"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

202 | maggio 2023

97888948401

“Vigilasne rex? Vigila”

Il doppio corpo del re romano e le sue bellicose resurrezioni primaverili

Matteo Alberio, Barbara Biscotti 

English abstract

Jean Baptiste Siméon Chardin (attr.), Le vergini vestali, 1760-70 ca., The Art Institute of Chicago.

Ove ci si muova sul piano della dimensione discorsiva in cui si costituisce il potere, la figura del rex romano, pur considerata abitualmente lontana dal momento fondativo della nozione di Stato collocato a buon diritto dal pensiero filosofico politico moderno – e ovviamente da Kantorowicz (1989) in particolare – tra XII e XIII secolo, rappresenta un’importante forma simbolica avente per molti aspetti carattere di matrice di una teologia politica che verrà sviluppata successivamente nei modi in cui siamo abituati a pensarla.

Guardando a essa, infatti, si assiste pienamente all’operare primigenio di quella che Cornelius Castoriadis (1975) ha chiamato l’“istituzione immaginaria della società”, in cui la dimensione simbolica dell’istituzione agisce compiutamente, gettando le basi di un’idea di re che contiene in sé tutti gli elementi e le contraddizioni del potere “invisibile e ontologicamente indefinibile” (Chiodi 1979), chiaramente individuati e gestiti negli spazi rituali a essa correlati, e che, esplosa nella frammentazione dell’età repubblicana in schegge istituzionali particolari, tornerà a proporsi in modo unitario in altre declinazioni nella figura del princeps e poi degli imperatori, nel corso della storia romana, per allungare le sue ombre successivamente nello sviluppo dell’intera vicenda storica dell’Occidente.

Poche, enigmatiche e scarsamente frequentate righe del commento di Servio all’Eneide rappresentano lo spunto qui prescelto, dunque, per addentrarci in quell’arcaica regalità romana, che costituisce il perno intorno a cui, in quelle stesse righe, si rincorrono l’un l’altra, via via sempre più intricate, numerose questioni che equivalgono, sia per gli storici sia per i giuristi, all’affaccio su un vero e proprio ginepraio.

[…] tum sic ignarum adloquitur: “uigilasne, deum gens?
Aenea, uigila et uelis immitte rudentis...”

(Verg. Aen. X 228-229)

[…] VIGILASNE DEVM GENVS AENEA VIGILA: uerba sunt sacrorum; nam uirgines Vestae certa die ibant ad regem sacrorum et dicebant: “uigilasne rex? uigila”. Quod Vergilius iure dat Aeneae quasi et regi et quem ubique et pontificem et sacrorum inducit peritum. […]
(Serv. Ad Aen. X 228)

Che la figura del sovrano sia l’elefante nella stanza risulta già evidente considerando quali sono i sacerdozi chiamati in causa dall’unico dato certo che emerge dal commento, ossia il fatto che le vestali avrebbero dovuto – in un giorno non meglio precisato – recarsi dal rex sacrorum e pronunciare una formula sacrale: Vigilasne rex? Vigila.

Se è lapalissiano, non fosse altro che sotto il profilo terminologico, che rex sacrorum e rex fossero figure istituzionali connesse, e se quasi certo risulta anche il fatto che la figura sacerdotale del rex sacrorum avesse ereditato le funzioni sacrali precipuamente spettanti al rex, una volta venuto meno con il passaggio alla res publica colui che ne era in precedenza titolare, il collegamento tra il vestalato e il rex appare invece meno esplicito. Esso, tuttavia, non è meno stretto.

Sacerdotesse della dea Vesta, adibite in particolare alla custodia del fuoco sacro di Roma che non avrebbe mai dovuto spegnersi – oltre che a svariati altri compiti riguardanti la manifattura e conservazione di cibi rituali, nonché a rituali di purificazione –, proprio in relazione a tale compito principale esse presentavano salde connessioni con la regalità. L’archeologia a tal proposito sembra aver fornito importanti conferme, rilevando come la domus delle vestali, divenuta solo in un secondo momento indipendente nella sua ubicazione accanto alla regia, in origine dovesse essere parte di quest’ultima, in un’ipotizzata identificazione tra focolare dell’arcaico rex latino-sabino primus inter pares e fuoco di Roma (per tutti, Coarelli 1983; Carandini 2006; Sabbatini 2014. Parzialmente contra, peraltro, Fraschetti 2007), nonché tra donne della stirpe regale e vestali (Briquel 2010; Cairo 2013) in quanto custodi del fuoco della domus regale, secondo quanto sembra emergere anche dall’accostamento proposto sempre da Servio (Ad Aen. II 296) tra l’antiquissima dea di cui le vestali rivestono il sacerdozio e i penati: […] hic ergo quaeritur, utrum Vesta etiam de numero Penatium sit, an comes eorum accipiatur.

Si tratta di dati che in sé meriterebbero ben più ampia discussione, ma che – se considerati fondati – consentirebbero di avvalorare l’ipotesi, corroborata dall’arcaicità addirittura precivica del vestalato e da quella probabilmente altrettanto antica della sovranità romana, che in tempi risalenti le vestali pronunciassero la formula sacrale di cui al commento di Servio proprio nei confronti del rex, mentre solo dopo la caduta della monarchia si sarebbero rivolte nell’adempimento del medesimo rituale al rex sacrorum.

I dubbi che il passo di Servio lascia aperti, tuttavia, sono ancora molti, e riconducibili a due macro-questioni tra loro strettamente avvinte, allo scioglimento delle quali si tenterà qui di fornire un contributo, per ora solo interlocutorio nella consapevolezza della indubbia necessità di ulteriori approfondimenti, ma volto a tentare di gettare un’ulteriore luce sullo strutturarsi del discorso del potere nella fase fondativa di Roma. La prima questione che in tale prospettiva ci si propone, dunque, di approfondire è quella relativa al significato da attribuire al verbo ‘vigilare’ impiegato nella formula sacrale e al senso eventuale di una tale imperativa esortazione che sarebbe stata rivolta dalle vestali al re. Il secondo, conseguente, aspetto che verrà qui approfondito concerne la collocazione temporale di tale rituale e il suo inquadramento nella scansione del tempo sacrale-istituzionale di Roma arcaica.

Anzitutto, “vigilare”. Di primo acchito non sembra necessitino molti sforzi interpretativi, essendo il verbo in questione ancora oggi presente nelle lingue romanze con il significato di ‘controllare’, ‘sorvegliare’, ‘fare la guardia’, ‘stare all’erta’. Ed effettivamente questa è l’accezione che maggioritariamente è stata seguita nell’interpretazione della formula qui oggetto di esame, nel senso che le vestali avrebbero dovuto ricordare al re la sua funzione di guardia, di controllo della sicurezza della città (per tutti Pailler 1994 e Carandini 2015).

Se questa è la strada più battuta, tuttavia ve n’è anche un’altra, che non ci pare sia stata presa in considerazione sinora. Il verbo ‘vigilare’, infatti, non aveva un unico significato – quello giunto sino a noi – e, soprattutto, quello a noi familiare non era il suo originario, rinvenibile invece nell’idea di ‘essere sveglio’, ‘stare sveglio’, ‘risvegliarsi’. Un’accezione che non solo ricorre in autori come per esempio Ovidio (Heroid. XV 133; XVI 101) e Cicerone (De rep. VI 10; Pro Mur. IX 22), ma che risulta utilizzata dallo stesso Virgilio, nel passo dell’Eneide riportato in apertura e oggetto del commento di Servio, in una formula che riecheggia quella delle vestali, proprio con il significato di ‘stare sveglio’. Nel descrivere il ritorno di Enea dall’Etruria, infatti, il poeta riferisce che le navi dell’eroe erano state trasformate in ninfe dalla dea Cibele, e in particolare quella su cui lui si trovava aveva preso le sembianze della ninfa Cimodocea, che lo esortava a rimanere sveglio e ad aprire le vele, informandolo dell’attacco di Turno ai suoi compagni troiani e al contempo imprimendo una forte spinta all’imbarcazione. Peraltro, l’interpretazione di quel ‘vigilare‘ nel senso di ‘stare sveglio’ appare confermata dal fatto che nel libro V il nocchiere di Enea, Palinuro, naufraga in mare (il che poi lo porterà ad essere ucciso) proprio per non essere riuscito a stare sveglio, essendosi addormentato sotto l’influsso del dio Somnus; ed è appunto per evitare che Enea subisca la stessa sorte che Cimodocea gli intima di ‘vigilare’, ossia di rimanere sveglio (Delvigo 2016).

Inoltre, sotto il profilo etimologico il latino vigilare va ricollegato al radicale indoeuropeo *weǵ- significante ‘essere attivo, sveglio’, lo stesso radicale da cui il protogermanico *wakènan, esprimente il medesimo concetto (de Vaan 2008; Monier-Williams 1899; Orel 2003). Dalla stessa radice, poi, anche il sanscrito jāgṛ-, cui si ricollega nella religione hindu la festività di Ko-jāgara, celebrata la notte di luna piena del mese ashwin (settembre o ottobre), il cui nome deriverebbe da kah e jāgara, cioè l’esclamazione della dea Lakshmi: “chi è sveglio?”; ella, infatti, durante tale notte scenderebbe nelle case, assicurando prosperità alle sole persone rimaste sveglie. L’affinità di tale formula divina al quesito rituale posto dalle vestali al rex sacrorum è densa di suggestioni.

Occorre ancora rilevare che il radicale indoeuropeo *weǵ- apparenta il latino vigilare con un altro campo semantico, quello di vigĕo e vigor, aventi il significato di “essere attivo, fiorente” o anche “essere pieno di vita, nel pieno della forza e fresco”, attestato ad esempio in poeti quali Ennio e Nevio (de Vaan 2008 e Walde-Hoffmann 1938).

Sicché risulta nel complesso compatibile e coerente con il quadro arcaico cui indubbiamente si riferisce la formula recitata dalle vestali una possibile differente interpretazione del verbo che ne rappresenta il cuore, non riferita, come sin qui ritenuto, semplicemente a un invito alla vigilanza, bensì a una vera e propria evocazione dal sonno, a un’azione di risveglio esercitata dalle vestali nei confronti di colui cui la formula è rivolta.

Per esigenze di completezza si anticipa qui sin d’ora, tra l’altro, anche il fatto che nel commento all’Eneide di Servio si rinvengono due ulteriori riferimenti all’impiego rituale-sacrale del verbo ‘vigilare’, i quali verranno però più attentamente considerati nell’affrontare la seconda delle due questioni che ci siamo prefissati. I passi in questione sono:

QUISQUIS ES licet hostis sis. et sunt, ut habemus in Livio, imperatoris verba transfugam recipientis in fidem ‘quisquis es noster eris’. item “vigilasne, deum gens” verba sunt, quibus pontifex maximus utitur in pulvinaribus: quia variam scientiam suo inserit carmini. […]
(Serv. Ad Aen. II 148)

[…] UTQUE IMPULIT ARMA hoc ad pedites. est autem sacrorum: nam is qui belli susceperat curam, sacrarium Martis ingressus primo ancilia commovebat, post hastam simulacri ipsius, dicens 'Mars vigila'. quidam sane suos equos et sua arma de Turno tradunt, scilicet ut ceteris esset exemplum.
(Serv. Ad Aen. VIII 3)

Possiamo dunque ora passare al secondo dei due punti che vorremmo affrontare, ossia quello, cruciale, concernente la collocazione temporale della cerimonia in esame, il quale pone problemi di risoluzione di molto superiori, tanto che la maggior parte degli studi in proposito si limita ad aggirare l’ostacolo, indicando che nulla si può dire in merito al certus dies di cui riferisce Servio. Stanti i dati a disposizione, in effetti, una assoluta certezza è difficile da conseguire. E tuttavia, muovendosi in via inferenziale, forse delle ipotesi plausibili possono essere formulate.

Innanzitutto, è necessario delimitare l’ambito di indagine: come già ricordato, il rito in questione doveva essere assai risalente, nella misura in cui è ampiamente provata una stretta interdipendenza tra re e vestalato. D’altra parte, proprio per tale ragione e per il fatto che il rex era il capo politico, amministrativo, militare e religioso della civitas, innumerevoli sono le occasioni cui si potrebbe ricollegare tale intervento delle vestali. Come evidenziato, tuttavia, il commento di Servio da cui abbiamo preso le mosse non si riferisce al tempo del rex detentore del potere politico e religioso supremo, bensì al periodo repubblicano, in cui il solo “residuo” lessicale della regalità era il rex sacrorum, probabilmente erede delle sole funzioni sacrali del rex, e fors’anche non di tutte.

Bisogna quindi limitare l’indagine a quei rituali che, stando alle fonti a disposizione, erano di competenza del rex sacrorum in epoca repubblicana. Tra i quali, come cercheremo di dimostrare il più compatibile con una collocazione dell’intervento delle vestali qui preso in esame sembra essere la cerimonia conclusiva del regifugium, che aveva inizio il 24 febbraio, quando il rex sacrorum (assistito dai salii, stando a quanto attesta Festo sv. Regifugium (L 346) eseguiva un sacrificio nel comitium e poi ne fuggiva via il più velocemente possibile. Sebbene Ovidio (Fast. II 685 et aliis locis, ma già contra Festo sv. Regifugium cit.) riconducesse tale celebrazione, in una prospettiva rievocativa e celebrativa delle origini della res publica, al momento specifico della cacciata dell’ultimo re etrusco, nell’interpretazione pressoché unanime della storiografia moderna essa sembra corrispondere piuttosto alla ritualizzazione di un momento centrale della concezione originaria del potere monarchico romano. E cioè il momento ricorsivo, collocato alla fine dell’anno (ossia dopo i Terminalia), in cui il rex – latino-sabino prima ed etrusco poi – doveva allontanarsi dalla propria posizione pubblica per cinque giorni (individuati anche da Ovidio, Fast. II 858, con una espressione che si presta a plurime interpretazioni: “dies regni illa suprema fuit”), per rientrare nei suoi poteri solo il 1° marzo, con l’avvio del nuovo anno, avendoli ceduti invece, nel frattempo, agli interreges (per tutti Magdelain 1990, Guarino 1996 e Biscotti 2018, con relativa bibliografia; per una critica alla compatibilità tra regifugium e interregnum, Fiori 2023, con relativa bibliografia).

Inutile, preliminarmente, ricordare come a Roma – in ossequio, peraltro, a una propensione antropologica universalmente attestata e risalente alla notte dei tempi – la scansione del tempo avesse un’importanza primaria, che ne determinava la riconduzione ai detentori apicali del potere politico (oltre che, ovviamente, religioso): tempo religioso e tempo civico condizionavano, in stretta connessione, ogni aspetto della conduzione della civitas, come risulta palese anche solo che si consideri la funzione eponima esercitata dai consoli in Roma repubblicana o l’attestazione della perdurante importanza della cerimonia di clavifixio descritta da Livio (ab Urb. cond. VII 3, 5-8), che prevedeva che ogni anno alle Idi di settembre il praetor maximus infiggesse sul lato destro del tempio di Giove Capitolino un chiodo, in forza di un rito di matrice etrusca avente lo scopo di calcolare la successione degli anni, oltre che, probabilmente, funzioni apotropaiche.

Va precisato che il passo liviano in questione ha generato non pochi problemi interpretativi, a cominciare dai rapporti tra tale clavifixio compiuta dal praetor maximus (espressione che farebbe riferimento a una primigenia nomenclatura repubblicana che individuava i consoli come praetores, forse componenti di una coppia diseguale per poteri)  e l’affissione del chiodo con specifico scopo di protezione della comunità ad opera di un dittatore imminuto iure appositamente istituito, il dictator clavi figendi causa appunto. Fatto secondo Livio spiegabile alla luce del trasferimento di competenza, per la cerimonia da lui descritta, dai consoli ai dittatori, avvenuto in quanto questi ultimi sarebbero stati dotati di un imperium maggiore. Non è questo il contesto per approfondire il tema, domandandosi se le due cerimonie fossero effettivamente legate o se si sia trattato di un collegamento ardito proposto dal patavino (per un’ipotesi sulle cerimonie del clavus annalis e del clavus piacularis quali derivazioni da un medesimo rito apotropaico antico, si rinvia a Signorini 2017). Ci si limita qui, invece, a considerare i dati certi: innanzitutto, Livio pone la cerimonia in collegamento biunivoco con il soggetto detentore, in ogni caso, del potere politico supremo (il praetor maximus, i consoli, i dittatori). In secondo luogo, anche qualora già l’infissione del chiodo annuale avesse avuto una valenza di protezione per la comunità, non si può dubitare che essa fosse connessa anche alla scansione del tempo, non solo perché ciò viene esplicitato da Livio stesso e ulteriormente da Festo (sv. Clavus annalis, L 49), ma anche in relazione alla indubbia, ricorrente e comprovata corrispondenza di tale genere di rituali – anche presso altre comunità arcaiche – alla primaria esigenza di scansione e gestione del tempo, necessaria per la sopravvivenza.

Un inscindibile legame con la gestione del tempo, d’altra parte, interessava anche il rex sacrorum, in quanto tutte le funzioni che lo riguardavano e che sono attestate  nelle fonti attengono proprio alla scansione dei tempi della civitas: quattro volte all’anno il rex sacrorum doveva immolare un ariete nella regia, in occasione degli Agonalia, ritualizzazione dei passaggi fondamentali dell’anno, sia prettamente stagionali sia militari (per dettagli Bianchi 2017, con bibliografia); ogni mese incaricava un pontifex minor (appellativo con cui si indicavano peraltro gli scribi del collegio pontificale) di osservare la comparsa della luna nuova – il novilunio – che corrispondeva all’inizio del mese, ossia alle calende, e a ogni calenda era suo compito convocare i comitia calata per annunciare il giorno in cui vi sarebbero state le none (corrispondenti all’apparizione del primo quarto lunare); ancora, nel giorno delle none doveva nuovamente rivolgersi al popolo (riunito in forma, in questo caso, ignota, ma probabilmente sempre nei comitia calata) e comunicare allo stesso quali feste si sarebbero svolte nella seconda parte del mese, fino alle successive calende, quando la sequenza in questione sarebbe stata riprodotta; in febbraio, poi, si svolgeva il regifugium di cui si è detto e cui ritorneremo a breve, che aveva certamente a che vedere con il passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo, e sempre nello stesso mese – con una finalità di partecipazione ai riti di chiusura d’anno – erano il rex sacrorum ed il flamen Dialis a consegnare ai pontefici le lanae, cioè le bende necessarie per lo svolgimento dei riti purificatori del periodo; in ultimo, bisogna segnalare che in occasione delle calende anche la moglie del rex sacrorum – la regina sacrorum – aveva un compito, consistente nel sacrificare a Giunone (cui erano sacre le calende) nella regia una scrofa o una pecora, e che per il 24 marzo e il 24 maggio le fonti attestano una formula arcana, Q.R.C.F. (Quando Rex Comitiavit Fas), sulla cui discussissima interpretazione non ci si può ora soffermare, dovendocisi limitare ad indicare che anche in tale occasione il ruolo del rex sacrorum appare connesso alla scansione del tempo civico, o in quanto avrebbe convocato lui i comizi o in quanto avrebbe compiuto un sacrificio, necessario per consentire il passaggio dalla parte nefas a quella fas di quei giorni, rendendo quindi possibile lo svolgersi dei comizi.

Se, dunque, risulta lampante la connessione del rex sacrorum con la gestione del tempo, a fronte della già illustrata sua evidente derivazione dall’“esplosione” dell’antica figura sovrana si deve dedurre che, a maggior ragione, anche quest’ultima avesse funzioni essenziali in relazione alla scansione dei tempi della comunità, le quali, anzi, forse corrispondevano al suo compito sacrale principale. In particolare, se si segue l’interpretazione secondo cui i sacerdozi risultanti, nell’ordo sacerdotum, subordinati al rex, cioè flamini e pontefici, vennero istituiti già in epoca monarchica con lo scopo di coadiuvare il re nello svolgimento dei suoi doveri religiosi a fronte dei crescenti suoi compiti politici e amministrativi (Bianchi 2017), appare assai significativo che l’unica funzione non loro delegata fosse proprio quella di gestire il tempo civico e, per di più, che con il passaggio alla repubblica, nonostante lo svuotamento integrale della figura del rex plenipotenziario, la funzione in questione non potesse essere affidata a nessun altro tra i sacerdoti, ma fosse parso necessario istituire un apposito sacerdozio, simulacro anche nominale del preesistente rex. Si può ancora ulteriormente supporre che anche per il rex vi fosse un sistema di eponimia analogo a quello di cui erano protagonisti i consoli durante la repubblica, tenendo conto del fatto che un sistema similare sembra utilizzato da Plinio (Nat. hist. XI 71,186), che impiega come parametro il periodo di “reggenza” del rex sacrorum Lucio Postumio Albino per indicare da quanto tempo gli aruspici avessero iniziato a valorizzare anche il cuore, tra gli exta da esaminare per trarre i loro presagi.

Se, dunque, risulta appurata una connessione tra rex/rex sacrorum e gestione del tempo, indagheremo ora più profusamente la cerimonia del regifugium proprio in relazione alla sua funzione di scansione del tempo. È ormai unanimemente accettato che il regifugium – quantomeno quello monarchico – si collocasse quale snodo tra l’anno vecchio e l’anno nuovo e dunque, ferma la calendarizzazione lunare romulea, tra la fine della stagione invernale e l’avvio di quella primaverile (alla bibliografia già indicata adde Altheim 1938; Brelich 1955; Sabbatucci 1978): il periodo di cinque giorni nel quale esso si collocava aveva infatti inizio il 24 febbraio, come già ricordato immediatamente dopo la festività dei Terminalia del 23 febbraio, connessa alla fine dell’anno. Si trattava, peraltro, di un dies nefastus, collocato in un contesto di celebrazioni per i morti, dal momento che era preceduto dai Feralia, chiusura dei Parentalia, collocati al 21 febbraio, e dai Caristia, il 22, considerati un prolungamento dei primi; si era dunque in un contesto di morte, che senza difficoltà richiama l’idea della morte dell’anno stesso [Altheim 1938]. Viceversa, al 1° marzo – quando cioè il regifugium si concludeva – si aveva la celebrazione dell’avvio del nuovo anno, con le vestali che rinnovavano il fuoco di Vesta, spegnendolo e riaccendendolo, e che sostituivano anche le piante di alloro (simbolo di purificazione) dell’aedes della dea; inoltre, si avviava un periodo di riti primaverili che continuavano sino ad aprile, quando si susseguivano tre antichissime feste agricole di propiziazione della fertilità della terra e dei raccolti, cioè i Fordicidia, i Parilia e i Robigalia.

Per spiegare le ragioni della fuga del rex, non è tuttavia sufficiente fermarsi all’evidenza dell’essere il regifugium collegato al passaggio da un anno all’altro, ma occorre addentrarsi ulteriormente in questioni simboliche e istituzionali. Il periodo dell’anno in questione era connotato non solo dal rinnovamento primaverile comportante la rinascita della natura e dei raccolti, ma, in una società arcaica e originariamente nomade, dedita alla pastorizia e quindi forzata allo spostamento necessario ad accaparrarsi sempre nuovi pascoli, anche dal potenziale verificarsi di scontri con altri gruppi, e quindi dalla guerra, per la quale la stagione primaverile resterà per tutto l’arco della storia quella dell’avvio delle campagne militari, che invece nel semestre precedente, quello autunnale-invernale, dovevano forzatamente arrestarsi. Ciò è ritualmente evidente considerando che, nello stesso lasso di tempo in cui si svolgevano le cerimonie ricordate, se ne tenevano anche altre, connesse a Marte e alla guerra. Il 27 febbraio e il 14 marzo si svolgevano gli Equirria, corse di cavalli (o di carri trainati da cavalli) istituite secondo la tradizione da Romolo in onore del padre Marte, ed è particolarmente significativo, ai fini della connessione con il regifugium qui studiata, che la prima delle due date si collocasse esattamente alla metà dei cinque giorni del regifugium; allo stesso modo è rilevante che  il 1° marzo – ossia lo stesso giorno in cui il regifugium si concludeva e l’anno nuovo aveva inizio – fosse indicato nel calendario di Filocalo come festa di Marte, e che i salii sfilassero in suo onore con i 12 scudi sacri e le 12 lance conservati nel sacrario del dio presso la regia; gli stessi sacerdoti, preposti alla ritualità connessa alla guerra, erano protagonisti per giunta due ulteriori volte in marzo, il 19 compiendo la loro danza e aprendo così la stagione bellica, e il 23 per il Tubilustrium, festa purificatoria che chiudeva le cerimonie di avviamento del periodo guerresco.

Si aveva dunque un passaggio coinvolgente due piani distinti, benché tra loro legati, ossia il rinnovamento dell’anno, il risvegliarsi della natura e della fertilità, della terra e delle donne, ma anche l’avvio della stagione bellica, che richiedeva una trasformazione del paradigma della regalità: era necessario che il volto del re adottato nel semestre invernale, quello di un re civico, pacifico, che si era limitato ad amministrare gli affari interni della civitas, lasciasse spazio al suo volto guerriero, violento, al comandante dell’esercito. Tale dualità risulta affatto evidente se ci si concentra sul dato giuridico: nel periodo invernale, l’esercizio prevalente del potere del re avveniva nel dominio di quell’aspetto dell’imperium (ossia del potere di comando) definito imperium domi e indicante una gestione amministrativa della comunità, peraltro esercitata all’interno del pomerium, il confine sacro della città entro il quale non era ammesso l’esercizio della violenza né – salve eccezioni ritualizzate – qualsivoglia simulacro della stessa, dalle armi ai cavalli, animali di guerra; viceversa, il periodo primaverile corrispondeva a quello in cui il re esercitava l’imperium militiae, cioè il comando dell’esercito, le cui operazioni avvenivano tutte al di fuori del pomerium, così come fuori da esso si trovavano tutti i luoghi di culto dedicati a Marte, salvo il sacrario della regia, e anche gli Equirria, le già ricordate corse dei cavalli in onore di Marte, dovevano svolgersi fuori dal recinto sacro della città, nel Campo Marzio. Ancora, laddove il re-pacifico esercitava il suo potere sul populus quale insieme di cives, di appartenenti a quel certo consorzio sociale, il re-guerriero era invece la guida del populus in quanto  insieme degli uomini in armi, cioè esercito, in quella ambivalenza del concetto stesso di popolo che trovava la propria corrispondenza nel dato socio-giuridico per cui solo gli uomini fisicamente in grado di combattere avevano il diritto di voto nei comizi, e dunque partecipavano delle decisioni relative alla comunità.

È proprio tenendo conto di questa duplicità che si comprende l’essenza di quei cinque giorni del regifugium. Essi erano giorni fuori dal tempo, non tanto e non solo perché ciò servisse ai fini dell’intercalazione del calendario lunare (Sabbatucci 1978), ma perché durante quei giorni avveniva, lontano dagli occhi della civitas, la terribile trasmutazione del rex da re-pacifico a re-guerriero. Essi, per la loro straordinarietà, non potevano ascriversi al tempo ordinario proprio perché la civitas temeva sopra ogni altra cosa il vuoto di potere connesso all’assenza di un re (Girard 1980), tanto che non solo si ricorreva all’istituto provvisorio dell’interregnum – durante il quale auspicia ad patres redeunt –, ma al loro termine dovevano essere compiuti riti lustrali per purificare la civitas stessa dalla vacanza del potere supremo. E d’altra parte, quei giorni, in cui l’uomo che era detentore del potere a vita si nascondeva alla vista del popolo, costituivano uno snodo imprescindibile all’interno del ciclo annuale, dal momento che la trasformazione del volto del re, da pacifico amministratore a feroce guerriero, pur indispensabile alla sopravvivenza della civitas, sarebbe risultata sconvolgente per il popolo, se fosse avvenuta senza passaggio ritualizzato e alla luce del sole, poiché avrebbe disvelato appunto, nel corpo della medesima persona che incarnava il buon governante, il giudice equanime, il saggio legislatore, il lato violento dell’esercizio del potere.

La duplicità dell’istituzione sovrana – riconducibile in ultima analisi all’interessenza, alternativa e complementare, ius/vis – è ben nota in ogni cultura arcaica. Non solo tutte le divinità primitive sono connotate dal carattere del ‘doppio mostruoso’, cioè la compresenza del benefico e del malefico, del pacifico e del violento, che esse mostrano alternativamente (Girard 1980), ma in particolare tra le divinità romane arcaiche Giano, celebrato nel Carmen saliare (fragm. 1, in Varro De l. Lat. VII 26) come divum deus, è il dio bifronte della trasformazione, del passaggio [Dumézil 1966] che connota invariabilmente le dinamiche dualistiche della realtà. Una caratteristica che si ritrova per assimilazione nella persona del rex romano, quasi certamente in-auguratus e quindi ‘potenziato’ dalla sacralizzazione della sua natura umana, come sembrano denunciare anche alcune terrecotte architettoniche rinvenute nella regia, decorazioni sacre interpretate dagli archeologi non come simboli divini di un luogo di culto, bensì come simboli regali, rappresentativi dei reges come uomini simili a dèi (Brown 1974-75). Testimonianza dell’idea fondativa della duplicità del volto del re, poi, viene offerta non solo dall’alternanza storica, nel periodo monarchico, di re guerrieri (Romolo, Tullo Ostilio, Tarquinio Prisco, e Tarquinio il Superbo, in una declinazione specifica) e re lato sensu amministratori (Numa Pompilio, Anco Marzio, Servio Tullio), ma anche dalla stessa mitografia fondativa relativa a Romolo che, pur essendo considerato figlio di Marte e quindi re-guerriero per eccellenza, dopo la morte risulta assimilato a Quirino, un Marte pacifico legato ai rioni della città (dunque allo spazio civico interno al pomerium), che presiedeva alla pace, la cui celebrazione (i Quirinalia) era collocata al 17 febbraio, significativamente nell’ambito delle cerimonie di chiusura dell’anno (Carandini 2015) e al termine del semestre stanziale-pacifico, appena prima dell’avvio dell’altra metà dell’anno, in cui il populus pacifico si trasformava in populus belligerante, con il mese dedicato a Marte. Nello stesso Marte, del resto, di cui i re romani erano considerati incarnazione e che corrispondeva inequivocabilmente al dio della guerra, della furia bellica esercitata fuori dal pomerium contro i nemici, è possibile, tuttavia, ravvisare anche un volto ulteriore, legato alla propulsione della fertilità e della produzione agricola, nonché alla protezione della comunità entro i suoi confini (Biscotti 2018 e Fiori 2019).

Se, dunque, appare chiaro già da queste sommarie considerazioni come la duplice natura del divino e per conseguenza del sovrano, pacifica e violenta, risultasse manifesta, oltre che implicita nell’essenza stessa del potere, nondimeno, come già sottolineato, il passaggio dall’uno all’altro aspetto atteneva indubbiamente alla dimensione del terrifico. La pur necessaria trasformazione del re-pacificatore in re-guerreggiante – che esigeva la morte simbolica dell’uno per far luogo all’altro, stante l’impossibilità della contemporanea compresenza delle due nature nella persona del rex – costituiva un momento traumatico per la coscienza collettiva, che doveva dunque avvenire in segreto, nascostamente dallo sguardo pubblico. Un dato supportato, tra l’altro, anche da quanto sappiamo del procedimento istituzionale adottato per la creatio del dictator – la carica magistratuale straordinaria finalizzata al governo dello stato di eccezione che accoglie in sé in via straordinaria, in epoca repubblicana, l’ormai esecrata monocraticità regale –, il quale prevedeva una dictio effettuata dal console nel cuore della notte, nel silenzio (che è anche il momentaneo silere simbolico della res publica di fronte allo stato di emergenza ingovernabile con gli strumenti istituzionali ordinari), senza alcuna altra presenza che quella divina, manifestata negli auspicia. Come scrive Livio (Ab Urb. cond. II 18.8) in relazione alla prima circostanza in cui – poco dopo il passaggio dalla monarchia alla res publica – si ritenne necessario istituire un dictator, Creato dictatore primum Romae, postquam praeferri secures viderunt, magnus plebem metus incessit, ut intentiores essent ad dicto parendum.

Dissezionato l’istituto del regifugium, è ora tempo di delineare le ragioni per cui riteniamo che il rivolgersi delle vestali al rex con l’esortazione Vigilasne rex? Vigila, da cui si sono prese le mosse, sia plausibilmente collocabile al termine di tali cinque giorni di assenza del re.

Un primo rilievo, forse debole ma neppure da disprezzare, consiste nella constatazione che la prevalente ricorrenza dell’intervento delle vestali nelle cerimonie pubbliche è rilevabile all’interno dello spazio temporale di transizione dall’anno vecchio al nuovo: il 13 febbraio, nell’ambito dei Parentalia in onore dei defunti, una vestale era chiamata ad effettuare un sacrificio, come emerge dal calendario di Filocalo; il 1° marzo, come già ricordato, le vestali procedevano al rinnovamento del fuoco di Vesta e delle piante di alloro nell’aedes della dea; il 15 aprile si tenevano i Fordicidia, cerimonie agricole di propiziazione della fertilità della terra, durante le quali la vestale massima bruciava i feti estratti da vacche gravide sacrificate dai pontefici, raccogliendone poi le ceneri da utilizzare nella cerimonia lustrale del 21 aprile, i Parilia, ennesima festività volta a propiziare la produzione agricola e le sorti militari, nel corso della quale la vestale massima effettuava una lustratio dell’altare di Vesta con il suffimen, sostanza purificatrice composta da steli di fave, sangue di cavallo (verosimilmente frutto del sacrificio equino compiuto nel corso della precedente celebrazione autunnale dell’October equus, di cui si dirà a breve) e, appunto, ceneri dei feti bruciati durante i citati Fordicidia.

Evidenziato, dunque, come risulti in generale assai significativo il ruolo pubblico svolto dalle vestali nel periodo annuale di transizione dalla stagione ‘civica’ a quella ‘bellica’, si ritiene qui importante ritornare sulla funzione che le sacerdotesse in questione svolgevano nella data del 1° marzo, singolarmente coincidente con il termine dei cinque giorni del regifugium, cui abbiamo anticipato riteniamo vada ascritta anche la pronuncia da parte delle stesse della formula rituale Vigilasne rex? Vigila. L’importanza della cerimonia in cui erano impegnate le vestali in quella data non è forse stata ancora esplicitata appieno: il fuoco sacro di Roma che in quel giorno esse dovevano spegnere e poi riaccendere, infatti, in nessun altro periodo dell’anno avrebbe potuto cessare di ardere, tanto che, se ciò fosse successo per negligenza della vestale adibita alla custodia, ella sarebbe stata fustigata in un luogo oscuro dal pontefice massimo (disponiamo di fonti che si riferiscono solo al periodo repubblicano, ma non si può escludere che anteriormente il compito spettasse ad altri, fors’anche al rex stesso). Inoltre, se il fuoco si fosse spento spontaneamente, ciò sarebbe stato inteso come segno di sdegno della dea, dando luogo al sospetto di commissione del gravissimo crimen incesti da parte di una delle sacerdotesse. Nella data del 1° marzo, però, quello stesso fuoco veniva spento, per poi essere riacceso seguendo un apposito rituale, a simboleggiare la rinascita nel nuovo anno, con l’avvento della nuova stagione agricola e militare (Macr. Saturn. I 12.6; Ovid. Fast. III 141-144).

Il fatto che nella stessa data il rex tornasse dal regifugium e riprendesse l’esercizio dei suoi poteri, dunque, già alla luce di un’interpretazione tradizionale del ‘vigilare’ serviano come ‘essere vigile’, potrebbe giustificarsi come un richiamo al re da parte delle vestali, nel contesto del delicato rituale di spegnimento/riaccensione del fuoco vitale di Roma, della necessità che egli esercitasse le sue funzioni di sorveglianza e guida della comunità. Tuttavia, si è già sottolineato come il re che tornava dal regifugium non fosse, agli occhi della coscienza collettiva, lo stesso re che era fuggito, cioè il re-civico, bensì il lato guerriero del rex, pronto per la stagione militare. Non è casuale, infatti, che il 1° marzo fosse anche giorno sacro a Marte – cui era dedicato il mese che allora principiava – nel quale avveniva la sfilata dei salii con i 12 scudi e le 12 lance simboli del dio.

Alla luce di tutto ciò, pare assai significativo quanto evidenziato in apertura, ossia che il verbo vigilare presenta un’etimologia comune con vigeo e vigor. Talché si può sensatamente ipotizzare che lo svegliarsi a cui avrebbe alluso chi avesse pronunciato la formula qui considerata non corrispondesse a uno statico ‘essere vigili’, e nemmeno solo al più dinamico ‘risvegliarsi’ da una condizione di sonno o di quiescenza – accezione che pure qui sembra già più pertinente, alla luce dell’ipotesi che si sta formulando –, bensì specificamente a un riprendere le attività e ridestare la forza di colui che è atto a condurre la civitas in tal senso. Ciò che si suggerisce, dunque, è che a questo punto risulti del tutto coerente ipotizzare che fosse proprio al termine del regifugium – quando, morto simbolicamente il re civico, era necessario alla sopravvivenza della civitas che sorgesse in tutta la sua potenza quello guerriero – che le vestali, nell’ambito degli altri riti compiuti in quello stesso giorno, rivolgessero la misteriosa formula che costituisce il punto di partenza di queste riflessioni alla persona del rex, in funzione evocativa del re-guerriero, che era indispensabile riportare ritualmente alla luce dallo ctonio crogiuolo trasformativo del regifugium per avviare in modo opportuno il semi-anno primaverile.

Una tale interpretazione del significato da attribuirsi a vigilare, peraltro, è quella che meglio si attaglia anche alla già menzionata formula attestata sempre da Serv. Ad Aen. VIII 3 (UTQUE IMPULIT ARMA hoc ad pedites. est autem sacrorum: nam is qui belli susceperat curam, sacrarium Martis ingressus primo ancilia commovebat, post hastam simulacri ipsius, dicens ‘Mars vigila’. quidam sane suos equos et sua arma de Turno tradunt, scilicet ut ceteris esset exemplum). Essa doveva essere pronunciata dal comandante militare in occasione della guerra, quando egli avrebbe dovuto entrare nel sacrarium Martis presente nella regia e agitare scudo e lancia del dio invocando Mars vigila. Anche in relazione a tale arcaico rituale l’attribuzione a quel vigila, rivolto a Marte, del significato qui proposto in relazione alla formula pronunciata dalle vestali – di risveglio del vigore guerriero, del lato marziale del re, anziché di semplice richiesta di vigilanza – sembra essere più aderente alla natura del dio stesso, nume della selvaggia furia guerriera volta a travolgere i nemici, non mero difensore dell’esercito dalla preminenza degli stessi. Il nesso tra le due occorrenze risulta ancora più evidente ove si pensi che arcaicamente il comandante militare era il rex, quale erede del ruolo di ductor della turma, e che, d’altronde, egli, personificazione (discendente addirittura) di Marte, era anche verosimilmente la persona più titolata ad entrare nel sacrario di Marte all’interno della regia: all’inizio della guerra, egli avrebbe quindi evocato il furor del dio che già aveva in sé (Grimal 1985).

In tal senso, si potrebbe addirittura pensare che l’uso di vigilare nel significato che abbiamo proposto fosse parte di formule, di connotazione bellica, che erano attributo proprio della famiglia reale (di cui, ribadiamo, arcaicamente sarebbero state parte anche le vestali). Una lettura che permetterebbe, tra l’altro, di risolvere un problema che avevamo lasciato aperto, ossia l’attribuzione al pontefice massimo da parte di Servio – nel citato Ad Aen. II 148 – dell’uso della formula vigilasne, deum gens: se si fosse trattato di una formula spettante alla famiglia reale, infatti, il sommo pontefice avrebbe potuto conoscerne innanzitutto per il fatto che, stando a Livio, il re Anco Marzio gli avrebbe ordinato di rendere pubblici i riti contenuti nei commentarii regis, ma anche perché, secondo un’impostazione adottata da ampia dottrina (cfr. per tutti Latte 1960), nel III secolo a.C. avrebbe avuto luogo una “rivoluzione pontificale” che avrebbe comportato l’usurpazione da parte del pontefice di numerose funzioni prima appartenenti al rex sacrorum, erede, come si è già ampiamente argomentato, di alcuni compiti sacrali propri del rex.

Un ulteriore indizio, ancora, a sostegno della collocazione dell’intervento delle vestali in conclusione del regifugium si coglie se si considera che presumibilmente esse intervenivano parallelamente in un rituale simmetrico e contrario a quello che si svolgeva nel mese di febbraio, cioè nella già richiamata cerimonia dell’October equus. Il 15 ottobre, in onore del dio della guerra si teneva nel Campo Marzio una gara di carri, in esito della quale il cavallo anteriore esterno del carro vincente veniva sacrificato; successivamente, mentre la testa dell’animale era oggetto di contesa tra gli abitanti della Via sacra e quelli della Suburra, la coda veniva portata alla regia precipitosamente (tanta celeritate perfertur in regiam scrive Festo sv. October equus (L 190) e il sangue del cavallo che ne grondava veniva fatto sgocciolare sul fuoco sacro. Per il lettore accorto potrebbe risultare pleonastico spiegare la correlazione inversa con il regifugium, tuttavia darne dei cenni scioglierà eventuali dubbi.

In primo luogo, se si può ipotizzare si trattasse di una cerimonia avente anche carattere agricolo (tanto che già si è specificato come Marte fosse un dio anche agrario, di protezione della fertilità), la sua connotazione militare è fuor di dubbio: lo stesso cavallo, animale sacro a Marte, era per eccellenza strumento di guerra, per  questioni sia pratiche – dal momento che per la sua preziosità e le sue caratteristiche fisiche sarebbe stato sprecato se adibito alle attività agricole, nelle quali infatti erano impiegati i buoi –  sia simboliche, poiché, essendo strumento di morte, nella religiosità romana era legato a tale concetto e agli inferi, tanto che entro il pomerium solo alcuni sacerdoti potevano circolare su carri trainati da cavalli mentre a tutti gli altri la circolazione a cavallo era vietata, e nelle rare occasioni in cui esso veniva sacrificato il suo corpo non era oggetto di un banchetto sacro cui partecipassero tutti i cittadini, come accadeva solitamente nei sacrifici di altri animali.

Ancora, la cerimonia si collocava nel periodo di chiusura della stagione militare, che per le comunità arcaiche andava di pari passo con la chiusura del semi-anno primaverile/estivo: come a marzo l’apertura della stagione della guerra era segnata dalla gara nel Campo Marzio durante gli Equirria, e dalla danza dei salii il 19 del mese, così il 15 ottobre, simmetricamente, aveva luogo una gara di carri nello stesso Campo Marzio, seguita quattro giorni dopo da un’altra danza dei salii.

Ciò trovava perfetta corrispondenza nel fatto che, per quanto abbondantemente argomentato in merito al passaggio primaverile dal re civico al re guerriero, con la chiusura del periodo bellico ed il ritorno al semi-anno pacifico autunnale/invernale, fosse indispensabile un analogo e contrario passaggio, con la simbolica morte del re guerriero, che doveva dare di nuovo luogo alla rinascita del re civico. In tal senso, il cavallo ‘vincente’ avrebbe rappresentato simbolicamente il re guerriero, ucciso per lasciare il posto al re civico. Se si è infatti visto come da un lato il cavallo fosse legato alla guerra, va precisato che d’altra parte nella cultura indoeuropea esso era parimenti correlato al concetto di regalità all’interno di riti legati alla guerra e alla fecondità: si possono ricordare a titolo di esempio il rituale vedico dell’Aśvamedha – in cui Dumézil [1966] per primo ha scorto una connessione con l’October equus –, nel quale pare – ma le interpretazioni sono plurime – che il sovrano trasferisse a un cavallo, con cui la regina si sarebbe accoppiata (probabilmente sul piano simbolico), le proprie qualità regali prima di allontanarsi per un anno dal trono e andare, accompagnato da un nutrito contingente di soldati, a combattere nelle selvagge terre dell’Est, tornato dalle quali avrebbe egli stesso proceduto all’uccisione sacrificale del cavallo che ne aveva rappresentato il potere e all’accoppiamento sacro con la regina stessa; o ancora, nella cultura celtica, il matrimonio simbolico del re con un cavallo sacrificato; o anche, presso gli Sciti, il sacrificio di una delle concubine del comandante e di un cavallo (cfr. per tutti Gamkrelidze, Ivanov 1995).

A ciò appare vividamente corrispondere, nel contesto romano dell’October equus, la corsa per portare la coda del cavallo nella regia al fine di farne colare sul focolare, per nutrirne la forza, il sangue – umore contenente il principio della vitalità e per questo parte, della vittima sacrificata non a scopo divinatorio, destinata a essere consacrata agli dèi –, che anch’essa mostra una perfetta simmetria rispetto alla corsa del rex per fuggire dai comizi il 24 febbraio. Ed è proprio in questa cornice che di nuovo si deve ipotizzare un intervento delle vestali, il quale opera come contraltare di quello svolto nei rituali primaverili con la pronuncia della formula con cui esse esortano il rex a vigilare. Sebbene non vi siano fonti che attestino esplicitamente tale loro ruolo nella cerimonia dell’October equus, infatti, due sono le evidenze che appaiono, però, in tal senso significative. Innanzitutto, le vestali, per realizzare il già menzionato suffimen utilizzato durante i Parilia, impiegavano sangue di cavallo. Non esiste prova diretta del fatto che si trattasse del sangue del cavallo d’ottobre, e tuttavia è persuasivo che gli unici passaggi in cui le fonti fanno riferimento al sangue di cavallo in contesti e con scopi rituali siano quelli relativi al suffimen delle vestali da un lato e all’October equus dall’altro, e che le cerimonie in cui avveniva l’impiego e la dispersione di tale sangue fossero Parilia e October equus, cioè due celebrazioni connesse a opposti e simmetrici periodi di cambio stagionale. La seconda evidenza riguarda il luogo in cui veniva disperso il sangue del cavallo, cioè il focolare della regia. In apertura si è sottolineato come altamente verosimile il fatto che il fuoco sacro di Roma, curato dalle vestali, originariamente non fosse altro che il fuoco privato della casa del re, la regia. Un assunto che i dati archeologici – sebbene non univocamente – sembrerebbero comprovare, in quanto non solo è stato rilevato che significativamente alla regia si sarebbe acceduto non da una porta frontale ma da una laterale, situata dirimpetto all’aedes Vestae, ma per giunta che l’arcaica regia sarebbe stata un complesso unitario comprendente quella che poi venne definita in senso stretto regia (con i sacrari di Marte ed Ops Consiva), l’aedes Vestae, la casa delle vestali e quella che in seguito sarebbe divenuta la casa del rex sacrorum, essendo plausibile che la strada intercorrente in epoca repubblicana tra regia vera e propria e aedes Vestae non fosse presente in precedenza. Si sarebbe dunque trattato di un unico edificio, smembrato solo in epoca repubblicana, adibito a vera e propria abitazione reale, con anche funzioni cultuali relative alla persona del rex, e del quale il focolare di Vesta sarebbe stato il centro (Coarelli 1983; Brown 1967). Invero, gli archeologi hanno attestato la presenza di un focolare anche nel sacrarium Martis, deducendone che in esso sarebbe stato fatto colare il sangue del cavallo d’ottobre (Brown 1967). Anche ammettendo che sin dall’inizio nella regia vi fosse un ulteriore focolare oltre a quello delle vestali, questo non esclude una loro partecipazione al rito, sia perché erano esse le sacerdotesse addette al fuoco (trovandosi perdipiù logisticamente nello stesso luogo in cui doveva avvenire la cerimonia), sia perché il legame tra Marte e le vestali è fortemente attestato: oltre al dato della tradizione, per cui i gemelli Romolo e Remo nacquero dalla vestale albana Rea Silvia fecondata da Marte, le cerimonie primaverili qui studiate coinvolgenti le vestali avevano tutte un legame con Marte, tanto nel suo aspetto agricolo quanto in quello guerriero; e un’ulteriore attestazione di questo legame può cogliersi nell’affresco sulle origini di Roma rinvenuto a Pompei (Carandini, Carafa 2021), nella cui parte alta (e in particolare a sinistra) sono rappresentati Marte, Rea Silvia, i salii e – al di là di una parte danneggiata – un focolare con appoggiata una lancia, simboli la cui giustapposizione potrebbe rappresentare la contiguità tra i due culti. Sempre in tal senso è necessario rilevare un forte parallelismo anche tra le vestali e i salii: al pari del vestalato, anche il sacerdozio dei salii era antichissimo e preesistente a Roma, tanto che la loro veste coincideva con quella dei guerrieri rinvenuti nelle necropoli laziali ed etrusche del periodo compreso tra metà del IX e metà dell’VIII secolo a.C.; veste la quale, peraltro, era da intendersi come la ‘vestis regia’. Se, infatti, le vestali erano intese come le ‘figlie del rex’, così i salii dovevano essere considerati i ‘figli del rex’ [Torelli 1990], a maggior ragione nella misura in cui quest’ultimo era incarnazione di Marte, al quale si è detto i due sacerdozi erano connessi. Tale simmetria diviene ancor più manifesta considerando che i requisiti per divenire vestali e salii erano pressoché i medesimi. Per entrambi era infatti richiesto che non avessero difetti fisici, che fossero ingenui, nati a Roma, patrimi et matrimi (cioè con entrambi i genitori ancora viventi), patrizi – per le vestali non risulta ciò fosse espressamente richiesto, ma si rinvia a Guizzi [1968] per un’indagine antroponimica che dimostra, perlomeno fino alla media repubblica, il contrario – ed essere giovani: le vestali erano scelte tra le ragazze aventi un’età compresa tra 6 e 10 anni, mentre per i salii un’indicazione specifica manca, ma si desume tale necessità dal loro dover essere fisicamente prestanti, al fine di compiere le loro complicate danze con salti e balzi, e dal dover avere ancora entrambi i genitori viventi. Anche tale vistosa simmetria tra i due sacerdozi, dunque, spiegherebbe perché le cerimonie connesse ai tempi forti dei passaggi della regalità dall’uno all’altro dei volti che le erano propri prevedessero invariabilmente la presenza delle vestali – da noi asserita, ma ormai sempre più evidente – e pochi giorni dopo (o anche il giorno stesso, per le cerimonie del 1° marzo) dei salii, con le loro danze di guerra.

Una critica a tale ricostruzione di una corrispondenza tra sacerdozio delle vestali e dei salii potrebbe essere mossa, invero, a partire da un oscuro passo di Festo (L 439), in cui vi è l’apax della menzione di misteriose Salias virgines [...] quae ad salios adhibeantur cum apicibus paludatas, le quali stando al grammatico avrebbero compiuto un sacrificio nella regia insieme al pontefice, vestite appunto alla stregua dei salii. Alla luce di tale testimonianza, dunque, si potrebbe pensare che il sacerdozio simmetrico a quello dei salii non fosse il vestalato, bensì quello di tali vergini salie.

In effetti, accantonando l’idea che esse originariamente potessero essere parte di un rituale ‘carnevalesco’ in cui donne e uomini si sarebbero scambiati i vestiti nell’ambito dei Matronalia del 1° marzo (Torelli 1990), e volendo attribuire loro un qualche vero ruolo cultuale, sembra si debba concludere che non potesse trattarsi che delle vestali. Appare assai improbabile, infatti, che Festo facesse riferimento a loro come ad un sacerdozio autonomo, anche perché per il periodo monarchico e repubblicano le uniche sacerdotesse femminili attestate a Roma sono le vestali, la flaminica e la regina sacrorum, in relazione alle quali si trovano diversi riferimenti in fonti non solo letterarie ma anche epigrafiche, laddove invece in merito alle saliae virgines non risulta alcuna ulteriore attestazione.  Se ci si sofferma, dunque, sulla loro qualità verginale, e si tiene conto anche del passaggio riferito da Festo (sv. Sas, L 432.20) in cui Ennio afferma che “sibi quisque domi romanus habet sas”, essendo la casa in questione la regia, appare evidente a nostro parere chi fossero le vergini definite ‘salie’ (così già Mora 1995; contra, però, Pavón Torrejón 2016).

Se questa nostra ipotesi è fondata, proprio su tale ultimo attributo riferito alle vergini vestali in quell’unica occorrenza vale però la pena spendere ancora due parole: Ovidio (Fast. III 387), indica la derivazione del sostantivo salii da salire o saltare, essendo infatti la loro attività principale quella di svolgere le danze rituali in onore di Marte. Se si valorizza questa etimologia, dunque, anche in relazione alle saliae virgines, si può prospettare che esse fossero le ‘vergini (vestali) danzanti/saltellanti’. Un dato che potrebbe valere a corroborare ulteriormente la tesi della presenza delle vestali nella cerimonia dell’October equus, e simmetricamente del loro ruolo nel risvegliare il re-guerriero a marzo, ove si porti alle sue conseguenze ultime il parallelismo con l’Aśvamedha vedico, rilevato già da numerosi studiosi [Biscotti 2018, con bibliografia]: così come nel rito vedico le principesse effettuavano una danza attorno al corpo del cavallo-re sacrificato prima che la regina si accoppiasse con esso per conseguire e conservare il seme regale, allo stesso modo e con lo stesso scopo nel rito romano le vestali – adornate con le vesti guerriere dei salii – avrebbero potuto effettuare, mutatis mutandis, un’analoga danza attorno al fuoco della regia, nel quale era trasfusa, nella forma del suo sangue, la vitalità del re-guerriero. E come alla cerimonia vedica sovrintendeva un sacerdote officiante, così, secondo quanto riferisce Festo, nel sacrificio cui avrebbero partecipato le saliae virgines vi sarebbe stata la presenza del pontifex maximus, che per le ragioni già menzionate potrebbe aver usurpato nel corso del tempo una competenza spettante in precedenza al rex e poi al rex sacrorum; dato che avvicinerebbe ancor di più i due rituali, nella misura in cui in quello vedico il ruolo di sacrificante risulta attribuito allo stesso re.

Come si è provato a dimostrare, dunque, la misteriosa formula pronunciata dalle vestali e attestata da Servio sembra contribuire a delineare i tratti di un’idea arcaica di sovranità densa di contenuti significativi ai fini della comprensione di una originaria concezione della regalità destinata a perpetuarsi quale modello prototipico della gestione monocratica del potere, nonché delle problematiche a essa correlate.

Il re romano, che perennemente e ciclicamente sacrifica se stesso sul piano rituale – come sembra accadere anche in altri contesti altrettanto e più risalenti –, getta infatti le basi dell’edificazione dell’idea di un corpo politico, nel cui doppio volto – di sovrano pacifico e sovrano guerriero, depositario, al contempo ma in modo alternatamente esclusivo, tanto della funzione amministrativa interna, pacifica appunto, quanto di quella militare esterna, violenta – si evidenzia il tema cruciale della compresenza in ogni discorso sul potere della regolamentazione dello stesso e della sua sregolatezza, della dimensione civica sottratta al dominio dell’uso della forza e di quella in cui la forza, invece, è unica regola. Compresenza sulla quale si giocano equilibri sottili di gestione del potere stesso nell’interesse della civitas.

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    M. Torelli, Riti di passaggio maschili di Roma arcaica, “Mélanges de l'École française de Rome. Antiquité” 102 (1990), 93-106.
English abstract

Starting from the purpose of adding a clue to the understanding of the primary idea of the monarchical institution, we examine here an odd formula in Servius’ commentary on the Aeneid. On an unknown day, the vestal virgins used to tell the rex sacrorum “Vigilasne rex? Vigila”. Our research deals with two main problems: I. Which is the meaning of the verb ‘vigilare’? II. When would the priestesses have had to pronounce it? Suggesting the opportunity to interpret the verb in its ancient meaning of ‘wake up’, specifically in the nuance of ‘regain strength/flourish’, we use a multi-disciplinary approach which intersects philosophy, anthropology, law, and comparative linguistics. We finally locate the pronunciation of the formula on 1 March, i.e. the end of the regifugium, the annual celebration in which peaceful season and warfare season overlap, thus involving a transformation of the rex, with the symbolically death of his civic face and the re-birth of his warlike side. In the complex annual ceremonial network concerning the figure of the king, he is shown as a paradigm of the eternal ambiguity of power, harnessed and kept under control through the ritual controlling the sovereign's continuous death and rebirth.

keywords | King’s Death; King’s Double Body; Rex; Rex sacrorum; Regifugium; Vestals; Vigilare; Warrior King; Civic King; Monstrous Double; October Equus.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Matteo Alberio, Barbara Biscotti, “Vigilasne rex? Vigila”. Il doppio corpo del re romano e le sue bellicose resurrezioni primaverili, “La Rivista di Engramma” n. 202, maggio 2023, pp. 125-144 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.202.0005