"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Dalla Cea Nenia di Simonide all’Amante marina di Luce Irigaray

Leggere il Lamento di Arianna di Friedrich Nietzsche

Carlotta Santini

English abstract
Perché Arianna

Sebbene attestata solo tardivamente nell’opera filosofica di Nietzsche e riconducibile a relativamente poche e puntuali menzioni, la figura di Arianna, la principessa cretese sorella del Minotauro, amata da Teseo e da Dioniso, è certo una delle più icastiche nel repertorio mitologico a cui attinge il filosofo di Naumburg. L’identificazione della sposa di Dioniso con Cosima Wagner, ribadita da Nietzsche nelle sue ultime lettere, sebbene non impedisca di continuare a riconoscerle un carattere per così dire ‘fatale’ e ‘fatidico’ nella vicenda umana di Nietzsche, rischia di far perdere di vista la portata filosofica che questa figura riveste in momenti centrali del pensiero del filosofo. Indipendentemente, infatti, dalla rivisitazione in chiave mitologica delle vicende di casa Wagner – nel Caso Wagner anche il Maestro sarà identificato col Minotauro – il personaggio di Arianna viene mobilizzato da Nietzsche assieme a quelli di Teseo e Dioniso fin dal 1883 (estate 1883, KSA 10, 13 [1]; tr. it. OFN VII, 1/2) e ancora nel 1887, per un progetto, mai compiuto e frammentario (autunno 1887, KSA 12, 9 [115]; tr. it. OFN VIII, 2), di dramma satiresco a sfondo filosofico, che Peter Gast, nel riordinare i manoscritti, intitolò Naxos. I ‘Dialoghi di Nasso’ tra Dioniso e Arianna sono lo sfondo di una intensa fase di ripresa di questa figura mitologica da parte di Nietzsche, che tra il 1885 e il 1888 riemerge sia nel Nachlass che nei testi editi, in particolare in due importanti aforismi, il §295 di Al di là del bene e del male e il §19 delle Scorribande di un Inattuale del Crepuscolo degli Idoli.

In un precedente articolo (Santini 2012) ho già avuto modo di ricostruire le linee essenziali della presenza di Arianna nella filosofia di Nietzsche. Nella conclusione si affrontava quello che è forse il testo più importante nel quale la figura di Arianna appare come la vera protagonista: Klage der Ariadne (Lamento di Arianna), uno dei Ditirambi di Dionisio, ultima delle opere di cui Nietzsche abbia autorizzato la pubblicazione prima della sua malattia. Di questo componimento poetico, di cui allora veniva analizzata la genesi legata a filo doppio con la composizione dello Zarathustra, sarà al centro della presente analisi. In questo contributo vorrei infatti studiare il Lamento di Arianna ponendolo al centro di un duplice irraggiamento temporale. Da una parte metterò in luce lo stretto legame, formale e contenutistico, di questo ‘lamento’ nietzschiano con uno dei più celebri θρῆνοι (threnoi) dell’antichità, il Lamento di Danae, conosciuto anche come Cea Nenia di Simonide. Dall’altra, aprirò una prospettiva sulla contemporaneità, ricorrendo ad una delle più belle reinterpretazioni del complesso Zarathustra/Klage der Ariadne da parte di una filosofa contemporanea, Luce Irigaray.

Nell’articolo del 2012 erano stati messi in luce i debiti compositivi che legano questo ditirambo Klage der Ariadne (1889) ad una sezione della IV parte dello Zarathustra, conosciuta come lo Zauberer-Lied, Il canto del mago (1885). Dal punto di vista formale siamo di fronte ad un solo testo che ha nel tempo cambiato di protagonista, e conseguentemente di carattere. Le traduzioni italiane troppo poco lasciano intravedere delle ragioni del confronto necessario tra questi due scritti, che sono in effetti uno stesso componimento, con varianti puntuali. Comune ai due componimenti è il genere della composizione, a carattere dichiaratamente strofico, che si distingue dunque dallo stile generale che potremmo definire di prosa lirica, adottato nell’intero Zarathustra. Si tratta in entrambi i casi di un dialogo monologizzante: il personaggio principale, Arianna (1889) o il Mago (1885), si rivolge talvolta a sé stesso, in un intento introspettivo, talvolta ad un misterioso altro, un minaccioso interlocutore, il dio sconosciuto, la cui presenza/assenza è causa scatenante del travaglio interiore. Delle proposizioni interrogative, impersonali o dirette, costituiscono il fraseggio che guida la composizione, come anche le risposte implicite che i protagonisti forniscono a sé stessi, quasi interpretando l’imperscrutabile volontà del dio la cui lontananza/vicinanza li atterrisce.

Non è questo il luogo per ritornare a porre domande sul perché Nietzsche abbia scelto di sostituire la figura di Arianna a quella, molto più ambigua, del mago di Zarathustra. Sta di fatto che questa sostituzione ha reso necessarie solo pochissime, benché essenziali, modifiche ulteriori al testo, e non ha sostanzialmente mutato la forma dello scritto. In questa ottica, potremmo affermare che il ‘lamento’ nietzschiano ha acquistato nel tempo una tale importanza e centralità per il filosofo, che Nietzsche ha ritenuto necessario rivalutarlo affrancandolo dal tessuto compositivo dello Zarathustra. Per fare questo l’intervento più importante è senz’altro la designazione di un nuovo protagonista, la principessa Arianna, che ri-contestualizza e dunque ri-orienta l’opera.

Il Lamento di Arianna: una trasvalutazione mistica

Oltre alla scelta di Arianna, l’esplicitazione dell’identità del dio sconosciuto, Dioniso, che avviene in conclusione al ditirambo, costituisce l’intervento più esteso ed autonomo rispetto alla versione del 1885. La coppia Dioniso/Arianna mobilita infatti alcuni nuclei del pensiero nietzschiano già precedentemente sviluppati. Nell’aforisma §295 di Al di là del bene e del male Arianna è identificata con l’umanità perfettibile, che il dio Dioniso è impegnato ad educare e a guidare verso una trasformazione radicale.

So sagte er einmal: “unter Umständen liebe ich den Menschen” – und dabei spielte er auf Ariadne an, die zugegen war – “der Mensch ist mir ein angenehmes tapferes erfinderisches Thier, das auf Erden nicht seines Gleichen hat, es findet sich in allen Labyrinthen noch zurecht. Ich bin ihm gut: ich denke oft darüber nach, wie ich ihn noch vorwärts bringe und ihn stärker, böser und tiefer mache, als er ist [...], auch schöner”.

[Così disse una volta: “in certi momenti io amo l’uomo” – e con ciò alludeva ad Arianna che era presente – “l’uomo è per me un animale gradevole, coraggioso, ingegnoso, che non ha pari sulla terra, in ogni labirinto si sente a suo agio. Gli sono benigno: penso spesso a come portarlo ancora innanzi e renderlo più forte, più malvagio e più profondo di quanto già sia […], e anche più bello”] (JGB §295, KSA 5, 249; tr. it. OFN VI, 2, 205).

A questo si aggiunga un’ovvietà: siamo di fronte ad un mito greco. Arianna è cretese, donna di stirpe solare, come anche le temibili Circe e Medea, sue parenti. Pienamente greco è Teseo, l’eroe per eccellenza, che l’ha condotta via da Creta. I Greci sono per Nietzsche l’apice fino ad ora mai eguagliato dell’umanità, la forma più perfetta di ‘uomini superiori’ che nello Zarathustra costituiscono l’ultimo poderoso baluardo che si oppone alla transvalutazione dei valori. Solo superando sé stessa, lasciandosi alle spalle tanto il meglio quanto il peggio di sé, l’umanità potrà pervenire secondo Nietzsche ad una forma di esistenza superiore.

Per questo motivo, già nell’articolo del 2012, si sosteneva la tesi che il mito di Arianna contesa tra Teseo e Dioniso costituisse per Nietzsche un modello mitologico capace di articolare il pensiero del superamento dell’ideale greco: “Arianna che sogna: ‘abbandonata dall’eroe, sogno il super-eroe’” (estate 1883, KSA 10, 13 [1]; tr. it. OFN VII, 1/2). Se già nel 1883 la figura di Arianna dormiente annunciava l’avvento del Superuomo, nel 1887 l’istanza verso il superamento di se tornerà ancora più esplicita, e passerà attraverso l’annientamento stesso dell’eroe: “Questo è il mio estremo amore per Teseo: ‘lo faccio perire’” (autunno 1887, KSA 12, 9 [115]; tr. it. OFN VIII, 2) [1].

Alla luce di questi elementi, l’Arianna del lamento ditirambico acquista spessore. Procediamo ora ad analizzare il contesto specifico di questo componimento. La composizione si apre su uno scenario non definito. L’atmosfera è cupa, forse notturna, certamente tempestosa, agitata dal vento e dal rincorrersi delle nubi, rischiarata solamente da fulmini. Arianna si presenta come una figura innominata, impegnata in una lotta tanto interiore quanto esteriore con un nemico sconosciuto, un dio ignoto e temibile. Solo retrospettivamente, una volta letta la strofe finale, possiamo identificare questa figura misteriosa con Dioniso, e ricostruire dunque lo scenario che abbiamo di fronte: Arianna che giace abbandonata da Teseo sulla spiaggia di Nasso, poco prima dell’arrivo di Dioniso. Di tutta la vicenda mitica dunque, i ‘fatti di Nasso’ costituiscono lo scenario ideale nel quale Nietzsche ancora una volta, dopo i dialoghi del 1883, costruisce i suoi quadri mitologici a sfondo filosofico.

I fatti di Nasso sono ben noti: la principessa Arianna, fuggita con Teseo da Creta dopo l’uccisione del Minotauro, viene da questi abbandonata, o dimenticata, secondo una delle versioni del mito, su quest’isola. Il dio Dioniso la scorge addormentata sulla spiaggia, se ne innamora, e ne fa la sua sposa. Questo il mito nella sua forma più nota. A questa versione se ne affiancano altre, decisamente meno confortanti. Arianna è stata dimenticata, abbandonata, o forse uccisa? Il suo è forse un sonno di morte? E chi l’avrebbe uccisa? Si è suicidata, è morta di parto? L’ha forse uccisa Teseo, che ne porta il lutto (le vele nere) fino in Atene? E perché non Dioniso, come riporta una tradizione che risale all’Odissea (Od.XI, 321-325)? Le nozze divine, si sa, sono sempre temibili per le mortali. E l’assunzione in cielo della corona di Arianna (la corona boreale) non allude forse ad una divinizzazione post mortem? Queste e altre circostanze rendono la presenza di Arianna in questo componimento nietzschiano particolarmente foriera di significati ed implicazioni filosofiche e finanche simboliche, che avranno, come vedremo, grande risonanza fin nell’opera di Luce Irigaray.

Ma restiamo per il momento sugli aspetti formali del Lamento di Arianna. La struttura dialogica priva di un interlocutore visibile riconduce questo testo alla tradizione letteraria della confessione (su questo genere v. Zambrano 2004). Ci troviamo qui di fronte ad un dialogo di un’anima con sé stessa, o più propriamente, se non vogliamo fare astrazione della forte componente religiosa di questo genere letterario, di un complesso sistema di interrogazione/responsione dell’anima con Dio, che avviene tutto nell’intimo dell’anima stessa. Sarà difficile però ignorare del tutto la dimensione religiosa di questo testo nietzschiano. Il monologo di Arianna ha infatti tutte le caratteristiche della letteratura mistica di stampo cattolico: il cuore ardente, la sintomatologia estrema, al contempo sensuale e patologica, il rapimento mistico, la preghiera, la fuga ed il dibattersi dell’anima che soffre e si contorce sotto gli occhi del dio, tutto questo richiama da vicino le testimonianze, tanto letterarie quanto spirituali più alte del misticismo cristiano.

Un altro elemento prezioso che si aggiunge a questo quadro di orientamento mistico è quello della Mezzanotte. L’indicazione della Mezzanotte nel Lamento di Arianna non può essere ridotta ad una mera considerazione di tempo: a parte tutto, infatti, non siamo nemmeno certi che sia ‘notte’, sebbene il fatto che Arianna a Nasso dorma non sembri escluderlo a priori. Ciò che è certo invece è che ci troviamo di fronte ad una Mezzanotte dello spirito, che, proiettata retrospettivamente nel contesto di Zarathustra è da interpretarsi come il contraltare del Grande Meriggio. Il grande meriggio è il momento in cui il sole incombe allo zenith e l’ombra è più corta, in cui la pienezza dello spirito si manifesta con tutta la sua forza traboccante e l’uomo Zarathustra vede più chiaramente ogni cosa. A questo si contrappone la Mezzanotte del Canto del Viandante Notturno, sempre nello Zarathustra, il momento in cui lo spirito è più profondo, ma anche più oscuro, in cui più forte è la coscienza della debolezza.

Il contrasto è ancor più forte se si considera che proprio Arianna, principessa di stirpe solare, appare nel ditirambo sprofondata in questa ‘notte’ dello spirito. Questa condizione di cecità nella quale si percepisce solamente l’assenza della divinità, la solitudine e la disperazione dell’abbandono è un topos classico della mistica. È quella condizione conosciuta come il silenzio di Dio – di cui parla anche Bernanos (Bernanos 1926 e 1936) – che si sperimenta ad uno stadio molto avanzato dell’esperienza mistica. In questa profonda oscurità dello spirito il mistico è sordo e cieco, non percepisce più la vicinanza di Dio, che prima sentiva con l’intensità di un fuoco. Dio si nega al mistico in questa fase, per metterne alla prova lo spirito con la più grande delle prove, quella di negargli la sua Grazia e finanche la speranza di ritrovarla. L’Arianna nietzschiana vive sulla propria pelle tutte le esperienze della mistica cristiana, dall’ardore al gelo, dalla fremente vicinanza alla disperante lontananza del Dio amato e temuto. Esemplificando nella sua persona l’umanità tutta, o l’anima umana come entelechia universale, Arianna sperimenta tutta la sofferenza della negazione di sé, della perdita di sé, dei diversi stadi che porteranno all’abbandono totale della sua identità nella trasformazione che le impone il dio.

I modelli della mistica sono a mio parere i più utili per interpretare il ditirambo Klage der Ariadne. Per trovare delle fonti specifiche basterebbe una recensione del lungo elenco delle sue fonti teologiche già note. D’altro canto, la familiarità di Nietzsche con le questioni teologiche e di storia della Chiesa, eredità familiare sia da parte di padre che di madre, come anche delle frequentazioni degli anni di Basilea (Franz Overbeck solo per citare un nome) è sufficientemente attestata. Non è nemmeno impensabile catalogare Nietzsche stesso, in virtù di alcuni nuclei sensibili della sua filosofia (uno tra tutti il nichilismo) e della particolare forma letteraria del suo Zarathustra, nel novero dei mistici, tesi questa che sembrava del tutto percorribile, tra gli altri, al grande teologo francese Henri de Lubac (de Lubac 1949, 145-189). Ma ad una analisi più attenta del percorso formativo di Nietzsche, altri modelli storico-religiosi e letterari si impongono all’attenzione degli studiosi.

Il lamento di Danae: responsione antistrofica e drammatizzazione lirica

Quella che analizzerò qui di seguito è una fonte antica, il Lamento di Danae di Simonide di Ceo, che costituisce a mio parere l’antecedente immediato del Lamento di Arianna e permette di allargare l’orizzonte di comprensione di questo testo nel contesto più amplio del misticismo iniziatico antico. Nietzsche conosceva il capolavoro di Simonide fin dall’epoca dei suoi studi a Bonn. A questo θρῆνος aveva infatti consacrato un saggio nel 1865, una dissertazione latina, valida per l’ammissione al Seminario di Filologia dell’Università. Su questo canto che, come ammise egli stesso, gli era rimasto in mente “come una melodia indimenticabile” (A Friedrich Ritschl, 12 Maggio 1868, Epistolario I, 586), Nietzsche riprenderà il lavoro esegetico nella primavera del 1868, approfittando di un periodo di pausa forzata, immobilizzato da una ferita riportata durante il servizio militare. Il risultato sarà un articolo, che verrà in seguito pubblicato nel “Rheinisches Museum”, Beiträge zur Kritik der grieschischen Lyriker, I. Der Danae Klage.

1 | Hydria attica a figure rosse del Pittore di Gallatin, ca. 490 a.C. Boston, Museum of Fine Arts.

Il lamento di Danae è un frammento simonideo, tramandatoci da Dionigi di Alicarnasso (Comp. verb., 26) e Ateneo di Naucrati (Athen. IX, 396). Si tratta di un canto polimetro, che presenta dunque una grande quantità e varietà di metri. Vi si descrive la scena, presentata da un narratore ed in seguito esposta in prima persona, della deriva della cassa nella quale è rinchiusa la principessa Danae con il figlioletto Perseo [Fig. 1]. Ricordo il mito per brevi cenni: Danae, figlia di Acrisio, re di Argo, era stata da questi confinata in una torre, per timore che potesse dare alla luce un figlio che lo avrebbe spodestato. Nonostante la prigionia, Danae riceve la visita di Zeus, che si unisce a lei sotto forma di pioggia d’oro, e dà alla luce un figlio: Perseo. Convinto della colpa di sua figlia, Acrisio la fa rinchiudere in una cassa col frutto del suo ventre, e la abbandona alla deriva nel mare. Questo l’antefatto. I timori, le riflessioni, le invocazioni di Danae nell’oscurità della cassa abbandonata alla deriva sul mare costituiscono l’oggetto del canto, che si conclude con una breve invocazione a Zeus, che porta ad una riconciliazione e ad un blando ritorno della speranza.

Ancora una volta, sono gli aspetti formali di questo canto che ci interessano per primi, come interessarono Nietzsche, del resto. Tra le prime osservazioni di Nietzsche vi è quella del particolare carattere conferito a questa lirica dalla scelta del polimetro, che la renderebbe particolarmente vicina ai ritmi del parlato e della prosa: il fatto cioè di non rispettare un metro fisso permette un affrancamento, anche solo percettivo, dalle costrizioni monotone di un ritmo stabilito. Pur rimanendo rigorosamente strutturata ritmicamente, e mantenendo dunque intatte tutte le qualità della poesia (ethos, misura, stretti legami tra le parti), una composizione come il Lamento di Danae raggiungerebbe dei canali comunicativi più efficaci, imitando l’immediatezza della prosa.

Questo del rapporto tra lirica e prosa è un tema che da sempre ha affascinato Nietzsche. Lo aveva studiato con passione nel caso della tragedia, quando si interrogava, seguendo lo psuedo-Aristotele (Problemata, 19, 6), su uno dei grandi enigmi dell’antichità: la natura e l’effettiva forma della παρακαταλογή, il recitativo dei dialoghi della tragedia, che pur essendo in metro doveva richiamare da vicino il parlare quotidiano. La predilezione di Nietzsche per Archiloco nella Nascita della Tragedia era motivata dallo stesso interesse per quelle forme della lirica che sono in grado di veicolare l’immediatezza del sentimento e la spontaneità del parlato, pur mantenendo un ricchissimo sostrato ritmico e normativo che le fa capaci di una forma di espressione più alta. L’obiettivo che Nietzsche stesso si prefiggeva, studiando gli esempi dell’antichità, era quello di formulare uno stile prosastico, capace delle stesse potenzialità espressive, stilistiche e ritmiche della poesia. Il fatto che l’esperimento nietzschiano meglio riuscito in questo senso sia la prosa lirica dello Zarathustra mette in diretta connessione quest’opera della maturità con le riflessioni sulla forma compositiva del tempo degli studi filologici.

Ma i contatti tra questi mondi, il filologico, il letterario e il filosofico, nell’opera di Nietzsche non si limitano a questo, e ve ne sono di ancora più puntuali. L’obiettivo scientifico di Nietzsche nell’articolo del 1868 è quello di confrontarsi con un enigma filologico, che dal tempo di Dionigi di Alicarnasso divide gli studiosi del lamento simonideo. Dionigi, nel riportare il frammento nel suo Περὶ συνθέσεως ὀνομάτων (Sulla disposizione delle parole), ci informa di averlo trascritto in forma prosastica. Egli sostiene che in questo modo, se si legge il testo secondo le divisioni del periodo della retorica, non sia più possibile riconoscere la forma antistrofica originaria, cioè la partizione strofe/antistrofe/epodo che gli era propria. Ora, l’enigma da risolvere consiste proprio in questo: la grande difficoltà dei filologi nel ritrovare questa fantomatica distinzione di strofe/antistrofe/epodo che Dionigi sosteneva di aver potuto mascherare così bene.

Anche in questo caso, come spesso accade anche nelle sue ricerche filologiche più erudite, Nietzsche non rinuncerà a formulare in primis un argomento di natura estetica, che cercherà poi di verificare con strumenti filologici. Basandosi su criteri stilistici e contenutistici, Nietzsche individua l’epodo nella parte finale del canto, laddove Danae appare riconciliata e rivolge la sua preghiera al dio. Si tratta della magnifica sezione conclusiva del lamento che contiene tra l’altro la celeberrima nenia “dormi bimbo e dorma il mare e s’assopisca l’infinito male” (vv. 21-22). Una volta fissato l’epodo, c’è da situare l’antistrofe nella sezione centrale del frammento: Nietzsche riconoscerà la cesura nel momento in cui si passa alla fase del monologo dialogante, laddove Danae inizia a rivolgersi al suo bambino (v. 10). Di conseguenza la strofe si ridurrebbe ai primissimi versi, quelli della presentazione della scena da parte del narratore. Se si ipotizza però, come è ragionevole, che il frammento fosse preceduto da una sezione di testo più amplia, la brevità della strofe non costituirebbe più motivo di preoccupazione.

Ciò che ci interessa di più in questa sede è questa volontà di Nietzsche, come dei filologi a lui contemporanei (Nietzsche citerà le tesi di Theodor Bergk, Friedrich Wilhelm Schneidewin, Franz Heinrich Ludolf Ahrens e Johann Adam Hartung) di trovare la partizione strofe/antistrofe/epodo, e dunque di riconoscere un carattere antistrofico, responsivo, al canto in questione. Anche questa è una questione che occuperà Nietzsche nel corso di tutta la sua attività di filologo. L’idea di poter individuare una struttura responsiva, e dunque di poter teorizzare una ‘drammatizzazione’ nelle sezioni liriche del coro, in particolare dei cori tragici, riemerge continuamente negli appunti filologici. Nietzsche si occuperà della questione della strofe cercando di valutare la possibilità che il coro tragico, benché cantasse all’unisono, fosse ordinato secondo un principio di strofe e antistrofe. Il coro sarebbe cioè stato diviso in due parti composte di pari elementi, le quali cantavano all’unisono ma alternandosi, rispondendosi e avvicendandosi secondo simmetrie ed equilibri studiati. Questa era ad esempio la tesi del suo maestro Friedrich Ritschl, che la applicava anche alle parti dialogate, e che aveva individuato sette discorsi simmetrici nella tragedia I sette a Tebe di Eschilo (Ritschl 1866).

Dal punto di vista formale, il Lamento di Arianna riproduce le stesse strategie compositive che Nietzsche osservava nel lamento simonideo. Innanzitutto, anche qui è riscontrabile una struttura antistrofica che segue lo schema strofe/antistrofe – strofe/antistrofe – epodo. Se vogliamo applicare a Nietzsche lo stesso argomento estetico da lui impiegato per la Danae, l’epodo è chiaramente riconoscibile nella parte finale del ditirambo, laddove Arianna ribalta il suo atteggiamento verso il dio, smette di scacciarlo e lo invoca, lo supplica di restare presso di lei. A questo momento di riconciliazione segue l’epifania di Dioniso che conclude il canto. Una volta fissato l’epodo, i criteri per stabilire i paletti che delimitano le strofi e le antistrofi possono essere molti. Si potrebbe seguire l’ordine delle diverse forme di allocuzione al dio, le alternanze interno-esterno nell’orientamento monologico, le molte anafore del testo. Da parte mia, fondo tutte le ipotesi sull’ordine antistrofico orientandomi sulla rete di concetti e formule che Nietzsche ripropone secondo dei paralleli simmetrici lungo tutto il canto: le anafore, le ancor più numerose epifore (Gott, Hencker-Gott, Herz, stolz) oltre che i rimandi interni di leitmotiv che si richiamano di strofe in strofe.

Nel Lamento di Danae l’effetto della drammatizzazione è reso tanto dalla struttura di responsione antistrofica, quanto dalla struttura stessa del canto, quel monologo dialogizzante che abbiamo già incontrato, mutatis mutandis, nella ritrasposizione, possiamo ben dirlo, che Nietzsche ne darà nel Lamento di Arianna. Per Danae gli interlocutori ‘muti’ ai quali si rivolge il suo monologo sono almeno due: il suo bambino Perseo, e il padre Zeus. A causa dell’introduzione narrativa del canto, che istituisce un’ulteriore mediazione, sembra mancare una vera e propria introspezione, e dunque una direzione autenticamente riflessiva del monologo di Danae. Anche nel Lamento di Arianna l’intero monologo è in realtà estroflesso in un dialogo con un ‘tu’ che è il dio sconosciuto: ciò non toglie però che lo spazio dell’introspezione e della riflessività sia molto più esplicito e scoperto di quanto non lo fosse nel caso della Danae. Arianna sembra ascoltare continue risposte da questo interlocutore muto e forse assente, delle risposte che ella trae da sé, in un parossismo che potremmo definire schizofrenico, se non fosse piuttosto di natura estatica. Tolte queste differenze, che possono anche attribuirsi ad una diversa percezione del soggetto lirico dai tempi di Simonide a quelli di Nietzsche, passiamo ad analizzare altri punti di contatto tra la Danae simonidea e l’Arianna nietzschiana.

Danae ed Arianna come modelli iniziatici

Come nel Lamento di Arianna, anche nel Lamento di Danae l’eroina non è nominata. Il carattere frammentario del testo ci porta infatti in medias res, quando il destino di Danae si è ormai compiuto: suo padre l’ha condannata alla deriva nel mare col frutto ingrato del suo ventre, il piccolo Perseo. Lo scenario che si apre è lo stesso molto astratto della Nasso presentata Nietzsche. Dai suoni che si percepiscono nell’interno della cassa, sappiamo che il mare è in tempesta, il vento infuria e le onde si avvicendano violentemente contro le pareti di legno. È notte, ma è poi davvero notte? È una notte artificiale quella nella quale Danae e suo figlio sono sprofondati, sotto un cielo punteggiato di pseudo-stelle bronzee, i chiodi della cassa ermeticamente chiusa nella quale navigano sul mare in tempesta. La scura notte artificiale, che corrisponde allo stato di profonda prostrazione e disperazione di Danae (la mezzanotte dello spirito di Danae), non è rischiarata che dal fulgore del viso del fanciullo. Questo bimbo-stella, questo volto luminoso che fende la notte, diverrà un giorno un eroe uccisore di mostri, la cui fama sarà comparabile solo a quella di Teseo.

L’invocazione al cuore di Perseo al v. 12 (ἤτορι), darà a Nietzsche molti grattacapi filologici. La versione che gli procura tanto imbarazzo prevede che Perseo “respiri con cuore di lattante”, o per meglio dire, che il suo “cuore di lattante respiri”. La soluzione di interpretare “cuore”, nel senso della fisiologia della psiche antica, come ‘animo’ o ‘anima’, dunque ‘soffio’ o ‘spirito’ gli appare poco convincente. Con foga degna di un giovane studioso, Nietzsche mette dunque da parte ogni scrupolo, elimina la menzione del cuore e parafrasa: tu respiri “al modo” (ἤθεϊ) dei lattanti. La sostituzione di ἤτορι con ἤθεϊ è ormai accettata dalla filologia moderna, ma questo cuore che respira, così scomodo per il giovane filologo che rifugge dalle metafore, lo ritroveremo a sorpresa rivestire un ruolo centrale nel Lamento di Arianna. Il ricorso alla simbologia del cuore (cuore ardente, cuore infranto) è frequentissimo nel ditirambo nietzschiano, ma in particolare un gruppo di versi ci permette di ritrovare più da vicino il contesto del Lamento di Danae:

Du hörst mich atmen,
du behorchst mein Herz,
[…] wozu die Leiter?
willst du hinein,
ins Herz, einsteigen,
in meine heimlichsten
Gedanken einsteigen?

[mi ascolti respirare,
il tuo orecchio spia il mio cuore,
[…] perché la scala?
vuoi salire sin dentro, nel cuore,
nei miei più segreti
pensieri salire?]
(DD, KSA 6, 399; tr. it. OFN VI, 4, 49).

Il richiamo a questo cuore che respira e che pensa, che rappresenta l’anima di Arianna, messa alla prova, tentata, sollecitata dal dio, si comprende alla luce della definizione che Nietzsche dà di Dioniso nell’aforisma §295 di Al di là del bene e del male, laddove il dio è chiamato Genie des Herzens, il ‘genio del cuore’, e anche Rattenfänger des Gewissens, che potremmo tradurre ‘accalappiatopi’, o per meglio dire ‘pifferaio magico’ (dalla favola dei fratelli Grimm) della coscienza. Il Genio del Cuore è il dio tentatore, il pifferaio magico della coscienza, che seduce l’anima e la conduce verso una metamorfosi radicale (v. Santini 2012 e Tönges 1998). Il genio del cuore, il dio Dioniso “la cui voce sa scendere – hinabzusteigen contro il salire dentro hinein einsteigen del Lamento di Arianna – fin nell’oltretomba di ogni anima, che non pronuncia parola né rivolge sguardo” (JGB §295, KSA 5; tr. it. OFN VI, 2, 203) presenta molti interessanti punti di contatto con il piccolo Perseo del Lamento di Danae. Come Dioniso infatti, anche Perseo è figlio di Zeus. Egli inoltre è l’interlocutore muto di sua madre: è a lei che volge il suo viso luminoso che però non guarda, poiché gli occhi sono chiusi. Nel sonno il suo cuore di lattante respira tranquillo e non presta orecchio all’inquietudine della madre.

Molto interessante è la dinamica del rapporto paura/quiete, coscienza/incoscienza nel Lamento di Danae. Nel caso di Arianna, la fenomenologia della paura si gioca tutta intorno al fatto che si sente prossimo un pericolo che non si è però in grado di decifrare precisamente. Arianna trema e quasi si contorce dalla paura, poiché non conosce il profilo del dio che incombe come una minaccia. Il Dio che l’atterrisce è sconosciuto, ed imperscrutabile: le sue intenzioni non sono evidenti, dunque è l’anima di Arianna che partorisce liberamente immagini di terrore. Il caso di Danae sembrerebbe differente: l’eroina conosce infatti il pericolo che incombe su di lei e sul bambino. Nell’oscurità della cassa però, ella può solo sentire ed indovinare quali pericoli stiano per irrompere in quella apparente calma ed attesa. Il pericolo incombe, ma ella non può vederlo arrivare. La sua condizione è dunque letteralmente quella di chi è in balia degli eventi, minacciata da pericoli che non può prevedere. Al contrario Perseo dorme incosciente, e dunque tranquillo, poiché non presta orecchio ai timori della madre.

Questa contraddizione tra un timore dovuto all’ignoranza (Arianna/Danae) ed una calma all’apparenza altrettanto inconsapevole (Perseo) può essere interpretata in un’ottica iniziatica: il non iniziato è in uno stato di ignoranza, per questo teme ogni cosa, mentre l’iniziato che è in possesso della conoscenza misterica può permettersi di ignorare la paura, poiché è cosciente della sua inconsistenza. L’intera vicenda mitica di Danae si presterebbe del resto ad una interpretazione in chiave mistico-iniziatica (v. Formenti 2017). In particolare il seppellimento simbolico della cassa/bara inchiodata nel mare, rimanda ad una concezione rituale del passaggio iniziatico, dalla tenebra alla luce, dalla morte alla vita dopo la morte. La figura di Danae può essere dunque interpretata, tanto quanto quella dell’Arianna del ditirambo, come la personificazione di un’anima che ha intrapreso il percorso iniziatico verso una conoscenza superiore che comprenda anche la soluzione del dissidio vita/morte.

Elemento cruciale di questa interpretazione in chiave iniziatica dei due testi, quello di Simonide e quello di Nietzsche, è la menzione delle orecchie: le piccole orecchie che Perseo non volge al lamento della madre – le piccole orecchie che, secondo Dioniso, l’Arianna del ditirambo avrebbe simili al dio. Non è ignoto alla Nietzsche Forschung il ruolo centrale giocato dalle metafore uditive nell’opera di Nietzsche. Sulla predominanza del senso dell’udito su quello della vista, della dimensione orale su quella letteraria, è incentrata gran parte della analisi critica di Nietzsche della tradizione letteraria antica (v. Santini 2019). L’argomento della ‘sensibilità’ o della ‘finezza d’orecchio’ è adottato in molte occasioni nell’opera matura, in particolare nelle Nuove Prefazioni o laddove è questione di pensare una nozione centrale per Nietzsche, quella di stile (inteso come stile letterario, di parola, ma anche di vita, ethos esistenziale).

La scelta del senso dell’udito da parte di Nietzsche è significativa. Si tratta del senso più specificamente passivo dei cinque: difficilmente infatti potremmo impedirci di sentire. Possiamo certo non vedere, non toccare, tapparci il naso, rifiutarci di assaggiare qualcosa, ma l’arginamento dell’udito risulterà sempre più laborioso (lo sa bene Odisseo, che dovette farsi legare dai suoi marinai, a loro volta provvedutisi di cera nelle orecchie). D’altro canto, proprio questa irriducibilità del senso dell’udito lo rende uno dei sensi ancora più complessi e più profondamente radicati nel complesso della fisiologia finanche negli esemplari così progrediti e civilizzati della specie umana. Si tratta pur sempre del senso meno atrofizzato, più reattivo e anche più istintivo, che permette una reattività immediata. Un altro topos della filosofia nietzschiana associa l’udito all’arte della danza. Un buon orecchio o meglio un orecchio assoluto è quello del danzatore, il cui corpo è in summa un grande orecchio, che sente il ritmo e lo interpreta in ogni suo arto. Anche nello Zarathustra la metafora dell’orecchio è una delle più attestate.

Nel caso del Lamento di Arianna, la questione si fa più complicata, e con questo più interessante. Le piccole orecchie, che Dioniso riconosce simili alle sue, sono in contraddizione con un’altra attestazione in un contesto molto simile nel Crepuscolo degli Idoli:

‘Oh Dionysus, Göttlicher, warum ziehst du mich an den Ohren?’ fragte Ariadne einmal bei einem jener berühmten Zwiegespräche auf Naxos ihren philosophischen Liebhaber. ‘Ich finde eine Art Humor in deinen Ohren, Ariadne: warum sind sie nicht noch länger?’.

[‘O Dioniso, divino, perchè mi tiri le orecchie?’ chiese una volta Arianna al suo filosofo amante in uno di quei famosi dialoghi di Nasso. ‘Trovo nelle tue orecchie un certo spirito faceto, Arianna: perché non sono ancora più lunghe?’] (GD §19, KSA 6, 120; tr. it. OFN VI, 3, 120).

Alle lunghe orecchie ‘d’asino’ che meritano una bella ‘tirata di orecchi’ si contrappongono le fini orecchie del dio e dell’Arianna in trasformazione del ditirambo. Orecchie piccole, come quelle del bambino Perseo del Lamento di Danae, che non lasciano passare niente di superfluo, che costituiscono una soglia insormontabile che la paura e il pregiudizio non riescono a superare. Le piccole orecchie di Perseo, Arianna e Dioniso sono orecchie da iniziati, che non sentono già più ciò che è indegno di essere sentito (paura, smarrimento, morte), ma che recepiscono solamente ciò che può essere assimilato come nutrimento per l’accrescimento dello spirito.

Amante marina: una lettura femminista?

In conclusione di questo articolo vorrei rivolgere la mia attenzione all’opera di Luce Irigaray, in particolare alla sua Amante marina (1980), la cui composizione è il risultato di un’antica consuetudine e di un attento dialogo intellettuale con l’opera di Nietzsche, in particolare con lo Zarathustra. La complessa struttura compositiva e stilistica dell’Amante marina ci riporta agli esperimenti nietzschiani per la formulazione di un nuovo linguaggio filosofico, che si avvale degli strumenti poetici per nobilitare la prosa. Amante marina si compone di tre parti, ognuna delle quali sviluppa una particolare tecnica espositiva.

L’impianto del I saggio, Dire di Acque Immemorabili, riproduce le stesse strategie del monologo dialogizzante che abbiamo visto in opera nel ditirambo Klage der Ariadne e nel Lamento di Danae. Il recitativo è in prima persona, e si sviluppa attraverso momenti riflessivi e vere e proprie allocuzioni. Gli interlocutori esterni sono di due tipi. Il primo è il ‘voi’, imprescindibile in francese, che sembrerebbe rivolgersi dunque a chi legge. Un tale ‘voi’ non può però non ricordare il tanto discusso “noi – dico noi per cortesia…” (“wir – ich sage höflicher Weise wir…”) (GD 3, §5, KSA 6, 77; tr. it. OFN VI, 3, 72) del Crepuscolo degli Idoli. Il wir nietzschiano è da interpretarsi talvolta come un pluralis majestatis che acuisce l’introversione del discorso, talaltra invece come se indicasse una comunità ideale di ascolto, che comprende il filosofo stesso, ma che si situa, nel migliore dei casi, nella posterità. Il secondo interlocutore che compare nel I saggio di Irigaray è, come nei testi finora analizzati, un generico ‘tu’, che rimane anch’esso innominato. Il tono dominante della trattazione è quello ipotetico ed interrogativo, che incalza e sospinge il monologo e che costituisce l’ossatura argomentativa e, per così dire, il fraseggio del testo. La II parte, Labbra velate, si presenta come una vera e propria trattazione, un saggio a carattere filosofico, storico e letterario, come anche la III parte, Quando nascono gli dei, dedicata a tre figure divine: Dioniso, Apollo e il Cristo. La II e la III parte ci forniranno spunti interessanti dal punto di vista contenutistico.

Chi è l’amante marina e chi è il suo interlocutore sconosciuto? Molte figure del mito emergono dal tessuto lirico dello scritto ad incarnare alcune delle caratteristiche di questo eterno femminino messo in scena da Irigaray: Mnemosyne custode della memoria e della storia, Aracne e Penelope, tessitrici di un ordito universale, Diotima la maestra d’amore di Socrate, Ino o Leucotea, la dea bianca del mare con la sua schiera di donne marine: la temibile Medea, la spudorata Pasifae amante del toro bianco di Posidone, e ovviamente sua figlia, Arianna. L’interlocutore sconosciuto e ancora una volta muto può a sua volta essere identificato con Zarathustra (“tu insegni il superuomo, il senso della terra”, Irigaray [1980] 2003, 14), con Nietzsche stesso, o con un generico ‘uomo moderno’, un po’ l’equivalente nietzschiano di Teseo uccisore di mostri: l’eroe della modernità, del tempo del progresso, della ragione, della guerra.

Ritroviamo in questo primo saggio alcuni importanti elementi del Lamento di Arianna. Primo fra tutti il contrasto Mezzanotte/Meriggio, che si risolve qui esplicitamente in una complementarità. L’oscurità della notte, che pertiene all’amante marina, a cui si associa l’oscurità dell’oltretomba, simboleggia l’oscurità umida del ventre materno. Questa oscurità profonda e fluida è il necessario sostrato perché si dia la grande luce del Meriggio, il venire alla luce della natura e delle generazioni umane nella riproduzione. Un’altra spia inequivocabile che si incontra è quella della centralità dell’elemento uditivo – la voce, il silenzio e ancora una volta l’orecchio: “Le tue prediche di morte mi infastidiscono le orecchie, e preferisco aprire a musiche che non siano elogi funebri!” (Irigaray [1980] 2003, 23); ancor più esplicitamente: “Proprio non occorre battere dei colpi, ma piuttosto ascoltare per captarne la musica. Con piccolissime orecchie” (Irigaray [1980] 2003, 34); di nuovo, dopo le piccole orecchie incontriamo l’orecchio universale: “Ho io orecchie ancora? Sono io soltanto orecchio ancora e nulla più?” (Irigaray [1980] 2003, 84).

Nel monologo di Irigaray i rapporti di forza sono invertiti rispetto al ditirambo nietzschiano, e ancor più rispetto alla posizione della remissiva Danae di Simonide. Certo, la donna del monologo, come le sue antecedenti mitiche, soffre degli attacchi del suo nemico/amante: sente il peso delle aspirazioni metafisiche dell’uomo, del suo disprezzo, della sua aridità, della sua avversione, della sterile complessità del suo pensiero (labirintico, come già lo definiva Nietzsche), del suo distruttivo desiderio di compiutezza e di finitudine, di omologare tutto a sé stesso. La protagonista risponde però incalzando l’interlocutore di domande alle quali lui sì, non può dare risposta, e si fa portavoce di una filosofia del divenire, che tutto conserva e reintegra nella memoria e che al contempo è capace di produrre e creare mutamento, di una filosofia della fedeltà alla terra più radicale e più rivoluzionaria di quella del sacerdote Zarathustra.

Quella che cercano gli eroi con le loro imprese e la loro tensione verso l’azione – un Teseo, un Perseo, ma anche un Ulisse (Irigaray [1980] 2003, 44) che torna a casa solo per poter ripartire per un nuovo viaggio –, non ultimo con il loro desiderio di ‘riprodursi’ (letteralmente duplicarsi) attraverso la donna, sarebbe da considerarsi una forma debole di immortalità. La perennità del divenire invece, simboleggiata dalla mobilità del mare, diviene l’immagine di questa possibilità di esistenza potenziata nel mutamento: in mare infatti non esistono cadute, ma solo ricorsi e un sempre continuo incedere e scivolare. Il mare, il grande assente del Lamento di Arianna (sebbene a Nasso Arianna giaccia su una spiaggia), è però il grande protagonista del Lamento di Danae. È ampliamente provabile, da un punto di vista strutturale, contenutistico, stilistico e lessicale, e spero lo sarà ancor più nel seguito di questo articolo, che Luce Irigaray aveva davanti agli occhi il modello del ditirambo nietzschiano. Conosceva però la Cea Nenia di Simonide, che a sua volta è la fonte del Lamento di Nietzsche?

Come dicevo, i riferimenti alle molte figure femminili del mito greco non escludono la presenza, tra le righe, anche di Danae, ma un collegamento univoco resta da provare. Vi è però nell’Amante marina di Luce Irigaray una dimensione che manca completamente al Lamento di Arianna, e che è invece centrale nel Lamento di Danae: il rapporto col figlio, il bambino in fasce. Il bambino sempre in culla è il titolo del I capitolo del III saggio, Quando nascono gli dei. L’idea del lattante, che ancora vive in simbiosi con la madre, che si nutre del fluido latte materno, permette di pensare l’uomo come ancora non maturato, non staccato dal seno materno. L’infante sempre nella culla, nella cassa come Perseo, nella cesta come il piccolo Dioniso λικνίτης dei misteri Eleusini, prefigura certo le figure di eroi, uccisori di mostri, potenziali amanti, mariti, padri. D’altro canto però, esso conserva una potenzialità assoluta, non ancora determinata, e dunque non ancora limitata. Questo fanciullo cui appartiene ancora l’elemento umido, che abita le profondità marine, come Melicerte nelle braccia di Ino/Leucotea, come il fuggiasco Dioniso, non conosce il giorno e la notte, non si cura di nulla e dorme tutto il tempo, dotato di una sovrumana incoscienza che, come per il Perseo del Lamento di Danae, è indice di una superiore conoscenza.

Il secondo saggio, Labbra Velate, abbandona la formula del monologo dialogizzante e sviluppa una trattazione di tipo più tradizionale, sebbene sempre improntata alla prosa lirica. Continua l’esposizione delle figure mitologiche, con una particolare predilezione per quelle personalità mitiche che ‘stanno dalla parte degli uomini’, che cioè rappresentano figure dell’assoggettamento violento o volontario dell’elemento mutevole e naturale all’elemento della determinazione artificiale. I più importanti nomi di questa serie sono quelli dei ‘figli del padre’. La formula intesa in senso generico riguarda un grande numero di figure mitologiche e religiose (Gesù è figlio di Dio, come Dioniso, Διὸς παῖς). Una categoria ancora più ristretta è quella dei ‘figli dei soli padri’, che comprende due divinità in particolare: Dioniso, nato dalla coscia di Zeus dopo l’incenerimento della madre Semele, ed Atena, fuoriuscita anzitempo dal cranio del re degli dei che ne aveva divorato la madre Temi. A queste figure ‘che stanno dalla parte del padre’, e che sono il frutto del sacrificio della madre, si aggiunge quella di Elettra, ‘colei che ama il padre’, responsabile con Oreste dell’uccisione di Clitemnestra.

Tra le figure femminili che giocano un ruolo liminare, di scambio, e quindi necessariamente di conflitto tra i due mondi, vi sono Persefone, Artemide ed ancora una volta, Arianna. Persefone rappresenta la divinità femminile più antica e potente, simbolo della natura, della ricchezza del mondo sotterraneo, e del dominio sulla morte. Il suo ‘ratto’, ad opera del più oscuro degli Olimpi, lungi dal renderla impotente, le garantisce un potere ambiguo ed imperscrutabile. La dea dell’Oltretomba il cui nome non può essere pronunciato e sulla quale non si può scommettere (come sullo Stige non si può giurare) è il simbolo della forza della natura, passiva ed attiva ad un tempo, figura chiave di ogni culto misterico ed iniziatico, la cui legge eterna ha un “ritmo difficilmente percettibile anche da ‘piccole orecchie’” (Irigaray [1980] 2003, 94). Artemide, il doppio femminile dell’eroe Apollo, unisce in sé l’elemento femminile più radicale, l’aspetto selvaggio della natura che Henri Jeanmaire chiamerà ‘eterismo’, e la negazione di questo: essa è infatti deputata alle nascite e alla guida delle fanciulle nel cammino iniziatico verso la maturità sessuale. È in quest’ottica iniziatica che viene interpretato uno degli aspetti più controversi del mito di Artemide: il fatto che, anch’essa, come il fratello Apollo deputato alle stragi punitive, è una divinità assassina, e assassina in particolare di donne (le Niobidi e Callisto).

Termina questa lista Arianna ‘la pura’, che Luce Irigaray definisce come “la perfettamente somigliante” (Irigaray [1980] 2003, 95). Come Artemide è il ‘doppio’ di suo fratello Apollo, Arianna (come Andromaca in un altro contesto) è il doppio degli uomini che la domineranno. La sua docilità è totale: essa è strumento di Teseo prima, di Dioniso poi. Su di lei si rispecchiano gli eroi e gli dei e riproducono se stessi, senza nemmeno dover passare per la riproduzione (l’unione di Apollo con Dafne, di Teseo e Dioniso con Arianna, di Giasone con Medea, possono sotto punti di vista diversi essere tutte considerate come unioni sterili). Proprio per questa sua materialità inerte, per la sua totale passività, Arianna diviene per Luce Irigaray il campo di prova degli dei e degli eroi, dell’umanità in cerca della sua identità.

Per concludere, l’orizzonte femminista nel quale si inscrive l’opera di Luce Irigaray è a mio parere uno strumento prezioso, che ci permette non tanto di ri-orientare il Lamento di Arianna di Nietzsche o la Nenia Simonidea prima analizzati, ma di comprenderne e potenziarne i nuclei concettuali. Ben al di là di una lettura orientata e partitica, la lettura femminista esalta dei significati già insiti negli scritti analizzati e li sviluppa in direzioni ancora più radicali. Con una semplificazione certamente eccessiva, l’Amante marina di Luce Irigaray racconta la storia dell’umanità come la storia di un conflitto dinamico tra un elemento femminile, materno, naturale ed onnicomprensivo e l’elemento maschile dei ‘nati da donna’, degli uomini (come specie umana, ma anche come esseri di sesso maschile) che da questo seno materno sempre si partono – per agire nel mondo ed esprimervi la loro irrisolta conflittualità – e a cui sempre ritornano, nel desiderio vano di dominarlo e controllarlo.

Note

1. Questa citazione, accolta nell’edizione Colli-Montinari nel frammento 9 [115], è in realtà separata dal resto del frammento. Essa compare di fatto due pagine più avanti nello stesso manoscritto (il W II 1) ed è stata accorpata dagli editori per ragioni tematiche. A questo proposito si consulti Santini 2012 e Podach 1963, 103-128.

Sigle delle opere di Friedrich Nietzsche secondo l’edizione Colli-Montinari

KSA
Friedrich Nietzsche, Sämtliche Werke: Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, hrsg. von G. Colli und M. Montinari, de Gruyter, Berlin 1967-1988

OFN
Opere di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano

Epistolario
Epsitolario di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano

DD
Dionysos-Dithyramben

GD
Götzen-Dämmerung oder Wie man mit dem Hammer philosophirt

JGB
Jenseits von Gut und Böse

NF
Nachgelassene Fragmente

Bibliografia
  • Bernanos 1936
    G. Bernanos, Journal d'un curé de campagne, Paris 1936.
  • Bernanos 1926
    G. Bernanos, Sous le soleil de Satan, Paris 1926.
  • de Lubac 1949
    H. de Lubac, Nietzsche mystique, in Id., Affrontements mystiques, Paris 1949, 145-189.
  • Formenti 2017
    M.A. Formenti, L’eroe greco e il rito di passaggio: i riflessi iniziatici tra monomito, rituale e culto, Tesi di Laurea dell’Università di Torino, Dipartimento di Studi Umanistici, 2017.
  • Irigaray [1980] 2003
    L. Irigaray, Amante marine de Friedrich Nietzsche, Paris 1980; tr. it. di L. Mauraro, Roma 2003.
  • Nietzsche 1868
    F. Nietzsche, Beiträge zur Kritik der griechischen Lyriker, I. Der Danae Klage, “Rheinisches Museum” XXIII (1868), 480-489.
  • Podach 1963
    E.F. Podach, Ein Blick in Notizbücher Nietzsches, Heidelberg 1963.
  • Ritschl
    F. Ritschl, Der Parallelismus des sieben Redepaare in den Sieben gegen Theben des Aeschylus, in Id. Opuscula philologica, Leipzig 1862, I, 300-364.
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  • Santini 2019
    C. Santini, Ein Rhythmus für das Auge und einer für das Ohr. Friedrich Nietzsche und die Normativität des Rhythmus, in “Nietzscheforschung” 26/1 (2019), 39-56.
  • Tönges 1998
    B. Tönges, Das Genie des Herzens: über das Verhältnis vom aphoristischem Stil und dionysischer Philosophie in Nietzsches Werken, Stuttgart 1998.
  • Zambrano 2004
    M. Zambrano, La confessione come genere letterario, Milano 2004.

English abstract

This contribution studies Friedrich Nietzsche's Ariadne’s Lament by placing it at the centre of a double-temporal irradiation. On the one hand, it highlights the close link, from the point of view of the form and of the content, of this Nietzschean 'lament' with one of the most famous θρῆνοι (threnoi) of antiquity, Danae's Lament, better known as Simonides’ Cea Nenia. On the other hand, it opens a perspective on contemporaneity, using one of the most beautiful reinterpretations of the Zarathustra / Klage der Ariadne complex by a contemporary philosopher, Luce Irigaray.

keywords | Friedrich Nietzsche; Ariadne; Simonides; Danae; Luce Irigaray.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo: Carlotta Santini, Dalla Cea Nenia di Simonide all’Amante marina di Luce Irigaray. Leggere il Lamento di Arianna di Friedrich Nietzsche, “La Rivista di Engramma” n. 173, maggio-giugno 2020, pp. 233-254 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.173.0018