"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

146 | giugno 2017

9788894840223

"Gli dèi hanno in mente qualcosa"

Intervista a Valerio Binasco su Fenicie, Teatro greco di Siracusa 2017

a cura di Antonia Di Rosa e Andrea Tisano

English abstract

Antonia Di Rosa, Andrea Tisano | I costumi della sua messa in scena sembrano alludere a un conflitto generazionale: Giocasta, vestita a lutto come un'anziana madre meridionale, le uniformi dei soldati, che rievocano momenti di oppressione militare (potrebbe essere l'Italia fascista, ma anche la Grecia dei colonnelli), i figli di Edipo, che invece hanno un habitus – atteggiamento e costumi – da giovani inquieti e ribelli nati dal '68. Eppure questa gioventù la vediamo bruciarsi sulla scena, finire nel fratricidio di Eteocle e Polinice. Le chiediamo: nella sua lettura di Fenicie c'è un'apertura costruttiva al futuro, o i figli sono destinati a commettere gli stessi errori dei padri? E qual è, in questa prospettiva, il ruolo di Meneceo e Antigone?

Valerio Binasco | A dirvi il vero non saprei cosa rispondere. I costumi di uno spettacolo teatrale possono obbedire a leggi espressive molto diverse: ci sono registi che amano definire con precisione il loro messaggio, e quindi usano il costume come una sorta di didascalia: costume cattivo se il personaggio è cattivo, eccetera. Io in genere non ho un messaggio preciso da comunicare, non sono molto attratto da queste cose. Mi attirano molto invece i comportamenti delle persone, mi piace raccontare storie che siano piene di sentimenti e umanità, di turbamenti psicologici, e non bado al contenuto storico o sociale delle storie che racconto. La società cambia continuamente, ma secondo me gli uomini sono sempre gli stessi, in ogni epoca e in ogni contesto. I costumi che abbiamo fatto per Siracusa sono in realtà molto casuali; così come spesso sono casuali gli abiti che le persone indossano nella 'vita'. I soldati sono soldati perché c'è una guerra in arrivo, anche se noi non vediamo nessun soldato che si sia sporcato con la polvere e il sangue della battaglia (a parte il Messaggero, che però fa un mestiere incruento, una sorta di cronista di guerra). Essendo una storia 'famigliare', che si svolge in un palazzo governativo, ho pensato che i soldati erano soldati da retrovie, ufficiali, impiegati come servitori. 

Se queste divise vi fanno venire in mente il fascismo o qualche altra dittatura militarizzata, è perché le dittature del secolo scorso si erano inventate una burocrazia 'marziale'. Gli stessi insopportabili piccoli uomini che affliggono con la loro mediocrità l'amministrazione pubblica di oggi, nelle dittature militari sarebbero in divisa. Non so se Tebe fosse un luogo piacevole dove vivere. So che era una monarchia. So che i due figli rivali erano dei guerrafondai. So che entrambi avevano il mito della morte violenta e dell'esercito. Avranno avuto di sicuro le loro buone ragioni (diciamo che era una famiglia difficile!). Ma sono sicuro che i corridoi del palazzo erano pieni di soldati in divisa. Inoltre il dio che sta alla base di tutta la saga dei Tebani è Ares. Vi risparmio i miei commenti in proposito (è un tema molto ricco e complesso), ma vi consiglio di leggere Un terribile amore per la guerra di James Hillman (v. in Engramma, la recensione del saggio).

Il fatto che Giocasta si metta addosso un vestito davvero casuale (una specie di vestaglia che il costumista in realtà aveva solo prestato a Isa Danieli mentre le provava delle vesti più sontuose da Regina … Io l'ho vista e ho preferito subito quella vestaglia nera, un po' sformata, agli abiti di scena più ricchi ed elaborati) dipende dalla sciatteria che spesso si accompagna al dolore. Una madre che soffre – e Giocasta è non solo una madre che soffre … vi invito a riflettere con empatia sul suo destino, fin da quando era ragazza … – non bada a ciò che si mette. Nemmeno se è una regina. È in lutto. Una persona in lutto prova uno segreto piacere a lasciarsi andare. Questo mi interessava di Giocasta. Non c'è nessuna nobiltà nel dolore. Il dolore fa male, e basta. Il resto è letteratura. O, peggio, teatralità. Il dolore non ama nessuna rappresentazione. Si rifugia nell'ombra, se può. Capisco che il teatro deve per forza fare un percorso opposto, e 'mostrarsi', ma è molto importante farlo con modestia e rispetto per la realtà dei sentimenti.

I costumi dei due fratelli sono ancora più casuali: Polinice (ci riferisce Euripide) è entrato in città di nascosto. Quindi abbiamo immaginato che avesse un abito qualsiasi, da uomo qualunque. Ecco perché ha un semplice abito da uomo, un po' malridotto per non sembrare nemmeno nobile.

L'attore – che invece deve recitare un sentimento opposto, cioè il suo aristocratico orgoglio ferito e il suo desiderio di essere Re – ha usato questo travestimento in modo molto efficace, perché si sentiva di dover reagire alla 'punizione' di indossare un vestito mediocre e anonimo, quando avrebbe voluto arrivare con una splendida divisa da comandante, piena di finimenti dorati (così lo descrive Antigone mentre lo spia sul campo di battaglia). È un abito che serve, dunque, a stimolare la recitazione. Se lo è inventato direttamente l'attore, durante le prove.

Stesso discorso per Eteocle. Se lo è inventato lui, sulla base di suoi ricordi personali. Aveva un nonno molto eccentrico (e molto importante per lui) che aveva fatto la guerra in Africa da comandante. Per vari motivi, questa figura famigliare ha accompagnato l'attore nella sua ricerca del personaggio. Allora gli ho detto di ricostruire – usando la fantasia – una divisa militare simile a quella che immaginava potesse essere quella di suo nonno quando era il capo dei 'suoi' guerrieri. Nel lavoro di fantasia dell'attore ci sono stati dei richiami abbastanza evidenti a film come Apocalypse now o ad altri riferimenti anni '70, ma ho pensato che se andavano bene per lui, sarebbero andati bene anche per Eteocle, e quindi anche per il pubblico.

Non lo so se i figli sono destinati a commettere gli stessi errori dei padri. Il destino dipende dagli dei, e dai loro incomprensibili progetti. Meneceo insegna qualcosa a suo padre. Ma è un insegnamento che fa trionfare la morte. Mi fa molta tenerezza, e volevo che anche il pubblico avesse tenerezza per lui. È l'unico eroe 'vero', in senso classico, del testo. Ma fa tenerezza come un adolescente confuso e disperato. 

Antigone fa invece un viaggio molto interessante: comincia lo spettacolo come una ragazzina, e finisce come una donna destinata a diventare un'eroina tragica. In un dramma pieno di odio, il suo tema è l'amore. Amava il fratello e ama il padre, più di ogni cosa. Più della vita stessa. Ma – a differenza di Meneceo – non sceglie la morte. Sceglie l'amore. Antigone è la speranza. È bello che una tragedia finisca con la speranza.

A. DR, A. T. | Notevole la sua scelta di abbattere la skene, e di tenere quasi tutti gli attori costantemente visibili, soprattutto Edipo, che interviene solo nel finale. Quali, dal punto di vista registico e drammaturgico, le ragioni di questa scelta?

V. B. | Niente di particolare. Ho deciso che non avrei voluto ingombrare quel meraviglioso palcoscenico con scenografie (muri, portoni, eccetera). A quel punto è sorto il problema: dove fare nascondere gli attori prima che entrino in scena? Ma presto ho pensato che era una domanda stupida: potevano benissimo non nascondersi affatto, e restare lì. Anche il fatto che lo spettacolo cominci con la luce del sole fa apparire perfettamente normale che non ci sia alcun artificio scenico, nessuna illusione. Gli attori sono lì, davanti a voi, come persone normali. Quando cominciano a recitare, il dramma si anima. Poi tornano a sedersi lì, tranquilli.

Mi pare una soluzione semplice e poetica, che toglie enfasi (l'enfasi secondo me è nemica del buon teatro ) e regala un'emozione in più. Un'emozione semplice e affettuosa, legata alla figura stessa di un attore cha aspetta il suo turno. Quale sia di preciso il nome di questa emozione, non so. Ma visto che mi dite che avete apprezzato, forse lo sapete voi meglio di me.

Edipo è il 'fantasma' di questa storia. Tutti si rivolgono continuamente a lui. Mi pareva importante che stesse sullo sfondo, come una figura che ha qualcosa di sacro, e di impenetrabile nella sua immobilità.

A. DR, A. T. | E proprio riguardo alla presenza sulla scena di Edipo, emblema – con la sua cecità – dell'accecamento morale della stirpe: com'è nata la scelta di un attore di nazionalità giapponese (Hal Yamanuchi)?

V. B. | Quello di Edipo è un piccolo ruolo, arriva solo nel finale ma richiede un interprete incredibilmente potente, serio e carismatico. Gli attori adatti a reggere il peso di un tale carisma di solito non amano fare piccoli ruoli. Ma per un attore straniero, il caso è diverso. Per Hal è stata una sfida eccitante la sua performance al Teatro greco.

Per Edipo mi occorreva anche qualcuno che arrivasse 'da lontano': Edipo appartiene a una storia diversa da quella dei suoi famigliari. Appartiene già al sacro e al mito. È anche uno straniero che è divenuto re in una patria che è sua solo per nascita, ma di fatto non è sua. Non è dilaniato da temi psicologici: è arcaico, pietroso, solido. È mosso da una tradizione espressiva molto diversa da quella degli altri personaggi del dramma, che Euripide delinea in modo molto 'contemporaneo', pieni di debolezze, di incertezze, di nervosa complessità. Edipo, no. Lui viene direttamente dal tempo eroico. Il tempo degli eroi finisce con Euripide. Ma Edipo è ancora lì, tra loro. Nessuno riesce a reggere il peso della sua estraneità.

Ecco perché ho pensato ad Hal. Inoltre ho pensato che fosse molto utile fare una sorpresa agli spettatori sul finale, quando l'attenzione cala naturalmente, per stanchezza. Anche coloro che possono non aver condiviso la scelta di avere un Edipo giapponese (ma perché poi? I Tebani sono forse Italiani? ) di sicuro hanno avuto motivo di prestare un po' di attenzione in più a una scena finale che solitamente viene considerata lunga e noiosa. C'è qualcosa di molto interessante nella severità espressiva degli attori giapponesi, capaci di fare pochi gesti, precisi ed eleganti, e di usare la voce in modo profondo e autoritario. Arcaico, insomma.

A. DR, A. T. | Il personaggio del Messaggero (e per certi versi anche del Pedagogo), caratterizzato da un abbassamento del registro linguistico, da un italiano tendente al dialetto, con la sua bonaria umanità sembra voler offrire un momento di comic relief nei momenti di maggior pathos. È una scelta registica che deriva dalla volontà di aderire al testo euripideo, o al contrario è stata pensata come una rottura, per straniare il pubblico? E se per straniarlo, in quale direzione?

V. B. | Tutte e due le cose. Mi pareva che Euripide avrebbe gradito un abbassamento del tono tragico in alcuni momenti, in quanto sono sicuro che avrebbe apprezzato la lezione di un suo collega di qualche secolo dopo, Shakespeare, che era maestro nel mischiare i toni alti e bassi, e riusciva addirittura a rafforzare l'emozione tragica con incursioni improvvise di personaggi 'bassi', popolani, buffi. 

Non è una scelta stilistica, al contrario, direi che la realtà è sempre straniante. Nella vita di ogni giorno c'è un continuo alternarsi di comico e di tragico, anche in situazioni impossibili. Questo è un aspetto della realtà che mi affascina molto – e cerco di portarlo in scena ogni volta che posso. A teatro si deve ridere e si deve piangere. Se si riesce a farlo nel corso di una stessa serata, vuol dire che lo spettacolo funziona.

Vorrei dire inoltre che per me la parola 'Messaggero' non significa nulla. È un personaggio tipico della tragedia classica, lo so bene, ma non posso accontentarmi di dargli un ruolo così letterario, e irreale. Mi sono dunque chiesto: chi è il Messaggero? uno che lo fa di mestiere? Cioè: è uno che va e viene dal campo di battaglia a fare resoconti di come vanno le cose? Un reporter ante litteram, insomma? E mi sono detto di sì. E ho immaginato che fosse un mestiere umile, affidato a persone tipo i cantastorie. Persone capaci di dare vita a un racconto popolare (quindi a modo suo enfatico, come nei 'cunti') e tradizionale. La tradizione popolare è piena di personaggi di questo tipo. Mi piaceva l'idea che fosse coinvolto solo fino ad un certo punto nella vicenda che deve raccontare. Ovviamente sa che la persona a cui riferisce tante disgrazie sta soffrendo. Ma non credo che soffra anche lui. Non ho mai sopportato i messaggeri che parlando di cose successe a gente che nemmeno conoscono, piangono e si disperano … mi tornano alla mente i becchini dell'Amleto, ma potrei anche riferirvi molti incontri fatti nella vita reale. Spesso il tragico viene raccontato da un comico. Magari un comico involontario, che non sa nemmeno di esserlo. Ecco, questo è il caso del mio messaggero. Un pover uomo, magari con figli a carico, che per mestiere deve andare dai re e dalle regine a riferire di come sta andando la battaglia. È un mestiere difficile, che forse ha ereditato da suo padre, popolano dotato di ricca favella come lui. A volte gli dispiace di portare solo brutte notizie. Durante una prova l'attore ha detto esplicitamente "mi dispiace". Io ho pensato che era un'idea fantastica. Lo penso ancora.

A. DR, A. T. | "We can be heroes, just for one day": la scelta del brano di David Bowie “Heroes” momento di catarsi che coinvolge scena e cavea durante l'explicit della tragedia, fa memoria di un dramma che incombe sull'intera casata che svolge la sua storia su un tappeto di sangue rosso e sporco, come lo sporco e rosso tappeto posto sulla cavea. Chi sono gli eroi per Valerio Binasco in questa rilettura della tragedia – eroi, seppure "just for one day"?

V. B. | Giuro che non lo so. Non ci ho mai pensato. O perlomeno – non ho mai pensato di dover rispondere a una domanda come questa in un'intervista. Ci provo: c'è un po' di hero in tutti noi, credo. Quando qualcuno vince la paura, quello è un eroe. Per essere eroi, quindi, bisogna avere molta paura. Più è grande, più sei eroe. Questo è il primo passo. 

Poi bisogna vedere cosa vuoi farci, con il tuo eroismo. Se riesci a liberarti della paura per fare qualcosa che aiuti il tuo prossimo, credo proprio che sei un vero eroe. Ma da qui in poi ognuno è libero di pensare quello che vuole. Per esempio sono certo che i bombaroli suicidi dell'Isis pensino di essere degli eroi. La materia è complessa. Chi si occupa di ecologia, oggi, è un grandioso eroe. Per me.

A. DR, A. T. | Dopo la prima di Fenicie a Siracusa, è arrivata la notizia che da gennaio 2018 Le verrà affidata la direzione artistica del Teatro Stabile di Torino. La nostra curiositas ci spinge a chiederle – l'impatto con il Teatro greco di Siracusa cambierà qualcosa nella sua concezione della regia e del rapporto con il pubblico?

V. B. | Vi dirò la verità, l'impatto con il teatro greco non è una piccola cosa. Succede qualcosa dentro a un regista (e ancor di più credo dentro a un attore).

Non è facile capire cosa sia, ma sento che sta lavorando dentro di me, e non smetterà tanto presto. Mentre stai su quel palcoscenico, cercando di prendere sul serio le emozioni che può suscitare in te, senti molto presto che nasce una sensibilità nuova, ma è difficile per me dire adesso quali corde intime stia facendo vibrare. Occorre forse un po' di distacco, si deve lasciar passare un pò di tempo. Non è un luogo normale dove lavorare. Ti pone problemi e domande molto complesse, e ti impone di lavorare su una drammaturgia che contiene dei grandi misteri. E contiene anche una magia: quella di aver superato i millenni, e di restare incredibilmente contemporanea.

Lasciarsi attraversare da questi misteri e da una magia così potente non è facile. Soprattutto se cerchi una via originale, intima e 'tua'. Certo, è un luogo benedetto dagli dèi. Ma gli dèi sono misteriosi e pericolosi. Il bene che ti fanno è così potente che può anche ucciderti. Del resto loro che ne sanno della morte? Tuttavia sento che per un artista il teatro greco corrisponde a una sorta di chiamata, e io ho una grandiosa voglia di seguirla. Ho provato una nuova sensazione di libertà creativa. Ovvio, la libertà fa anche molta paura. Chissà se diventerò un eroe. Non credo. Ma ci proverò. Il teatro greco ti chiede di fare i conti a viso aperto con la tua arte. È abbastanza incredibile che la nomina a Torino mi sia arrivata il giorno dopo il debutto. Mi sono detto: è evidente che gli dèi hanno in mente qualcosa. Se sia buona o cattiva, non si sa. Ma ho fiducia. In fondo, credo, continuare ad avere fiducia nel proprio talento e nella vita, è un piccolo eroismo. A presto.

English abstract

In this interview, the stage director Valerio Binasco exposes his approach to the space of the ancient theatre of Syracuse during the staging of Phoenissae. His answers explain the important function of the costumes, the choices regarding set-design, and above all offer a lively testimony of the rigor and passion in his style.

keywords | Fenicie; Euripides; Binasco; Aeschylus; Inda; Theatre; Syracuse.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.146.0003