"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

169 | novembre 2019

97888948401

Gli uomini che fecero l’impresa

Enrico Mattei e gli Olivetti nel teatro di Gabriele Vacis e Laura Curino

Michela Maguolo

English abstract

Laura Curino nei panni di Enrico Mattei, in Il signore del cane nero. Storie di Enrico Mattei, 2006.

Nel 2006, centenario della nascita di Enrico Mattei, per commemorare il fondatore dell’Eni, l’ex Ente di stato per l’energia promuove una serie di iniziative fra cui uno spettacolo teatrale, Il Signore del cane nero. Storie di Enrico Mattei, prodotto da Il Piccolo Teatro di Milano, affidato alla scrittura di Laura Curino e alla regia di Cristina Pezzoli. Lo spettacolo, il cui titolo trae origine dalla definizione che Giovanni Guareschi diede di Mattei, “il Signore del cane nero”, appunto, è stato messo in scena per un’unica serata, il 5 maggio 2006, per poi essere ripreso sei anni più tardi. Interessante e coinvolgente in sé, assume un significato particolare se letto insieme a quello che Laura Curino e Gabriele Vacis hanno realizzato quattro anni dopo, con il medesimo titolo (Il signore del cane nero. Storie di Enrico Mattei, di Laura Curino e Gabriele Vacis, con Laura Curino, regia di Gabriele Vacis, prima nazionale 14 marzo 2010), e se posto in serie con gli spettacoli che gli stessi autori hanno dedicato a Camillo e Adriano Olivetti nel 1996 e nel 1998.

In più occasioni il teatro civile di Curino e Vacis ha affrontato temi ed episodi della storia recente del nostro paese, creando narrazioni che a partire da solidissime basi documentarie si sviluppano attraverso le tracce che gli eventi raccontati lasciano nella quotidianità; e, attraverso la fisicità, la corporeità della relazione diretta che il teatro innesca fra le persone, aprono un diaframma attraverso cui guardare al presente con uno sguardo diverso rispetto alla convenzione storica. Uno spazio di riflessione aperto in cui la realtà acquista spessore e sfaccettature a partire dalle diverse voci messe in gioco e in dialogo.

Le vicende degli Olivetti e di Mattei sono occasione per parlare di tenacia e coraggio nel perseguire un proprio disegno, un progetto di miglioramento collettivo e uguaglianza sociale, di sogni realizzabili, sottraendo queste figure, entrate nell’immaginario collettivo, all’alone di leggenda e mettendone in luce meriti e debolezze: riportandoli nella realtà della loro umanissima storia personale.

Per raccontare Mattei nel 2006, Curino ne ricostruisce la vita fra desideri adolescenziali, intraprendenza giovanile, ambiguità politica, capacità di destreggiarsi fra fascismo e antifascismo, adesione alla Resistenza bianca e spregiudicato inseguimento di un disegno di emancipazione dell’Italia. Lo fa a partire dagli articoli di Indro Montanelli, letti sul palco dalla giornalista Lucia Annunziata, dove Mattei è dipinto come “scarso e scarno parlatore” che “non irraggia simpatia, non sprigiona calore umano”, ma che “convince perché è convinto egli stesso”. Un ritratto pieno di ombre con poche luci, ma che ammette “una carica di onestà e di sincerità che disarma qualunque sospetto” (Montanelli [1962] 2006, 275). Curino risponde con un Mattei la cui fisionomia viene a configurarsi a poco a poco, attraverso l’evocazione di figure diverse – la nonna che lo consiglia, San Giuseppe da Copertino e il suo sogno di volare, il commesso viaggiatore di Balzac da L’illustre Gaudissart del 1832:

Né il nibbio che piomba sulla preda, né i cani che levano il muso fiutando la selvaggina, possono essere paragonati alla rapidità del suo volo. Quando fiuta una commissione, il commesso viaggiatore diventa il più fine, il più abile dei mediatori. Sa come introdursi in veste di ambasciatore presso il prefetto; in veste di capitalista presso il banchiere; da borghese presso il borghese. È dappertutto quel che deve essere (Curino 2006).

Fino alla Resistenza, in cui l’immagine di Mattei appare ormai definita, mentre sfila il 25 aprile 1945 accanto a Ferruccio Parri, Luigi Longo, Raffaele Cadorna, e alla presidenza dell’Eni, quando inventa la “formula Mattei” per trattare direttamente con i paesi produttori di petrolio e quando afferma la venialità di comportamenti illeciti, se finalizzati a una giusta causa. Ma è forse la descrizione che Laura Curino offre del cane a sei zampe a sintetizzare nel modo più efficace Mattei e il suo sguardo ostinatamente rivolto al futuro:

Ricetta per sprigionare un cane a sei zampe. Prendi un drago, lo puoi cercare in Cina vicino agli imperatori, può essere nero ma conviene soprattutto che sia lucente con scaglie puntute. Prendi artigli e ali e mettili da parte. Vai in Africa, in Tanzania, in Kenia, in Nigeria, lì cerca l’effige di un leone o di un leopardo, raffigurati con sei zampe a significare quanto corrono veloci, al leone prendi anche l’arco della coda, aggiungi sei zoccoli di gazzella o di toro. Prendi l’animale che ti è più fedele, il cane, un cane nero come la notte, prendi un occhio e inclinalo in una specie di sorriso, poi con ali e artigli forma una criniera. Adesso chiudi il drago nel cane, e nel cane chiudi il toro... la creatura aprirà le fauci, il cane nero si alzerà come sospeso poi correrà via veloce... le zampe solcheranno l’aria e il mostro camminerà voltando il capo come a guardare la vita del passato e con gran fiamma dargli degna sepoltura. Poi dal fuoco del passato ricava propulsione coraggio e fuoco al cuore (Curino 2006).

Quattro anni dopo Curino affronta ancora il “caso Mattei” scrivendo un nuovo testo con Gabriele Vacis, e realizzando uno spettacolo affatto diverso, con la regia dello stesso Vacis. Poco resta del primo: uno spezzone di intervista a Mattei, i riferimenti alle “sette sorelle”, il commesso viaggiatore di Balzac. Protagonista è Celestina, unico personaggio in scena, ex paziente psichiatrica, liberata dopo 25 anni di manicomio dalla legge Basaglia. Celestina con il suo cappotto troppo grande sulla scena vuota – quanto invece la precedente era piena: di sabbia, di pozzi, di tavoli e oggetti, di schermi che salgono e scendono.

Laura Curino nei panni di Celestina, in Il signore del cane nero. Storie di Enrico Mattei, 2010.

Il racconto di Celestina, sconclusionato, frammentato a seguire un filo la cui logica solo lei conosce e possiede, ripercorre le storie di Mattei riconducendole sempre a quella che appare come la sua l’ossessione, ma che è in realtà una delle ossessioni degli ultimi 57 anni, il mistero della morte di Mattei, il suo probabile assassinio e la lunga teoria di altre morti non chiarite, da Giacomo Matteotti a Mauro De Mauro, a Pier Paolo Pasolini, lasciando una scia di petrolio. 

Alle lucide e strutturate accuse di Montanelli, si sostituiscono le frasi spezzate, i “dialoghi” surreali fra Celestina e un passante, fra Celestina e Mattei: nomi ed eventi che si rincorrono, cozzano gli uni contro gli altri. La figura di Mattei è ricostruita a partire dai brandelli del suo corpo rinvenuti nel fango – il fango nero come il petrolio, come il cane nero – a Bascapè, ognuno dei quali, un piede, il naso, una spalla, tre dita, a raccontare qualcosa di lui: il grande corruttore al servizio del Paese, l’acerrimo oppositore delle “sette sorelle”, il “catto-fascista, sinistreggiante, terzomondista, neutralistico, antiprotestante e antianglosassone” come lo definisce Enzo Bettiza, l’uomo con le grandi spalle per sopportare pesi enormi: “Mi hanno chiesto di svincolare l’Italia dalla servitù del petrolio. I mezzi per raggiungere il risultato li scelgo io” (Rosi, Scalfari 1972, 58; Curino, Vacis 2010).

Mentre nello spettacolo del 2006, la morte di Mattei è solo evocata, in silenzio, attraverso i titoli dei giornali e le immagini di Bascapè, qui diventa centrale e Celestina si trasfigura in Pasolini:

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero (Pasolini 1974; Curino Vacis 2010).

E cita passaggi da Petrolio, dove Mattei è Eugenio Bonocore e il suo successore, Eugenio Cefis, è il torbido Troya con il suo impero di accumulazioni e espansioni (Pasolini [1992] 2016).

Il signore del cane nero del 2006 segue linearmente lo svolgersi della vita di Mattei, lo sviluppo della sua personalità, l’accumularsi di luci e ombre in un racconto che si dipana in sei capitoli (i sei “pozzi”: del sogno, della necessità, del passato che brucia, della fantasia esatta, dell’aria di palude infiammabile, della corsa all’oro: le storie di Enrico Mattei annunciate nel titolo). Il signore del cane nero del 2010 spezza ogni sequenzialità, mette a reagire le schegge fra loro e dal loro scontrarsi, frangersi o fondersi, nascono nuove suggestioni, di cui non si cerca coerenza o attendibilità, ma che si lasciano esposte alle risonanze che possono provocare in ognuno degli spettatori.

Nel primo, la vicenda biografica di Mattei con le sue macchie e debolezze, la sua forza, i suoi principi, l’abnegazione e il senso dello Stato, è racchiusa in un intervallo temporale dato, è leggibile come sviluppo che la morte improvvisamente interrompe, senza lasciare interrogativi aperti sul dopo. E vi è in questo sicuramente un intento celebrativo, non solo nei riguardi di Mattei, ma dell’Eni, promotore dello spettacolo e, nello stesso anno, di un volume di testimonianze su Mattei (Il secolo di Mattei 2006) nonché della apertura dell’archivio dell’Eni e dello slogan dedicato al fondatore: “Il futuro è di chi lo sa immaginare”.

Il caso Mattei al centro della messa in scena del 2010, raccoglie il non chiarito, il sospeso, e quindi ciò che si sottrae al disegno lineare della parabola del presidente dell’Eni. Qui infatti compaiono sequenze dal film di Francesco Rosi, Il caso Mattei, uscito dieci anni dopo la morte dell’imprenditore, e i riferimenti all’‘incidente aereo’, alle versioni cambiate dei testimoni – l’esplosione in cielo prima dichiarata e poi negata – la denuncia da parte di Celestina dell’assassinio: “il principale l’hanno ammazzato il 27 ottobre 1962 che era di sabato alle 18.50” (Curino, Vacis 2010).

In questo dialogo fra storia e frammento, radici e rizomi, sembra di ritrovare il rapporto fra due spettacoli dedicati da Curino e Vacis a Camillo e Adriano Olivetti. La storia di Camillo, industriale socialista amico di Filippo Turati che aiuterà a fuggire dall’Italia fascista e sarà per questo arrestato, si svolge lungo la linea cronologica degli eventi che si pongono come compiuti e quindi riconducibili a unità, a una propria coerenza interna, come spiegano gli autori nella testimonianza raccolta da Anna Fressola (Curino, Vacis 2019). La pièce dedicata a Adriano – visionario disegnatore di un nuovo ordine politico fondato sulla comunità di cui la fabbrica è il primo nucleo e che avvierà delle politiche di welfare aziendale non solo precoci ma soprattutto tese a un miglioramento culturale e spirituale, oltre che economico dei dipendenti – perde invece la connotazione di storia, racconto, per farsi insieme di frammenti, episodi, temi e questioni su cui ci si continua a interrogare, nei quali continuiamo a specchiarci.

Adriano Olivetti è ancora una questione aperta, una ferita non rimarginata, si osservava nel numero di “La Rivista di Engramma” a lui dedicato (Maguolo, Masiero 2019). E, ci sembra, alcune delle constatazioni fatte per Olivetti potrebbero applicarsi anche a Mattei: l’interesse mai sopito da parte di studiosi, economisti, sociologi, politici, giornalisti e blogger, l’evocazione delle gesta per giustificare, legittimare, fingere genealogie, il ribadirne l’attualità. Vi sono, d’altra parte, numerose analogie fra i due: entrambi protagonisti della ricostruzione e del miracolo economico italiano, mossi da spirito progressista, modernizzatore, da ideali di giustizia sociale e uguaglianza, capaci di immaginare un futuro, intenti a inseguire una visione che nessuno dei due riuscirà a portare a compimento. Sia l’uno che l’altro vedono nell’architettura e nell’editoria i mezzi per veicolare la propria idea di un mondo migliore, per creare identità e dare luogo al loro modello sociale (Deschermeier 2008).

Meno numerosi sono i momenti in cui le vicende dell’uno e dell’altro si incrociano. Il ventilato co-finanziamento de “L’Espresso” di Scalfari e Benedetti, cui i giornalisti rinunciarono per non perdere l’autonomia che Olivetti avrebbe garantito, e Mattei no. La visita di Mattei nel 1955 alla fabbrica di Ivrea e al centro sociale di Comunità di Palazzo Canavese, dove Olivetti sperava di convincerlo ad appoggiare la diffusione dei centri comunitari al Sud (Ochetto [1985] 2015, 148). In quell’occasione Mattei conosce Marcello Nizzoli e lo coinvolge nella progettazione del primo palazzo per uffici a Metanopoli e poi nel centro di Gela; sempre in quell’occasione “finalmente i giornalisti italiani scoprono che a Ivrea sta accadendo qualcosa di unico non solo in Italia” (Saibene 2017, 71). Ma la visita non ha seguito: “è difficile – osserva Valerio Ochetto – l’incontro fra persone che hanno in mente un proprio ed esclusivo disegno strategico” (Ochetto [1985] 2015, 148).

Disegni strategici che pur avendo elementi comuni, sono profondamente diversi fra loro, come le stesse architetture e le attività editoriali mostrano. Un confronto in tal senso è stato già proposto due anni fa (Cesari 2017): qui è opportuno limitarsi a menzionare la differenza di impostazione e finalità fra le sedi delle due aziende e fra le principali iniziative editoriali. Ivrea nasce come progetto culturale: la fabbrica è innanzitutto comunità volta alla elevazione materiale, culturale e sociale del luogo, una comunità strettamente legata al territorio, in un rapporto osmotico, per la cui costruzione Olivetti chiama a sé giovani intellettuali e si fa architetto e urbanista. Metanopoli, la sede dell’Eni a San Donato Milanese, è una “New York in miniatura”, scrive Fulvio Irace (Irace 2012), perfetta immagine della corporate identity, efficiente e funzionale, città ideale separata da quella reale che nel tempo le cresce intorno.

Olivetti si occupa di editoria fin dagli anni trenta e nel 1946 fonda la casa editrice Comunità, con cui pubblica opere italiane e straniere affini al suo pensiero, da Simone Weil a Jacques Maritain. Fonda poi “Comunità” un periodico di politica e cultura, da lui stesso diretto, che dedica ampio spazio all’architettura, all’urbanistica, all’economia, alla filosofia, a significare lo stretto intreccio fra queste discipline nella visione olivettiana e nella formazione del Movimento di Comunità, di cui la rivista diventerà organo di diffusione. L’Eni di Mattei possiede “Il Giorno” e “Il Gatto Selvatico”: il primo, un quotidiano indipendente dai grandi gruppi industriali italiani, sorto per raccontare il mondo senza filtri politici; la seconda, la rivista aziendale dell’Eni, punto di incontro per la “famiglia E.N.I.”, mezzo di comunicazione fra i suoi membri, “simbolo della comunità”, luogo dove trovare “un chiarimento tecnico o genericamente culturale, una sobria informazione sui principali avvenimenti del nostro tempo” (Mattei 1955): una finestra aperta sul mondo a dirigere la quale Mattei chiama Attilio Bertolucci. Accanto a questi, i mezzi più potenti per comunicare l’azienda, quelli cinematografici che veicoleranno l’immagine di un’Italia che grazie al petrolio non sarà più povera.

Queste differenze, insieme a modalità opposte di gestire l’azienda e i rapporti con il mondo economico, politico e religioso, scaturiscono, oltre che da origini, tratti caratteriali e percorsi formativi decisamente dissimili, da diverse visioni della società, del ruolo dello Stato, del rapporto fra questo e i cittadini e quindi il territorio. Olivetti crede in una democrazia senza partiti, visti come strutture burocratiche chiuse in se stesse, e fonda il Movimento di Comunità come terza via, alternativa al sistema partitico, con cui approderà in Parlamento alla fine degli anni Cinquanta; Mattei aderisce alla Democrazia cristiana durante la Resistenza e ad essa farà sempre riferimento, sarà deputato nella prima legislatura, ma non si ricandiderà più, consapevole che avere a che fare con il petrolio è “fare politica”, più che sedere in Parlamento.

Per Olivetti la comunità è la cellula dalla quale lo Stato prende forma, in un movimento dal basso verso l’alto, dalla persona alle istituzioni; per Mattei lo Stato è il vertice della direzione politica e del programma sociale del Paese. Olivetti vede la socializzazione della fabbrica e il decentramento territoriale come obiettivi; Mattei crede nella centralità dello Stato, nel controllo statale delle fonti di energia, da cui tutto dipende. Olivetti condivide anche se non integralmente le posizioni del pensiero liberalsocialista, laico e convinto della necessità di un equilibrio fra azione statale e energie private; Mattei è legato al gruppo di cattolici che nel 1943 stende il Codice di Camaldoli (Misiani 2006; Dau 2015), con i principi di dottrina sociale che vedono lo Stato come derivazione di Dio. Un dualismo che riflette in parte il dibattito che si sviluppa in Italia a partire dagli ultimi anni di guerra e che vede confrontarsi proprio sull’idea di Stato, le sue finalità, il suo ruolo nella direzione economica e sociale del Paese, le forze liberali, quelle liberalsocialiste, socialdemocratiche, comuniste. Un confronto che contrappone la non ingerenza dello Stato di matrice liberale all’idea di Stato teso al bene comune, al bonum humanum simpliciter di Dossetti, fino all’esercizio di controllo e centralizzazione progressiva dell’economia previsto dalla “via italiana” al socialismo di Togliatti.

In questa complessità di posizioni, è indubbio che per Olivetti come per Mattei il fine resta il conseguimento del bene comune (per Mattei, si possono leggere in questo senso i suoi discorsi raccolti in Mattei [1945-1962] 2012), l’emancipazione dell’uomo, come singolo e come gruppo, che per entrambi l’obiettivo è concreto, raggiungibile, e che a esso dedicano tutte le proprie energie, senza tuttavia riuscire a realizzarlo. È forse in questa incompiutezza, nel pensiero di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, nell’idea di un “non più” che è in realtà un “non ancora”, per dirla con Aldo Bonomi, che sta l’attualità di Olivetti e Mattei. E forse è l’incertezza presente, la consapevolezza di cambiamenti così radicali nel sistema produttivo, economico, sociale e politico, nei rapporti all’interno dello Stato e fra gli Stati, a indurre a spostare lo sguardo su di loro, che avevano intravisto e compreso il cambiamento, e tracciato una via per guidarlo, anziché esserne travolti.

Dopo aver letto le parole di Mario Pirani sulle occasioni mancate dell’Italia degli anni Sessanta, la politica energetica, il nucleare, l’elettronica – protagonisti Enrico Mattei, Felice Ippolito e Roberto Olivetti – e sui benefici che avrebbe potuto trarne l’Italia, su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, Laura Curino chiude lo spettacolo del 2006 con alcuni versi dalla Giovanna d’Arco di Maria Luisa Spaziani:

Tutto era ormai ricordo: le mie imprese/ splendide, il re, l’adolescenza, il sogno/ l’arrivo dell’Arcangelo. E un ricordo/ si differenzia dalla vita: è un fuoco/ dipinto, degradato [...] Quel che mi manca non è l’aver compiuto/ il mio destino, quel che mi manca/ è la bellezza, la scintillante verità del mondo (Spaziani [1980] 2012, 716-717).

Quella bellezza, scintillante verità del mondo, che con tenacia e coraggio Mattei e gli Olivetti non hanno mai smesso di cercare e che a tutti è dato di continuare a cercare.

Riferimenti bibliografici
English abstract

Enrico Mattei, the founder of Eni, the Italian energy public company, died in 1962 but he is still an object of studies, debates and looked at as a model for enterprisers and statesmen. His figure was at the center of a play, Il signore del cane nero (The master of the black dog) written by Laura Curino and directed by Cristina Pezzoli. The play, commissioned by Eni for the celebration of Mattei’s centenary in 2006, was held only once at the Piccolo Theatre in Milan. Four years later, Curino with Gabriele Vacis wrote an entirely new play under the same name. This essay examines the radically different approach, in the two works, to Enrico Mattei’s story or stories, as the subtitle of the play goes. It then compares them with two other plays by Curino and Vacis, dedicated to Camillo Olivetti and Adriano Olivetti. On one side, a story concluded in itself, on the other, fragments still open, in which the present keeps reflecting itself. In spite of the great differences between Mattei and Olivetti, differences that were political, cultural, even ethical in dealing with the relationship between the State and the citizen, they shared the aim of the common good for the country and their unaccomplished projects are probably what makes us look at them with a mixed feeling of “no longer” and “not yet”, in search of the “shining Truth of the World”.

keywords | Enrico Mattei; Adriano Olivetti; Laura Curino; Gabriele Vacis.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Michela Maguolo, Gli uomini che fecero l’impresa. Enrico Mattei e gli Olivetti nel teatro di Gabriele Vacis e Laura Curino, “La Rivista di Engramma” n. 169, ottobre 2019, pp. 39-50 | PDF dell’articolo 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2019.169.0023