"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

169 | novembre 2019

97888948401

Il Villaggio nel bosco

Corte di Cadore: la costruzione di un paesaggio

Nicola Noro

English abstract

Io penso che ad indirizzare il mio modo di vedere le cose, a suggerirmi un atteggiamento di rispetto e amore per il paesaggio, a spingermi ad attribuire al paesaggio stesso un ruolo e un significato di preminenza, abbia contribuito non poco l’eccezionalità delle situazioni paesaggistiche del luogo in cui mi sono trovato a vivere e a lavorare.
Ed anche non sono state forse indifferenti le casualità e la repentinità dello sbalzo per cui mi son trovato in un ambiente del tutto nuovo, in montagna, dopo essere cresciuto al mare. Perché la novità dell’ambiente mi ha messo nella necessità di studiarlo a fondo, per capirlo e potervi, da architetto, operare (Gellner 1973, 2).

Con queste parole Edoardo Gellner (Eduard Walter Gellner, nato ad Abbazia nel 1909 e morto a Belluno nel 2004), architetto incaricato della realizzazione del Villaggio Turistico Agip di Borca, sintetizza efficacemente il suo approccio al paesaggio permeato da una ‘istintiva’ sensibilità verso gli elementi della natura (Gellner 1994, 39), derivata dall’aver sempre vissuto in contesti contraddistinti da un rilevante quadro ambientale – Abbazia e il Golfo del Quarnaro prima; Cortina d’Ampezzo e le Dolomiti poi – e maturata attraverso uno studio meticoloso finalizzato a un inserimento attivo e rispettoso delle realtà esistenti.

Oggi, nel visitare il Villaggio Eni, è subito evidente quanto stretto sia il legame fra architettura e natura: l’intero complesso si presenta infatti immerso in una fitta foresta di conifere che lo nasconde quasi completamente alla vista; dal fondovalle emergono solamente alcuni isolati elementi di particolare spicco, quali l’alta guglia del campanile, il tetto dell’Hotel Boite e parte del pergolato che cinge la Colonia. Il resto è praticamente invisibile.

Il padiglione centrale della Colonia illuminato, vista dall’Alemagna, foto di Nicola Noro, marzo 2019.

L’accesso – unico – si trova in prossimità dell’ex-stazione ferroviaria di Borca e risale il monte Antelao con una pendenza media del 6-8%: è il viale intitolato a Enrico Mattei, una strada di rapido collegamento con la statale sottostante, di otto metri di larghezza, sulla quale non si affaccia nessuna costruzione; percorrendola, mano a mano che ci si addentra nel bosco, si moltiplicano le diramazioni e si scorgono gruppi di case seminascoste in un – apparente – intrico che rende impossibile una percezione dell’insieme. In effetti non vi è nessun punto che permetta di cogliere, nemmeno approssimativamente, l’estensione del Villaggio – che copre circa duecento ettari – né i quasi quattrocento metri di dislivello fra la strada statale di Alemagna e il Campeggio – situato nel punto più alto dell’intero complesso – né le centinaia di edifici grandi e piccoli che lo compongono; la stessa vista aerea non offre una panoramica complessiva.

Questa progressiva e completa immersione in un contesto diverso e protetto rispetto al mondo circostante suscita lo stupore del visitatore, soprattutto quando dalla scala delle villette si passa a quella di edifici di tutt’altra – inaspettata – proporzione, come la Colonia, la Chiesa o gli alberghi. L’elemento che tuttavia più colpisce è che questo bosco, così rigoglioso al giorno d’oggi, negli anni Cinquanta, prima della costruzione del Villaggio, non esisteva: al suo posto vi era un’arida pietraia punteggiata da qualche rado e sparuto esemplare di pino silvestre.

La scelta del sito

L’8 Settembre 1954, mentre Gellner stava già lavorando alla realizzazione del Motel Agip di Cortina, l’ingegnere Dina, responsabile dell’Agip per le Tre Venezie, informò l’architetto che l’onorevole Mattei, presidente dell’Agip e dell’Eni, aveva intenzione di realizzare un centro vacanza in montagna per i dipendenti delle società del gruppo. Inizialmente a Gellner venne chiesta una consulenza in merito alla scelta del sito: erano già stati presi alcuni contatti con varie amministrazioni comunali che avevano offerto aree diverse e c’era la necessità di un professionista, interno al territorio, che sapesse fornire una valutazione affidabile su quale fosse la localizzazione più idonea a ospitare il futuro villaggio aziendale.

Dal quel momento si è innescato un “singolarissimo rapporto” (Gellner 1994, 81) che avrebbe impegnato intensamente l’architetto per circa un decennio – fino alla morte di Mattei nel 1962 – in un’avventura progettuale senza precedenti nella storia dell’architettura italiana del dopoguerra, coinvolgendo nella sua realizzazione alcune delle maggiori imprese del paese – Pirelli, Lanerossi, Arteluce, Richard-Ginori, ecc. – e importanti professionisti quali l’ingegner Silvano Zorzi e l’architetto Carlo Scarpa – già professore e amico di Gellner durante gli studi al Regio Istituto Universitario di Architettura di Venezia e co-progettista della Chiesa (Gellner, Mancuso 2000, 8). Il progetto originario di Mattei era di costruire il suo centro per le vacanze a Cortina d’Ampezzo, poiché desiderava che i suoi dipendenti, di ogni ordine e grado, potessero dire di essere stati in villeggiatura nella più prestigiosa località alpina del momento. Tuttavia, la renitenza degli Ampezzani – e della vicina San Vito di Cadore – abituati a un turismo elitario, a ospitare nel proprio territorio comunale un villaggio operaio, unita al frazionamento e all’elevato costo dei terreni, indussero Mattei ad aprire l’orizzonte verso altre zone, che dovevano comunque rimanere nelle Dolomiti, e attorno ai mille metri di altitudine.

La ricerca dell’area adatta alla costruzione del Villaggio si diresse lungo la Val Boite fino ad arrivare a Lorenzago, a Santo Stefano di Cadore, alla Val Visdende, a Sappada, a Pieve di Cadore, all’altopiano di Avvelengo sopra Bolzano e altre aree ancora. Tutte furono progressivamente scartate secondo una graduatoria stilata da Gellner sulla base della qualità paesaggistica, del clima, in particolare dell’insolazione, della praticabilità delle vie di comunicazione e dalla vicinanza ai paesi e alle località turistiche.

Fu così che il sito che totalizzò il punteggio maggiore risultò essere un terreno in Comune di Borca di Cadore, sul versante che digrada dal Pelmo, caratterizzato da un bel bosco misto e conosciuto con il nome di Nedui, a circa una decina di chilometri da Cortina. Individuata l’area iniziarono una serie di sopralluoghi per raccogliere i materiali da fornire all’Agip e intavolare gli accordi con l’amministrazione locale. Accadde però qualcosa di imprevisto, uno sguardo che si rivolge al versante opposto della valle, una nuova visione:

Durante una di queste visite in un tardo pomeriggio di autunno mi accorsi però del clima rigido del luogo, dovuto alla scarsa insolazione. Fu allora che guardando verso il versante opposto della valle vidi una zona alle pendici del monte Antelao ancora in pieno sole; si tratta di un’area per lo più arida e ghiaiosa, caratterizzata da una vegetazione rada e stentata, apparentemente inospitale anche a causa della mancanza d’acqua. In realtà solo la parte centrale a ridosso del canalone aveva queste caratteristiche: tutt’intorno si stendeva un fitto bosco misto di pino, abete e larice, mentre il fondovalle aveva grandi prati che fino a pochi anni prima erano stati utilizzati come seminativo; l’area, oltre a godere di un magnifico panorama sulla valle, presentava quindi una grande varietà di ambienti naturali (Gellner 2004, 29-30).

Questa la prima descrizione, nelle parole di Gellner, della Costa dei Landri, l’area su cui, di lì a poco, sarebbe sorto il Villaggio Eni.

La Rovina di Cancia, foto di Nicola Noro, giugno 2016.

La zona si presentava degradata e brulla, disboscata durante la Prima guerra mondiale e sovrastata dalla Rovina di Cancia – il canalone detritico dell’omonima frana; a predominare era la parte ghiaiosa che, anche a causa del forte soleggiamento, aveva finito con l’essere comunemente nota agli abitanti di Borca come il “covo di vipere” (Gellner 1994, 81). 

La propensione di Gellner per questo versante degradato della valle era solo in parte giustificata dai motivi funzionali di cui sopra (esposizione, vista, accesso, ecc.). Vi era infatti anche un altro fattore, del tutto personale, che scaturiva dalla particolare sensibilità dell’architetto: era la volontà di salvaguardare brani di natura di per sé eccezionali e ancora intatti, come appunto Nedui o la Val Visdende, preferendo intervenire su zone deteriorate nel tentativo di migliorarle attraverso l’architettura.

Appreso che il terreno in questione si trovava quasi interamente entro i confini di Borca – eccedendo solo in minima parte in Comune di Vodo di Cadore – e che ne era possibile l’acquisto, Gellner inizialmente approntò due progetti di massima, dei quali uno per l’area originaria dei Nedui, con il fine di fornire all’Agip motivazioni della sua decisione. Vinte alcune perplessità iniziali, la bontà della scelta venne approvata dallo stesso Mattei che, durante una prima visita in loco, si complimentò per la bellezza del panorama.

Vista dal Villaggio verso il monte Pelmo, foto di Nicola Noro, ottobre 2016.

Iniziarono così i lavori; in primis una attenta e dettagliata campagna di rilevamento atta a compensare l’insufficienza della cartografia disponibile in scala 1:25.000 dell’IGM e, soprattutto, a verificare la stabilità del sito tramite una serie di indagini geologiche sul canalone soprastante, corredate da carotaggi per permettere l’elaborazione di mappe del sottosuolo (un estratto della relazione tecnica fornita all’Agip dall’architetto il 15 Novembre 1954 è riportata in Gellner 2004, 41-43) e da un censimento di alberi e arbusti, necessario sia a stabilire il valore commerciale del legname da corrispondere al Comune, sia a comprendere la reale consistenza e varietà della copertura vegetale. La classificazione delle porzioni in base alla pendenza, all’esposizione, alla vegetazione, ecc. ha rappresentato una base concreta su cui impostare il disegno urbanistico generale nelle sue componenti del programma e del supporto viario.

Gli intenti iniziali prevedevano, secondo il programma del 1954: duecento casette unifamiliari isolate nel verde; una colonia montana capace di accogliere quattrocento bambini; un campeggio per duecento ragazzi con relativi impianti fissi; un albergo; una chiesa; un emporio aziendale, e una serie di attrezzature complementari – il tutto entro una superficie complessiva non inferiore ai sessanta ettari. Negli ampliamenti successivi, del 1958-59, gli ettari progressivamente divennero duecento, con una popolazione prevista di circa seimila persone, seicento villette, un aumento proporzionale dei posti letto alberghieri e del 50% per quelli relativi alla colonia (Gellner 2004, 47). Nonostante le imponenti dimensioni che il Villaggio stava via via assumendo, è comunque significativo soffermarsi su un particolare aspetto definito con chiarezza fin dal principio:

Proprio in questa primissima fase, quando si è trattato di passare dalla definizione del programma generale alla sua concretizzazione, ho posto in via preliminare un quesito ben preciso all’onorevole Mattei e cioè se il Villaggio avesse dovuto costituire un fatto visivo importante, dando peso alla sua lettura dall’esterno, dalla strada nazionale, dalla ferrovia, oppure se, in alternativa, rinunciando a velleità, diciamo, pubblicitarie, si avesse dovuto pensare ad un “sommesso” inserimento del complesso nel grandioso quadro naturale dominato dall’Antelao e mirare soprattutto alla creazione di un ambiente ideale per la gente che doveva trascorre un periodo di vacanze in stretto contatto con la natura. Mattei non ha esitato un attimo e mi ha risposto: “Vale la seconda interpretazione”. Ed è stato senz’altro questo il punto di partenza e il criterio guida per tutta la progettazione. Il progetto quindi è stato concepito per chi doveva andare a vivere nel villaggio e non per essere contemplato dall’esterno (Gellner 1994, 83-84).

Dunque Gellner propone l’idea di un impatto visivo “sommesso”, rivolto più alla fruizione dell’architettura che alla sua esibizione, e Mattei l’approva senza esitazioni: è questo un passaggio fondamentale per comprendere il perché, grazie a una precisa scelta di progetto e nonostante l’aridità assoluta della condizione iniziale del sito in cui è sorto, oggi il Villaggio sia, volutamente e completamente, scomparso nel bosco, e sia diventato quasi impercettibile dal di fuori.

Il come questo effetto si sia ottenuto in pochi decenni è dato invece da un insieme di concause, alcune appositamente pianificate, altre in parte impreviste e inattese; il risultato, comunque, è la piena riuscita dei due presupposti iniziali di non costituire un fatto visivo importante e di risanare una porzione di territorio abbandonata e degradata. Così Gellner:

In ogni fase dello studio di progettazione si è mirato a un unico fine: quello di poter inserire l’opera dell’uomo nell’ambiente naturale di eccezionale bellezza, se mai esaltandola con la creazione di un nuovo paesaggio costruito, cioè umanizzato; di poter inoltre dare al nuovo insediamento le condizioni di vita e l’atmosfera ideale per un soggiorno di vacanza (Gellner 2004, 47-48).

Non è da sottovalutare il fatto che, per Gellner, l’avventura di Corte rappresentasse fin da subito un’occasione irripetibile per mettere a frutto anni di studi e ragionamenti sul paesaggio e l’architettura di montagna in un ambiente vergine, privo di preesistenze edilizie e vincoli che non fossero quelli legati al clima e alla morfologia del sito. In altre parole, il Villaggio non fu progettato negli uffici romani dell’Eni, ma “pensato in montagna per la montagna” (Gellner 2004, 23): ciò poté realizzarsi grazie al rapporto personale e diretto instauratosi fra architetto e committente, consolidatosi durante le visite del Presidente dell’Eni al cantiere e, soprattutto, nei frequenti incontri informali in Alto Adige, nei pressi di Brunico o Dobbiaco. Era in questo clima “rilassato e familiare” che sono nate e venivano discusse le idee e le problematiche che stanno alla base dell’intero complesso.

Vie, infrastrutture, rete elettrica e materiali

L’impianto urbanistico del Villaggio è strutturato attorno alla rete stradale, gerarchicamente suddivisa in una strada principale, che sale dall’abitato di Borca, in strade residenziali che, diramandosi dalla principale, consentono di raggiungere i settori abitativi: queste strade hanno una pendenza costante superiore alla principale, del 10-12 %, e una larghezza varia dai 3,5 ai 5,5 metri a seconda delle necessità date dal volume di traffico previsto, dalla realizzazione di innesti o dalla presenza di parcheggi o tornanti. Ci sono poi stradine residenziali piane, private e a fondo cieco che danno accesso, ai soli residenti, a nuclei che vanno dalle sei alle dieci casette.

La progettazione delle arterie e delle venature stradali non ha rappresentato solamente l’atto di fondazione originario, ma è divenuta in se stessa un primo momento di confronto – e scontro – con la reale e accidentata conformazione del suolo. Oltre alle consuete norme tecniche di base, si è tenuto conto del paesaggio nel duplice aspetto della vista delle strade e dalle strade: per esempio, all’iniziale proponimento di limitare, se non evitare completamente, la realizzazione di muri di sostegno delle scarpate a favore di qualche movimento di terra, una volta giunti in sito si è preferito, all’opposto, scongiurare l’eccessiva violenza alla topografia del terreno – che si sarebbe avuta con il tracciamento di percorsi troppo rigidi e rettilinei – cercando una maggiore integrazione.

Tale scelta ha comportato la sistemazione del materiale di riporto in modo quanto più possibile naturale, l’inzollamento degli argini e il ripristino della vegetazione ad alto fusto, oltre a uno specifico ragionamento sui muraglioni – resisi imprescindibili – in modo che questi assumessero un valore architettonico in sé compiuto, mitigandone l’incombenza e l’aggressività visiva attraverso una serie di accorgimenti, quali l’andamento indipendente dall’asse stradale con setti orientati secondo multipli di quindici gradi rispetto al Nord – norma che vige per tutti gli allineamenti delle costruzioni del Villaggio – con pendenza delle facciate del 20 %, coronamento sempre orizzontale e distacco alla base, rispetto alla carreggiata, con interposta scarpatina di verde.

A queste prescrizioni si aggiungeva quella di eseguire i muri con un impasto grossolano di conglomerato di calcestruzzo, armato con sciàveri, in modo da ottenere una superficie scabra e marcata da solchi orizzontali irregolari che, attraverso il passare tempo, permettesse a muschi, licheni, fiori o salici nani di attecchire, facendola così scomparire e confondere fra le rocce vive e la vegetazione.

Trame murarie, foto di Nicola Noro, ottobre 2016.

Nonostante la raffinatezza della soluzione individuata, il risultato sarà mal interpretato e considerato come un avanzamento del degrado: le successive direzioni del Villaggio provvederanno alla ripulitura dei setti mediante sabbiatura, faranno sigillare le fessure e ridipingere il tutto di un color grigio chiaro uniforme, esibendo così in modo netto il calcestruzzo e contribuendo all’impressione odierna, del tutto fuorviante, di un Gellner brutalista e “amante del cemento”, quando, originariamente, trama e materiale erano stati appositamente pensati proprio per mimetizzarsi con l’ambiente naturale (Gellner 1994, 134-135).

Tornando alle strade in sé, tracciandone il percorso si è costantemente considerato “il succedersi e il variare continuo delle immagini panoramiche rispetto a un punto di vista dinamico e diversa velocità pedonale e automobilistica” (Gellner 2004, 51-52), disegnando delle curve che, di volta in volta, immettendosi nel bosco o allontanandosene, aprissero la visuale verso la valle o nella direzione degli edifici principali – come la Chiesa o gli alberghi – divenuti episodi visivi.

Alla rete stradale si affianca quella dei sentieri – e dei percorsi pedonali in genere – che rappresentava il vero sistema viario del Villaggio in grado di collegare rapidamente, nel senso della massima pendenza, con punte del 18-20 %, le varie zone residenziali al centro sociale – irrealizzato – e agli edifici comunitari, escludendo l’incrocio con il traffico veicolare mediante la realizzazione di sopra e sottopassaggi e offrendo apposite zone di sosta in punti panoramici d’interesse.

Trovandosi a creare un insediamento ex-novo in una zona arida e caratterizzata da un terreno fortemente permeabile che escludeva la possibilità di rinvenire delle sorgive, un’altra delle questioni primarie da risolvere era come portarvi l’acqua. 

Nel caso delle pendici dell’Antelao, le ricerche si sono spostate sul lato opposto della valle, sul versante orientale del monte Pelmo, dove si è vista la possibilità di captare l’acqua di un gruppo di sorgenti site a 1560 m s.l.m. – a pian de Madier – mediante una serie di tubazioni interrate, lunghe complessivamente quindici chilometri, che scendono fino a fondovalle per raggiungere un torrino piezometrico posto a quota 1330 m s.l.m. – nella parte più alta del costruendo villaggio – e in grado di servire le varie zone residenziali con una rete idrica “a terrazze”, ove il carico viene frazionato con vasche di interruzione a dislivelli di circa cinquanta metri e disposte a cascata, superando il problema delle notevoli differenze altimetriche fra le parti e della maggiore richiesta idrica relativa ai sevizi collettivi e alla Colonia concentrati nella parte più bassa del villaggio e servite da una apposita rete chiusa ad anello (Gellner 2004, 71).

Vista la disomogenea consistenza dei terreni e delle funzioni degli edifici, sono stati inizialmente predisposti dei collettori per la raccolta delle acque reflue solamente in prossimità della Colonia e delle costruzioni maggiori, mentre per le villette, ubicate su uno strato fortemente permeabile di origine detritica, si ritenne sufficiente la semplice dispersione tramite dei pozzetti perdenti – ogni casa era dotata di una fossa settica per la purificazione.

Successivamente, a causa di alcuni fenomeni di impermeabilizzazione causati dall’utilizzo dei moderni detersivi a base chimica, si è reso necessario convogliare tutti gli scarichi in un condotto fognario; tuttavia l’iniziale dispersione aveva già – volontariamente – innescato un processo di irrigazione uniforme svolgendo una funzione simil-fertilizzante in grado di trasformare radicalmente l’assetto dei terreni, della vegetazione e, in generale, il microclima di Corte (Gellner 2004, 152).

Soluzioni tecnologiche avanzate e compatibili sotto il profilo paesaggistico sono state utilizzate non solo per l’approvvigionamento idrico, ma anche per quanto riguarda la rete di distribuzione GPL AgipGas, che avviene tramite un’unica centrale di stoccaggio – costituita da due serbatoi e apposite apparecchiature di travaso e prelievo, riduttori di pressione, pozzetti di riduzione e regolazione – in grado di alimentare, attraverso una rete interrata, tutte le utenze previste a bassa pressione, ammortizzando i costi che si sarebbero avuti mediante l’allora consueto sistema delle bombole o l’inquinamento atmosferico che sarebbe conseguito alla iniziale proposta – fortunatamente bocciata – di realizzare tante piccole centrali a gasolio, disseminate nel bosco, per il riscaldamento a gruppi di poche case (Gellner 2004, 73).

Alla realizzazione della rete elettrica è legato un episodio molto interessante, raccontato sempre da Gellner, che ben restituisce la tonalità della relazione dell’architetto con Mattei:

La rete di distribuzione dell’energia per me doveva essere sottoterra; per il responsabile della realizzazione delle opere nel villaggio doveva invece essere aerea. Sosteneva che era suo dovere fare gli interessi della sua azienda ed economizzare. Così il primo gruppo di casette era costipato di pali e intrecciato di fili. A una delle prime visite di Mattei a Corte di Cadore, lo conduco intenzionalmente in una di quelle casette; egli si affaccia sul ballatoio per contemplare il paesaggio, la maestosità del Pelmo, ma il panorama era sfregiato da un primo piano di isolatori, fili. “Che cosa è questa… porcheria (mi pare abbia detto proprio così), via! sottoterra!” (Gellner 1994, 135).

Contro le istanze economiche della direzione, vince – grazie alla lungimiranza di Mattei – la difesa della qualità del progetto, che è anche difesa dell’estetica del paesaggio.

Così, benché la rete ad alta tensione sia aerea, chiusa ad anello e mimetizzata tramite percorsi sinuosi – onde evitare tagli rettilinei attraverso le aree boschive – e le anfrattuosità del terreno, le reti in bassa tensione sono completamente costruite da cavi interrati con un importante guadagno estetico a favore dell’intero villaggio che, in questo modo, si presenta del tutto libero dal groviglio di pali, fili e isolatori altrimenti necessari all’alimentazione elettrica delle singole villette.

L’interramento degli impianti tecnologici è una costante che si ritrova in tutto il Villaggio: quelli relativi alla Colonia, per esempio, sono nascosti nelle rampe di collegamento fra i vari padiglioni e nei sottotetti – sempre accessibili – con un costo iniziale sicuramente elevato, ma reso possibile grazie alla lungimiranza e alla disponibilità pressoché illimitata del committente, garantendo così una più efficace protezione e un notevole incremento della funzionalità degli impianti stessi.

Forma, colore e vegetazione come elementi di progetto

La stessa attenzione, posta nella risoluzione dei problemi legati alla scala del paesaggio, si ritrova anche nella definizione dei singoli edifici e nel loro inserimento – a riprova del cosiddetto approccio multiscalare di Gellner (Gellner 1994, 121). 

Significativi alcuni ragionamenti legati alla collocazione e al disegno della Chiesa che, dovendosi trovare al termine dei percorsi pedonali che avrebbero collegato gli edifici al centro sociale e dovendo fungere da fulcro per l’intero Villaggio, giace in posizione di rilievo, lievemente spostata rispetto al culmine di un’altura che si è voluto preservare come brano di intatta natura. Essa presenta la caratteristica forma architettonica a capanna con falde ripide, a sessanta gradi, simili a quelle del padiglione centrale della Colonia, a quarantacinque gradi. È proprio grazie alla forma della copertura, enfatizzata dal castello delle campane a giorno e dalla guglia di sessantotto metri, che la Chiesa si eleva a simbolo alla scala del paesaggio, evidente – ancora oggi – da ogni punto dell’area e della valle.

La guglia del campanile, foto di Nicola Noro, ottobre 2016.

Il Centro sociale, irrealizzato, avrebbe dovuto arricchirsi – secondo i programmi originari – di una serie di servizi collettivi a uso non solo dei villeggianti, ma dell’intera Valle del Boite che, se si escludono Cortina e San Vito di Cadore, già negli anni Cinquanta presentava evidenti segni di spopolamento e, per quanto riguarda Borca e Vodo, la mancanza di un vero e proprio centro civico; per questo motivo, e per le dimensioni che avrebbe dovuto avere, se ne era previsto lo sviluppo nella parte più meridionale del Villaggio, relativamente vicino alle vie di comunicazione principali – strada statale e ferrovia – e all’abitato storico, in prossimità dell’altro gigantesco organismo architettonico rappresentato dalla Colonia.

La Colonia, ipotizzata per ospitare contemporaneamente turni di quattrocento bambini e, in seguito, ampliata fino a seicento – oltre al personale di servizio – è apparsa fin da subito come un’enorme fuori-scala che, per la propria mole e per le caratteristiche dell’ambiente naturale, non avrebbe potuto tradursi in un fabbricato unico, impossibile da inserire senza arrecare disturbo al paesaggio e alla configurazione urbanistica del resto del Villaggio. Scrive Gellner:

L’area di 6,5 ettari sulla quale sorge il complesso della colonia presentava in origine una notevole diversità: zone a vegetazione rigogliosa di alto fusto (abeti, pini, larici) alternate ad altre con vegetazione più magra di pino silvestre, ugualmente bella; zone costituite da depositi di ghiaie anche consistenti. Nella progettazione del complesso queste preesistenze hanno avuto parte importante, in quanto si è cercato di piazzare gli edifici sulle zolle aride per salvare invece le consistenze di vegetazione di alto fusto. Il numero e la mole dei diversi padiglioni erano infatti tali da destare qualche preoccupazione nei riguardi di un loro inserimento nel paesaggio. A tale scopo la morfologia del luogo, caratterizzata da un terreno mosso e forti dislivelli, con una vegetazione densa alternata a prati e radure, è stata assunta come dato di progetto. Il verde individuato nei suoi campioni più interessanti, è diventato l’“arredo” principale degli spazi esterni, su scala diversa e maggiore rispetto alle zone residenziali, in rapporto al maggior volume degli edifici. La più o meno importante densità del verde ha avuto inoltre un decisivo influsso sull’architettura stessa, che nella sua trama si è fatta complessa e ricercata in zone aperte a vegetazione bassa e rada, mentre è diventata scarna e più rigida nelle grandi quinte a ridosso delle isole di bosco fitto e rigoglioso (Gellner 2004, 119).

Nel brano riportato, Gellner anticipa alcuni importanti criteri alla base di tutta la progettazione esecutiva del Villaggio e della sua unità formale, ossia l’impiego della vegetazione e degli altri elementi naturali – siano essi rocce affioranti o particolari movimenti del terreno – come fattori di arredo urbano, per giunta vincolanti al posizionamento dei corpi costruiti, assieme all’utilizzo degli stessi materiali e lavorazioni, in tutto il complesso. I due requisiti sono legati biunivocamente perché alla ripetitività dei modelli architettonici si contrappongono il carattere accidentale e il dinamismo tipici del paesaggio naturale, dando vita a una molteplicità di combinazioni tale da annullare ogni possibile effetto di monotonia. Infatti, l’assunzione dell’orografia del suolo e dell’alternanza fra boschetti – più o meno fitti – e radure come dati progetto, ha permesso di ottenere dei risultati sempre diversi, nascondendo o ponendo in evidenza alcuni specifici elementi a seconda della maggiore o minore presenza di verde (Gellner 1960, 46).

Un discorso a parte merita l’impiego dei colori primari applicati alle facciate degli edifici, ossia il rosso, il celeste e il giallo affiancati alle tinte neutre – il verde manca completamente in quanto già presente in proporzione dominante in natura – finalizzati a rendere gioiosa e vivace l’architettura di un villaggio destinato al tempo libero (la fonte della consapevolezza precisa sulla scelta della tavolozza cromatica si ricava in una intervista inedita a Edoardo Gellner, a cura di Vincenzo Gandolfi, del 1989, conservata all’Archivio Storico Eni, parzialmente riportata in Deschermeier 2008, 91). Sulla scelta di un uso così consistente del colore, è lo stesso Gellner a richiamare la profonda influenza derivata da una conferenza tenuta da Richard Neutra a Torino nell’ottobre del 1956: in questa occasione, attraverso le diapositive, al pubblico italiano era concesso per la prima volta di scoprire i cromatismi impiegati dall’architetto viennese nelle sue opere, letteralmente trasfigurate dagli accostamenti, alle volte anche violenti, tra giallo, rosso, viola e azzurro adottati nelle ville realizzate nel deserto californiano e, fino a quel momento, conosciute solo nelle riproduzioni in bianco e nero (Gellner 1994, 90).

Nel Villaggio – sia nelle villette che nella Colonia – gli stessi colori usati all’esterno si ritrovano anche all’interno: in particolare, nelle singole abitazioni la scelta di una determinata gamma cromatica – che restava uguale in tutti gli ambienti della casa – diventava anche un elemento fondamentale per creare, nella ripetizione, un certo dinamismo, pur contraddistinguendo ogni singolo nucleo con una tinta dominante al fine di accentuarne la compattezza. Inoltre, spaziando con lo sguardo dal fondo-valle verso l’Antelao – in anni in cui ancora il bosco non risultava denso ai livelli odierni – le colorate linee sottili rappresentate dai primi lotti di ville erano in grado di suggerire l’immagine di un prato fiorito, creando in tal modo un particolare effetto visivo che fungesse da punto di riferimento nel paesaggio, senza sembrare elemento di disordine. Per quanto fosse un fattore caratterizzante, l’uso del colore era comunque sempre subordinato alla vegetazione, passando da tinte sgargianti a tinte neutre in corrispondenza della presenza di verde naturale, vero protagonista del cromatismo del Villaggio.

Giochi di cromie nelle rampe delle Colonia, foto di Nicola Noro, ottobre 2016.

Così, come per la Colonia si scelse di posizionare gli edifici in corrispondenza dei vuoti, per le ville – e il resto delle architetture – si seguì lo stesso, rigoroso, meccanismo affiancando delle costanti verifiche sul posto ai disegni eseguiti in studio: le tavole planimetriche fornivano solo una previsione di massima che, riportata sul terreno tramite picchetti e sagome d’ingombro, consentiva gli aggiustamenti necessari a un perfetto inserimento delle costruzioni.

In tal modo l’emergere di un masso di dolomia o la presenza di un pino spontaneo portavano al riposizionamento degli edifici in modo da preservarli e, ove possibile, valorizzarli integrandoli – come avviene per alcune rocce grandi quanto le case – nelle abitazioni stesse, oppure configurandoli come punti di aggregazione per l’unità di vicinato tramite l’aggiunta, per esempio, di sedute e illuminazione pubbliche o, anche, come piccole rotatorie qualora la loro presenza avesse rappresentato un ingombro al tracciamento delle strade (Gellner 1994,130-131). La conferma di questo preciso modus operandi arriva direttamente da Gellner:

Quanto all’azione svolta sulla preesistenza di verde, essa non si è limitata soltanto a una sua integrale conservazione, che è il metodo comunemente praticato quando si vuole il rispetto del verde. In alcuni casi la vegetazione ha subito qui sostanziali modifiche: sono stati messi in evidenza certi pini silvestri di uguale conformazione mediante il taglio di altre essenze oppure, con metodo opposto, a un unico pino silvestre superstite si sono accostate nuove piante di essenze similari (pini austriaci e abeti). Elementi naturali, quali una roccia affiorante con un gruppo di alberi, opportunamente isolati, sono diventati vero e proprio “arredo” di spazi esterni, delimitati dai gruppi di case delle zone residenziali (Gellner 2004, 66).

L’attenzione alla preservazione della vegetazione autoctona, specialmente laddove era più rada, e la volontà di porla in risalto anche mediante azioni di sfoltimento o integrazione, hanno mantenuto un grande peso durante tutte le fasi di progettazione. Dalle pagine dei suoi diari, Gellner dichiara esplicitamente di aver avuto particolarmente a cuore proprio certi pini silvestri storpi e malcresciuti in grado di ricordare gli analoghi esemplari miniaturizzati dei giardini giapponesi e di aver sottoposto le imprese di costruzione a pesanti sanzioni per ogni albero o arbusto tagliato senza la sua autorizzazione (Gellner 1994, 87).

Varianti in corso d’opera

È probabilmente nello sviluppo per lotti successivi delle villette che la questione legata all’inserimento dell’architettura si evidenziò maggiormente: se da un lato si voleva permettere all’ospite di vivere una sensazione di connessione con la natura e di evasione rispetto all’ambiente urbano, dall’altro si temeva un’eccessiva dispersione che, per contro, avrebbe potuto portare a una sorta di disorientamento. In questo disegno si pongono la configurazione della vegetazione come elemento di arredo essenziale e la creazione di unità di vicinato, in grado di garantire al tempo stesso sia il rispetto della propria privacy, sia un rapporto visivo con il resto del nucleo – fattori che restano in continua evoluzione durante e dopo la progettazione e la realizzazione del Villaggio e che, sebbene sperimentati fin dalla prima lottizzazione, finiscono per assumere caratteri diversi da zona a zona.

L’iniziale preoccupazione “di disseminare su una vasta zona – anche se in parte si sarebbe riusciti a nascondere le costruzioni nelle pieghe del terreno – centinaia di villette che potevano dare l’idea controproducente di un accampamento o di qualcosa di simile” (Gellner 1994, 84) genera la maggior varietà tipologica del primo lotto di cinquanta case, edificato fra il 1955 e il 1956, l’unico in cui si riscontrano la presenza di alcune casette binate – disassate ma con una parete in comune e con uno dei due edifici a sole due campate per quattro posti letto, contro le canoniche tre campate e posti letto variabili da sei a otto – murature portanti perimetrali in pietrame faccia a vista, caminetti, pannelli di tamponamento prefabbricati sul fronte nord e intelaiature a sbalzo in acciaio su quello sud, oltre a buon numero di variazioni cromatiche e di varianti sul tema dei poggioli che, in alcuni casi, mancano del tutto o lasciano il posto a una veranda.

Nelle lottizzazioni successive, susseguitesi fino al 1963, molte di queste diversificazioni e combinazioni sono scomparse, in favore della riduzione a due sole tipologie che si distinguono essenzialmente per la diversa altezza rispetto al piano stradale, dovuta all’aggiunta di un’autorimessa – non presente nel primo lotto – in posizione laterale o sottoposta al blocco abitativo, per la presenza di alcune casette di dimensione maggiore a quattro o cinque campate, per la differente foratura delle murature piene in calcestruzzo, per i diversi abbinamenti cromatici e di tipi e lunghezze dei parapetti dei poggioli.

A determinare questa semplificazione è stato – oltre al costo non ridotto in proporzione alla minore capienza di posti letto evidente soprattutto nelle villette a due campate – il fatto che Gellner si accorge che il particolare ambiente naturale caratterizzato dalla presenza di piante ad alto fusto e da una morfologia del suolo tale da frammentare la lettura dell’insieme, annullava concretamente il rischio di avere un’atmosfera monotona in cui fosse avvertibile il costante ripetersi di tipi uguali: Zevi, nel saggio Una cascata di villette tra le nevi del Cadore, paragonerà la vista dell’insediamento dal fondovalle a una cascata di villette che scende dalla montagna apprezzandone l’accesa vivacità che non scade nel pittoresco (Zevi 1958, 158).

Le Ville del primo lotto, foto di Nicola Noro, settembre 2016.

Inoltre, rispetto all’area del primo lotto, collocata sull’arida pendice di un grande conoide di detriti di falda, dove la vegetazione era rada e stentata e omogenea la pendenza del terreno, le zone in cui sono sorti i nuovi insediamenti erano generalmente caratterizzate da una conformazione del suolo più varia e da una presenza di verde sensibilmente più fitta, tale da permettere all’architettura di farsi più “scarna e rigida”.

La ripartizione delle lottizzazioni prolungata negli anni ha consentito a Gellner di perfezionare di volta in volta le scelte fatte in precedenza, così – per esempio – le stradine a fondo cieco che conducono alle abitazioni sono diventate sempre più raffinate, dotandosi di spazi di aggregazione, posti auto aggiuntivi, per terminare con una rotatoria e configurarsi, sempre di più, come dei micro quartieri. Tuttavia, il cambiamento più radicale avviene proprio fra il primo e il secondo lotto quando si è deciso di abbandonare completamente l’utilizzo della prefabbricazione pesante di pannelli in calcestruzzo cellulare in favore di una nuova tecnica più artigianale.

Il sistema adottato permise una notevole riduzione dei costi che derivavano dalla distanza dai centri di produzione, dall’impossibilità – a causa del terreno accidentato e della fitta vegetazione – dell’uso di macchinari adeguati al trasporto e al sollevamento dei pezzi, dalla mancanza di una rete viaria sufficientemente ampia, dalla difficoltà di manutenzione dei pannelli prefabbricati unita alla presenza di un cantiere frazionato in tanti cantieri minori. Si optò quindi per la realizzazione di un involucro portante in “Eraclit-Calcestruzzo” in cui – spiega Gellner – “il calcestruzzo viene gettato fra un cassero esterno, formato da tavole, e uno interno (a fondo perduto) di lastre di Eraclit, in funzione di coibente termico, e successivamente intonacato” (Gellner 2004, 92).

Il passaggio dalla prefabbricazione alla realizzazione in opera è stato – stando alle pagine dei diari – una diretta conseguenza del fatto di ricadere, già dal secondo lotto, in zone più fittamente boschive e quindi della necessità di adeguare il sistema costruttivo all’intenzione, sempre viva, di garantire il rispetto e la completa salvaguardia della vegetazione preesistente (Gellner 1994, 130).

La scelta di Gellner rappresenta un chiaro – e riuscito – tentativo di far combaciare le ragioni economiche e funzionali con le sue coordinate etiche ed estetiche. Similmente, l’intera progettazione delle casette – e a scala macroscopica anche della Colonia – ha seguito il medesimo spirito, modellando le forme sulle basi delle tecniche costruttive, a loro volta vincolate dalle specifiche esigenze ambientali, ottenendo delle soluzioni stilisticamente tanto moderne quanto genuinamente tradizionali.

Fondamenta vegetali: l’inaspettata complicità natura-architettura

La condizione geografica e paesaggistica in cui versava Corte prima della costruzione del Villaggio era, come si è descritto più sopra, radicalmente diversa rispetto a come si presenta oggi: fondamentale è stata l’attenzione posta nella conservazione e nella valorizzazione della vegetazione preesistente in fase di cantiere e la stessa scomparsa della vista degli edifici costruiti, dovuta al crescere del bosco, è la diretta conseguenza dell’iniziale proponimento di creare un insediamento sommerso. Ma è interessante sottolineare il modo in cui è avvenuta questa trasformazione.

Il risultato di recenti indagini botaniche eseguite sulla vegetazione di Corte evidenzia che uno sviluppo boschivo paragonabile a quello che quest’area ha prodotto in poco più di cinquant’anni normalmente impiegherebbe circa duecento anni (Merlo 2016); ma non è solo la rapidità nell’avanzamento del bosco a destare sorpresa e perplessità nella lettura dei dati, quanto il fatto che questo sia avvenuto “senza piantare un solo albero” (Gellner 1994, 82). In realtà l’affermazione di Gellner è vera solo in parte: si è già visto come siano state effettuate alcune significative integrazioni della vegetazione esistente a ridosso delle case e della Colonia. Inoltre, nel capitolo dei suoi diari legato al paesaggio alpino, l’architetto ammette di aver cercato, senza un gran successo, di inserire alcune essenze provenienti da vivai:

Negativo è stato anche l’esito delle prove di messa a dimora di altofusti o arbusti di provenienza dai vivai; perfino il pino nero (o pino austriaco) lo sentivo come un intruso, per non parlare del ginepro, disponibile sono nel portamento a cipressino. L’unica resinosa accettabile era il pino mugo; usato poi con una certa abbondanza nelle sistemazioni a verde proprio antistante alla Colonia (Gellner 1994, 133).

Se quindi qualche minima integrazione alla vegetazione ad alto fusto c’è stata, è invece indubbia la vasta opera di ricopertura delle scarpate e delle radure ghiaiose “con zolle erbose prelevate dai prati di fondovalle e trapiantate con grande cura” (Gellner 2004, 141) in tutto l’arco di tempo che va dal 1957 al 1963.

Fra le zone maggiormente interessate dal programma di inzollamento vi erano quelle in origine più aride, quali i cigli e le scarpate stradali, l’area su cui sorge la Colonia e quella relativa al gruppo delle ‘Case 100’ – il primo lotto – per una superficie totale di 135.900 mq di terreno ricoperto da zolle erbose – di dimensioni unificate di 20 x 30 cm – opportunamente bagnate e battute per permetterne l’aderenza. Scrive Gellner:

Già nell’anno successivo alla posa delle zolle erbose prelevate dalle praterie verso valle, ho potuto osservare (con non poca soddisfazione) la ripresa della regolarissima fioritura nella sequenza temporale tipica per i prati di monte (Gellner 1994, 133).

Il significato delle fioriture, che tanto hanno suscitato la soddisfazione dell’architetto, è indicativo che l’operazione di trapianto del manto erboso ha avuto successo e, soprattutto, che si è svolta nel pieno rispetto della natura del luogo, riuscendo a nascondere l’artificio di una sistemazione, di fatto, molto complessa e rendendo naturale il rapporto tra gli edifici e il terreno circostante. Tuttavia l’impiotamento da solo non è sufficiente a giustificare la rapidità con cui si sia sviluppata la vegetazione di Corte. Vi si sono aggiunti altri precisi accorgimenti, come il fatto di lasciare bianche le stradine piane che disimpegnano i singoli gruppi di abitazioni: il risultato di questa azione, unito al bassissimo consumo di suolo dovuto all’architettura palafitticola delle villette, ha permesso all’acqua piovana di defluire liberamente a valle lungo le scarpate, portandosi appresso il pulviscolo e le microparticelle del manto stradale che, nel tempo, hanno contribuito a ridurre la permeabilità del suolo ghiaioso creando le condizioni per l’attecchimento e lo sviluppo spontaneo della nuova copertura arborea. 

Si sono sommate anche le conseguenze derivanti dalla scelta iniziale di prevedere, per le abitazioni, la semplice dispersione delle acque reflue:

È da dire invece che le acque reflue delle case non venivano immesse in una rete di fognatura ma dopo esser depurate venivano sparse nel terreno con un sistema di tubazioni perdenti. Era un altro apporto di acqua nell’aridità di quei suoli, a cui si sommava anche l’acqua piovana raccolta dai tetti delle case, non munite di grondaie, che consentiva lungo tutto lo stillicidio un’irrigazione diffusa del terreno. Abbiamo calcolato che l’acqua raccolta tra le superfici impermeabilizzate (copertura delle case, strade, piazzali) e l’apporto dell’acquedotto, acqua tutta ridistribuita sul terreno vegetale degli intorni, avrebbe portato a un incremento teorico del 60 % delle precipitazioni piovose (Gellner 1994, 131).

Il processo avviato con la costruzione del Villaggio ha poi seguito uno sviluppo naturale che ha portato alla proliferazione di un bosco giovane e caratterizzato da un suo pertinente ecosistema: le vipere hanno lasciato il posto a caprioli, cervi, volpi e lepri (Gellner 1994, 136) e l’architettura è stata quasi completamente assorbita dalla vegetazione.

Il Campeggio, foto di Nicola Noro, settembre 2016.

La crescita incontrollata ha portato Gellner a dover elaborare, sul finire degli anni Ottanta, un piano di taglio campione sulla copertura vegetale delle ‘Case 400’ – il settimo e ultimo lotto completato nel 1963 – al fine di restituire luce e panorama alle unità abitative, preservando, di fatto, sia l’integrità dell’architettura che quella del bosco stesso.

Interessanti le notazioni – e la personale soddisfazione – dell’architetto rispetto alla questione rappresentata dall’avanzamento del bosco e dalla necessità di regolarne lo sviluppo:

Il rapido e prosperoso sviluppo di specie vegetali diverse sembrerebbe anzi indicare la necessità di procedere a una sistematica pianificazione del bosco di Corte, favorendo alcune specie rispetto ad altre. Ritengo al contrario che debba essere la natura stessa a decidere: le piante più forti prevarranno sulle più deboli e il bosco troverà presto un proprio naturale equilibrio tra suolo, alberi e sottobosco. Quello di “bosco selvaggio” è un concetto che in Italia non si è ancora affermato, ma che in altri paesi viene applicato da anni: ricordo la grande impressione provata durante la visita al Parco Nazionale svizzero, dove è possibile vedere cosa è in grado di fare la natura quando viene lasciata alle proprie regole. Nei modi e nei tempi in cui è avvenuto tutto questo, io leggo una sostanziale conferma che l’inserimento di un grande complesso edilizio in un ambiente naturale particolarmente delicato è avvenuto nel pieno rispetto della natura e delle sue leggi (Gellner 2004, 152-153).

Si introduce il concetto di “bosco selvaggio”, di indubbia suggestione ma di difficile applicazione in un contesto residenziale come è il caso di Corte, motivo per cui, seppur in minima parte, si è reso comunque necessario intervenire per prevenire danni all’architettura: molti i problemi causati dall’incremento dell’umidità conseguente all’infoltimento della vegetazione a ridosso delle abitazioni un tempo completamente esposte alla luce solare e oggi inglobate nella selva – effetti evidenti in particolare modo in alcune parti della Colonia chiusa da quasi un trentennio. Tuttavia il prosperare di una copertura vegetale rigogliosa e il ripopolamento faunistico indicano il conseguimento dell’obiettivo iniziale di “costruire in un bosco rigenerando la natura” (Gellner 1994, 129). E comunque, così specifica il senso della sua azione l’architetto, con grande dose di consapevolezza critica e di lucidità:

Non si è trattato di un’anticipata attenzione ecologica, come alcuni hanno interpretato a posteriori, quanto di un procedere empirico, senza il concorso di ‘esperti’ o di particolari nozioni scientifiche, guardando piuttosto all’ancor oggi validissimo insegnamento della settecentesca English School of Landscape Gardening (Gellner 2004, 153).

La sensibilità propria dell’architetto verso il paesaggio naturale e la sua pianificazione è oggi, grazie al contributo di studi e ricerche, comunemente acquisita, ma negli anni Cinquanta, Gellner veniva visto alla stregua di un nostalgico sostenitore di teorie tardobarocche. Nella realtà dei fatti, il suo atteggiamento è stato più ambizioso e innovativo che nostalgico e la scelta di operare in zone degradate, di interesse paesaggistico quasi nullo, rappresentava l’occasione ideale per sperimentare le nuove possibilità offertegli dall’architettura e dalla tecnica, promuovendosi fautore di una riconversione ambientale in chiave positiva, risultato che sarebbe stato decisamente più difficile – e pericoloso – da raggiungere partendo da situazioni di natura intatta:

Nel corso della mia attività ho infatti sempre evitato di intervenire laddove la natura si manifesta di per sé nelle sue forme più belle e interessanti, per non incorrere nel rischio di deturparle; ho preferito piuttosto zone degradate e insignificanti dal punto di vista paesaggistico nel tentativo di bonificarle in una fusione armonica tra costruito e habitat naturale (Gellner 2004, 153).

In altre parole si trattava di “resistere al fascino dei luoghi troppo belli” accettando la sfida rappresentata da tutti quegli altri siti potenzialmente interessanti ma ancora inespressi e agendo “in maniera diversa da quello che si potrebbe definire il metodo ‘classico’ o ‘razionale’ di intervento dell’uomo sulla natura, quando egli, per i suoi fini costruttivi, crea un paesaggio artificiale estraneo nella sua concezione di raziocinio al circostante ambiente di natura” (Gellner 1960, 57).

Di fatto, Gellner difende il suo modo di operare e ne rivendica la novità rispetto ai canoni del periodo, concludendo con l’appello – riportato qui di seguito – a essere più naturali che razionali, ossia a uscire dagli schematismi validi solo sulla carta accettando, piuttosto, gli stimoli derivanti dalle infinite varietà del paesaggio:

Se il violento intervento dell’uomo sulla natura si è definito come “classico” o “razionale”, l’opposto atteggiamento dell’adeguarsi all’ambiente naturale si potrà dire “romantico” o “naturale”. Cerchiamo di essere più “naturali” che razionali”, ed il paesaggio italiano ne guadagnerà; e ne guadagnerà di forza e di espressione il volto del nuovo insediamento (Gellner 1960, 57).

Anche da un punto di vista più generale e teorico, Gellner ripropone la sua personale definizione di “percezione del paesaggio” (Gellner 2004, 11), così come per altro l’aveva già esposta al VI Convegno nazionale di urbanistica a Lucca nel 1957 (Gellner 1957), in una relazione dal titolo “L’architettura spontanea in tema di protezione del paesaggio”:

Cosa intendiamo per paesaggio? Verrebbe da pensare a tutta prima all’intatta natura, ma l’ambiente naturale intatto quasi non esiste. Ovunque si è spinto, l’uomo ha trasformato l’ambiente naturale disboscando, coltivando e costruendo i suoi insediamenti. Dobbiamo perciò intendere per “paesaggio” l’ambiente naturale a cui si è sovrapposta l’opera dell’uomo: ambiente naturale + opera dell’uomo = paesaggio (Gellner 2004, 11).

Da una interpretazione statica si passa a una lettura dinamica, che assume le popolazioni e le trasformazioni operate dall’uomo come fattori necessari alla definizione del paesaggio stesso la quale, ragionevolmente, si basa oramai sulla sua natura essenzialmente antropica. La capacità di Gellner di anticipare questa tendenza lo ha portato a indagare nel profondo i vari contesti in cui si è trovato di volta in volta a operare, proponendo delle soluzioni che si sono sviluppate precisamente a partire da quel paesaggio sentito in chiave già moderna come l’insieme di un ambiente naturale, degli insediamenti umani e delle rispettive interrelazioni:

Un paesaggio non inteso (quindi) come fondale ad un intervento, ma come realtà prima e concreta. Certo una realtà viva, dinamica e perciò modificabile. Ma modificabile non attraverso leggi ipotizzabili ad arbitrio personale, bensì solo in accordo con la storia, i caratteri ecologici, i modi concreti di percezione che ad ogni particolare paesaggio siano specificatamente pertinenti (Gellner 1973, 19).

Nel caso del Villaggio Eni di Corte di Cadore, è proprio lo strettissimo rapporto e la – in parte progettata, in parte inaspettata – complicità fra architettura e natura a rappresentare l’aspetto che, sviluppandosi con il passare del tempo, appare fortemente attuale e significativo. Oggi, che le architetture del Villaggio hanno compiuto sessant’anni – seppure con qualche segno dato dai decenni di abbandono– suscitano ancora ammirazione e meraviglia per il dialogo che si è instaurato tra l’insediamento e l’ambiente circostante, rispettato e addirittura bonificato rispetto alla sua condizione di partenza. 

Il padiglione centrale della Colonia sovrastato dall’Antelao, vista dal Piazzale delle Adunate, foto di Nicola Noro, ottobre 2016.

L'autore collabora a Progettoborca, un laboratorio di rigenerazione sperimentale promosso da Dolomiti Contemporanee e attivo negli spazi della Colonia dal 2014 che, grazie all’azione di artisti, architetti, filosofi, studenti e molti altri, sta contribuendo alla progressiva riscoperta e rifunzionalizzazione, secondo chiavi di lettura nuove e diverse, di questo gigantesco complesso.

Riferimenti bibliografici

La bibliografia su Edoardo Gellner, la sua opera in generale e il villaggio di Borca di Cadore è molto estesa ed è consultabile, organizzata tematicamente, nel sito dell’Associazione culturale Edoardo Gellner architetto. A seguire si riportano solo i testi specificatamente utilizzati per questo saggio. 

  • Deschermeier 2008
    D. Deschermeier, Impero Eni. L’architettura aziendale e l’urbanistica di Enrico Mattei, Bologna 2008.
  • Gellner 1957
    E. Gellner, L’architettura spontanea in tema di protezione del paesaggio, in Atti del VI Convegno nazionale di urbanistica. Lucca 9-11 novembre 1957, Lucca 1958.
  • Gellner 1960
    E. Gellner, Il villaggio sociale dell’Eni, “Urbanistica” 32 (1960), 40-57.
  • Gellner 1973
    E. Gellner, Architettura e ambiente. Appunti su esperienze personali di progettazione, appunti inediti per una conferenza tenuta a Vienna, 12.10.1973, Iuav Archivio Progetti, Fondo Gellner, Gellner 5.Ricerche. 
  • Gellner 1994
    E. Gellner, Quasi un diario. Appunti autobiografici di un architetto, a cura di M. Merlo, Roma 2008.
  • Gellner 2004
    E. Gellner, Percepire il paesaggio. Living Landscape, a cura di V. Foise M. Merlo, Milano 2004.
  • Gellner, Mancuso 2000
    E. Gellner, F. Mancuso, Carlo Scarpa e Edoardo Gellner. La chiesa di Borca di Cadore, Milano 2000.
  • Merlo 2016
    M. Merlo, Il Villaggio Eni di Edoardo Gellner, lezione tenuta nell’aula magna della Colonia, 2 Agosto 2016, Workshop “Abitare condiviso” di Casabella Formazione.
  • Noro 2017
    N. Noro, V.T.A.B.contesti di un caso fortunato, tesi di laurea magistrale, relatore Monica Centanni, correlatore Sara Marini, a.a. 2015-2016, 2017.
  • Zevi 1958
    B. Zevi, Cascata di villette tra le nevi del Cadore, “Cronache di architettura”, vol. 3, Bari, 1958, 156-159.
English abstract

The Eni Village of Borca di Cadore – designed by the architect Edoardo Gellner and commissioned by Enrico Mattei – represents an exceptional architectural adventure for many reasons.
This essay investigates one of the most underrated aspects that is the creation of an entire landscape where, originally, there was nothing but rocks – and snakes.
Today Corte di Cadore appears completely hidden in a dense forest, almost suggesting that the buildings have sprung up in the shade of the pines, but the reality couldn’t be more different: it was Gellner’s hand that combined architecture and nature into a symbiotic and unique relationship, successfully restoring a portion of a degraded territory.
Through the analysis of the compositional and constructive choices, we come to understand how the growth of the forest wasn’t a coincidence but the result of a precise planning and of an environmental sensibility that wasn’t so common at the time.

keywords | Eni Village; Borca di Cadore; Edoardo Gellner; landscape. 

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Nicola Noro, Il Villaggio nel bosco. Corte di Cadore: la costruzione di un paesaggio, “La Rivista di Engramma” n. 169, ottobre 2019, pp. 95-123 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2019.169.0021