"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

150 | ottobre 2017

9788894840261

Chiari e scuri del rebus

Stefano Bartezzaghi

English abstract

1. Il rebussista al buio

Sabato 12 aprile 1986, nella rubrica di giochi che teneva su La Stampa-Tuttolibri, Giampaolo Dossena raccontò di un certo ‘suo lettore’. Di norma il giornalista e letterato menzionava sempre il nome dei corrispondenti della sua rubrica e lo corredava del comune e della targa della provincia da cui ognuno di essi gli scriveva. In questo caso invece il ‘suo lettore’ restò anonimo. Quando Dossena riprese questo articolo per raccoglierlo in volume, ne spiegò la genesi e aggiunse che aver usato l’espressione ‘un mio lettore’ era stata una “comica inversione delle parti”. Fece così capire che questo suo lettore era in realtà uno scrittore, scrittore di cui casomai Dossena stesso era lettore.

Il titolo redazionale dell’articolo era: Un bel rebus per gingillarsi con le parole. L'argomento della conversazione che l’articolo riassumeva era infatti il gioco del rebus e Dossena raccontava en passant che il suo lettore era uso fare rebus, al buio, nelle ore delle sue insonnie. Per fare rebus qui non si intende risolvere rebus pubblicati da una rivista enigmistica bensì comporre propri rebus. Chi è del tutto digiuno di questa arte può pensare che la luce sia necessaria, poiché il rebus è costituito da una vignetta e farlo dovrebbe significare disegnarlo. Invece il lettore di Dossena non sapeva affatto disegnare, ma né ciò né il fatto di stare al buio poteva impedirgli di comporre rebus.

Questo vale per tutti gli autori di rebus, o rebussisti, e non era una specialità di quell’autore. La vignetta infatti non è il rebus, ma ne è il supporto materiale, qualcosa come una struttura superficiale, o anche un'esecuzione nel senso musicale. Diciamo che ne è la manifestazione e che molto raramente l’autore del rebus è anche autore della vignetta. Nella conversazione con Dossena, il suo lettore si dichiarava molto contento: aveva acquistato da pochi anni uno dei primi personal computer Macintosh in commercio e finalmente, grazie a un programma di grafica e disegno, poteva realizzare i suoi rebus, cioè manifestarli. Questo programma-protesi funzionava insomma come quegli amplificatori vocali che servono alle persone che hanno le corde vocali danneggiate. Tali persone non sono afasiche: nella mente possono progettare interi discorsi ma quello che non possono più fare è dare ad essi sostanza acustica. Esattamente come un rebussista che sa come si fanno i rebus ma non saprebbe come disegnarli.

Cos’è, quindi, un rebus? Cosa avveniva nella mente dell’insonne lettore di Dossena?

2. L’insonnia della lettura

A proposito di insonnie, Umberto Eco, che fra l’altro era un appassionato solutore di rebus, ha ricordato più volte quel che James Joyce diceva del proprio Finnegans Wake: che era un romanzo rivolto a un lettore affetto da una ‘ideale insonnia’. Un caso, ma Finnegans Wake è appunto un romanzo pieno di calembour che nella loro meccanica si possono avvicinare al rebus, fin dal nome Finnegan che in una delle interpretazioni consentite dal testo va letto come ‘Finn again’, dove Finn è il leggendario eroe irlandese di cui si attende il risveglio. Coincidenze e casualità, in cui la veglia (il voler non dormire) e l’insonnia (il non poter dormire) continuano a contendere alla razionalità diurna il dominio del senso.

Nell’insonnia, il lettore di Dossena non leggeva Joyce, e neppure Dossena: ciononostante possiamo dire che la sua era comunque una forma, sia pure molto particolare, di lettura. Fra i personaggi di cui questo lettore-scrittore aveva narrato nei suoi libri ora torna in mente il Ferrari, un ladruncolo milanese incontrato in prigionia alla fine della Seconda guerra mondiale. Il Ferrari passava il tempo in branda a leggere libri in tutte le lingue, tranne il russo “perché non lo capisco bene”. Non capiva neanche le altre: “ma leggeva ugualmente ogni libro, dal primo rigo all'ultimo, identificando con soddisfazione le singole lettere, pronunciandole a fior di labbra, e ricostruendo faticosamente le parole, del cui significato non si curava”.

Chissà se al lettore di Dossena tornava in mente il Ferrari quando, nelle proprie insonnie, leggeva non libri, non Joyce, non Dossena, ma qualcos’altro: perlopiù parole che gli apparivano in mente e si associavano e concordavano per proprietà non proprio sintattiche. La procedura era simile a quella del Ferrari: una lettura ridotta a compitazione, meno vicina a quella dei lettori che a quella dei ‘letturisti’ dei contatori dell’energia elettrica. Isolo una parola dal contesto, non bado al suo senso, guardo a come è fatta. Trovo la parola ‘esorcismo’. I casi sono due. O ne conosco il significato oppure no. Nel primo caso la considererò nel suo contesto e baderò solo al suo senso. Nel secondo caso sarò invece portato a soffermarmi sul modo in cui è formata. Il Ferrari ha perciò molte più probabilità, rispetto a quante ne abbia un teologo, di accorgersi che dentro all’esorcismo ci sono i ‘sorci’ (eSORCIsmo).

Le insonnie e le veglie dei rebussisti sono punteggiate da questo genere di scomposizioni mentali. Non parlo degli stati di veglia diurni, che usualmente i rebussisti passano a fare quel che devono. Ma so bene che anche in pieno giorno, al lavoro o ovunque si sia, può capitare di entrare in quella modalità cognitiva necessariamente trasognata in cui gli esorcismi non fanno venire in mente il diavolo (a cui sono legati per contenuto) bensì i sorci (a cui sono legati per espressione). Sono stati mentali in cui non si pensa al significato o (meglio) in cui il significato non riesce a velare (come invece fa di solito) la forma espressiva a cui è legato. Sono anche gli stati che conducono al lapsus (disse un giorno un’amica, presentandosi a una reception: “Dovrei avere una penetrazione in questo hotel”), o al gioco di parole (“È l'uomo che ha messo rat [topo] in rational”, come motteggia il compulsivo giocatore di parole, protagonista del racconto autobiografico di Saul Bellow: Quello con il piede in bocca). In questi stati la parola sospende la sua funzione segnica, di significazione. Ne emerge la sua appartenenza a un elenco di parole simili, e simili non per significato ma per forma espressiva [1]: appaiono così i sorci che abitano gli esorcismi, il rat che abita la rationality.

3. Pratica del rebus e del palindromo

A plausibile differenza del Ferrari, il rebussista coglie al volo il fenomeno che lui chiama ‘chiave’, e che deriva da una compitazione tecnica: la visione di una parola, o della parte di una parola, dentro a un’altra. A partire da una chiave come quella dei sorci nell’esorcismo cercherà di completare, con altre chiavi, una frase, secondo regole di sintassi specifiche dell'enigmistica italiana. Queste regole di sintassi prevedono la presenza di lettere-etichetta, restrizioni lessicali e semantiche sulla forma della frase risultante, altre specifiche tecniche che qui sarebbe ozioso elencare [2]. Ma in generale, quel che ne esce deve essere raffigurabile. Non è importante che l’autore del rebus sappia effettivamente disegnare, ma è importante che sappia immaginare una manifestazione figurativa per il suo rebus, come uno scrittore che desideri che dal suo romanzo sia tratto un film.

Il lettore di Dossena era anche un autore di palindromi, frasi che hanno la particolarità di poter essere lette anche da destra e sinistra, rimanendo uguali. Un suo esempio: “Ettore evitava le madame lavative e rotte”. Anche in questo caso, le parole si fanno figura, sia pure in un senso differente. Il palindromista inverte la sequenza delle lettere e non quella dei suoni, infatti quando rovescia ‘ics’ trova ‘sci’ (e non ‘ski’, come sarebbe se la retrolettura fosse condotta sui suoni).

4. Il ‘lettore’ svelato

Nel giugno del 1988 Giampaolo Dossena raccolse nella Zia era assatanata. Primi giochi di parole per poeti e folle solitarie (Theoria, Roma-Napoli) alcuni dei giochi linguistici che aveva condotto assieme ai suoi lettori nel libro. Al suo lettore rebussista dedicò l’ultimo dei diciassette capitoli [3]. Dopo aver ripreso il suo articolo di due anni prima, Dossena aggiunse che una sua lettrice dell’epoca aveva indovinato l'identità del suo lettore, e l’aveva a sua volta adombrata con un rebus in cui apparivano in sequenza: una pianta d’edera (allora simbolo del Partito Repubblicano Italiano), la Mole antonelliana e la cifra 6, in numeri romani. Dossena aggiunse che, esattamente un anno dopo l’articolo su Un bel rebus per gingillarsi con le parole, “il 12 aprile 1987 si lesse sui giornali una notizia per cui né io né altri potemmo più vederlo”, quel lettore. Questa specie di meta-rebus sull’identità del lettore era sempre più trasparente, ma il suo nome Dossena non lo fece qui, né nella seconda edizione del suo libro (Rizzoli-Bur 1991), bensì nel suo Dizionario dei giochi con le parole (Vallardi, Milano 1994). Si trattava di Primo Levi [4].

Nel 1986 Primo Levi aveva fornito uno dei suoi rebus completi di illustrazione a Dossena, che lo pubblicò su Tuttolibri e poi nei libri citati. Illustrazione “chiara, non bella da vedere”, commentò. Stilizzata e rigida, com’era tipico di quella fase pionieristica dell’iconismo informatico, possiamo dire trent’anni dopo: parlando cioè nel mondo in cui la qualità raggiunta dai dispositivi di produzione di immagini ci può far dimenticare la loro artificialità (e fa ritornare in circolo nozioni di naturalità, anzi di natura, che apparivano superate).

Non si conoscono altri rebus illustrati da Primo Levi grazie al suo computer. Questo unico è composto da due soggetti. In primo piano, a sinistra, abbiamo una lavagna su cui uno scolaretto (contrassegnato dalla lettera G) si protende a cancellare una lettera, biffandola con una croce (la lettera cancellata è una M). A destra e più sullo sfondo compare uno stagno su cui si vedono alcune anatre, una sola delle quali è nera (contrassegnata dalle lettere TE).

La prima lettura del rebus, quella che è correlata alla vignetta, dice:

G elide M; anitra scura TE

La seconda lettura (o frase risolutiva), quella che si ottiene ridistribuendo gli spazi bianchi fra le parole, è:

Gelide mani trascurate

5. Chiari e scuri del rebus.

Restiamo sul piano strettamente enigmistico del rebus, quello che corrisponde al rapporto di traduzione intersemiotica fra immagine e prima lettura. È un rapporto che dipende primariamente dalla finalità enigmistica del gioco, quindi dalla sua consistenza testuale interna, garantita dalla rispondenza alle regole di genere del rebus: solo in ultima istanza si preoccupa del realismo della scena che viene illustrata. Una ‘anitra scura’ è una ‘anitra scura’: questo richiede la chiave, questo realizza l’illustratore. Ma è vero che nell’Enciclopedia condivisa una ‘anitra scura’ che nuota assieme ad altre anitre che sono invece tutte chiare, non può che rimandare alla favola del Brutto anatroccolo.

Dal punto di vista del gioco, un’interpretazione del genere è aberrante: la favola di Hans Christian Andersen non è pertinente alla soluzione del rebus. Ma il gioco è pur sempre un testo. Per meglio dire, il gioco enigmistico è sempre un gioco sopra i testi e sopra la loro interpretazione. Il supplemento di significazione che non è funzionale al gioco, ma solo alla sua consistenza testuale, resta lì, e parla a chi lo ascolta.

Ancora più importante è la circostanza per cui, nel passaggio dalla chiave inventata dall'insonnia dell'autore alla manifestazione iconica, la vignetta dovrà dire di più di quanto non sia strettamente necessario alla parola. Se la lingua parla di un soggetto G che elide una lettera M, questo soggetto per la lingua può non avere altra forma di identità che il suo nome, ma nella rappresentazione figurativa dovrà essere un uomo, o una donna, o un ragazzo, o una ragazza, o anche solo una mano. Nella realizzazione scelta da Primo Levi per il suo rebus, è un bambino che cancella la M della parola ‘CAMPO’, facendola così diventare la parola ‘CAPO’ [5].

La vicenda del rebus e dell’intervista-fantasma di Dossena a Levi è rilevante per diverse ragioni. La stessa ritrosia dell’intervistato – una ritrosia parziale – rientra in un dominio di chiaro e oscuro, luce e ombra, che per altri versi è pertinente alla comprensione dell’opera leviana [6]. Si tratta di un’oscillazione, termine che è pertinente al funzionamento dei rebus come a quello di ogni gioco [7]. Anche veglia e insonnia, del resto, sono condizioni oscillanti fra un chiaro e un oscuro, non abbinano mai la condizione desta alla luce del giorno e il sonno al buio della notte.

Altrove si è esplorata la lunga consuetudine che, da Artemidoro a Sigmund Freud a François Lyotard e Jacques Lacan, si è stabilita fra rebus e sogno [8]. Nei domini preconsci e inconsci da cui entrambi promanano, avviene una trasfigurazione della lingua e una traslitterazione della figura che non rispondono ai canoni ordinari della comunicazione sensata. Nel caso del rebus, la comunicazione è dominata dai canoni del gioco: nessun enigmista chiederebbe: “perché G elide M?”; “perché anitra e non anatra?”; “di chi sono le gelide mani trascurate e cosa c’entrano nel contesto?”. Nel caso del sogno, semplicemente non c’è comunicazione, ovvero la comunicazione è infrasoggettiva, pura parole senza langue.

È però proprio in ambiti tanto marginali che possiamo osservare come una logica di trasformazione continui a ribaltare le parole sulle immagini e le immagini sulle parole: parole che vengono trattate come immagini e immagini che si traducono in linguaggio verbale, a ogni passaggio trasformandosi, frammentandosi, ricomponendosi, tuffandosi nel nonsenso della casualità e della combinazione, facendo riemergere un loro senso inatteso.

Rebus. Testo e disegno di Primo Levi ("La Stampa", 12 aprile 1986)

Note

1 | In lingua parlata ['I' = ‘eye’ in inglese: omofonia e non omografia], in lingua scritta [àncora/ancóra; omografia – se si omettono i segni dell'accento – e non omofonia] o in entrambe [‘agli’ sostantivo plurale e preposizione articolata; omonimia sia grafica sia fonica]. Nel modo in cui Ferdinand de Saussure articola la sua nozione di ‘rapporti associativi’ (in seguito detti ‘paradigmatici’) sono comprese anche le associazioni per somiglianza sul piano del significante; la linguistica successiva non ha tenuto conto di questo dettaglio, che apriva più di uno spiraglio a una considerazione non occasionale del gioco linguistico.

2 | Cfr. Stefano Bartezzaghi, Lezioni di enigmistica, Einaudi, Torino 2001. Nel caso di ‘esorcismo’, il “lettore” di Dossena compose un rebus di cui conosciamo la frase risolutiva, o ‘seconda lettura’: “Esorcismo strano”. Con ogni probabilità, la prima lettura era: “E sorci; S mostra NO”. Le lettere maiuscole sono i contrassegni dei soggetti che andranno raffigurati nella vignetta: una «‘E’ sui ‘sorci’ e una S su un soggetto colto nell'atto di ‘mostrare’ un oggetto ‘NO’ a qualcuno.

3 | A differenza dei primi sedici, quello finale era numerato non in cifre arabe bensì romane: xvii. Era probabilmente un’allusione all'anagramma di ‘xvii’, che è ‘vixi’ (in latino: ‘vissi’, e dunque ‘sono morto’), che dovrebbe essere la ragione per cui il 17 è considerato in Italia numero sfortunato.

4 |  Levi morì l’11 aprile del 1987. Il semplice rebus della lettrice di Dossena sul nome dello scrittore era composto da Pri [sigla del Partito simbolizzato dall'edera], Mole, VI. Su giochi e vocazione enigmistica di Primo Levi, cfr. Stefano Bartezzaghi, Scrittori giocatori, Einaudi, Torino 2010; Una telefonata con Primo Levi, Einaudi, Torino 2012.

5 | Su ‘campo’, cfr. Primo Levi, Opere complete, a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 2017, passim. Su ‘capo’, ‘kapo’, e le loro pronunce, vedi ivi I sommersi e i salvati: “Il termine tedesco deriva direttamente da quello italiano, e la pronuncia tronca, introdotta dai prigionieri francesi, si diffuse solo molti anni dopo, divulgata dall'omonimo film di Pontecorvo, e favorita in Italia proprio per il suo valore differenziale”. Pronunciando “kapò”, insomma, gli italiani allontanano da sé e dalla propria lingua il nome degli aguzzini, che pure era originariamente italiano. Devo a Domenico Scarpa l'osservazione sulla pregnanza dalle parole scelte apparentemente a caso da Primo Levi per il suo rebus.

6 | Domenico Scarpa, Chiaro / Oscuro, in Riga 13. Primo Levi, a cura di Marco Belpoliti, marcos y marcos, Milano 1997.

7 | Stefano Bartezzaghi, La ludoteca di Babele, Utet Milano 2016; Parole in gioco, Bompiani, Milano 2017.

8 | Stefano Bartezzaghi, Incontri con la Sfinge, Einaudi, Torino 2004.

English abstract

The art of composing rebuses (in the sophisticated Italian form) implies an analysis of the letteral composition of words and a study of global images. Since the time of Artemidorus’ Oneirocritica (2nd century CE), rebuses have been linked with dreams, as Sigmund Freud, François Lyotard, Jacques Lacan later confirmed. A semi-secret episode in the life of Primo Levi allows us to explore this enigmatic boundary between words and figures.

keywords | Rebus; Artemidorus; Primo Levi. 

Per citare questo articolo / To cite this article: S. Bartezzaghi, Chiari e scuri del rebus, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 1, ottobre 2017, pp. 83-90 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.150.0005