"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

202 | maggio 2023

97888948401

Corpo sovrano e sovversione del corpo cristiano

Edward II tra amor ovidiano e mors paolina

Massimo Stella

English abstract

My father is deceased; come Gaveston,
And share the Kingdom with thy dearest friend
(Edward II, I, 1, 1)

ταλαίπωρος ἐγὼ ἄνθρωπος· τίς με ῥύσεται
ἐκ τοῦ σώματος τοῦ θανάτου τούτου
;
(Epistola ai Romani, 7, 24)

Ripartendo da Kantorowicz: oblio e storia

Andrew Tiernan interpreta Gaveston in Edward II, regia di Derek Jarman (UK 1991).

Edward II di Christopher Marlowe rappresenta la più sconcertante profanazione del corpo sovrano a nostra memoria: nelle battute finali del dramma, il re viene stuprato in scena con un’asta di ferro infuocato. È certamente una tra le situazioni più perturbanti e repulsive del teatro moderno e forse del teatro europeo tutto. Eppure, lo scandalo di questa tortura sessuale inferta alla persona del re è ben lontano dall’essere auto-evidente.

Non possiamo non partire da Kantorowicz e dalla sua lettura della sovranità, che è troppo nota perché io vi ritorni qui. Piuttosto, è utile chiedersi se Kantorowicz si ricordi del dramma di Marlowe, nel suo The King’s Two Bodies. La risposta è sì, se ne ricorda bene, e lo cita, ma per evitarlo.

Come e perché? Tutti sappiamo che il celebre libro di Kantorowicz prende la forma d’un inchiesta à rebours: e il punto di partenza è costituito proprio da un testo drammaturgico, ovvero Richard II di Shakespeare. L’intero capitolo II gli è dedicato (Kantorowicz 1989). Agli occhi di Kantorowicz la drammaturgia di Richard II appare un nostalgico adieu o, meglio, il nostalgico adieu della Modernità alle costruzioni della teologia politica medievale intorno alla persona regia. Sicché, dal tramonto moderno della teologia politica, Kantorowicz risale quindi alla sua età d’oro, il Medioevo, che, infine, affonda le radici nel tardo-antico greco-romano. A Edward II di Marlowe non è concesso da Kantorowicz lo stesso onore che a Richard II, eppure si tratta di due drammi della deposizione in chiaro rapporto tra di loro – e sul debito di Richard II (1595, prima rappresentazione) verso Edward II (1592, prima rappresentazione) molto è stato osservato (Shapiro 1991; Forker 2002; Dawson-Yachin 2011). Certamente Kantorowicz non può tacere il caso storico in quanto tale di Edward II, cui infatti consacra alcune importanti pagine che ruotano intorno alla dichiarazione dei baroni del 1308: in quella dichiarazione finalizzata a giustificare l’impeachment (diremmo oggi) di Edward, si affermava la distinzione tra Corona e Re ovvero la distinzione tra la Corona come corporation e il Re come re – distinzione pericolosa e fallimentare, commenta Kantorowicz, che indebolisce proprio la teoria del doppio corpo.

L’oggetto del contendere era l’esilio del favorito e amante Piers Gaveston. In questo contesto cade la citazione dall’Edward II: si tratta del punto in cui Edward, fuggiasco, viene accolto nell’abbazia di Neath con i suoi accoliti e li esorta a rifugiarsi nella filosofia di Aristotele e di Platone. Secondo Kantorowicz, questo appello alla filosofia classica sarebbe un’allusione alle fonti aristoteliche (la Politica, attraverso, va da sé, i commenti medievali) della distinzione tra princeps e principato.

Una teoria che avesse tentato di isolare la Corona come qualcosa di separato dai suoi componenti non avrebbe avuto, sembra, alcuna possibilità di imporsi in Inghilterra. Un tentativo in questo senso venne tuttavia fatto; e la tentazione di elevare la Corona a entità staccata dal re deve essere stata forte in un’epoca in cui era d’uso ripetere che re e Corona non erano semplicemente la stessa cosa. Ma il fatto di non identificarsi l’uno con l’altro non comportava la necessità per questi due elementi di separarsi o di porsi vicendevolmente fuori gioco. Questo fu tuttavia il pericolo che si delineò quando i nobili, nel tentativo di rimuovere il favorito di Edoardo II e di limitare i poteri del re, espressero la ben nota dichiarazione del 1308, nella quale proclamavano: “L’omaggio e il giuramento di lealtà sono resi più in ragione della corona che della persona del re e sono più vincolanti verso la corona che verso la persona” […]. Evidentemente i baroni erano preparati ad affrontare un’alternativa disperata: scegliere tra la Corona e il re (Kantorowicz 1989, 313).

I baroni intendevano forse fare una distinzione tra il re come Re e il re come persona privata; ma ciò che in realtà fecero fu contrapporre il re come Re – e non solo la sua persona privata – contro la corporation della corona [scil. il corpo politico composto sia dal re/Re che dai nobili, N.d.A.], dimostrandosi così pronti, per difendere quest’ultima, a buttare a mare anche il re come Re. […] La distinzione tra il re come Re e il re come privato non era tuttavia sconosciuta a quei tempi. Sarebbe abbastanza facile richiamare ancora una volta la pratica canonistica per dimostrare come si distinguesse tra l’ufficio e il titolare di esso. Poiché tuttavia Hugh Despenser il Giovane, che è ritenuto l’ispiratore della teoria politica dei nobili, fu l’iniziatore di una nuova “filosofia”, può essere utile rivolgerci alle testimonianze filosofiche. Sfortunatamente non abbiamo nessuna informazione sulle fonti da cui può aver tratto spunto Despenser il Giovane. Christopher Marlowe parlava presumibilmente in termini generali quando immaginò che il suo Edoardo II così si rivolgesse a Despenser il Vecchio: “metti ora alla prova quella filosofia/ che nelle nostre famose culle d’arte/ tu succhiasti da Platone e da Aristotele” (ivi, 314).

Del dramma di Marlowe, di quello straordinario e sconvolgente testo, nient’altro. Nulla nemmeno sull’evidente parallelismo, pur nella macroscopica differenza, tra le due celeberrime scene di auto-scoronamento della persona regale, di Richard e di Edward, quando è Marlowe e non Shakespeare a introdurre l’invenzione scenica. Forse perché l’auto-deposizione di Edward, che occupa la scena I dell’atto V, proietta, nella sulfurea e lacerante scrittura di Marlowe, una luce fortemente parodica sulla cosiddetta ‘teoria del doppio corpo’? Quello di Kantorowicz è un silenzio da interpretare.

Per la verità The King’s Two Bodies è costruito su diversi silenzi. Il più eclatante: sembra che per Kantorowicz non costituisca un problema da pensare il fatto che sul trono d’Inghilterra, nel momento in cui Shakespeare scrive Richard II e Marlowe Edward II, siede – come indicò pionieristicamente Mary Axton nel suo impareggiabile The Queen’s Two Bodies – una regina protestante che rifiuta il matrimonio e la discendenza, regnando, dunque, non come una regina, ma come un monarca e, quindi, come un monarca anomalo – anomalia mai vista, scandalo, appunto, nella storia europea: un corpo di donna che non accetta il dovere non solo femminile, ma anche maschile delle nozze e della generazione di eredi (Axton 1977; Sacerdoti 2002, 49-67; Hackett 2009; Fusini 2009; Petrina, Tosi 2011; Stella 2014; Montini, Plescia 2018). Il secondo silenzio riguarda gli artefici della ‘teoria del doppio corpo’, in primis Edmund Plowden: la teoria del doppio corpo non è, infatti, un’eredità medievale, bensì un revival tutto moderno, una ri-costruzione dei giuristi cattolici del regno che erano assolutamente prevalenti nelle corti di giustizia quando Elizabeth salì al trono. Tra la regina protestant and unmarried e i lawyers delle Inns of Court londinesi è dunque guerra aperta combattuta a colpi di finzioni legali. La retorica del doppio corpo è allora una questione contingente che si inquadra nel complesso contesto del conflitto politico e religioso a cavallo tra XVI e XVII sec. L’effetto che il libro di Kantorowicz restituisce, invece, è tutt’altro: è quello di una tradizione continua e d’una eredità ancestrale, che legano Richard II ad Alessandro il Grande. Evidentemente i lawyers elisabettiani attingono sì alla tradizione del diritto canonico medievale, alla rilettura tomista del pensiero politico classico, ma si tratta di reshaping moderno. Al proposito, un dato forse meno noto al pubblico non specialista del teatro elisabettiano è che la drammaturgia dell’età di Elisabetta nasce, di fatto, proprio nelle scuole giuridiche – i primi drammaturghi sono giuristi e retori – e la sua forma prototipica è quella della legal fiction mito-storica incentrata sulle questioni del conflitto dinastico, dello scontro tra tiranno e popolo, della divisione del regno, del disturbo di parentela nella famiglia sovrana: una drammaturgia sorta, appunto, intorno alle figure di sovrani anomali come Elizabeth e, prima di lei, suo padre, Enrico VIII, il re scismatico. E Richard II come Edward II vengono da tale sfondo.

Sovrana corporalitas. Dal corpo inesplorato: Richard II

È precisamente la corporalitas del sovrano ad occupare il centro di questi due drammi. Non mi è possibile qui analizzare nel dettaglio alcuni passi cruciali di Richard II e mi limito, dunque, ad un’osservazione fondamentale. La corporalitas del sovrano prende, in Richard II, la forma di un pronome, myself. Myself ricorre quasi ossessivamente nell’articolata scena in cui Richard consuma su se stesso il rito dell’auto-deposizione, the undoing of himself. L’auto-deposizione conduce Richard al nucleo impensato e oscuro di se stesso: il suo Self. E qual è dunque o, meglio, che cosa è il Self di Richard? Quel Self è, per dirla con un termine medico, la sua stessa materia peccans, cioè il suo corpo naturale. Il re si “scorona”, unkinged (IV.1.220), con queste parole:

Now, mark me how I will undo myself:/ I give this heavy weight from off my head;/ And this unwieldy scepter from my hand;/ The pride of kingly sway from out my heart./ With mine own tears I wash away my balm,/ With mine own hands I give away my crown,/ With mine own tongue deny my sacred state,/ With mine own breath release all duteous oaths./ All pomp and majesty I do forswear./ My manors, rents, revenues I forgo;/ My acts, decrees, and statutes I deny./ God pardon all oaths that are broke to me./ God keep all vows unbroke are made to thee./ Make me, that nothing have, with nothing grieved,/ And thou with all pleased that hast all achieved./ Long mayst thou live in Richard’s seat to sit,/ And soon lie Richard in an earthy pit./ God save King Henry, unkinged Richard says,/ And send him many years of sunshine days (IV.1.203-221).

Ora, guarda come disfaccio me stesso: dalla mia testa via questo grande peso; dalla mia mano via questo grande scettro; via dal mio cuore l’orgoglio della regale potenza. Con le mie stesse lacrime lavo via la mia unzione, con le mie stesse mani do via la mia corona, con la mia stessa lingua nego la mia sacra funzione, con il mio stesso fiato sciolgo tutti i giuramenti di fedeltà. Io rinuncio a ogni pompa e maestà. Io rifiuto le mie proprietà, rendite e profitti; io rinnego i miei atti, i miei decreti e leggi. Dio perdoni tutti i giuramenti infranti verso di me. Dio mantenga inviolati tutti i giuramenti verso di te [Bolinbroke] e me, che non ho nulla, di nulla gravi, e te, che tutto hai conquistato, di tutto contenti. Possa tu vivere a lungo e sedere sul seggio di Riccardo e presto giaccia Riccardo in una fossa dentro la terra. Dio salvi re Enrico, dice Riccardo non più re e gli conceda molti luminosi anni.

Il vorticoso gioco dei deittici pronominali di prima persona (I, myself, my, mine, me) dispersi al vento come foglie lascia Richard nudo del proprio “se stesso” – I have no name, no title (IV.1.255), I know not now what name to call myself (IV.1. 259) – alla mercé di uno specchio (ironico controcanto dello speculum principis) ove poter contemplare questo nothing, questo ‘volto ignoto’ che egli è ora diventato: a mirror hither straight/ that I may show me what a face I have (IV.1. 265-266). Ma che vede, dunque, Richard nello specchio? Nulla, nemmeno l’ombra del proprio dolore e lo getta, così, a terra, mandandolo in frantumi (IV.1.289) e concludendo:

My grief lies all within;/ And these external manners of laments/ Are merely shadows to the unseen grief/ That swells with silence in the tortured soul./ There lies the substance (IV.1.295-299).

Il mio dolore sta tutto all’interno; e questi lamenti sono modi esteriori, pure ombre del dolore invisibile che si gonfia in silenzio dentro l’anima torturata. Là sta la sostanza.

The self was not the same, “il sé non era l’identico” – Ricœur direbbe “l’ipséité n’est pas la mêmeté” (Ricœur 1990) – così recita uno straordinario verso dell’enigmatico poema The Phoenix and Turtle (v. 38), ove si racconta la fusione metafisico-mistico-alchemica della Fenice e della Tortora. In The Rape of Lucrece (v. 1819) risuona l’espressione my unsounded self, “il mio inesplorato sé” o, se vogliamo, “il me stesso inesplorato”, formula con cui lo stolto Bruto designa sé medesimo al cospetto di Collatino. In entrambi questi casi, il termine self non è più soltanto puro deittico riflessivo, ma diventa vero e proprio sostantivo. Sostantivo indicante qualcosa di invisibile, una sostanza indeterminata, senza nome: there lies the substance, dice, appunto, Richard. Noi parleremmo di ‘soggettività’. Richard, attingendo, faute de mot, alla tradizione liturgica ed escatologica cristiane, evoca la metafora dell’anima-libro della colpa e del peccato: I’ll read enough when I do see the very book indeed where all my sins are writ, and that’s myself (IV.1. 273-275). La sostanza invisibile e senza nome che giace al fondo è, come dicevamo, la materia peccans del corpo naturale.

Siamo dunque all’opposto della lettura kantorowicziana: per Kantorowicz il corpo naturale è, cito: “il volto banale e l’insignificante physis di un misero essere umano, una physis ora svuotata di qualsivoglia metaphysis” (Kantorowicz 1989, 36). Al contrario, il punto di senso di tutto Richard II non è la nostalgia del ‘metafisico’, ma l’unsounded self dell’uomo, l’inscandagliabile, l’impronunciabile ‘cosa naturale’ dell’uomo. È piuttosto rilevante come Kantorowicz si impegni in una lettura dell’idea di doppio corpo, limitandosi a problematizzare soltanto un termine della coppia ovvero il ‘corpo politico’, liquidando invece come auto-evidente la nozione di ‘corpo naturale’, la quale ha una sua complessa, profonda e articolata archeologia. Quando e come nasce la nozione di corpo naturale? Domanda centrale, che riprenderò più oltre. Ora rivolgiamoci a Edward II.

…al corpo pulsionale: Edward II e amor ovidiano

Nel suo Edward II Marlowe mette a tema, come Shakespeare in Richard II, il nodo problematico della corporalitas sovrana, ma in modo simmetricamente opposto: se il corpo per Richard è una materia oscura, insondabile, innominabile, un pozzo – uso il termine che impiega Richard, a deep well (IV.1.184) – una cavità, un vuoto, in Edward II esso è, al contrario, un pieno, pienezza che vive tutta nell’erotizzazione. Quello di Edward è un corpo che consiste interamente nella pulsione/passione per l’oggetto amato, Gaveston: un corpo pulsionale/passionale animato e dominato da eros. Non mi pare sia stato sinora rilevato pienamente che l’eros di Edward per Gaveston è informato all’idea ovidiana di amor così come le Metamorfosi ce la rappresentano. A questo proposito, bisogna andare, seppur brevemente, a Hero and Leander, il poema mitologico in cui Marlowe riscrive la storia d’amore di Ero e Leandro, già celebrata da Ovidio nelle Heroides. Qui, nell’ampia scena ecfrastica in cui si descrive il tempio di Venere della quale Hero è sacerdotessa, ci imbattiamo in un passo di straordinaria forza. Il pavimento del tempio è fatto di cristallo, tanto che è chiamato dal popolo di Sesto lo specchio di Venere, Venus’ glass. Ebbene, incisi in questo specchio di Venere – dice il narratore – “si possono vedere gli dèi in varie forme/ commettere orge scatenate, incesti, stupri” ed ecco che allora contempliamo, riflessi e intagliati su quella superficie di cristallo, Danae nella torre di bronzo, Giove che, di nascosto, scivola fuori dal letto di sua sorella Giunone per andare a sollazzarsi con Ganimede, e poi Europa, e Marte con Venere e Vulcano, e Silvano che piange il suo ragazzo.

So fair a church as this had Venus none;/ The walls were of discolour’d jasper stone,/ Wherein was Proteus carv’d; and over head/ A lively vine of green sea-agate spread,/ Where by one hand light-headed Bacchus hung,/ And with the other wine from grapes outwrung./ Of crystal shining fair the pavement was;/ The town of Sestos call’d it Venus’ glass:/ There might you see the gods in sundry shapes,/ Committing heady riots, incest, rapes:/ For know, that underneath this radiant floure/ Was Danae’s statue in a brazen tower:/ Jove slily stealing from his sister’s bed,/ To dally with Idalian Ganymed:/ And for his love Europa bellowing loud,/ And tumbling with the rainbow in a cloud./ Blood-quaffing Mars, heaving the iron net,/ Which limping Vulcan and his Cyclops set:/ Love kindling fire, to burn such towns as Troy;/ Sylvanus weeping for the lovely boy,/ That now is turn’d into a cypress tree,/ Under whose shade the wood-gods love to be (Hero and Leander, 135-156).

Tempio più bello Venere non ne aveva; le pareti erano di diaspro multicolore, dove la storia di Proteo stava scolpita: e al di sopra correva una vite d’agata marina che sembrava vera, cui s’appendeva con una mano Bacco ebbro, mentre con l’altra spremeva vino dai graspi. Il pavimento era di scintillante cristallo, che la città di Sesto chiamava ‘lo specchio di Venere’: avresti potuto vedervi gli dèi in varie forme, commettere orge scatenate, incesti e stupri: e sappiate che sotto quel trasparente pavimento stava Danae scolpita nella sua torre di bronzo, Giove che se la squaglia dal letto di sua sorella per sollazzarsi con l’Idalio Ganimede, e per la sua amata Europa muggendo forte rotola con l’arcobaleno in una nube. E Marte il tracannante sangue che solleva la rete tesa dal claudicante Vulcano e dal suo Ciclope, e l’amore che accende tanto fuoco da bruciare la città di Troia, e Silvano che piange il suo amato ragazzo ora trasformato in un albero di cipresso sotto la cui ombra amano stare le divinità dei boschi.

Quei due versi, “vedresti gli dèi in molte forme commettere incesti, stupri e orge scatenate” (There might you see the gods in sundry shapes,/ Committing heady riots, incest, rapes), sono la sintesi e la definizione perfetta non solo e non tanto delle Metamorfosi di Ovidio nel loro complesso, ma soprattutto di quell’amor che muove l’intera macchina immaginaria e mitopoietica delle Metamorfosi: un’energia libidinale multiforme, metamorfica, appunto, e letteralmente perversa in quanto non conosce limiti né confini nella mèta oggettuale. È un amor necessariamente polimorfo perché non ha norma e attraversa tutte le forme. La parola AMOR è d’altra parte inserita a castone nel mot-titre dell’opera ovidiana, MET-AMOR-PHOSIS (Ovidio è un cultore del word-play) (Ahl 1985, 40-49; 110; 138-139; 264-265; 310). Non a caso, la coppia Edward-Gaveston è costantemente descritta attraverso specifici paradigmi mitici e metamorfici: si tratta di Giove e Ganimede (I.4.180-182), di Giove ed Europa (I.4.13), di Danae e Giove (II.2.51-58), e poi ancora Gaveston è Proteo e Mida (I.4.405-410) e ancora Elena di Troia (II.5.14-18). Sono gli stessi exempla che appaiono nel Venus glass di Hero and Leander. Del resto, proprio in apertura del dramma, nelle prime battute del prologo, Gaveston immagina se stesso come il mitico Leandro boccheggiante sulle sabbie dell’Ellesponto (I.1.8).

Ora, è evidente che la memoria di Ovidio e del classico non è citazionistica né letteraria, ma decisamente concettuale. La scena ovidiana e classica dà forma alla corporalitas del re, connotandola in senso non tanto anti-cristiano, ma piuttosto ultra-cristiano. Che cosa intendo per ultra-cristiano?

Inter urinas et faeces nascimur: la sovversione della carne paolina

Per chiarirlo, mi è necessario riprendere la domanda che avevo posto poco fa: quando nasce l’idea di corpo naturale? L’idea di corpo naturale è indubitabilmente cristiana e, specificamente, paolina (Brown 1992). È San Paolo che, nell’Epistola ai Romani 7, 7-24, rappresenta il corpo come luogo di morte morale: ταλαίπωρος ἐγὼ ἄνθρωπος· τίς με ῥύσεται ἐκ τοῦ σώματος τοῦ θανάτου τούτου; Infelice me, uomo che sono! Chi mi salverà da questa morte che è il corpo? Il principio di morte è l’epithymia, la libido, ovvero la natura pulsionale-desiderativa della carne. Ho detto carne perché la parola paolina per corpo, il corpo peccans, non è tanto soma, quanto piuttosto sarx. E, si badi, la carne paolina non è materia bruta, ma, al contrario, materia spiritualizzata, pneumatike, materia ‘pneumatica’ – noi oggi diremmo ‘materia psichica’. Il corpo naturale cristiano e paolino contiene cioè in sé una legge, nomos, che opera indipendentemente dalla volontà dell’uomo: è l’altra legge, l’heteros nomos, che risiede nelle membra e che si oppone alla legge dell’intelletto (Agamben 2000, 101-102). L’uomo naturale è quindi, in ultima istanza, colui che viene torturato dall’incessante guerra tra il principio spirituale della sarx tendente alla morte e il principio spirituale dell’anima-mente tendente alla vita, mentre il corpo naturale è un’istanza psichica che agisce per la morte morale dell’individuo.

Τί οὖν ἐροῦμεν; ὁ νόμος ἁμαρτία; μὴ γένοιτο· ἀλλὰ τὴν ἁμαρτίαν οὐκ ἔγνων εἰ μὴ διὰ νόμου, τήν τε γὰρ ἐπιθυμίαν οὐκ ᾔδειν εἰ μὴ ὁ νόμος ἔλεγεν· Οὐκ ἐπιθυμήσεις· ἀφορμὴν δὲ λαβοῦσα ἡ ἁμαρτία διὰ τῆς ἐντολῆς κατειργάσατο ἐν ἐμοὶ πᾶσαν ἐπιθυμίαν, χωρὶς γὰρ νόμου ἁμαρτία νεκρά. ἐγὼ δὲ ἔζων χωρὶς νόμου ποτέ· ἐλθούσης δὲ τῆς ἐντολῆς ἡ ἁμαρτία ἀνέζησεν, ἐγὼ δὲ ἀπέθανον, καὶ εὑρέθη μοι ἡ ἐντολὴ ἡ εἰς ζωὴν αὕτη εἰς θάνατον· ἡ γὰρ ἁμαρτία ἀφορμὴν λαβοῦσα διὰ τῆς ἐντολῆς ἐξηπάτησέν με καὶ δι’ αὐτῆς ἀπέκτεινεν. ὥστε ὁ μὲν νόμος ἅγιος, καὶ ἡ ἐντολὴ ἁγία καὶ δικαία καὶ ἀγαθή. Τὸ οὖν ἀγαθὸν ἐμοὶ ἐγένετο θάνατος; μὴ γένοιτο· ἀλλὰ ἡ ἁμαρτία, ἵνα φανῇ ἁμαρτία διὰ τοῦ ἀγαθοῦ μοι κατεργαζομένη θάνατον· ἵνα γένηται καθ’ ὑπερβολὴν ἁμαρτωλὸς ἡ ἁμαρτία διὰ τῆς ἐντολῆς. Οἴδαμεν γὰρ ὅτι ὁ νόμος πνευματικός ἐστιν· ἐγὼ δὲ σάρκινός εἰμι, πεπραμένος ὑπὸ τὴν ἁμαρτίαν. ὃ γὰρ κατεργάζομαι οὐ γινώσκω· οὐ γὰρ ὃ θέλω τοῦτο πράσσω, ἀλλ’ ὃ μισῶ τοῦτο ποιῶ. εἰ δὲ ὃ οὐ θέλω τοῦτο ποιῶ, σύμφημι τῷ νόμῳ ὅτι καλός. νυνὶ δὲ οὐκέτι ἐγὼ κατεργάζομαι αὐτὸ ἀλλὰ ἡ οἰκοῦσα ἐν ἐμοὶ ἁμαρτία. οἶδα γὰρ ὅτι οὐκ οἰκεῖ ἐν ἐμοί, τοῦτ’ ἔστιν ἐν τῇ σαρκί μου, ἀγαθόν· τὸ γὰρ θέλειν παράκειταί μοι, τὸ δὲ κατεργάζεσθαι τὸ καλὸν οὔ· οὐ γὰρ ὃ θέλω ποιῶ ἀγαθόν, ἀλλὰ ὃ οὐ θέλω κακὸν τοῦτο πράσσω. εἰ δὲ ὃ οὐ θέλω τοῦτο ποιῶ, οὐκέτι ἐγὼ κατεργάζομαι αὐτὸ ἀλλὰ ἡ οἰκοῦσα ἐν ἐμοὶ ἁμαρτία. Εὑρίσκω ἄρα τὸν νόμον τῷ θέλοντι ἐμοὶ ποιεῖν τὸ καλὸν ὅτι ἐμοὶ τὸ κακὸν παράκειται· συνήδομαι γὰρ τῷ νόμῳ τοῦ θεοῦ κατὰ τὸν ἔσω ἄνθρωπον, βλέπω δὲ ἕτερον νόμον ἐν τοῖς μέλεσίν μου ἀντιστρατευόμενον τῷ νόμῳ τοῦ νοός μου καὶ αἰχμαλωτίζοντά με ἐν τῷ νόμῳ τῆς ἁμαρτίας τῷ ὄντι ἐν τοῖς μέλεσίν μου (Epistola ai Romani, 7, 7-23).

Che diremo, allora? Che la legge è peccato? Non sia! Però non avrei conosciuto il peccato senza la legge, e non avrei conosciuto il desiderio se la legge non avesse detto ‘non desiderare’. Il peccato prese impulso attraverso il comandamento e mise in opera in me ogni desiderio, e quindi senza la legge il peccato sarebbe morto. Io vivevo una volta senza la legge. Giunto tuttavia il comandamento, il peccato riprese vita e io invece morii. Il comandamento che per servire alla vita era stato trovato servì alla morte. Infatti il peccato, avendo preso impulso attraverso il comandamento, mi ingannò e attraverso di esso mi uccise. Sicché la legge è santa e il comandamento è santo, giusto e buono. Forse che il bene divenne morte per me? Non sia! È che il peccato, per mostrarsi come peccato attraverso il bene, operò in me la morte perché il peccato diventasse oltremodo peccaminoso attraverso il comandamento. Sappiamo infatti che la legge è spirituale e io invece sono fatto di carne e venduto come schiavo del peccato. Io non conosco ciò che faccio e non faccio quello che voglio, ma faccio quello che odio. Se dunque io faccio ciò che non voglio, ammetto che la legge è buona. Non sono io ad agire, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che il bene non abita nella mia carne. Il volere, ma non l’operare il bene sta dentro di me. Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. E se io faccio quello che non voglio allora ciò che in me opera non sono io, ma il peccato che abita dentro di me. Scopro dunque questa legge: che quando io voglio fare il bene è il male che sta accanto a me. Acconsento alla legge di dio nella mia interiorità, ma vedo l’altra legge che abita nelle mie membra fare la guerra contro la legge dell’intelletto rendendomi prigioniero della legge del peccato che risiede nelle mie membra.

La prospettiva kantorowicziana che vede nel corpo naturale la bruta e ‘banale’ physis è dunque davvero assai semplicistica. La natura, la physis, la carne è una potenza spirituale, è un motore psichico, direbbe Freud, che, nel meditare il suo Jenseits des Lustprinzips e nel teorizzare la pulsione di morte, doveva avere in mente, con tutta verosimiglianza, questo passo paolino.

Che posizione assume Marlowe rispetto alla tradizione paolina e cristiana? Non vi si oppone, ma la supera, la trasvaluta – in questo senso dicevo che la corporalitas di Edward è ultra-cristiana; e, precisamente, la supera per un verso erotizzando quel principio di morte morale che agisce nel corpo naturale del cristiano, per l’altro, e simmetricamente, mortificando l’eros classico e profano – pars pro toto l’amor ovidiano – con il fantasma di un al di là del godimento. Non a caso, nelle prime battute del dramma, al v. 14 della scena I dell’Atto I, Gaveston, appena entrato in scena, proclama: the king, upon whose bosom let me die, dove die è sì il morire, ma allude altresì alla culmination sessuale (diffuso è questo gioco in Shakespeare), e quindi fantastica di voler allestire per il suo amato sovrano un masque che rappresenta il mito di Diana e Atteone (I.1.60-69), dove per eccellenza sensualità e morte si intrecciano in una voluttà tutta immaginaria (Klossowski 2018). Credo che soltanto in questa dimensione si possa intendere il senso della terribile pena sessuale inflitta al sovrano.

Ma andiamo per ordine. Se la prima parte di Edward II è prevalentemente illuminata dalla luce classica, la seconda è tutta immersa nella penombra dell’atmosfera cristiana: è una simmetria molto calcolata, credo. I due punti chiave, tra IV e V atto, sono: l’episodio dell’abbazia di Neath (IV, scena 7) e quello conclusivo della prigione-pozzo-cloaca situata nel sous-sol del castello di Killingworth (V, scena 5).

Nell’episodio dell’abbazia di Neath, Marlowe riaccende, attraverso una serie di potenti spie verbo-visive, la duplice memoria dell’ultima cena e del Getsemani, mescolandola al ricordo del Fedone platonico, non risparmiando altresì una forte memoria liturgica che proviene dall’introduzione alla preghiera eucaristica.

Father [to the Abbot, N.d.A.], thy face should harbour no deceit./ O! hadst thou ever been a king, thy heart,/ Pierced deeply with sense of my distress,/ Could not but take compassion of my state. […]/ Come, Spencer; come, Baldock, come, sit down by me;/ Make trial now of that philosophy,/ That in our famous nurseries of arts/ Thou suck’dst from Plato and from Aristotle./ Father, this life contemplative is Heaven./ O that I might this life in quiet lead!/ But we, alas! are chas’d; and you, my friends,/ Your lives and my dishonour they pursue./ Yet, gentle monks, for treasure, gold, nor fee,/ Do you betray us and our company (IV.7. 8-25).

Padre [rivolgendosi all’Abate], il tuo volto non alberga l’inganno. Fossi tu stato re, trafitto nel profondo dal senso della mia angoscia, non potresti che avere compassione del mio stato. […] Vieni, Spenser; vieni Baldock, vieni, sedete accanto a me. Date prova ora di quella filosofia che nelle nostre celebri culle dell’arte avete succhiato da Platone e da Aristotele. Padre, questa vita contemplativa è il Cielo. Potessi vivere questa vita in pace! Ma noi, ahimé, siamo braccati; e loro vogliono voi, amici miei, le vostre vite e il mio disonore. E tuttavia, gentili monaci, per nessun tesoro, oro o denaro, non traditeci, non tradite la nostra compagnia.

Good father, on thy lap/ Lay I this head, laden with mickle care./ O might I never open these eyes again!/ Never again lift up this drooping head!/ O never more lift up this dying heart! (IV.7. 39-43).

Buon Padre, sul tuo grembo io pongo questo mio capo gravato da molti affanni. Potessi non aprire mai più gli occhi! Mai più sollevare questo capo che reclina. Mai più levare in alto questo cuore morente.

Edward, rifugiato in quel luogo sacro con il suo seguito di giovani alumni, è il Maestro attorniato dagli accoliti prima dell’arresto e del supplizio, dove il Maestro è insieme il Cristo del cenacolo e il Socrate nel carcere del Fedone circondato dai fedeli compagni (e, d’altra parte, non è stato forse il Fedone, insieme all’Apologia e al Critone, uno dei primi testi a essere cristianizzato dagli apologeti greci e latini?) (Müller 1986) – un Cristo classico che, come ho già ricordato più sopra, rivolge ai seguaci l’appello a rifugiarsi nella contemplazione filosofica secondo gli insegnamenti di Platone e di Aristotele. E qui si innesta l’altro souvenir evangelico, la preghiera nel Getsemani. Nel momento di maggior tensione della scena, Edward posa il capo nel grembo dell’abate, chiamandolo good father: Good Father, on thy lap/ Lay I this head, laden with mickle care. Il ricordo corre immediatamente al momento che precede l’arresto di Gesù: è l’appello disperato del Cristo/Figlio al Padre, apostrofato secondo l’uso colloquiale e affettivo ebraico Abbà, Good Father, appunto: così in Marco 14, 36. E in questo stesso frangente Edward esclama quindi: O never more lift up this dying heart! che evoca, rovesciandolo al negativo, il Sursum corda – Habemus ad Dominum dell’introduzione alla preghiera eucaristica – Lift up your hearts – We lift them up to the Lord, come recita il Book of Common Prayer.

Ma, a sua volta, la postura di Edward, il capo reclinato in seno al “buon padre”, richiama quella assunta abitualmente dal prediletto di Gesù, dal beloved, Giovanni, che è detto solitamente trovarsi ἐν τῷ κόλπῳ τοῦ Ἰησοῦ, letteralmente “nel grembo di Gesù”, postura spirituale e simbolica, va da sé, da non intendere letteralmente, ma proprio per questo ancor più intensamente affettiva:

ἔβλεπον εἰς ἀλλήλους οἱ μαθηταὶ ἀπορούμενοι περὶ τίνος λέγει. ἦν ἀνακείμενος εἷς ἐκ τῶν μαθητῶν αὐτοῦ ἐν τῷ κόλπῳ τοῦ Ἰησοῦ, ὃν ἠγάπα ὁ Ἰησοῦς· νεύει οὖν τούτῳ Σίμων Πέτρος ⸂πυθέσθαι τίς ἂν εἴη⸃ περὶ οὗ λέγει. ἀναπεσὼν ἐκεῖνος οὕτως ἐπὶ τὸ στῆθος τοῦ Ἰησοῦ λέγει αὐτῷ · Κύριε, τίς ἐστιν; (Giovanni, 13, 22-23).

Si guardarono tra di loro i discepoli non sapendo di chi egli [Gesù] parlasse. Uno dei discepoli, colui che Gesù amava, si trovava lì, accanto al suo seno. Pietro gli fece un cenno: “Chiedigli tu chi è”. E lui, reclinandosi sul petto di Gesù, gli disse: “Signore, chi è?”.

Proprio come il Figlio, Cristo, è il prediletto del Padre e per questo – dice Giovanni – “giace nel suo seno”:

θεὸν οὐδεὶς ἑώρακεν πώποτε· μονογενὴς θεὸς ὁ ὢν εἰς τὸν κόλπον τοῦ πατρὸς ἐκεῖνος ἐξηγήσατο (Giovanni, 1, 18).

Dio nessuno l’ha mai visto. Il figlio unigenito, che è dio e che sta nel seno del padre, è lui che lo ha rivelato.

Così fa l’Amato con Gesù: così fanno Giovanni con Cristo e così il bel Fedone dalle lunghe chiome con Socrate:

FEDONE Ora te lo racconto: ero seduto alla sua destra [di Socrate], là accanto al suo letto, su un piccolo sgabello, mentre lui stava molto più in alto di me. E cominciò ad accarezzarmi la testa, lisciandomi i capelli sul collo – perché, quando poteva, non perdeva l’occasione di giocare con i miei capelli – e mi disse: “Forse domani ti dovrai tagliare questi bei capelli” (Fedone, 89a9-b5).

La sodomia di Edward, il suo amore omoerotico e deviante, così intessuto di memorie evangeliche, diventa allora omoerotismo spirituale: la sensualità materiale diventa sovrasensualità psichica – von Sacher-Masoch ricorreva al termine übersinnlich, nozione su cui Gilles Deleuze ha magistralmente riflettuto nel suo Présentation de Sacher Masoch. Le froid et le cruel (Deleuze 2015).

E ciò non vuol dire che Marlowe trasformi il Re sodomita in un Cristo naturale, come è stato più volte detto (Goldberg 1992; Camerlingo 1998 e 1999), quasi si trattasse del Cristo morto nel sepolcro di Hans Holbein (Kristeva 1986), un Cristo umano e mortale. Il gioco è assai più complesso e arduo, perché Marlowe non rinuncia alla divinizzazione: egli non adotta il paradigma cristiano, ma lo supera, come dicevo. Non si tratta dunque di trasformare Edward in un Cristo-uomo martirizzato. Marlowe punta alla transvalutazione (cioè alla ipervalutazione) della carne secondo lo spirito, rovesciando la gerarchia paolina di sarx e pneuma.

La scena del supplizio sessuale nella prigione-cloaca del castello di Killingworth è, al proposito, chiarificatrice. Inter urinas et faeces nascimur: nasciamo tra feci e urine. È una massima che Freud cita nel celebre Caso di Dora e nel Disagio della civiltà (Freud 1977, 324-325; Freud 1978, 595) attribuendola genericamente ad un Padre della chiesa. La sentenza è di fatto la sintesi proverbiale (anonima) di un’idea ricorrente nella patristica tardo-antica e nella teologia medievale (da Agostino a Bernardo a Guibert de Tournai) e altresì legata alla polemica anti-cristiana tardo-antica: l’idea, cioè, che la corporeità, e prima di tutto la nostra nascita dal corpo femminile, è escrementizia – Cristo stesso, sottomettendosi all’umiliazione dell’incarnazione, venne alla luce in quel luogo in cui le deiezioni si confondono:

Ma perfino nel caso d’un Greco che fosse così debole di mente da credere che gli dèi abitino dentro le statue, ebbene, si tratterebbe di un’idea più lucida di chi crede che il divino sia entrato nel ventre della vergine Maria, sia diventato embrione e, dopo la nascita, sia stato avvolto in fasce, pieno del sangue della placenta e della bile e di sostanze ancora più disgustose di queste (Macario di Magnesia, Apocriticon, 4, 22, cfr. Porfirio, Contro i Cristiani, 77 von Harnack).

Mentre Tertulliano nell’Adversus Marcionem dice: Christus per corporis cloacam effusus ad terram (IV, 21, 11), “Cristo che è stato deposto a terra attraverso la cloaca del corpo”.

Ora, il fatto che il Re sodomita venga rinchiuso in una prigione-fogna sotterranea dal puzzo insopportabilmente rivoltante dove si rovescia tutta la sozzura del castello – This dungeon where they keep me is the sink/ wherein the filth of all the castle falls (V.5. 55-56) – non è certo un caso. La cloaca delle deiezioni diventa qui figura del corpo naturale e del sesso, della prossimità del sesso e dell’escrementizio. Il pozzo nero dei liquami annuncia, infatti, la tortura che verrà inflitta a Edward: lo stupro anale con lo spiedo rovente. Ma che cosa rappresenta questo ferimento? Si tratta soltanto di un contrappasso per analogia con la passione sodomitica del sovrano? Di una trovata a tinte forti, tipicamente elisabettiana, per risolvere spettacolarmente l’azione drammatica? Di un volontario sfregio ad ogni possibile morale? E poi: quello stupro è consumato sul corpo sovrano o sul corpo umano del Re?

‘Ein Vater wird geschlagen’: il rovesciamento sovrasensuale del paternalismo cristiano

Know that I am a King (V.5. 88), dice Edward al suo Boia, dal nome parlante, Lightborn, ovvero il “Portatore della luce”, Lucifero: sappi che sono Re. Edward non ha mai cessato di essere re nemmeno dopo l’auto-deposizione. Siamo esattamente all’opposto di quanto avviene nello shakespeariano Richard II: anche sommerso nei liquami e asfissiato dal fetore rivoltante della cloaca, Edward è Re. Per quanto forzato a deporre la corona, Edward, al contrario di Richard, non ha mai abdicato. Ciò che il carnefice Lightborn-Lucifero stupra non è quindi un corpo fisico o materiale, ma un corpo natural-spirituale ovvero un corpo sovrasensuale, una carne carismatica in tutta la sua anomala, anomica, atopica natura: la carne incoronata come Spirito, senza più dualismi, senza più gerarchia tra pneumatikon e sarkinon, una carne tutta ugualmente e completamente spirituale. Il ‘peccato’ diventa santità e la violenza Agape. È qui che il drammaturgo gioca la sua mossa più sconcertante. Tra il boia Lightborn e il sovrano suppliziato si instaura una corrispondenza amorosa ideale. L’effetto è ottenuto con l’allusione a due splendidi versi di Sidney. Guardando Lightborn, Edward esclama: I see my tragedy written in thy brows, vedo la mia tragedia scritta sul tuo volto (V.5.73).

Then thinke, my deare, that you in me do reed/ Of louers ruine some thrise-sad tragedie./ I am not I: pitie the tale of me (Atrophil and Stella, 45, 12-14).

Pensa, mia cara, di leggere in me la triste tragedia della rovina d’un amante. Io non sono io: abbi pietà della storia che di me racconta.

Nel sonetto 45 di Astrophil and Stella, l’amante, immerso nella pena d’amore, chiede alla sua insensibile e siderale amata (siderale di fatto, poiché il suo nome è Stella) di leggere in lui la triste tragedia di un qualche innamorato immaginario e averne forse così pietà. Tanto basta, la cornice è creata: Edward si rivolge a Lightborn come a un’amata o a un amato impassibile e feroce, causa dei suoi dolori. Sullo sfondo si riattiva il noto word-play AMOR-MORS, già ovidiano e già celebrato dagli elegiaci latini (Tibullo e Properzio) (Ahl 1985, 44-45). Ed Edward prega l’amante esiziale di restare con lui, di non lasciarlo, perché, se comunque dovrà ucciderlo, tornerà a tormentarlo. Gli dona persino il suo ultimo gioiello, come usava fare con Gaveston (V.5.82-83). E si addormenta per pochi istanti, quasi pacificato, sotto quegli sguardi di morte. Al suo risveglio, lo aspettano la tavola, il cuscino di piume per non lasciare tracce sul corpo, e l’asta di ferro incandescente. Marlowe avvolge questa morte nel fantasma rovesciato e sublimato del desiderio e del godimento. E la carne ne risulta trasfigurata in sé e per sé, traslata in un principio psichico: das Ding, the thing itself.

Torniamo, dunque, a riflettere in termini storici e culturali. Di fronte alla scena orchestrata da Marlowe in Edward II ogni finzione della cosiddetta teologia politica si sgretola e torna a essere l’artificio retorico-giuridico che di fatto è. Se, nella prospettiva di Kantorowicz, che poi si sovrappone alla costruzione dei giuristi elisabettiani cattolici e di Plowden in primis, la sovranità coincide con il corpo politico, ovvero con la corporation Re-suolo-parlamento-popolo (Re-Corona), Edward II ci rivela uno scenario del tutto opposto, in cui il corpo sovrano è la stessa materia peccans del soggetto. Il corpo politico, nella tragedia di Marlowe, sarà, piuttosto, rappresentato dai baroni, dai linciatori, dai cospiratori: in altri termini, il corpo politico è il potere. Tutt’altra cosa dalla sovranità. Quanto poi alla posizione di Marlowe rispetto all’idea di cristiana e specificamente paolina dell’uomo, la vicenda di Edward II illumina un paradosso iperbolico che è il paradosso stesso del cristianesimo. Paolo aveva affermato nell’Epistola ai Romani che c’è un nucleo nell’uomo assolutamente autonomo e non sottoposto alla legge di Dio, alla legge del Padre: la carne e le sue pulsioni, la sarx e le epithymiai. E questo nucleo deve essere castigato dalla Legge di Dio e del Padre. Ma la necessità di questo castigo non afferma forse al contempo la sovranità della carne e delle sue pulsioni? L’elisabettiano Marlowe pensava sì a Paolo, ma anche e contemporaneamente, se così posso dire, a un secondo vangelo in cui parla tutta la tradizione antica: quel capolavoro che aveva rappresentato la natura rerum et hominis, la forza incontenibile, traumatica e dolorosa che muove le cose e l’uomo, che crea e muta le forme delle cose e dell’uomo: l’AMOR metamorfico delle Metamorfosi ovidiane. Richard II è più tradizionalmente paolino: Richard riconosce il proprio Self nel book of sins, nella materia peccans che lo costituisce. E afferma che quella materia è un impensabile, no-thing, a nameless thing.

In Edward II si compie un passo diverso. Il finale della tragedia introduce sulla scena la voce del nuovo re-bambino, Edward III, un Re minore, che porta lo stesso nome del padre, Edward. Questa voce è una pura funzione drammaturgica, diremmo in termini tecnici. Oserei suggerire che il classicista Marlowe ricorre alla voce del re-bambino come a quella del deus ex machina nella tragedia euripidea, evocato a risolvere l’irrisolvibile. Ebbene, questa voce, quasi la voix-off, la voce fuori campo, proclama la sovranità di quel corpo scandaloso e la rivendica, la ribadisce condannando a morte i castigatori (la Regina, la madre, e il suo amante). In me my loving father speaks (V.6.40), dice il re-bambino, in me il mio amato padre parla. E ancora: Sweet father, here unto thy murdered ghost/ I offer up this wicked traitor’s head, Dolce padre, qui al tuo spirito assassinato offro la testa di questo malvagio traditore (V.6. 98-99). È una esplicita (ri-)consacrazione della sovranità di Edward. Sicché, nel ‘finale di partita’, sembra riecheggiare in senso inverso, il detto dei teologi politici cattolici, il re non muore mai. Ma ad affermarlo è the murdered ghost of Edward.

Credo possiamo spingerci oltre: la voce del deus ex machina (il re-bambino) reintroduce Edward sulla scena come Padre e come Spirito. E ciò che è esposto al pubblico, al termine della vicenda, non è il corpo del Figlio piagato e torturato, del Cristo martoriato, ma il corpo del Padre oltraggiato dalla violenza collettiva e mostrato dal figlio. Mi chiedo, dunque, se il drammaturgo voglia scavare così in uno dei non detti più inquietanti del Cristianesimo: il fatto che nel Figlio flagellato, vilipeso e crocifisso, è in realtà il Padre divino a essere linciato. Edward è al contempo Figlio e Padre, così come è insieme Maestro, Kyrios, e diletto accolito, mathetes. È il Cristo nel Getsemani che si rivolge al padre chiamandolo Abbà e interrogandosi sull’abbandono paterno; è il Cristo dell’ultima cena e al contempo il diletto Giovanni che di Gesù giace nel seno, come Gesù giace nel seno del Padre. È poi il Figlio docilmente offerentesi al supplizio del ‘sinedrio’ baronale che incarna la Legge dei padri e rappresenta il corporation sole. Ma è ugualmente il Re e il Padre riconsacrato e vendicato dal figlio. Nel cortocircuito disorientante tra Padre e Figlio creato dal drammaturgo, si apre una domanda abissale che centra il cuore del mito cristiano – ovvero il mito sacrificale del figlio disceso nella carne per redimere l’uomo dal peccato e riconciliarlo con il padre: contro chi è diretto, dunque, il linciaggio? Contro il Figlio o contro il Padre? Il carattere fantasmaticamente sessuale del supplizio sembrerebbe indicare che esso sia diretto contro il Padre: lo stupro anale disconosce e ripudia, infatti, la legge della sessualità genitale ereditata dal padre, che è poi il principio di somiglianza con il Padre. È il Padre che viene umiliato nel Figlio. Il che, se non cancella, svuota il paradigma sacrificale. E la sensualizzazione della pena e del dolore, il legame amoroso puramente immaginario, quasi sentimentale, nonché estetico – la memoria sonettistica, il dono del gioiello – con il carnefice non fa che amplificare l’umiliazione del Padre, perché la Legge e il Comandamento ovvero il Castigo finiscono per consentire e ordinare il proibito, liberando la sarx e spiritualizzandola in pura energia immaginaria, quella, appunto, di cui è costituito l’eros übersinnlich, eteroclito ed eretico, di re Edward.

Bisognerà attendere il trapasso tra il XIX e il XX secolo perché il mito cristiano del Padre e del Figlio venga rimeditato con altrettanta potenza e, pur nella diversità dei risultati, seguendo quella linea che il drammaturgo elisabettiano aveva osato dischiudere: parlo di Leopold von Sacher-Masoch e di Sigmund Freud. Di Sacher-Masoch, del suo Cristo e della sua rilettura del mito cristiano ha scritto in modo insuperabile Gilles Deleuze, come abbiamo già ricordato. Quanto a Freud, è il caso, credo, in questa sede, di rammemorare alcune riflessioni, assai ironiche e persino sarcastiche, tratte dal terzo saggio dell’Uomo Mosè e la religione monoteistica:

Fu nello spirito di un uomo ebreo, Saulo di Tarso, il quale, come cittadino romano s’era dato il nome di Paolo, che per la prima volta si fece strada la nozione: “siamo così infelici perché abbiamo ucciso Dio padre. Ed è ben comprensibile che egli non poté cogliere questo frammento della verità altrimenti che nella veste delirante della buona novella: “siamo redenti da ogni colpa, dacché uno di noi ha sacrificato la sua vita per assolverci”. In questa maniera di esprimersi era naturalmente sottaciuta l’uccisione di Dio, ma un crimine che poteva essere espiato immolando una vittima poteva essere stato solo un assassinio. E l’anello di congiunzione tra il delirio e la verità storica era dato dalla certezza che la vittima immolata era stato il figlio di Dio. […] Il delitto innominabile fu sostituito da un supposto peccato originale veramente oscuro. Peccato originale e redenzione ottenuta col sacrificio di una vittima divennero i pilastri della nuova religione fondata da Paolo. […] È degna di nota la maniera con cui la nuova religione s’acconciò all’antica ambivalenza nel rapporto con il padre. Il suo contenuto principale fu sì la riconciliazione con Dio Padre, l’espiazione del delitto commesso contro di lui, ma l’altro lato della relazione emotiva compariva nel fatto che il figlio, che aveva preso su di sé l’espiazione, divenne egli stesso dio accanto al padre e propriamente al posto del padre. Scaturito da una religione del padre, il cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità il fatto di doversi sbarazzare del padre (Freud 1979, 451-452, c.vo di chi scrive).

Bibliografia
Testi
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English abstract

This essay is a re-reading of Christopher Marlowe’s Edward II in the light of St Paul’s Epistle to the Romans and the Ovidian paradigm of love as a metamorphic force, which Marlowe makes his own in the celebrated poem Hero and Leander. Building on the Christian notion of ‘natural body’, which, in the longue durée, underlies the Freudian conception of psychic drive, the essay also offers a methodological criticism of the Kantorowiczian conception of the king’s sacred body as well as of the Kantorowiczian understanding of William Shakespeare’s Richard II.

keywords | Marlowe; St. Paul; Ovid; Freud; Shakespeare; Deleuze; Sacher-Masoch; Edward II; Richard II; Hero and Leander; Sadomasochism; King’s Two Bodies.

 

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Massimo Stella, Corpo sovrano e sovversione del corpo cristiano. Edward II tra amor ovidiano e mors paolina, “La Rivista di Engramma” n. 202, maggio 2023, pp. 159-174 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.202.0008