"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

175 | settembre 2020

97888948401

Corrispondenza di linee

Il tratto nelle lettere di Gio Ponti

Francesca Romana Dell’Aglio

English abstract

“L’architettura è facile: e molto facile, perché la buona architettura è spontanea, è tutta spontanea: si è indicata come ‘spontanea’ l’architettura delle case rurali, dei paesi, l’architettura di Positano, di Ibiza, di Alberobello, di Santorino, l’architettura senza architetto: ma anche l’architettura di un palazzo per uffici che obbedisca con essenzialità alla sua destinazione è ‘spontanea’ così l’architettura è facile: la complichiamo noi architetti, quando riusciamo cattivi architetti, o accademisti (dell’antico, del moderno) e non le obbediamo”.
(Ponti [1957] 2018, 12)

Nella sua pubblicazione più famosa Amate l’architettura, Gio Ponti descrive l’architettura come una disciplina spontanea, perché partecipe, accessibile a tutti, sensibile e capace di leggere le azioni collettive della società e restituirle in una forma tangibile. L’architettura è interazione tra l’uomo e il costruito – scriveva Kari Jormakka nel 1992 in un libro oggi dimenticato, Heimlich Manoeuvre. Ritual in Architetural form: la spontaneità non è solo quella dell’architettura ma anche quella dell’architetto che impara a osservare, attraverso una lente flessibile, i comportamenti dell’uomo, e a muovere e far evolvere la sua arte al loro stesso passo.

Nella recente discussione che mette nuovamente l’uomo al centro del progetto di architettura e della città, con la sua doppia tensione tra efficienza tecnologica e ambizioni bucoliche, riecheggia dal profondo la domanda che Ponti poneva a metà del secolo scorso: l’architetto è in grado di ascoltare l’evolversi dell’uomo e allo stesso tempo di corrispondere a quell’evoluzione con una forma che ne sia testimonianza ed espressione? E come può un’azione dell’uomo come l’architettura, che si propone come artificio che aspira a essere radicato e permanente, essere allo stesso tempo spontanea?

Come nasce l’architettura?
Da dentro.
(Ponti [1957] 2018, 248)

Le domande che Gio Ponti aveva imparato a porsi esplicitano la contraddittorietà insita nell’architettura che si ravvisa nei più svariati mezzi creativi: parole, disegni, mobili, tutto ciò che lui chiamava “espressioni” (Licitra, Rosselli 2018, 3). Ogni espressione sembrava per Ponti assumere un valore propositivo, interrogativo – per dirla in una sola parola, progettuale. Alcune di queste non prendevano necessariamente la forma di oggetti, ma riecheggiavano solo nelle sue parole. Un buon esempio sono le parole pubblicate su “Domus” nell’aprile del 1933, nel giudizio che costituisce l’esito di un concorso per il progetto di un mobile radio-grammofono vinto da Luigi Figini e Gino Pollini.

La giuria, di cui Ponti faceva parte, insieme ad Alfredo Bossi, Carlo Felice, Angelo Filipponi e Giulio Moroni – premia il progetto vincitore definendolo un mobile e non solo un apparecchio, che permette alla modernità di entrare con cautela nelle case italiane, quasi in punta di piedi: una “signorile eleganza” si combina con una “perfetta coscienza tecnica e costruttiva” dando vita a un’accurata selezione di proposte dove “l’apparecchio elementare” si combina con il “mobile più complesso” (Ponti 1933, 206). Gio Ponti in questo concorso riconosce l'inutilità di nascondere e camuffare la modernità, per tentare invece di abbracciarla e accoglierla attraverso una maestria che permetta di riconoscerla senza stravolgere il mobilio domestico esistente. Una fascinazione nei confronti del nuovo, capace di ascoltare la sensibilità dell’abitare.

Ponti prese parte alla giuria non in veste di architetto, ma di direttore della rivista “Domus”, che non si proponeva tanto come una rassegna sul mondo del design e le sue tendenze, ma che intendeva informare sul “saper vivere” come spiega brillantemente Michela Maguolo, nel suo contributo in questo stesso numero di Engramma. “Domus” rendeva esplicita l’architettura, accessibile a tutti tramite un’unità di cultura, linguaggio, comunicabilità, sensibilità (Ponti [1957] 2018, 3). Una discussione che si fa forza nel dialogo tra più parti: sociologhi, medici, agricoltori, industriali, ingegneri e politici “tutti debbono pensare architettura, sentirne il dovere, cooperare ad essa, partecipare all’Architettura” (Ponti [1957] 2018, 14).

1, 2 | Gio Ponti, Cento lettere 1949-1979.

3, 4 | Gio Ponti, Cento lettere 1949-1979.

5, 6 | Gio Ponti, Cento lettere 1949-1979.

7, 8 | Gio Ponti, Cento lettere 1949-1979.

9, 10 | Gio Ponti, Cento lettere 1949-1979.

11, 12 | Gio Ponti, Cento lettere 1949-1979​​​​​​​.

13, 14 | Gio Ponti, Cento lettere 1949-1979​​​​​​​.

15, 16 | Gio Ponti, Cento lettere 1949-1979​​​​​​​.

Questa sensibilità intesa come frutto di una collaborazione, di una tessitura di relazioni e di una corrispondenza di pensieri, tuttavia, emerge in modo più evidente nel momento in cui Ponti si siede alla sua scrivania alle prime ore del mattino, e si dedica a scrivere lettere ai suoi corrispondenti: qui la sensibilità e la spontaneità dell’architetto si combina con la generosità e l’umanità dell’amico e si palesa in un insieme di linee, parole e colori che rimangono tutt'oggi un testamento prezioso.

Di Ponti molto si è detto e si è scritto, ma poco sembra essere stato dedicato a questi tratti di penna custoditi nella sfera dell’intimità. Di rado gli studiosi dell’architetto milanese si sono soffermati sul suo epistolario trattandolo come parte integrante della sua produzione artistica, come invece era: ne è un esempio la bella mostra “Cento Lettere” allestita nel 1987 alla galleria Antonia Jannone a Milano, i materiali della quale vennero in seguito racchiusi in un raffinato libricino voluto da Rosellina Archinto e pubblicato nello stesso anno con una prefazione dell’amico Joseph Rykwert. Altre testimonianze sono raccolte nel volume Lettere ai Parisi, esito di una mostra curata da Piero Deggiovanni nel 1994 presso la Galleria Civica di Modena, e pubblicato di recente in una nuova edizione (Deggiovanni [1994] 2018). Ciononostante, poco sappiamo di questi concisi capolavori che costituiscono una produzione personale e intima da leggere non tanto per soddisfare piccole curiosità sui rapporti personali dell’architetto, ma che dovrebbe essere trattata come un capitolo, originale e prezioso, della sua opera.

Il primo esercizio di lettura che qui si presenta è guidato, dunque, da una fascinazione, sommessa e discreta, per quelle linee che si trovano tracciate nell’epistolario. Le lettere private, spesso disperse nelle case dei suoi amici, sono perciò poco note ma vanno considerate come oggetto di studio che, alla pari delle sue architetture e dei suoi oggetti, entrano nel corpus della sua opera.

Io ti volevo scrivere
o Lisa
ed invece ho disegnato.
Cosa significa ciò?
(Sermisani 1987, 10)

Con queste parole si apre Cento Lettere, un viaggio attraverso mappature di parole e linee: da quelle dedicate alle nuvole trasformate in parole, che diventano paesaggi tra i quali camminare e rifugiarsi [Fig. 1, 2], oppure figure umane che si siedono [Fig. 3]; linee che riempiono la pagina diventando semplici segmenti o piani geometrici [Fig. 4], oppure oggetti che da inanimati acquisiscono un ruolo attivo, come gli occhiali che parlano [Fig. 5] o le note musicali che diventano frutti di un albero spoglio [Fig.7 ], o panni al sole [Fig. 8]. In altre lettere, molto più dirette, la linea diventa più spoglia ma non meno importante, si colora incorniciando parole che si riducono a una sintesi sottile, quasi sussurrata: “verrete? verrai?” [Fig. 9, 10]. Talvolta queste linee riflettono un semplice pensiero che lascia intendere che non si era stati dimenticati, una visita viene tradotta in un tratto colorato accompagnato da un diminutivo dolce e sentito, come nella lettera scelta quale copertina dell’edizione Archinto: “Ecco Rosellina, la mia visita” [Fig. 11]. Oppure un semplice augurio a trovare l’ispirazione o a continuare un’impresa “Always a wind for your dreams” [Fig. 12].

La dedizione e la delicatezza espresse da un Ponti ricurvo sulla scrivania del suo studio, prima che arrivassero i suoi collaboratori, è un gesto di una profonda generosità, qualcosa che – come Joseph Rykwert ha riconosciuto nella sua introduzione alla raccolta delle cento lettere – rendeva i suoi amici fortunati. 

La linea nelle lettere di Ponti sembra scostarsi dalla definizione della circumscriptio albertiana, secondo la quale essa è un contorno, un insieme di punti:

E i punti, se in ordine costati l'uno all'altro s’aggiungono, crescono una linea. […] Più linee, quasi come nella tela più fili accostati, fanno superficie (De Pictura, 10-12).

Ma le linee che nascono dalla mano di Ponti si distaccano anche da quelle interrotte e punteggiate, che ‘fanno confine’ e che Merleau-Ponty definisce come:

[...] attributo positivo e proprietà dell’oggetto in sé. Il contorno della mela o il confine fra il campo coltivato e la prateria, quali esistono nel mondo, sono linee punteggiate, su cui la matita o il pennello non avrebbero che da passare (Merleau-Ponty 1989, 52).

Secondo il filosofo francese, infatti, da Leonardo da Vinci in poi la pittura moderna ha contestato questo modo di osservare e concepire la linea, dandole ben più spessore fino a definirla come asse generatore dell’oggetto. La linea dà forma agli oggetti e non imita più il visibile ma rende visibili gli stessi oggetti; si passa dunque da concezione prosaica a generatrice (Merleau-Ponty 1989, 52). La linea è un gesto dinamico, un movimento che secondo Kandinsky non è altro che un punto con una direzione. Nonostante l’artista russo si limiti a una lettura geometrica della linea, definendola una retta spezzata, egli riconosce che nel suo passaggio da ‘orizzontale’ a ‘libera’, quando l’angolo diventa curva, essa matura fino ad “acquistare un certo sapore di drammaticità” (Kandinsky 1968, 70). Nei disegni delle lettere di Ponti la linea non contorna, non segna confini, ma genera collegamenti, crea. Come la parola che sfocia in una mano o in un filo di una bandiera [Fig. 13], senza fermarsi compone una frase ininterrotta [Fig. 14] oppure si confonde nel corpo umano [Fig. 15, 16]. 

La linea, secondo i disegni di Ponti, dovrebbe essere intesa come un processo, come la nascita graduale di una forma, riflettendo su quel che Paul Klee considera l’azione di vivificare in contrasto con la forma finita che diventa invece la traduzione di una fine: la vita comincia quando la linea inizia a emergere (Ingold 2015, 4).

L’antropologo Tim Ingold nel rispondere alla domanda su cos’è una linea, ricorre a un poema di Matt Donovan, intitolato appunto Line, dove essa viene considerata, tra le altre definizioni, “una frase non finita” (Ingold, 2007, 40). Il testo è una sorta di ‘poeticizzazione’ di una serie di definizioni che nel 1755 Samuel Jackson raccolse per il Dizionario della lingua inglese: qui la linea può diventare addirittura sinonimo di lettera – as I read in your lines (Ingold 2007, 40). Una linea intesa come lettera implica una corrispondenza, che è molto diversa da un dialogo: è la differenza che Ingold ritrova tra la preposizione ‘between’, simbolo di dialogo e di cristallizzazione di un rapporto tra due estremità, e invece quello che lui definisce l’“in-between”, il quale si concentra sulla relazione e la corrispondenza che si evolve tra di esse. La condizione dell’“in-betweenè in constante evoluzione, in quanto oltre a mettere in relazione i due estremi, essa promuove un intreccio sempre dinamico: la linea dunque si trasforma in uno spazio in costante movimento.

La vita delle linee è un processo di corrispondenze
(Ingold 2015, 150)

Questo è lo spazio che Ponti crea non appena tocca foglio con la matita, che diventa segnale e opera, e che necessita di un interlocutore per acquisire significato e potenza visiva. L’architettura ha una vocazione sociale (Ponti [1957] 2018, 10) e, come si ribadisce nelle ultime pagine di Amate l’Architettura, “tutta l’architettura essenziale è spontanea perché prende forma obbedendo alla sua destinazione” (Ponti [1957] 2018, 248).

Così come le sue architetture sono pensate per i loro abitanti, quindi per la loro destinazione, segni e disegni acquisiscono vita solo se sono tratti di comunicazione: ogni tratto sul foglio, sempre pensato per un interlocutore preciso, diventa dunque il segno di un tragitto, una passeggiata che ha come mèta la ‘visita’ a un amico. Oggi, in un mondo dove la matita ha perso la sua strada e la linea è stata ridotta a semplice geometria, queste lettere di Gio Ponti ai suoi amici diventano una nicchia preziosa dove riscoprire la poesia dei rapporti umani. Collaboratori, amici, clienti, politici, chiunque avesse attraversato la strada di questo eclettico personaggio, poteva avere la fortuna di ricevere una delle sue lettere. Come lo stesso Joseph Rykwert dichiara nella sua prefazione a Cento lettere, Ponti talvolta invia più lettere una di seguito all’altra, interrompendo il ritmo binario tipico di un dialogo che qui svanisce in una corrispondenza di linee. Quelle di Gio Ponti sono linee ‘antropogenetiche’ secondo la declinazione di Tim Ingold: forme non impostate dalla natura o dall’uomo, ma che emergono nel campo delle relazioni umane.

L’aspetto umano – relazionale e quasi affettivo – della linea diventa più esplicito quando la linea si colora. Il colore, ricorda Goethe nella sua Teoria dei colori, corrisponde all’incontro tra l’affettivo e il cosmico, tra il percipiente e il percepito. In particolare, scrivere lettere implica un certo affetto e predisposizione e l’aggiunta di colore espande la linea in una continuità che è proporzionale all’intensità affettiva; da aggiungere che il colore in sé può essere considerato un’espressione, un ornamento che specifica la forma, e insieme la abbellisce e la trucca (Ingold 2015, 102-103).

La vivacità del colore viene dunque a contrastare con la forza della precisione della linea: il colore, più che semplice strumento di espressione del pensiero qual è la linea, è una seduzione che incanta. L’espressione diretta che la linea dichiara con il suo semplice tratto continuo riflette l’essenza della verità, che si esprime – afferma l’antropologo Michael Taussig – in bianco e nero, forme e figure, contorni e segni; il colore, invece, fa parte di un mondo diverso, è un lusso, un eccesso, un riempimento o un mero decoro (Ingold 2015, 102).

Eppure, quando osserviamo le lettere di Ponti, il colore sembra farsi sentimento vero e proprio, rievocando l’intensità affettiva di cui scrive Goethe: è il disegno che dà forma a tutte le creature (così Diderot), ma il colore dona loro la vita. La distinzione tra linea e colore, come verità e abbellimento, svanisce: come si vede nei disegni tracciati nelle sue lettere, la linea per Ponti può essere colorata oppure no, il colore bianco oppure nero. Il significato espressivo del colore non si distingue da quello della linea: sono la stessa verità, entrambi esprimono una potenza generatrice. Ponti non riempie contorni: usa il tratto – colorato o no – con la stessa enfasi e con la stessa spontaneità. Non esiste una differenza tra il bianco, il nero e il colore per Gio Ponti: tutto è un costante compromesso tra luce e ombra – una reazione affettiva, in cui il colore esiste sempre, in ogni linea.

Gio Ponti conclude Amate l’Architettura, testo con cui abbiamo esordito, asserendo che il suo pensare è il frutto di una corrispondenza con gli amici e i conoscenti con i quali ha incessantemente discusso. La linea del tratto, l’amichevole intreccio tra due punti, è, come l’architettura, il segno di una disciplina che ha un carattere essenziale di socialità, ma che è anche arte spontanea e semplice nel suo gesto, a creare uno spazio – un’“in-between” – che traduce con la stessa intensità la vita dell’uomo in una forma irripetibile.

Bibliografia
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    P. Deggiovanni, a cura di, Gio Ponti. Lettere ai Parisi, Como 2018.
  • Goethe [1810] 1999
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  • Ingold 2007
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  • Kandinsky 1968
    W. Kandinsky, Punto, linea, superficie. Contributo all’analisi degli elementi pittorici, [Punkt und Linie zu Fläche, München 1926] traduzione di Melisenda Calasso, Milano 1968
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  • Merleau-Ponty [1964] 1989
    M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito [L’œil et l’esprit, Paris 1964], traduzione di Anna Sordini, Milano 1989. 
  • Ponti 1933
    G. Ponti, L’Esito del concorso per un mobile radio-grammofono, “Domus” 64 (aprile 1933), 206-207.
  • Ponti [1957] 2018
    G. Ponti, Amate l’Architettura, Milano [1957] 2018.
  • Sermisani 1987
    S. Sermisani, G. Ponti. Cento Lettere, Milano 1987.
  • Spiller 1969
    J. Spiller (ed.), Paul Klee Notebook. Vol. 1. The Thinking Eye, London 1969.
  • Taussig 2009
    Michel Taussig, What Color Is the Sacred?, Chicago 2009.
English abstract

Starting from a quote taken from the famous book, Amate L’Architettura, in which he describes architecture as a spontaneous act, this paper proposes the consideration of Gio Ponti’s personal letters as part of his broader artistic production, alongside his famous design works. If architecture is a generous act devoted to man as its primary interlocutor, these lines can unveil the core character of our discipline. Faithful to this notion of spontaneity, and borrowing from the work of British anthropologist Tim Ingold, Ponti’s letters will be here read as an architecture of human relations.

keywords: Gio Ponti; correspondence; Cento Lettere; lines.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Francesca Romana Dell’Aglio, Corrispondenza di linee. Il tratto nelle lettere di Gio Ponti, “La Rivista di Engramma” n. 175, settembre 2020, pp. 303-318 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.175.0014