui l’artista si misura con linguaggi chiave della musica degli anni Novanta, quali techno, jungle e soprattutto drum ‘n’ bass con l’ausilio della produzione di Mark Plati e Reeves Gabrels. Come osserva Trynka, sebbene l’immagine che giungeva ai fan di Bowie era quella di una sorta di vecchio “papà in discoteca”, il disco presenta brani molto efficaci, come Little Wonder con un Bowie dalle inflessioni cockney che dialoga con potenti figure chitarristiche e percussive. Il disco tuttavia appare troppo legato alla ripetizione di formule e a volte suona come un loop di soluzioni prevedibili. Al di là degli esiti a tratti problematici del lavoro, va comunque lodata la capacità di Bowie di ridefinirsi dialogicamente, a proprio rischio e pericolo, rispetto a forme musicali lontanissime da quelle a cui erano abituati i suoi estimatori, anche se, va detto si tratta di formule e tendenze che erano sul mercato ormai da un po’ di tempo (e che quindi Bowie non anticipò, come era stato invece in grado di fare in altri casi in passato, in alcun modo). Con lo stesso team, ossia Gabrels e Plati, Bowie pubblicherà invece un altro lavoro – ossia ‘hours...’ del 1999 – che segna un ritorno al Bowie narrativo e cantabile e che tuttavia al di là del singolo Thursday’s Child sembra non convincere critici e sostenitori.

Il nuovo millennio ci consegnerà invece un artista di grande spessore, intelligenza e capacità creativa, all’altezza, per certi versi, del Bowie degli anni Settanta. Anche qui la sua estetica sonora si definirà in rapporto dialogico rispetto alla capacità di scrittura e inventiva di alcuni musicisti straordinari. Si è detto di come Heathen del 2002 – in cui dopo anni di assenza vi è un ritorno alla produzione di Tony Visconti – si ponga come suggestiva e ispirata narrazione post 9/11, in grado di mettere in scena a partire dal brano di apertura Sunday la compresenza e simultaneità di pulsione e idee contrarie, esprimendo così un aspetto centrale della filosofia bowiana. Sin dai primi secondi del brano, l’arduo compito di sonorizzare questa complessità sarà affidato agli affascinanti, eterei e indefiniti loop di chitarra elettrica (in reverse) a cura di David Torn, che qui traducono bene l’idea di identità nella differenza. Torn, va detto, è uno dei maggiori chitarristi contemporanei attivi in ambito jazz e avant; il suo sound liquido è stato un punto di riferimento per artisti quali David Sylvian e Mick Karn, nonché per produzioni chiave dell’etichetta tedesca Ecm. Nella quarta traccia dell’album, intitolata Slow Burn, Pete Townshend mette invece in scena un chitarrismo drammatico, sofferto, in cui il suono in saturazione vive nel tempo incerto dato da un complesso uso di riverberi e delay; in brani come questo, la chitarra sembra raccontare una storia nella storia, al punto che il canto bowiano sembra essere qui quasi una variazione sul canto di Townshend, che a quasi due minuti dall’inizio inscrive nel brano uno dei più bei soli chitarristici del nostro tempo – proprio per il suo rifiuto di qualsiasi esercizio virtuosistico e per il preferire il suono in quanto immagine e suggestione visiva – a cui fa da contrappunto ritmico il lavoro della sezione di fiati.

Torn sarà presente anche in alcune tracce dell’album successivo di Bowie, ossia Reality del 2003, che se da un lato offre un ventaglio sonoro più ampio rispetto al disco precedente, sembra tuttavia articolare un’enunciazione musicale complessiva meno centrata e potente. Una nota di merito va data al singolo New Killer Star, che come il brano di apertura del precedente album si apre con un sofisticato e intelligente loop di Torn. Dopo la pausa discografica di ben dieci anni, Torn sarà tra i protagonisti del ritorno sulle scene di Bowie con The Next Day; prezioso sarà il suo contributo, fatto di piccoli gesti sonori, a brani quali The Stars (Are Out Tonight) dove il suo sound spazializzato nel riff principale lascerà spazio ad un bel bridge dal sapore flamenco, per risolversi in una bellissima immagine in coda (che con-fluirà poi nel lavoro di archi). Anche qui la produzione sarà affidata a Tony Visconti che suonerà anche il basso (affidato nel resto del disco a Tony Levin e Gail Ann Dorsey) in brani quali Valentine’s Day e (You Will) Set the World on Fire, dove all’eleganza e al minimalismo della prima traccia si contrappone la pulsione molto rock della seconda, in cui il lavoro di Visconti sembra rimandare al suo contributo pioneristico in The Man who Sold the World.

In Blackstar, pubblicato due giorni prima della sua scomparsa, avvenuta com’è noto il 10 gennaio 2016, Bowie metterà in scena la sua stessa fine attraverso un album che, paradossalmente, grazie al sound aperto, caratterizzato dalle intuizioni improvvisative dei musicisti e dalla sua straordinaria performance vocale, sarà in grado proprio di eccedere ogni idea di chiusura e conclusione. Si tratta, va detto subito, di un disco importante e di un esito musicale tra i maggiori e tra i più significativi del nuovo millennio, per una molteplicità di motivi.

La band composta di jazzisti della scena downtown newyorkese, con cui Bowie entrerà in contatto grazie al suo lavoro con l’orchestra di Maria Schneider per Sue (or in a Season or Crime), è tra le migliori che Bowie abbia mai avuto. Blackstar è uno dei pochissimi dischi di avant pop e più in generale di popular music in cui il sassofono e in particolare il sassofono di Donny McCaslin trova una sua dimensione ideale, libera, per certi versi imprevedibile, come dimostra del resto la lunghissima traccia d’apertura che dà poi il nome al disco, dove è il sassofono, ribattendo pochissime note, a trasportarci dalla prima sezione up-beat alla sezione conclusiva più dilatata e narrativa. Nella seconda traccia – ‘Tis a Pity She Was a Whore – McCaslin sarà invece il protagonista assoluto della tela sonora bowiana, articolando un complesso solismo cromatico, fatto di note incerte, interrogative, che nei minuti conclusivi del brano ci portano in territorio free, per rientrare poi in un spazio contrappuntistico sempre, va detto, poco convenzionale.

Lazarus, forse il più celebrato brano del disco, vive sin dalle prime battute del prezioso lavoro di basso di Tim Lefebvre che si muove qui tra frequenze iper-low e una grana sonora preziosa e leggera – suggerita dall’uso del plettro (in un omaggio quasi dovuto al Peter Hook dei Joy Division) – in grado di valorizzare la figura melodica d’apertura (che ricorda il brano She Lost Control dei Joy Division) e l’elegante intervento solistico in chiusura.

In tutto ciò non si può non fare riferimento al ruolo di Bowie che al di là dell’intelligenza letteraria di questa sua ultima visione, è davvero unico per la sua capacità di vivere – qui più che altrove – la musica come teatro, giocando con maschere sonore di ogni tipo, che se da un lato danno corpo al suo virtuosismo e alla sua padronanza vocale in un periodo di drammatica sofferenza fisica, dall’altro lasciano spazio al corpo in quanto spazio grottesco e risorsa carnevalesca, come nei secondi iniziali di ‘Tis a Pity She Was a Whore che registrano, si è detto, suoni legati all’articolazione all’interno della cavità orale.

Una scena sonora simile la troveremo in Dollar Days dove i suoni altri, imprevisti e non autorizzati, sembrano essere quelli di un foglio di carta, (o forse di un testamento) e di un sospiro che precede probabilmente il momento creativo, quasi a voler suggerire l’idea di musica e di vita in quanto forme di scrittura, proiettate verso un tempo a venire. È questo il brano in cui Bowie guarda a se stesso come attore, artista, performer, in breve come scrittore in grado di distaccarsi da una certa declinazione del passato e proiettarsi verso uno spazio utopico e affermativo che è quello di una vita oltre ciò che sembra morte (e più in generale negazione). Qui al di là del bel melodismo introdotto da McCaslin e che funge quasi da cornice del brano, colpisce e per certi versi sconvolge l’eleganza e l’intelligenza del chitarrismo di Ben Monder, degno erede, in questa sede, di Torn nella sua capacità di commentare e sintetizzare in pochissime note e figure di chitarra elettrica (che sembrano qui rimandare oltre che a Torn anche a Frisell), il senso della narrazione verbale bowiana su uno sfondo, su una tela solida, apparentemente umile e assolutamente preziosa di chitarra acustica.

A mesi (probabilmente anni) dalla sua scomparsa, è possibile a nostro avviso ritrovare Bowie e ritrovarsi 
nell’ascolto di I Can’t Give Everything Away, in quanto ultima traccia del suo ultimo disco; è questo probabilmente il brano che ci conferma che Blackstar è in realtà 
un disco che (come per certi versi tutta l’opera di Bowie) non finisce, non si conclude, ma proietta necessariamente verso un tempo a venire, verso un altrove che qui trova la forma di un drone di sintetizzatore – che ricorda molto quello spazio, caro al Bowie del primo periodo – e che funge da paesaggio sonoro accogliente, in grado di sonorizzare le complesse emozioni di chi ascolta un disco intenso come (Blackstar). C’è poi anche qui, forse più che altrove, la grana vocale di Bowie: quei ritmi, quelle inflessioni e quegli accenti irripetibili e drammatici che, come abbiamo visto, hanno fatto di Bowie un attore unico nella storia della musica contemporanea. È possibile, quindi, pensare l’afterlife di Bowie proprio a partire dal tappeto sonoro e dal tacere (vocale) che ritroviamo in coda a questa sua ultima traccia; è proprio partendo da qui, da questo spazio marginale, che possiamo incidere con Bowie e attraverso Bowie un’altra storia, un’altra narrazione in grado di eccedere il tempo piccolo della morte.

* Il testo, proposto per gentile concessione dell'editore, è tratto da: Pierpaolo Martino, La filosofia di David Bowie, Mimesis, Milano 2016.

English Abstract

Approaching Bowie's music in theatrical terms means to translate his work into a sort of dialogue between dialogues where music interrogates other art forms and in which images, sounds and words constantly redefine themselves. Identifying the relationship between Wilde and Glam Rock and the collaboration between Bowie and Lindsay Kemp – whose dissonant and contradictory poetics deeply influenced the singer himself – as point of departures, the book stands as an attempt to access Bowie's fascinating world of images, and to investigate the theatrical dimension of his lyrics, which are inhabited by many different masks and voices. The least studied aspect in Bowie's discourse is possibly his musical experimentalism and the sonic inventiveness, which lie at the core of his artistic philosophy and on which the last section of the present volume focuses. The main aim of the book is to let the reader understand how in Bowie's philosophy, music as theatre, is able to address the listeners' emotions, turning them into the true protagonists of the process of sense production.

keywords | Book extract; Mimesis; Bowie; Wilde; Kemp; Performance; Theatre; Music; Pop culture.

Per citare questo articolo: P. Martino, Voce, suono, sperimentazione. La musica di Bowie come teatro, “La Rivista di Engramma” n. 141, gennaio 2017, pp. 78-87 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.141.0005