"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Un pellegrinaggio ‘archeologico’ di fine Quattrocento

Bernardo Michelozzi e Bonsignore Bonsignori in Anatolia e nell’arcipelago (1497-1498)

Ludovico Rebaudo

English abstract

Bernardo Michelozzi (1455-1519) e Bonsignore Bonsignori (1468-1525) hanno viaggiato nel Levante per un anno, fra l’agosto 1497 e il settembre 1498. Lo scopo del viaggio era la visita dei luoghi santi e la ricerca di manoscritti rari, ma esso si è trasformato, soprattutto grazie allo spirito di osservazione e agli interessi antiquari del Bonsignori, in un’importante fonte di notizie sul patrimonio antico dell’Anatolia e dell’arcipelago greco alla vigilia del Rinascimento. Il viaggio ha attirato l’attenzione degli studiosi già nell’Ottocento (Del Lungo 1867, 73, nota 1) ed è censito nei repertori della letteratura odeporica in Oriente (Bibliotheca Geographica Palaestinae 1890, nr. 453; Ganz-Blättler 1990, 398 con bibliografia; Yerasimos 1991, 121-122), ma è diventato celebre grazie a un articolo di Eve Borsook, che ne ha ampliato la reputazione fino a trasformarlo nel viaggio umanistico per eccellenza dopo Ciriaco d’Ancona (Borsook 1973). La trascrizione integrale del diario e delle lettere del Bonsignori, che il collega Bruno Figliuolo mi ha cortesemente fornito (v. § 2), ha reso possibile un esame completo dei contenuti archeologici e antiquari (Rebaudo 2016), che riprendo qui con gli aggiornamenti resi possibili dalla ricca letteratura apparsa nel frattempo.

I. I viaggiatori

I.1. Bernardo di Michelozzo Michelozzi (1455-1519). Figlio minore dell’architetto e scultore Michelozzo Michelozzi, dottore in diritto canonico (1482), canonico della cattedrale di S. Maria del Fiore (1489), era stato il precettore di due figli di Lorenzo il Magnifico: Giovanni (1475-1521), il futuro Leone X (1513-1521), per oltre un decennio; Piero il Fatuo (1472-1503) per un periodo più breve (1479-1480), quando i rapporti fra Angelo Poliziano e Clarice Orsini si erano fatti difficili (Della Torre 1902, 774; Borsook 1973, 145; Pellegrini 2010). Dopo l’elezione del suo pupillo al soglio fu cameriere segreto e referendario apostolico. La sua carriera raggiunse il culmine il 15 novembre 1516, quando Leone X lo nominò vescovo di Forlì, sembra grazie anche all’interessamento del Bonsignori, che era allora membro della Segreteria Apostolica (Corfiati 2016). I suoi interessi umanistici sono noti soprattutto grazie al carteggio con l’amico Francesco Pucci, recentemente riesaminato (Corfiati 2020). Alla partenza per il viaggio è un ricco e colto prelato quarantenne fedele al partito mediceo, simpatizzante del Savonarola (di conseguenza poco in sintonia con la fazione al potere a Firenze), già malato di gotta. In itinere è indubbiamente il capo-comitiva, ai cui ordini si prodigano gli altri membri della spedizione, di cui sembra essere stato il promotore e forse, in parte, il finanziatore.

I.2. Bonsignore di Francesco Bonsignori (1468-1530). Uomo di chiesa anch’egli, ma di nascita e condizione più modeste (Borsook 1973, 145-148; Figliuolo 2009). La sua fama fra gli studiosi del mondo antico è legata alla lettera che il 24 gennaio 1506 scrisse a Bernardo, annunciandogli la scoperta del Laocoonte. La lettera è, probabilmente, la seconda in ordine di tempo dopo quella (senza data) di Filippo Casavecchia a Francesco Vettori, ma è la sola che abbia tramandato il giorno preciso del rinvenimento: il 14 gennaio (testi ora in Maffei 1999, 100-101, nrr. II.1-2; sulla scoperta del Laocoonte: Volpe, Parisi 2009). La sua relativa fortuna, comunque continuamente accresciuta nel tempo, deve molto alla benevolenza di Giannozzo Pandolfini (1450-1525), vescovo di Troia, che nel 1491 gli procurò i benefici delle cappellanie perpetue di S. Andrea in S. Maria del Fiore, di S. Eustachio nella chiesa di S. Simone a Firenze, oltre a quella della parrocchiale di Panzano in Chianti (Figliuolo 2009, 25-29; Sartore 2019, 21). Nel 1495 Ludovico Martelli lo nominò notaio apostolico (Figliuolo 2009, 30). Perché Bernardo lo abbia scelto per accompagnarlo non sappiamo. Il suo ruolo durante il viaggio appare quello di “cancelliere”, cioè di scrivano. In generale è lui che tiene il gruppo degli amici fiorentini al corrente degli avvenimenti principali e talora, come un vero e proprio segretario, copia le lettere di Bernardo. Dopo il rientro a Firenze mantenne strettissimi rapporti sia con i Michelozzi che con i Medici. Fra il 1502 e il 1504 visse in casa di Bernardo, per migliorare la conoscenza delle lingue antiche. Nel 1504 si trasferì a Roma al seguito del cardinale Giovanni e dal 1513 lavorò in Curia. A partire dal 1516 le sue lettere sono firmate dalla Segreteria Apostolica.

I.3. Giovanni Maringhi (?-1507). Il solo fra gli altri membri della comitiva di cui abbiamo una minima conoscenza. Sappiamo da Bonsignore che era figlio di una sorella di Bernardo (Borsook 1973, 149, nota 19). Nel 1497 doveva avere circa venticinque anni e risiedeva a Pera, il quartiere a nord di Costantinopoli dove aveva sede la maggior parte dei mercanti stranieri e dove egli operava come agente dei Medici e di altri fiorentini, far i quali Niccolò Michelozzi (1444-1526), il fratello maggiore di Bernardo (Randolph Bramlette Richards 1932, 136; Ilardi 2007, 120; v. anche § 2). La prima attestazione della sua attività è in una lettera del notaio ser Pace di Bombello del 13 luglio 1495 (Borsook 1973, 149, nota 19). Lo stesso notaio lo definisce “il più abile giovane fiorentino” che vi fosse in Costantinopoli (Brown 2008, 247, nota 75). Morirà il 22 gennaio 1507, probabilmente non ancora quarantenne, lasciando dietro di sé beni per 97.000 ducati (Houssaye Michienzi, Lassalle 2021, 79-80, con trascrizione dell’inventario). Nel 1498 seguì la comitiva fino a Bursa, poi tornò a Costantinopoli. Le lettere di Bonsignore ci danno l’impressione di un giovane dotato di senso pratico e, all’occorrenza, spregiudicato: è lui che risolve la maggior parte dei problemi logistici dei viaggiatori.

I.4. Altri. Alcuni altri membri della comitiva emergono dalla corrispondenza. Bonsignore menziona un ragazzo di origine siciliana (“el ciciliano”); un “Tomaxino” o “Masino” che potrebbe essere il “Tomasino” di cui Giovanni Meringhi parla in una lettera a Niccolò Michelozzi del 10 agosto 1501 come di un giovane valletto raccomandatogli da Bernardo (Borsook 1973, 152, nota 45); un “Ghazetto”, forse un rampollo della famiglia fiorentina Gazzetti, dato il soprannome (Bonsignore, in Pesaro, 23 agosto 1497: GC 29.99, c. 2: v. § 2). Durante il viaggio Masino e Ghazetto sono definiti paggi, quindi non erano più che adolescenti.

1 | Incipit del Viaggio di Gierusalemme di Bonsignore Bonsignori. Firenze, BNCF, ms. Magliabechiano XIII.93, c. 9r.

II. Le fonti

La ricostruzione degli aspetti archeologici del viaggio è possibile grazie all’eccezionale qualità delle fonti, una circostanza che lo distingue della gran parte dei viaggi nel Levante quattro e cinquecenteschi. Le fonti consistono essenzialmente in tre gruppi di testi, tutti conservati alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (BNCF):
1) Il resoconto di viaggio di Bonsignore, contenuto nel ms. Magliabechiano XIII.93, cc. 9r-53v (d’ora in poi: Itiner.; [Fig. 1]).
2) 15 lettere in itinere di Bernardo a Niccolò Michelozzi, ripartite fra il ms. Ginori Conti 29.55, cc. 42r-59 (d’ora in poi: GC 29.55) e la Cassetta Nuove Acquisizioni 1395/22, cc. 1r-3v (d’ora in poi: CNA 1395/22).
3) 14 lettere in itinere di Bonsignore a Niccolò Michelozzi nel ms. Ginori Conti 29.99, cc. 2r-18r (d’ora in poi: GC 29.99).

L’Itinerario del Magliabiechiano porta il titolo di Viaggio di Gierusalemme, | fatto e scritto da prete Buonsignore di Francesco Buonsignori, fiorentino, nel 1497, | e sue memorie di cose seguite in Firenze fino all’anno 1554. Fa parte di una cronaca di Firenze, la cui prima annotazione risale al 26 dicembre 1489 (c. 1r). Dopo la descrizione del viaggio la cronaca riprende fino al 27 dicembre 1525 (cc. 54r-133r). Morto il Bonsignori, il codice passò al nipote Francesco di Andrea Bonsignori. Costui ha annotato la data di morte dello zio, il 6 gennaio 1530 (c. 129r), e ha riempito le carte bianche con ricordi che proseguono fino al 1554, più un’annotazione isolata del 1565 (cc. 134-180). La parte di Bonsignore è autografa, scritta con il medesimo inchiostro, quindi verosimilmente copiata da una precedente minuta. Il codice è ora disponibile in libero accesso nella collezione BNCF di Internet Archive; descrizioni: Figliuolo 2009, 25-26, nota 1; Manus online, Firenze, Biblioteca nazionale centrale, Magliabechiano, XIII.93.

L’itinerario è stato composto, secondo quanto Bonsignore annota nella clausola finale, per compiacere un amico (“ho voluto ad satisfactione d’uno amico descriver tutta questa gita in le chose più notabile”: c. 53r). Copre l’intero viaggio, ma la scrittura è molto posteriore, forse di dieci e più anni. Le annotazioni di carattere antiquario e archeologico vi sono abbastanza frequenti, ma le tappe sono riportate in modo talora vago, spesso senza data, e comunque le date raramente coincidono con quelle che si ricavano dalle lettere. Per la ricostruzione del percorso è utile fino a un certo punto, tranne che per le parti non coperte dalle lettere, dove è fonte unica.

Le lettere di Bernardo sono in latino con inserti in volgare. Eve Borsook, infastidita dal tono supponente, definisce la lingua “a stuffy mixture of Latin and Italian” (Borsook 1073, 148). È raro, in effetti, che esse contengano elementi interessanti. Vi leggiamo per lo più notizie sulla salute dello scrivente, richieste e invio di saluti, proteste contro la pigrizia di Niccolò nel rispondere. Di rado Bernardo si prende la briga di riferire al fratello “quae viderit de coelo, de locorum incolis, de moribus, coeterisque id genus”, e solo nella prima parte del viaggio. Questo compito, del resto, spettava a Bonsignore e al “nipote”, cioè al Maringhi (Bernardo a Niccolò, da Costantinopoli, 20 marzo 1498: CNA 1395/22, c. 3).

Le lettere di Bonsignore sono le prime 14 delle 238 che costituiscono il suo epistolario (elenco: Figliuolo 2009, Appendice, 89-97, nrr. 1-238), nel quale i soli destinatari sono Bernardo e Niccolò, a parte tre lettere del 1517, una delle quali a Leone X (nrr. 211, 228, 233). Le lettere in itinere coprono un arco cronologico compreso fra il 12 agosto 1497 (nr. 1, da Pesaro: GC 29.99, cc. 2r-3r) e il 9 novembre 1498 (nr. 14, da Badicroce: GC 29.99, c. 18r-v). In origine erano certamente di più: sono frequenti i richiami a lettere con date diverse da quelle conosciute. Poiché in base a un preciso accordo tra i viaggiatori e i loro amici tutta la corrispondenza era inviata a Firenze in doppia copia, una via terra, l’altra via mare, in alcuni casi si conservano entrambi gli originali (Borsook 1973, 146). Le lettere di Bonsignore, al contrario di quelle di Bernardo, sono esclusivamente in volgare, lunghe, vivaci e circostanziate. Il giovane riferisce le vicissitudini e gli imprevisti del viaggio; parla del cibo e degli alloggi; descrive i luoghi, il carattere degli abitanti, le risorse economiche delle città. Le annotazioni di carattere archeologico sono inizialmente sporadiche, poi aumentano progressivamente, fino a culminare nella lunghissima descrizione del tempio di Adriano a Cizico e della città di Troia. Sono fonti preziose per la storia dei siti durante l’età di mezzo (infra, § 4).

Il destinatario delle lettere, Niccolò Michelozzi (1444-1526), è stato un personaggio di rilievo nella storia fiorentina fra Quattro e Cinquecento (Isemberg 1982; Viti 2010a; Viti 2010b). Giovanissimo, nel 1466 dovette raggiungere il padre a Chio, che vi si trovava al servizio dei Giustiniani ed era malato, andando incontro a notevoli traversie durante il viaggio di ritorno (Rubinstein 1976). Dal 1469 risulta iscritto all’Arte dei Giudici e dei Notai, di cui nel 1496 fu Proconsolo (Viti 2010b, 257-258). Dal 1471 è attestato al servizio di Lorenzo il Magnifico e dal 1476 ebbe il titolo di segretario all’interno della cancelleria privata medicea, svolgendo probabilmente un ruolo fondamentale di collegamento con le autorità pubbliche (Arrighi, Klein 1994, 151-155). Nel 1512, col ritorno al potere dei Medici, prese il posto di Niccolò Machiavelli nell’ufficio di segretario della Seconda Cancelleria pubblica. Fino al 1520, quando per ragioni di età lasciò l’incarico, fu protagonista di quasi tutti i principali eventi politici. Per quanto ci riguarda, le risposte di Niccolò, sia a Bernardo che a Bonsignore, sono tutte perdute, tranne due (BNCF, Mss. Ginori Conti 29.67, cc. 24, 64).

2 | Itinerario del viaggio nel Levante di Bernado Michelozzi e Bonsignore Bonsignori, 1497-1498. Ricostruzione di E. Borsook (da Borsook 1973, 147).

III. L’itinerario

La ricostruzione dell’itinerario è agevole per i primi due terzi, ovvero fino all’arrivo a Chio nel maggio del 1498. In seguito, mancando le lettere di Bonsignore dal 18 maggio al 20 ottobre 1498, le cose si fanno più difficili. Per l’arrivo in Palestina, la visita dei luoghi santi e il viaggio di ritorno fino all’arrivo a Venezia il 19 ottobre occorre basarsi sul racconto dell’Itinerario, che, come detto, è spesso fastidiosamente vago. Eve Borsook ha ricostruito in modo attendibile la sequenza delle tappe (Borsook 1973, 152-174), illustrata nella carta [Fig. 2]; la sua cronologia richiede invece qualche correzione (v. Yerasimos 1991, 121-122) che da essa dipende. La scansione temporale è riassunta di seguito. La sequenza completa e corregge la tabella pubblicata in Rebaudo 2016, 645-647. Per ciascuna tappa sono indicate le fonti.

1497
29 luglio | partenza da Firenze: Bonsignore, 12 agosto (GC 29.99, cc. 2v-3r); Itiner. c. 9r: partenza 3 agosto, errato.
30 luglio | Poppi: Bonsignore 12 agosto (GC 29.99, cc. 2v-3r).
31 luglio | Borgo San Sepolcro: Bonsignore, 12 agosto (GC 29.99, cc. 2v-3r).
1 agosto | Urbino: Bonsignore, 12 agosto (GC 29.99, cc. 2v-3r ).
2-11 agosto | Rimini: Bernardo, 2 agosto (GC 29.55, c. 45r); Bonsignore, 12 agosto (GC 29.99, cc. 2v-3r).
12 agosto - 1 settembre | Pesaro: Bonsignore 12 agosto (GC 29.99, cc. 2v-3r); Bernardo 16 agosto (GC 29.55, c. 43r); 27 agosto (GC 29.55, c. 44r); 1 settembre (GC 29.55, c. 45r); Itiner. c. 9r: a Pesaro fino al 5 settembre, errato.
1-11 settembre | Navigazione da Pesaro a Ragusa, via Isola di Mezzo: Bonsignore, 16 settembre (GC 29.99, c. 4r); Bernardo, 16 settembre (GC 29.55, c. 49r).
11-21/22 settembre | Rauga [Ragusa/Dubrovnik, HR]: Bonsignore, 1 ottobre (GC 29.99, c. 5r); Itiner. c. 10r: partenza 13 settembre, errato.
1 ottobre | Dirimiglia [Mitrovica, Kossovo]: Bonsignore, 1 ottobre (GC 29.99, c. 5r).
? ottobre | Nissa [Niš]: Itiner. c. 11r. ? ottobre Sophia [Sofia/Sofija]: Itiner. c. 11r.
17 ottobre | Philipopolis [Filippopoli/Plovdiv]: Bonsignore, 5 novembre (GC 29.99, c. 20r); Itiner. c. 11r.
19 ottobre - 13 novembre | Andrinopoli [Adrianopoli/Edirne]: Bonsignore 5 novembre (GC 29.99, c. 20r); 4 dic. (GC 2.99, c. 6v); Itiner. c. 12r: “stemovi un mese con assai satisfactione”.
15 novembre | Siluria [Selimbria/Silivri]: Itiner. c. 15r.
18 novembre | Pera/Chostantinopolis [Istanbul]: Bernardo, 5 dic. (GC 29.55, c. 53r).

1498
18 novembre 1497 - 20 marzo 1498 | Pera/Chostantinopolis [Istanbul]: Bernardo, 25 gen. (CNA 1395/22, c. 2r); 27 gen. (GC 29.55, c. 54r); Bonsignore, 28 gen. (GC 29.99, c. 8r); 20 feb. (GC 29.99, c. 9r); Bernardo, 20 marzo (CNA 1395/22, c. 3r).
7-17 aprile | Prusia [Prusa/Bursa]. Bernardo, 7 aprile (GC 29.55, c. 58r); Bonsignore 17 aprile (GC 29.99, c. 11r; Itiner. cc. 20v-22r.
18 aprile | Castello sul lago di Lupati [Uluabat Gölü]: Bonsignore, 18 maggio (GC 29.99, cc. 13r-15r).
19 aprile | Michelizia [Mihaliç, oggi Karacabey]: Bonsignore, 18 maggio (GC 29.99, cc. 13v).
20 aprile | Cizicho [Cizico/Bandirna]: Bonsignore, 18 maggio (GC 29.99, cc. 13r-15r); Itiner. c. 22v.
21 aprile | Adingi [Edincik]: Bonsignore 18 maggio (GC 29.99, cc. 13r-15r).
22 aprile | Lansachi [Lampsaco/Lâpsechi]: Bonsignore 18 maggio (GC 29.99, cc. 13r-15r; Itiner. c. 23r.
23-24 aprile | Abido [Çanakkale] e Troia [Truva]: Bonsignore 18 maggio (GC 29.99, cc. 13r-15r; Itiner. c. 23r.
25-26 aprile | Metinna (Metimna/Mithymna], La Pietra [Petra], Lo Caloni [Kal-loni] in Lesbo, GR: Bonsignore 18 maggio (GC 29.99, cc. 13r-15r); Itiner. c. 25r.
27-28 aprile | Metellino [Mitilene/Mytilini] in Lesbo, GR: Bonsignore 18 maggio (GC 29.99, cc. 13r-15r).
30 aprile - ca 10 maggio | Bergamo [Pergamo/Bergama], Elea [Elea, presso Kiliseköy], Foglie [Focea/Foça], Smirne [Smirne/Izmir]: Bonsignore, 18 maggio (GC 29.99, cc. 13r-15r); Itiner. c. 28r: “infino lì [i.e. Chios] mettemo da Bursia XXII gorni”.
ca 10 maggio - 15 giugno | Scio [Chio/Chios]: Bonsignore, 18 maggio (GC 29.99, cc. 13r-15r).
15-17-18 giugno | Patmos [Patmos]; Coos ovvero Langho [Kos]: Itiner. cc. 29r - 30v.
ca 18 giugno (?) | Caria ovvero Castel San Pietro [Alicarnasso/Bodrum]: Itiner. c. 30v. (il testo sembra suggerire che il sito venne visto durante il passaggio a Kos ma non toccato).
18 giugno - 23 luglio | Rodi [Rhodos, GR]: Itiner. cc. 30v-35v.
23 luglio | Imbarco per Cipro: Itiner. cc.36r-v.
ca 25 luglio - 1 agosto | Papho [Paphos], Le Saline [Salina], Limissò [Limassol], Famagusta [Famagosta/Ammochostos] a Cipro, CY; partenza e navigazione per Zaffo/Ioppe [Jaffa/Yofa, IL]: Bonsignore, 20 ottobre (GC29, 99, c. 16r); Itiner. c. 36v: partenza per Zaffo 31 agosto, errato.
1-14 agosto | Zaffo/Ioppe [Jaffa/Yofa, IL] fino al 14 agosto a bordo della nave, senza sbarcare; il 14 agosto sbarco; muore di febbre Luca de’ Libri ed è seppellito a Jaffa: Bonsignore, 20 ottobre (GC29, 99, c. 16r); Itiner. c.
19 agosto (?) | Ibid., muore di febbre Giovanni di Antonio Ninni ed è seppellito a Jaffa: Bonsignore, 20 ottobre (GC 29.99, c. 16r). La notizia è incompatibile con quanto segue.
15 agosto | Rama [Rameh, IL]: Itiner. c. 39r.
16 -20 agosto | Ierusalem [Gerusalemme/Jerusalem, IL] e dintorni (Santo Sepolcro e Monte Calvario, Monte Oliveto, Mone Sion: Itiner. cc. 39r-49r.
20-21 agosto | Betlem [Betlemme/Bet Leḥem, IL]: Itiner. cc. 49r-50v.
21 agosto | Ierusalem [Gerusalemme/Jerusalem, IL]: Itiner. c. 50v.
22 agosto | Partenza per Zaffo [Jaffa/Yofa, IL]: Itiner. c. 50v.
fine agosto | Zaffo [Jaffa/Yofa, IL]: Itiner. c. 50v.
ca 4-13 settembre | Partenza da Zaffo [Jaffa/Yofa, IL] per Le Saline [Salina] a Cipro, nove giorni di navigazione: Itiner. cc. 50v-51r.
13 settembre | Arrivo a Le Saline [Salina] a Cipro: Itiner. c. 51r.
14 settembre | Partenza da Le Saline [Salina] per Rodi, otto giorni di navigazione: Itiner. c. 51r.
15-22 settembre | Rodi, soggiorno di otto giorni: Itiner. c. 51r.
22 settembre | Partenza per Modone [Methoni, Messenia GR], lunga navigazione costeggiando a nord l’isola di Creta: Itiner. c. 51r.
fine settembre | Isola della Sapienza [Sapientza], il giorno successivo sbarco a Modone [Methoni]: Itiner. c. 51v-52r.
fine settembre - 5 ottobre | Modone [Methoni]: Itiner. c. 52r.
5-19 ottobre | Navigazione da Modone [Methoni]a Venezia: Itiner. c. 52r.
19-24 ottobre | Venezia: Bonsignore, 20 ottobre (GC 29.99, c. 16r) 24 ottobre (GC 29.99, c. 17r); Itiner. c 52v: 17 ottobre, errato.
24 ottobre | Partenza in nave per Pesaro: Bonsignore, 24 ottobre (GC 29.99, c. 17r). Sbarco a Rimini: Itiner. c. 52r.
9 novembre | Arrivo alla Badia di Croce presso Arezzo, beneficio di Bernardo, via Urbino: Bonsignore, 9 novembre (GC 29.99, c. 18r); Itiner. c. 53r.
14 novembre | Ingresso a Firenze: Itiner. c. 53r.

IV. Le tappe ‘archeologiche’

IV.1. Filippopoli (Plovdiv).
La prima tappa significativa è Filippopoli, l’odierna Plovdiv. Lungo il tragitto da Sofia a Adrianopoli di Tracia, oggi Edirne, dopo aver costeggiato per un breve tratto la Maritsa, l’antico Hebros, i viaggiatori transitano il 17 ottobre da Philipopolis, “el quale messer Bernardo afferma essere dove furno le guerre civile di Ceseri et di Ponpeo (Bonsignore, 5 novembre 1497: GC 29.99, c. 20r). Bernardo confonde Filippopoli, capitale dei Traci Bessoi (sui quali: Sayar 2020), con Filippi, che si trova in realtà più a sud, nel comune di Kavala, periferia greca di Macedonia Orientale e Tracia. All’interno dell’abitato ci sono frammenti antichi e alcune rovine: “terra antichissima [...] sono parechi belle moschee coperte a piombo, et molti antichi marmi si truovano per epsa, et maxime graniti; et qualche vestigi di muraglie antiche” (cfr. Borsook 1973, 157; Popova 2012, 137). È la prima notazione ‘archeologica’ comunicata a Firenze. Taluni interpreti intendono che i marmi erano murati nelle pareti moschee. Per quanto possibile, ciò non è nel testo. Il complemento di luogo (“per epsa”) è ovviamente riferito alla città (“terra”). La menzione è troppo vaga per tentare l’identificazione di specifiche presenze, che nella moderna Plovdiv sono numerose (Topailov 2012; carta archeologica interattiva: The Ancient Stadium of Philippopolis - Preservation, Rehabilitation and Urban Renewal 2011-2015), soprattutto per la fase tardoantica (Martinova-Kyutova 2021).

3 | Edirne, una delle porte della città in una litografia del XIX secolo (da Kuran 1996, fig. 6).

IV.2. Adrianopoli (Edirne).
Bernardo e Maringhi vi giungono il 19 ottobre, in compagnia di un viaggiatore originario di Ragusa; Bonsignore e gli altri membri della comitiva li raggiungono il giorno successivo. Il gruppo gode dell’ospitalità di Giovanni Giusti, un agente di Alessandro degli Albizzi, che li tratta con riguardo (Bonsignore, 5 novembre 1497: GC 29.99, ca 20r; Borsook 1973, 157, nota 70). Edirne era una città imponente [Fig. 3]: fino al 1458 era stata la capitale dell’Impero ottomano. Bonsignore è ammirato dalle dimensioni: “gira con le mura circha un miglio, et dentro tutta piena; et è circhundata intorno da tante case che quasi in tutto si distenda quanto Firenze”. Come spesso gli accade, Bonsignori è colpito dalle manifatture, che in questo caso sono soprattutto tessili. Quanto ai monumenti, la sua attenzione è rivolta principalmente alle moschee. Nota che sono circa cinquanta, e due fra esse spiccano. La prima, che attribuisce al “signor vecchio”, cioè a Mehemet II (1432-1481), è ornata di quattro minareti. Secondo Borsook (1973, 158, nota 73), seguita da Dijkema (1977, 42-44, cat. 23) e Popova (2012, 137), sarebbe la moschea dedicata da Mehemet alla terza moglie Sitt Ḫatun (ca. 1435-1467), terminata nel 1486. Si tratta invece senza dubbio della moschea di Üç Şerefeli, innalzata da Murat II (1404-1451) fra il 1438 e il 1447, la sola quattrocentesca ad avere quattro minareti (Freely 2010, 20-22; 69-70; Кононенко 2016). La seconda, “che l’ha facta questo”, ovvero il sultano regnante Bayezid II (1447-1512), è la moschea del complesso ospedaliero costruito fra il 1484 e il 1488, uno degli edifici più significativi del tardo Quattrocento ottomano (Godwin 1971, 97; Kuran 1996, 122; Freely 2010, 70; Sengul 2015).

Nella lettera del 5 novembre Bonsignore osserva che in città non si vedevano rovine antiche, a parte il circuito dei bastioni. Nell’Itinerario, invece, descrive i tumuli che si trovavano intorno alla città o lungo la strada proveniente da Plovdiv:

una bellectissima pianura, che dicono andava insino in sul Danubio. Et è piena di monticelli alti X o XII passi, tucti facti a posta, li quali sono sepulture di signori antichi et di Romani insino al tempo di Iulio, secondo dicono, affermando quelli essere e’ campi farsalii. A me non pare, perché mi dimostrono troppo alti (Itiner. c. 11v).

È la più antica menzione dei grandi tumuli funerari della Tracia orientale, la cui tradizione copre un periodo che va dal Bronzo Medio al IV secolo d.C. (Kitov 2004; Evstatiev et alii 2005). Bonsignore si rende conto che si tratta di strutture artificiali e che la loro funzione è funeraria. La misura dell’altezza in passi anziché in braccia è inusuale e non facilmente interpretabile. Se Bonsignore fa riferimento all’antico passo romano, di circa 74 cm, i tumuli sarebbero alti in media fra i 6 e i 7,5 metri, una misura leggermente al di sotto della media, stimata fra i 7 e i 10 metri (Evstatiev et alii 2005, 158). Se intende il passetto fiorentino di due braccia, ovvero 1,16 metri, l’altezza sale fra i 9 e gli 11,5 metri, forse la misura più ragionevole. Se infine il passo è quello che si ricava dalla successiva descrizione delle mura di Rodi, il cui il perimetro complessivo, compresi il porto e il palazzo del Gran Maestro degli Ospitalieri di San Giovanni, è da lui stimato in 6500 passi, pari 2,17 miglia (Itiner. c. 32v), per cui si tratterebbe di un passo di circa 1,7 metri (dando per assodato Bonsignore intenda il miglio fiorentino di poco meno di 1654 metri), l’altezza dei tumuli sarebbe compresa fra i 13,5 e i 17 metri: non inverosimile, dato che i tumuli più alti raggiungono i 30 metri, ma al di sopra della media (Evstatiev et alii 2005, 158-159). Bonsignore registra la leggenda locale secondo cui i tumuli risalirebbero all’epoca di Cesare, perché il luogo coinciderebbe con i campi Pharsalii, ovvero con il luogo della battaglia di Farsalo (9 agosto 48 a.C.) fra Cesare e Pompeo, che in realtà si trova in Tessaglia. La sua obiezione, per cui i tumuli sarebbero troppo alti per poter ospitare i morti della battaglia cesariana, non è facilmente spiegabile.

4 | Carta di Costantinopoli (a sinistra) e Scutari (a destra) all’inizio del XVI secolo. La carta è orientata con il sud in alto. Berlin, Staatsbibliothek, Orientabteilung, Carta XXVIII, 1-2, dal manoscritto Kitabi Bahriyye di Piri Reis, ca 1520 (Bildportal der Kunstmuseen, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Stiftung Preußischer Kulturbesitz, Berlin).

IV.3. Costantinopoli (Istanbul).
Principale tappa intermedia del viaggio, è raggiunta il 18 novembre 1497, premessa per un lungo soggiorno favorito dalla presenza di una comunità mercantile fiorentina, di cui Maringhi era membro importante (Bonsignore, da Costantinopoli, 4 dic. 1497: GC 29.99, c. 6v). Nell’Itinerario (c. 15r) come in altri casi la data di arrivo è errata, ovvero anticipata al 15 novembre, ma vi troviamo dei particolari topografici che mancano nella lettera: “entramo in Constantinopoli, per la porta ch’è presso al castra del signore, dove sono in su una punta di Constantinopoli cinque o sei torre”. La porta, data la presenza delle torri, è senz’altro la Porta di Silivri (Silivri Kapi), presso lo Yedikule Zindanları (“Fortezza delle sette torri”), nella zona sud-ovest della città (Müller-Wiener 1977, 287, pianta A7; Philippides, Hanak 2011, 321-323).

A Costantinopoli, nel quartiere di Pera, la comitiva trascorre l’inverno, fino al 20 marzo 1498, visitando la città ripetutamente [Fig. 4]. Per la prima volta troviamo nelle carte la notizia che dei testi epigrafici greci sono stati trascritti e tradotti in latino: “in colonne et pyramide habiamo visti et scripti alchuni epigrammi greci che da messer Bernardo son facti latini; et de’ greci et latini habiamo la copia” (Bonsignore, in Pera, 20 marzo 1498: GC 29.99, c. 10v). Il fatto che i testi fossero “in colonne et pyramide” autorizza a pensare alle iscrizioni degli obelischi dell’ippodromo, ma malauguratamente fra le carte Michelozzi le traduzioni non si trovano.

Le notazioni più interessanti sono nell’Itinerario, anche se la scelta dei monumenti non brilla per originalità, in linea con quelle dei viaggiatori contemporanei. Fra le chiese, a parte Santa Sofia, la sola identificabile è la Pammakaristòs: “un altro [tempio] che hoggi lo chiamono ‘el patriarchato’, dove sta il patriarcha greco con tutti i suoi canonici et altre dignità” (cc. 17r-v). Assegnata al patriarcato di Costantinopoli con l’annesso complesso claustrale nel 1390, la Pammakaristòs era stata innalzata da Gennadio II Scholarios a sede patriarcale dopo il sacco del 1453. Vi si conservavano le reliquie di S. Eufemia di Calcedonia, di S. Salomé e di Giovanni Cristostomo. Il complesso sarebbe stato poi trasformato in moschea (Fethiye Camii) da Murad III (1574-1595) alla fine del XVI secolo (Müller-Wiener 1977, 122-124).

Le antichità ricevono da Bonsignore meno attenzione di quanta ci saremmo aspettata: “in decta città sono aqueducti, colonne coclide, obelischi, archi triumphali, ippodromi et altre molte antichità notabili et antiche” (c. 17r). Per un simile elenco non occorreva un viaggio. Circa ottant’anni prima, Cristoforo Buondelmonti (1386-1430), che fra il 1415 e il 1418 aveva visitato Costantinopoli almeno tre volte, era stato più sensibile (Barsanti 1999). Colpisce soprattutto la mancanza di citazione delle grandi colonne onorarie imperiali, che costituivano la parte più vistosa del patrimonio antico della città, alle quali il Buondelmonti aveva dato risalto sia nella descrizione (Buondelmonti 1824, 123-124), che nella mappa allegata all’opera: la Colonna Gotica, a nord del Topkapı Sarayı, che deve il nome alla dedica a Fortuna Redux “ob devictos Gothos” (CIL III, 733), in cui gli specialisti riconoscono una possibile allusione alla vittoria di Costanzo II del 332 (Müller-Wiener 1977, 53; Sodini 1994, 47); la colonna porfiretica di Costantino, nota come Çemberlitaş (“colonna cerchiata”) per la presenza degli anelli di ferro a rinforzo dei rocchi, che sorgeva al centro del foro ovale sulla Mese (Mango 1981; Mango 1990; Sodini 1994, 44-47; Calia 2013, 00); la colonna di Marciano, in marmo proconnesio, che sorge tutt’ora nei pressi dell’acquedotto di Valente e che porta una delle poche iscrizioni latine di Costantinopoli, la dedica del prefetto Tatianus (CIL III, 738; Müller-Wiener 1977, 54-55; Sodini 1994, 77-80); la colonna coclide di Arcadio sullo Xerolophos, nota in epoca ottomana come Dikilitaş o “Pietra conficcata”, demolita nel 1715, dopo i gravi danni subiti negli incendi del 1633 e del 1660 (Kelly 2017).

5 | Colonna di Giustiniano e statua equestre, entrambe demolite dopo la conquista ottomana di Costantinopoli nel 1453. A sinistra: disegnatore italiano, Statua Equestre, prima metà del XV secolo. Budapest ELTE Egyetemi Könyvtári [ELTE University Library], ms. 35, fol. 144v. A destra. C. Buondelmonti, Pianta di Costantinopoli, ca 1420 con successive rielaborazioni. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. Lat. Cl. X, 123, c. 22r. (da Lehmann 1959, figg. 1-2).

Manca anche un’altra menzione attesa: quella della statua equestre, auri splendore fulgens, che sormontava la colonna di Giustiniano, il monumento costantinopolitano più noto in Italia, non solo dalle mappe del Liber Insularum, ma anche dai disegni di Ciriaco d’Ancona, copie del quale devono ben aver circolato a Firenze (Mango 1959, Mango 1993; Boeck 2021; Berger 2021, 15-17: [Fig. 5]). L’interesse di Bonsignore si concentra sull’ippodromo, lo Atmeydanı, la “piazza dei cavalli”, che conservava il ruolo di spazio pubblico per eccellenza (nella sterminata bibliografia v. almeno Müller-Wiener 1977, 64-71; i numerosi saggi in Pitarakis 2010; Dagron 2011; da ultimo: Akyürek 2021):

Nel mezo dello ippodromo sopradetto erono molte colonne. Sonvi due a guglia, ciò è obelischi: uno murato di pietre, che si vede sta coperto di piastre di rame; l’altro di granito, con le base di marmo biancho, con due epigrammi grieci. Et qui, sculto di mezo intaglio, el modo et ingegno chome si rizzò et fu ritto al tempo di romano inperatore. Sonvi anchora tre serpi di bronzo, | volte insieme con mirabile arte, che da alto fanno con le teste et parte di busto chome un roccetto, et sono alte circa VI bracci. Nella testa di detto ippodromo sono molte colonne, che fanno mezzo cerchio, tutte di marmo, con altre antichità assai. Ma non si possono troppo bene considerare, perché e’ Turchi hanno gelosia, et saria dubbio ti facessino qualche iniuria (cc. 18v-19r).

I monumenti citati da Bonsignore sono canonici: il Colosso, l’obelisco di Teodosio e la colonna bronzea serpentiforme di Platea. Alla fine del Quattrocento questi famosissimi pezzi erano curiosità note a tutti i viaggiatori (Guberti Bassett 1991; Bardill 2010) ed erano ben presenti nella tradizione iconografica ottomana (Kafescioğlu 2009, 143-178; Akyürek 2021, 61-64).

6 | L’ippodromo di Costantinopoli nel 1574. Da sinistra: S. Sofia, l’obelisco di Teodosio, la colonna serpentina di Platea, il Colosso. Cambridge, Trinity College Library, ms. 0.17.2 (Freshfield Album), dis. 21 (Yerasimos 2000, 84).

L’obelisco “murato di pietre”, ovvero il cosiddetto Colosso [Fig. 6], era un pendant dell’obelisco di Teodosio realizzato in blocchi di calcare e collocato sulla spina in un momento imprecisato (Pitarakis 2010, 266). L’iscrizione che ne commemora il restauro da parte di Costantino VII Porfirogenito (CIG 8703; cfr. CIL III, 1, p. 138; cfr. Mango 1951, 62-63), in occasione del quale furono applicate le lastre rame menzionate da Bonsignore, fornisce il termine ante quem per la sua erezione, che deve essere appunto anteriore al regno del Porfirogenito (905-959). Il testo dell’iscrizione è giunto in Occidente nel 1562 con il De topographia Costantinopoleos di Pierre Gilles (1490-1555), che contiene una lunga e intricata descrizione del monumento (Gyllius 1562, 88-89, su cui Origone 2004). Bonsignore e Bernardo potrebbero averne anticipato la conoscenza di oltre mezzo secolo, almeno a Firenze, ma la trascrizione non ha lasciato tracce.

L’obelisco egizio di Teodosio [Figg. 5-6] è il gemello di quello che Augusto fece installare a Roma nel Circo Massimo e che è oggi in piazza di S. Giovanni in Laterano (Bruns 1935, spec. 30-39; Crkvenjakov 2016). Bonsignore ignora i notissimi rilievi del dado superiore, che mostrano su tutti e quattro i lati membri della dinastia imperiale in una cornice architettonica, in genere interpretata come il kathisma (Safran 1993, 410, 414-419; Kiilerich 1998, 33-67). Ricorda invece il rilievo della faccia nord del plinto inferiore [Fig. 7], che rappresenta le operazioni di raddrizzamento curate dal prefetto urbano Proclo (Kiilerich 1998, 69-85).

7 | Il plinto inferiore dell’obelisco di Teodosio con il rilievo rappresentante alcune operazioni di raddrizzamento da parte del Prefetto Urbano Proclo. 379-395 d.C. Situazione attuale (foto M. Cadario).

L’operazione, che deve essere parsa memorabile ai contemporanei, è descritta anche nell’iscrizione bilingue. Il testo greco parla 32 giorni di lavoro (CIG 8619; cfr. Anth. Pal. VI, 689 Dübner), il testo latino ‘solo’ di 30 (CIL III, 737). In entrambe le redazioni il nome di Proclo è stato eraso e reinciso, una singolarità messa in relazione con la sua temporanea damnatio memoriae del 392-395, che costituirebbe, se l’ipotesi fosse esatta, un preciso termine ante quem (Wrede 1966; Safran 1993, 410). La menzione ha una sua importanza. Se l’obelisco è infatti spesso citato come monumento, e già il Buondelmonti ne aveva trascritto la dedica latina (non quella greca: Buondelmonti 1824, 122-123), abbiamo qui la più antica citazione dei rilievi del plinto inferiore. L’interpretazione corretta del soggetto non è spiegabile se non con la lettura delle dediche, nelle quali la grandiosità dell’impresa è assai enfatizzata (Kiilerich 1998, 87-92; Crow 2007, 260-261, Pitarakis 2010, 249). Sono del resto più d’una le occasioni in cui Bernardo e Bonsignore gettano la spugna nell’interpretazione (v. §§ 4.5, 4.6)

L’ultima opera citata è la celeberrima colonna serpentina in bronzo di Platea (Yılanlı Sütun), oggi mutila delle teste, una delle quali si conserva al Museo Archeologico di Istambul (Menage 1964; Calia 2013, 293-394: [Figg. 5, 8]).

8 | La colonna serpentiforme di Platea. Situazione attuale (foto: ©CC).

Si tratta di una base costituita da tre serpenti intrecciati (Her. 9.81.1; τοῦ τρικαρήνου ὄφιος), le cui teste guardavano in direzioni diverse, in modo che ciascuna sostenesse uno dei piedi di un tripode monumentale che le città greche dedicarono a Delfi dopo la vittoria sui persiani nel 479 a.C. (sugli aspetti archeologici: Gauer 1968, 75-96; Ridgway 1977). Una lista delle città combattenti a Platea, di cui sopravvive solo una parte, è incisa sul fusto (Liuzzi 2012). Non sappiamo quando il monumento sia giunto a Costantinopoli. Si suppone che sia avvenuto in età costantiniana, ma non esiste alcuna menzione sicura prima della fine del XIV secolo. In ogni caso, dal punto di vista ottomano è stato per secoli l’oggetto più prezioso di Costantinopoli per il suo ruolo di talismano apotropaico. R.H.W. Stichel ne ha esemplarmente ricostruito la storia fino alla fondazione della Repubblica turca, con un eccellente corredo di fonti (Stichel 1997; sulle fonti più antiche: Mansel 1970; da ultimo, ma meno utile: Stephenon 2016). Bonsignore si limita a una succinta descrizione, ma sotto questo aspetto si trova in ampia compagnia. Nell’insieme, questa descrizione di Costantinopoli risulta un po’ deludente. Oppure, forse meglio, del tutto ordinaria.

IV.4. Cizico (Kúzikos).
Il 20 marzo 1498, il giorno prima dell’equinozio di primavera, Bernardo, Bonsignore e i loro compagni di viaggio lasciano Costantinopoli dopo il lungo riposo invernale. A Bursa si unisce a loro Giovanni Battista Larchario, un mercante genovese che parlava perfettamente il greco e il turco. Con due cavalli e due cammelli il gruppo parte in direzione di Cizico (Kyzikos), nei pressi di Aydıncıḳ. Oltrepassati Mihaliç (Karacabey) e Bandirma, il 20 aprile 1498 raggiungono la città antica. Le cospicue rovine suscitano per la prima volta in Bonsignore un interesse genuino. La lettera che ne parla è stata scritta più di un mese dopo, a Chios (Bonsignore, 18 maggio 1498: GC 29.99, cc. 14v-15r; Itiner. c. 22v ), non si tratta quindi di una testimonianza dettata dall’emozione del momento, ma la descrizione presuppone comunque una visita lunga e accurata.

Cizico era colonia milesia fondata intorno la metà del sec. VIII a.C. L’abitato occupava le pendici meridionali della penisola di Arctonneso, oggi Kapıdağ, unita al continente da un istmo paludoso, non lontana dall’isola di Proconneso, dove si trovavano le cave del marmo omonimo (storia e topografia: Sève, Schlosser 2014, spec. Prêteux 2014). In età imperiale era stata la capitale della provincia di Mysia, e un porto importante.

9 | Schizzo della posizione della città di Cizico fra i due porti. Bonsignore, 18 maggio 1498: GC 29.99, c. 15r (da: Borsook 1973, tav. 29a).

Dal IV secolo a.C. Cizico era caratterizzata dalla presenza di due porti, uno a nord e uno a sud del Kapıdağ, collegati da un canale che attraversava la penisola [Fig. 9]. Bonsignore comunica agli amici fiorentini la singolare situazione topografica con uno schizzo in cui evidenzia la posizione delle mura triangolari rispetto agli approdi (Bonsignore, 18 maggio 1498: GC 29.99, c. 15r; Schulz 1991, 114-115). La prima parte della descrizione è dedicata all’abitato:

La terra, secondo arbitramo, circundava quatro miglia o più, della quale si veghono quasi tutte le mura, molto belle, in triangholo; le quali pigliono parte del piano et parte del monte. Et dentro vi si veghono grandissime ruine, et molte di grandissimi edificii di marmo molto bello; ma lettere nessuna vi si truova per la quale si possa intendere che chose siano state. Entro vi sono dua chasali di Turchi, et per tutto si veghono cholonne di marmo assai (ibid.).

La presenza di case turche all’interno della cerchia ellenistica conferma la notizia riferita all’inizio del XIV secolo dal nobile catalano En Ramon Muntaner (1265-1336), governatore della città di Gallipoli fra il 1303 e il 1307. Secondo Montaner nel 1303 l’esercito ottomano aveva posto il campo invernale dentro le mura antiche (Schulz 1991, 113). La lamentata mancanza di iscrizioni all’interno della città (“lettere nessuna vi si truova”) presuppone che i viaggiatori le abbiano cercate inutilmente. Senza iscrizioni, nessuna speranza di poter interpretare le rovine, al contrario di quanto abbiamo visto per l’obelisco di Teodosio.

Fuori dalle mura Bonsignore cerca i resti del tempio che oggi chiamiamo di Zeus o di Adriano (Burrell 2002-2003; Burrell 2004, 86-94). Il tempio, che sorgeva sopra un’altura la cui funzione cultuale è attestata già in età ellenistica, era uno pseudo-diptero di 46×80 m, con 8×15 colonne corinzie di ca 21 m, la cui prima fase, rimasta incompiuta, dovrebbe risalire all’età di Antonino Pio (migliore ricostruzione: Winter, Schulz 1990; più recentemente: Koçhan 2011, 22; Koçhan 2014). Lo accompagna la reputazione infondata, spesso un po’ superficialmente ribadita (Ashmole 1959, 35-36; Borsook 1973, 165), di tempio più grande del mondo antico. Le sue dimensioni erano in realtà cospicue ma non eccezionali, in linea con altri templi colossali della prima età imperiale, ad esempio il tempio di Zeus Heliopolitanus a Baalbek, per non parlare del tempio di Venere e Roma sulla Velia (DeLaine 2002, 208-210).

Il tempio era comunque noto a tutti gli umanisti per essere uno dei Mirabilia Mundi citati nel canone interpolato del VI secolo d.C. (Anth. Pal. IX, 616; Malal. 279 Bonn; Nic. Chon. e Anon. de sept. Spect. Orbis in Phil. Byz. 41-44 Orelli). Era stato visitato nel 1431 e nel 1444 da Ciriaco d’Ancona, che ne ha lasciato due significative descrizioni (Ashmole 1956; Bodnar, Mitchell 1976, 27-31; Bodnar, Foss 2003, 72-75; Koçhan, Tercanlioğlu 2017, 206-210), accompagnate da uno schizzo della facciata e da alcuni notevoli disegni con particolari dell’alzato, del fregio e della trabeazione (Ashmole 1956; Brown, Kleiner 1983, 334; Günther 1988, 17-18: [Fig. 10]).

10 | Fonzio da Ciriaco d’Ancona, Interno del naòs del Tempio di Adriano a Cizico: colonne a rilievo e fregio, 1490-1500. Collezione privata, ms Ashmole, cc. 34v-35r (da: Ashomole 1956, tav. 38b).

Bernardo e Bonsignore erano sicuramente condizionati nelle loro aspettative dalle lodi del Panegirico di Cizico di Elio Aristide (Orat. 27.20). Nessun dubbio che gli scritti del retore, ben noti a Firenze dall’inizio del Quattrocento, fossero risultati accessibili a Bernardo: nove dei ventiquattro manoscritti laurenziani provengono dalla biblioteca medicea (Fontanella 2013, 209-210). Questo spiega l’entusiasmo e l’acribia con cui Bonsignore esplora, misura e descrive le rovine.

El tempio detto è in loco eminenti alquanto, et vedesi quello essere stato schoperto della parte di sopra, et l’altitudine di quello si vede gudicamo essere bracca 50 la lungheza et bracca 60 la largheza passi circa 30, le mura tutte di marmo bellissime. Et drento vi sono meze colonne sculte tut-e con panpini, le quali fanno certi compassi et adornamenti dello templo. La porta è volta a tramontana, et nella testa del tempio è el muro doppio; fra el quale è 1 schala di marmo di largheza di bracca 1. Et sono 4 schaglioni per tutta, sempre insieme: cioè in 1 pezo di marmo 4; et chosì fanno in tutto la somma di 60 schaglioni. Dove nella sommità, benché non si vegha tutta, si sciende in su una parte del muro che sono pezi di marmo di bracca 5 o più, onde si vede 1 fregio di figure di rilevo che sono 14 o 16, che viene apunto nella testa del tempio. Drento, le due figure di mezo sono inmagine d’1 re et d’1 regina, et l’altre da ogni banda si vede esser imagine di dei. Vedevisi Erchole, Bacho et altri che non si conoschono. Le figure sono bellissime et quasi tutte nude, lunghe circa bracca 1½ el piano. El tempio drento non si può vedere, perché è ripieno di grandissimi marmi. Restavi anchora ritto 1 stipite della porta di marmo, lungo bracca 30 o più, intagliato intorno benissimo. Intorno a dicto tempio è 1 colonnato lungo passi 160 et largo circa 60, nel quale anchora sono in pie’ 26 colonne di marmo, alte bracca 40 et grosse 10, le quale sono ciaschuna col captello et con la base da sotto, in 10 pezi, l’uno sopra l’altro, tutte lavorate a canali. Sopra vi sono e’ capitelli, intagliati tanto sottilmente et bene che non si potrebbono descrivere. Et dal’una al’altra colonna sono cornice d’un pezo, che le coniungano insieme et fanno quasi 1 ballatoio, intagliate benissimo. Et questo è quanto m’è parso, benché idiotamente, di dicto tempio. È rente el mare poco più d’una balestrata, et presso vi si veghe certe ruine a lato al muro della terra, che ci par novo, quali di templi et quali di terme. Et hec de Cizico dicta sufficiant.

11 | Frammento di semicolonna a rilievo dal tempio di Adriano a Cizico, II secolo d.C. Kúzikos, area archeologica (Spatworth 2006, 188).

La descrizione è la più dettagliata che ci sia giunta prima del XIX secolo. Non per caso è stata la prima sezione del viaggio ad aver ricevuto un commento archeologico (Schulz 1991; ora Koçhan, Tercanlioğlu 2017, di minore utilità). Bonsignore dovette comunque trovare una situazione non facilmente decifrabile, dato che le misure che rileva sono problematiche. Se l’altezza di 50 braccia, ca 29 m, è plausibile, al contrario le 60 braccia di lunghezza per 30 passi di larghezza, ovvero ca 35,2 m per ca 34,8 m (in caso di passo di 1,6) o 51 m (in caso di passo di 1,7), non hanno alcun rapporto con la realtà. Quanto alle colonne, Bonsignore ne vede in piedi 26. Ciriaco ne aveva contate 33 nel 1431 e 31 nel 1444, il che dà la misura del progressivo degrado del sito (Schulz 1995, 118). L’altezza, 40 braccia, ca 23,2 m, corrisponde approssimativamente a quella oggi stimata di 21 m. La larghezza di 10 braccia è invece implausibile, se il termine usato da Bonsignore (“grosse”) si riferisce al diametro, risultando un esagerato 5,86 m. si riferisce invece alla circonferenza, il diametro sarebbe di ca 1,9 m, inferiore a quello stimato (Winter, Schulz 1990, 69-71). Le “meze colonne sculte tutte con panpini” sono senza dubbio le semicolonne a rilievo con tralci di vite di cui sopravvivono due frammenti (Winter, Schulz 1990, 67; [Fig. 11]). Ciriaco ne contò dieci, riproducendole anche in disegno a ridosso delle pareti del naòs [Fig. 10].

Il bassorilievo con 14 o 16 figure, di cui un re e una regina al centro, gli dei, Eracle e Dioniso è sicuramente una porzione del fregio, di cui Ciriaco ha disegnato diverse sezioni [Fig. 10]. A oggi nessun frammento sembra essere sopravvissuto. Doveva trattarsi di un fregio alto fra 85 e 90 cm, collocato all’interno del naòs, sopra le semicolonne con tralci. La porzione descritta da Bonsignore non coincide con quelle disegnate da Ciriaco, anche se sembrano riconoscibili negli schizzi delle figure appartenenti al tiaso dionisiaco e forse Eracle (Schulz 1991, 120). Nell’insieme, la descrizione di Bonsignore è un documento importante. Gli studiosi turchi che recentemente si sono occupati del tempio ne hanno fatto largo uso, a integrazione dei documenti numismatici e ai risultati delle campagne di scavo condotte negli anni Novanta, le sole di cui si abbia notizia (Koçhan 2014).

IV.5. Troia (Çanakkale).
Oltrepassata Cizico, Bernardo e Bonsignore percorrono la costa della Propontide, toccando le antiche città di Abido, vicino a Çanakkale sul promontorio di Nara Burn, e Lampsaco (Lapseki), passando prima il Simoenta (Dambrektschai) e subito dopo lo Scamandro (Karamenderes). Dopo quattro giorni di viaggio, con sistemazioni di fortuna, giungono al sito che loro credono essere la mitica città di Troia (Bonsignore, 18 maggio 1498: GC 29.99, c. 15r; Itiner. c. 22v; Borsook 1973, 167).

Non sono i primi europei a vedere l’antica città. Le condizioni di vento e di corrente all’entrata dei Dardanelli ostacolavano il transito delle navi e obbligavano a lunghe attese alla fonda all’imboccatura dello stretto, di modo che le occasioni per visitare la costa e la vicina Troia non mancavano. È tuttavia difficile dire quanti viaggiatori abbiano individuato il sito esatto. È tipico il caso del sacerdote tedesco Ludolf von Südheim (sul quale: Schnath 1987), che attraversò la Troade intorno al 1340. Costui riferisce di aver visto pochi muri in rovina sottacqua, oltre a colonne semisepolte e pietre,

ipsa civitate [i.e. Constantinopoli] dimissa supra littus Asiae minoris pervenitur ad locum, ubi quondam illa nobilissima civitas Troia fuit sita, cuius aliquod vestigium non apparet, nisi aliqua fundamenta in mari sub aqua et in aliquibus locis aliqui lapides et aliquae columnae marmoreae subterratae (Ludolphi 1951, 29).

Nonostante sia di solito ritenuto il primo pellegrino occidentale a menzionare Troia, ciò che Ludolf in realtà vide è l’insediamento costiero di Alessandria di Troade [Fig. 12], l’odierna Eski Stambul. La città, che secondo Strabone (13.47) si chiamava originariamente Σιγία e ricevette il nome di Αλεξάνδρεια Τρωάς da Lisimaco nel 301 a.C., veniva talora confusa con la Troia mitica anche nell’antichità (Weiss 1989, 153-154; Rose 2014, 283).

Ciò che oggi si vede sul terreno sono tuttavia soprattutto le rovine della città romana e bizantina (storia e topografia: Klinkott 2014; più brevemente: Öztepe 2010; Öztepe, Giese 2020). Fra i viaggiatori che si sbagliano c’è anche il Buondelmonti. Dato che, secondo quanto riferisce nel Liber insularum, Troia si trovava di fronte all’isola di Tenedo, è quasi certo che stia descrivendo Alessandria (Buondelmonti 1824, 117), cui si devono riferire quindi i “multa fragmenta antiquitatum” del noto disegno di cui si conserva copia nel ms. Chigiano Fv 110 della Biblioteca Vaticana. Al contrario, quando il sultano Mehemet II visitò Troia nel 1462 pronunciandovi un famoso discorso, probabilmente si trovava nel punto giusto, perché dichiara di vedere le tombe di Achille, Aiace e altri. La presenza di tumuli funerari è in effetti un elemento del paesaggio dei dintorni di Troia e della zona del Sigeo (Rose, Körpe 2016; [Fig. 13]).

13 | Dislocazione dei tumuli nella regione di Troia (Rose, Körpe 2016, fig. 3).

Vale la pena di leggere la descrizione di Bonsignore:

Atraversamola quasi tutta, et stimiamo, secondo si potea arbitrare, circundassi circha 12 o 13 miglia. Gran parte delle mura sono in pie’: ciò è dove un pezo et dove un altro. Sono grosse 10 pie’ de’ mei, che così le misurai. Sono facte fuori et entro di pietre lavorate et ripiene di ghiaia et calcina. Le pietre di fuori sono abozolate, proprio chome la chasa vechia di Giuliano Ghondi, ma assai maggore. Entro vi sono moltissimi edifici antichi, tutti rovinati, e’ quali non possiamo pensare sieno degli antichi di Troia, ma potius facti da qualche imperatore romano, perché vi habiamo trovato in 4 o in 5 luogi lettere latine d’alchuno inperatore. Vero è che vi si vede una ruina d’uno grandissimo quadrato passi 400 o più, di pietre bellissime con bellissimi archi; et dalla parte della marina è molto alto, in modo per tutto si può vedere, et in alto ha certe cornice et fregi molto ben lavorati; et di questo dubitiamo o sì o no. Lo edificio mostra antichissimo; forse che è quello di che si dice: “quinquaginta illi talami etc. [Verg. Aen. II, 495]”. Èvi un altro edificio, del quale si vede una volta che è lunga più d’una balestrata. E in sullo entrare trovamo in marmo lettere latine, et di queste e ditte altre habiamo copia. Alsì un altro edificio rotundo vedesi mezo non è molto grande, nel quale si vedeno luogi dove stavono statue, et sonvene dua chaschate in terra, di bracca 4 l’una o più, di marmo: bellissime, benché non molto per la antichità si possino considerare. Et in questo luogo sono lettere assai latine. Sonvi anchora molti altri edifici ruinati grandissimi, et molte volte, delle quali non si può investigare nulla. Sono le mura sua insino sulla marina, et dimostrone esser state altissime. Sonvi certi altri luogi quali informa indi teatri quali di naumachie et d’altre chose che non si intendono. Èvi certe ruine che dicono essere stati aqueducti, et di tutto a bocha meglio vi potreno raguagliare [...]. In sulla riva del quale, rente Troia, inverso Rodi, sono bellissimi bagni et callidissimi, con grandissime ruine et lettere latine. Ma fra l’altre chose, ci sono in pie’ sei archi, che si vede essere stati edifici di decti bagni, e’ quali et messer Bernardo et noi altri tutti affermamo mai haver visti più belli. Et alsì 1 ruina d’un gran tempio, con moltissime sepulture di marmo, de’ quali ne mesurai de’ lunghi bracca 5 l’uno (Bonsignori, 18 maggio: GC 29.99, 13v-14r).

Che Bernardo e Bonsignore siano transitati da Alessandria è fuor di dubbio. Lo dimostrano sia le mura che giungono fino al mare, che potrebbero riferirsi al porto augusteo, sia il riferimento al gran numero di iscrizioni latine di età imperiale (“lettere latine d’alchuno inperatore”), che in effetti sopravvivono in gran numero ad Alessandria. Due sono gli edifici riconoscibili nella descrizione: l’“edificio rotundo vedesi mezo non è molto grande, nel quale si vedeno luogi dove stavono statue”, ovvero il teatro nella parte su della città; i “bellissimi bagni et callidissimi”, con sei degli archi ancora in piedi, quasi certamente le rovine della Terme di Erode Attico (Klinkott 2014, 4-16), le cui arcate superstiti sono oggi in corso di restauro (Makalesi 2016; Fig. 13).

14 | Alexandria Troas, Terme di Erode Attico: arcata del grande ambiente centrale. II secolo d.C. (foto: ©CC).

La presunta estensione del circuito murario, calcolato fra le 12 e le 13 miglia fiorentine, all’incirca fra 20 e 21,5 km, ovviamente esagerata, dimostra che con ogni probabilità essi si sono spinti nella loro esplorazione fino a Troia vera e propria, proiettandola in una dimensione mitica [Fig. 14]. L’individuazione dei monumenti citati è difficile, ma la ricerca specialistica ha finora trascurato questa testimonianza, che costituisce senza dubbio il più dettagliato resoconto che ci sia giunto prima dei viaggi degli antiquari ottocenteschi.

IV.6. Metellino (Mitilini).
Bernardo e Bonsignore sbarcano a Lesbo il 26 aprile, dopo aver costeggiato per due giorni l’Ellesponto, decidendo quindi di lasciare la terraferma, poco sicura anche per la presenza di focolai di peste (Bonsignori, 18 maggio: GC 29.99, 14r). Per alcuni giorni si dedicano all’esplorazione dell’isola. Visitano Metimna (Molivos), ove vedono poco. Le rovine di Mitilene nel XV secolo erano ancora abbastanza cospicue. Quattro secoli dopo, nel 1865, quando Alexander Conze esplorò Lesbo, erano praticamente scomparse (Conze 1865, 6-14). Bonsignore ci ha lasciato una breve ma non insignificante descrizione dell’isola:

venimo al chastello di Metellino, el quale è in bello loco et forte, ma cosa notabile non vi è. Ha porto da dua bande, et vedesi in su 1 che si dice Porto Vechio certi edifici antichi et uno certo qu⟨a⟩dro di colonne marmoree che stimiano fussi un tempio et un archo triunphale con lettere latine, del quale habiamo copia. Et alsì uno edificio ruinato grandissimo, che non si vede quello si fusi, et allato al porto un altro edificio che dicono essere stato la dogana del porto (Bonsignore, 18 maggio: GC 29.99, c. 15r ).

La presenza di queste rovine era stata notata da Ciriaco nel 1444, ma dei monumenti descritti, né il “quadro di colonne marmoree che stimiamo fussi un tempio”, né l’“edificio ruinato grandissimo” sono identificabili, a meno che quest’ultimo non sia il teatro. Riconoscibile è invece l’“archo triunphale con lettere latine”, che nell’Itinerario è definito “un bellettissimo archo triomphale di Aurelio Antonino inperadore, con belli epigrammi greci et latini” (Itiner. c. 17r-v.). Come altre volte l’Itinerario è fuorviante: la tradizione non conosce archi con dediche a principi della famiglia degli Antonini o dei Severi, tanto meno con doppia iscrizione greca e latina, che peraltro nella lettera del 18 maggio, come abbiamo visto, è detta solo latina. Tutto lascia pensare che si tratti del monumento che Ciriaco aveva descritto come “conspicuum de marmore arcum, quem Tetrastilon dicunt” e di cui aveva copiato l’iscrizione (Di Benedetto 1998, 162). Dunque un arco onorario quadrifornte scomparso che risulta essere stato dedicato dal governatore della Provincia Insularum, Aurelius Agathus Gennadius, ai tetrarchi Diocleziano, Massimiano, Galerio e Costanzo (CIL III, 450; sul monumento: Labarre 1996, 140; cat. A 16; The Last Statues of Roman Empire (Database), nr. 938). Può darsi che il prenome Aurelius del governatore Gennadius (su cui: Jones et alii 1971, s.v. Aurel. Agathus Gennadius 2), noto anche per una dedica a Mars Pater Gradivus per la salute dei Tetrarchi nell’Isola di Kos (Vallarino, Cosentino, Beghelli 2011, 48-49), abbia generato l’equivoco in cui è caduto Bonsignori nell’Itinerario.

IV.7. Bergamo (Bergama), Smirna (Izmir), Scio (Chios), Langho (Kos), Castel San Pietro (Alicarnasso/Bodrum).
La mancanza delle lettere della seconda parte del viaggio, dopo la lunga missiva da Chio del 18 maggio, ci priva di una documentazione che doveva essere di grande interesse dal punto di vita archeologico. Fra l’altro, in corrispondenza dei mesi di giugno e luglio il racconto dell’Itinerario si fa particolarmente scarno e impreciso, lasciandoci con il sospetto che Bonsignore stesso non avesse più sottomano le sue carte. In quei due mesi i viaggiatori toccano luoghi archeologicamente significativi: Patmos, Kos, Bodrum, Rodi, Cipro.

Da Mitilene la comitiva ritorna in terraferma e si avvia verso l’interno. Il 30 aprile è in vista di Pergamo (Bergama). Bonsignore riferisce, con una punta di rimpianto, che poterono vedere la città solo da diverse miglia di distanza. La situazione non era delle migliori: “passamo per 1 luogo molto pericoloso, et 8 gorni inanzi vi era stato morto 1 merchante genovese e toltogli le robe da 1 fusta di Turchi”. Il loro accompagnatore, genovese come il mercante assassinato, premeva perché non ci si allontanasse dalla strada maestra (Bonsignore, 18 maggio, c. 14 v).

Di Smirne (İzmir) Bonsignore riferisce che era “tutta piena di grandissime ruine” e circondata da lunghe mura, anch’esse in rovina: “la terra circunda delle miglia cinque o più, secondo si vede, ma tutte le mure sono ruinate” (ibid.). Nonostante il grande interesse, c’erano buone ragioni per non visitare la città: “né qui ci fermamo, perché vi era la peste. Dolseci assai, ma più chara havemo la vita che vedere quelle ruine”. Lo stesso nell’Itinerario: “sonvi molte antichaglie, ma non potemo intenderne verità” (c. 27r).

A Chio, dove giungono intorno al 10 maggio, si fermano per quaranta giorni, alloggiando in casa di Agostino Giustiniani, vicario arcivescovile (Bonsignore, 18 maggio, c. 15v; Itiner. cc. 29r-v). Il soggiorno inusitatamente lungo è motivato dalla necessità di attendere la galera veneziana che li porterà in Terrasanta con oltre un centinaio di altri pellegrini. Pur avendo visitato accuratamente l’isola, Bonsignore non registra né monumenti né rovine, e questo è piuttosto sorprendente. La sola notazione antiquaria riguarda l’abilità di Bernardo di saper leggere le antiche iscrizioni, traducendo dei diplomi imperiali dal greco al latino. L’attività gli procura molta considerazione presso gli eruditi locali (Itiner. c. 29v).

Castel San Pietro, ovvero il castello di Bodrum (Bodrum Kalesi) nell’antica Alicarnasso, quasi certamente viene visto solo dalla nave, dopo la partenza da Kos, all’inizio della navigazione per Cipro. Borsook (v. Borsook 1973, 164) e, di conseguenza, Yerasimos (v. Yerasimos 1991, 122) suppongono che Bernardo e Bonsignore vi abbiano fatto tappa e abbiano avuto modo di visitare le rovine della città e il Mausoleo. Il testo, tuttavia, sembra escluderlo:

Partiti di lì [i.e. Chios], venimo nella isola di Coos, ora detta Langho, la quale è del Gran Mastro di Rodi. Et apunto a rinchontro è la Caria, et vi si veghono le gran ruine del sepulchro detto mausoleo, el quale la regina Arthemisia di quel paese fece a Mausolo suo marito; di tal mirabile maniera che si numera infra le septe mirabili chose del mondo. Et dicono gli scriptori che era alto XXV cubiti, et intorno era cinto di XXXVI colonne (Itiner. c. 30v).

La conoscenza del Mausoleo è limitata al testo pliniano (36.31) e al canone delle Sette Meraviglie.

Conclusioni

L’importanza del viaggio di Bernardo e Bonsignore come fonte per la storia dei siti levantini, soprattutto dell’Anatolia pontica, è indiscutibile. Tuttavia, considerare il viaggio di Bernardo e Bonsignore una vera e propria peregrinatio archaeologica (Sassi 2012), come la celebre Jubilatio di Andrea Mantegna, Samuele da Tradate, Felice Feliciano e Giovanni Marcanova, che fra il 23 e il 24 settembre 1464 percorsero la campagna del lago di Garda alla ricerca di sculture e iscrizioni antiche (Ricci 2006), sarebbe improprio (Sassi 2006). Bernardo e Bonsignore condividono l’orientamento dell’umanesimo fiorentino contemporaneo, in cui prevalevano la dimensione retorico-letteraria e un certo interesse per gli aspetti geografici ed etnografici, mentre l’entusiasmo antiquario che caratterizzava ambienti come Mantova, Padova e Roma era quasi assente. Lo scopo del viaggio dichiarato da Bernardo è, del resto, ben chiaro: “potete hac causa iter nostrum ad infedeles pretexere, che in Turchia andiamo per cerchar libri Greci et maxime ecclesiastici” (GC 29.55, c. 45r). Il modello di riferimento è la spedizione di Giano Lascaris, che qualche anno prima (1491-1492) aveva riportato a Firenze un bottino di circa duecento manoscritti, assumendo una dimensione quasi leggendaria (Müller 1884; Borsook 1973, 148; Yerasimos 1991, 120). L’esame delle lettere mostra che in Bonsignore, se l’interesse per le iscrizioni è grande sin dall’inizio, quello per le rovine antiche cresce nel corso del viaggio. Le prime note sul patrimonio archeologico si trovano nelle lettere dell’ottobre 1497, dopo oltre due mesi di viaggio, quando la comitiva ha ormai raggiunto Plovdiv (§ IV.1) ed Edirne (§ IV.2) in Tracia. Il vero discrimine è, comunque, il soggiorno a Costantinopoli dell’inverno 1497-1498. La descrizione delle antichità costantinopolitane non brilla né per accuratezza, né per originalità (§ IV.3), ma segna un cambio di atteggiamento. Dopo la partenza le descrizioni del tempio di Adriano a Cizico (§ IV.4) e quella delle rovine di Troia/Alessandria di Troade (§ IV.5) sono fra le più significative testimonianze di interesse archeologico dell’età moderna, e continuano a essere utili anche per la ricerca archeologica contemporanea. Le recriminazioni per non aver potuto visitare le rovine di Pergamo e di Smirne a causa della peste o di altri pericoli (§ IV.7), sono eloquenti e testimoniano dell’interesse che aveva nel frattempo maturato il Bonsignore.

Bisogna però dire – ed è, tutto sommato, motivo di sorpresa – che dopo il picco registrato in Anatolia, l’interesse sembra scemare nuovamente quando i viaggiatori toccano le isole greche e Cipro, sia prima che dopo la visita in Terrasanta. I lunghi soggiorni a Chios (ca 10 maggio – 15 giugno 1498) e Rodi (18 giugno 23 – luglio 1498) corrispondono ad altrettante visite (a Rodi, peraltro, solo nei dintorni alla città), che alimentano la descrizione del paesaggio, delle risorse produttive e dei principali edifici moderni, ma nessuna osservazione riguardo alle antichità, che pure in entrambe le isole abbondavano. È come se, avvicinandosi la fine del viaggio, tornasse a prevalere l’atteggiamento iniziale, l’approccio retorico e letterario all’antichità che li aveva contraddistinti alla partenza. Il viaggio resta, comunque, un episodio eccezionale nella storia della conoscenza del mondo greco e levantino e la sua importanza merita, e continuerà a meritare il dovuto risalto nella storia dell’archeologia moderna.

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English Abstract

The journey of Florentine clerics Bernardo Michelozzi (1455-1519) and Bonsignore Bonsignori (1468-1530) to Jerusalem, via Edirne, Constantinople, the west coast of Anatolia and the island of Chios (1497-98), is a well-known “humanist” pilgrimage of the early Renaissance. Michelozzi’s research of Greek and patristic manuscripts and Bonsignori’s attention to ancient sites and monuments have long attracted scholarly interest. Through a new transcription of Bonsignori’s letters and travel account (both made available to me by Bruno Figliuolo), the paper offers an “archaeological” commentary on the stages of the journey in the light of the most up-to-date literature.

keywords | Archaeology; Pilgrimage; Bernardo Michelozzi; Bonsignore Bonsignori; Jerusalem.

Questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista.

Per citare questo articolo: Ludovico Rebaudo, Un pellegrinaggio ‘archeologico’ di fine Quattrocento. Bernardo Michelozzi e Bonsignore Bonsignori in Anatolia e nell’arcipelago (1497-1498), “La Rivista di Engramma” n. 204, luglio/agosto 2023, pp. 141-174 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.204.0007