"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

207 | dicembre 2023

97888948401

Architettura del pensiero vivente

Presentazione di: Alberto Ferlenga, Architettura. La differenza italiana, Donzelli Editore, Roma 2023

a cura di Monica Centanni e Fernanda De Maio

English abstract

Alberto Ferlenga, Architettura. La Differenza italiana, Donzelli Editore, Roma 2023 (il volume è disponibile presso il sito dell’Editore).

Cade opportuno in un numero di Engramma dedicato a “Segno e Disegno” presentare un breve estratto del nuovo libro di Alberto Ferlenga, appena edito da Donzelli. Esplicitamente, fin dalle prime pagine, l’autore si propone di tentare una sfida: osservare il mondo intorno a noi, per comprendere le ragioni di una crisi di ruolo sociale dell’architetto, in Italia e nel mondo. 

È, questo, un libro militante che riprende, riconfigurandoli in una nuova veste, temi già trattati da Alberto Ferlenga in saggi e frammenti di intuizioni sparsi in riviste, cataloghi di mostre, atti di convegno, libri alla scoperta di altri architetti, relazioni di progetto. Riproposti in questa nuova veste che li riunisce in volume, i saggi e i frammenti riscritti e approfonditi appositamente e corredati di tutti i riscontri bibliografici, sono ordinati in modo che il libro risuoni come il gong per risvegliare le coscienze degli attuali architetti italiani affinchè escano dalla ‘comfort zone’ di un professionismo corretto o di un accademismo che ripete stancamente concetti non più aggiornati dal punto di vista dell’elaborazione critica (e l’autore su questo fa tesoro della sua esperienza di docente in varie università italiane e straniere, e di rettore allo Iuav). Il bersaglio di questo volume sono dunque i teorici puri e i curatori mai divenuti architetti. Nuove figure che ci parlano della nostra attuale condizione – di crisi secondo l’autore – e che si sostituiscono all’architetto intellettuale, con cui soprattutto nel Novecento maturo, l’Italia ha offerto a livello internazionale un contributo ancora oggi riconosciuto. Un contributo che è stato originale perchè si è alimentato del confronto costante con il patrimonio del “bel paese” e dei molteplici tentativi di distruzione naturali o umani.

Il volume che nel tono appare libero da autobiografismi e anzi modulato su un registro retorico che può apparire fin troppo neutro e distaccato, scaturisce invece dalle molteplici puntuali occasioni con cui l’autore si è confrontato da punti di osservazione per certi versi eccezionali, guadagnati con tenace e volitiva necessità di proporre la propria posizione attraverso un lavoro intensissimo su fronti diversi; l’università di cui si è parzialmente detto, ma che lo ha visto anche impegnato a fondare nuove pratiche didattiche parassite attraverso un seminario di progettazione architettonica itinerante e metodi di ricerca con la fondazione di un dottorato internazionale in architettura, entrambi intitolati a Villard d’Honnecourt. Tutto questo mentre in Italia cominciava il fenomeno del proliferare di dottorati di settori e microsettori scientifici che all’architettura hanno forse arrecato più danni che benefici: in questo caso l’autore di Architettura. La differenza italiana esercita la sua critica a tale costume attraverso processi fondativi sempre estremamente inclusivi e aperti rispetto agli intrecci disciplinari, consapevole che l’architettura si alimenta solo in un campo vasto. In luce è inoltre la prospettiva attuale di Ferlenga sviluppata anche dall’osservatorio privilegiato della partecipazione alle redazioni di alcune delle riviste che hanno fatto la storia dell’architettura del Novecento italiano – “Casabella” e “Lotus”.

Infine, un aspetto mai tralasciato è stato quello della professione che, a fronte di poche opere costruite, si è costantemente alimentata attraverso la partecipazione a concorsi nazionali e internazionali, non meno che l’attività curatoriale di mostre e convegni e infine la libertà visionaria, alimentata attraverso il disegno a china ed acquerelli, oggi documentata da una pagina instagram specifica. Quel procedere argomentativo piano, quasi generico, dunque che promana dalle pagine del libro, non inganni il lettore; non una parola, non un concetto è generico nel volume; i contenuti aspirano piuttosto a trasformare l’esperienza individuale in valore riconoscibile in modo universale. Questa pratica oggi è quasi più inattuale – e forse per questo più preziosa – di quegli Italian studies derivati dagli spunti filosofici di Roberto Esposito che, insieme ai titoli dei paragrafi Eve of Destruction e Oblivion Republic, sono gli unici inglesismi di un volume che comunque meriterebbe un pubblico internazionale.

Infatti, pur dedicato agli architetti italiani, il lavoro di Ferlenga non tratta biecamente di identità e non vuole indicare tecniche di sopravvivenza di una specie in estinzione – l’architettura italiana; mira piuttosto a ricostruire una cornice di senso storicamente radicata, contestualmente vivida e vitale, per entrare con adeguato armamentario teorico, prima che tecnico, nel futuro: la sfida è abbandonare gli automatismi e le lectiones faciliores che governano la logica della cultura della globalizzazione, affinché l’architettura continui – e ritorni – a essere “pensiero costruito”.

Architettura. La differenza italiana

Alberto Ferlenga

Lo “spazio italiano”

Possedere caratteri comuni ma produrre al tempo stesso differenze e valori aggiuntivi non è, per l’architettura italiana, una caratteristica che riguarda solo la parte più esposta al pubblico degli edifici. Anche gli interni di case, chiese o palazzi condividono la stessa particolarità, tanto da poter parlare dell’“interno italiano” come di qualcosa che si distacca dalle sue declinazioni più diffuse per assumere un carattere proprio. È ancora una volta il rapporto con l’esterno a determinare la differenza; nelle architetture italiane il limite tra interno ed esterno tende ad attenuarsi sotto l’effetto mediatorio delle grandi aperture, delle corti e dei giardini, ma anche quando gli edifici appaiono ermeticamente chiusi in se stessi, ciò che li circonda irrompe nel buio delle grandi sale o delle navate attraverso immagini pittoriche che annullano la consistenza dei muri e riportano la bellezza dei paesaggi reali. Vedute a cui si aggiungono cieli popolati da angeli e santi, protagonisti di storie sacre e miti, le cui vicende, rappresentate in affreschi, mosaici o tele, dilatano illusoriamente le dimensioni di stanze o saloni.

Gli esempi più noti appartengono all’educazione scolastica di ognuno di noi e costituiscono la parte più rilevante del patrimonio architettonico-artistico italiano. Basti pensare ai mosaici pavimentali della Villa del Casale di Piazza Armerina, alla cupola ravennate di Sant’Apollinare in Classe, agli affreschi giotteschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, alla Camera picta del Mantegna (1431-1506) a Mantova, sino agli enormi teleri della sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale a Venezia con lo straordinario Paradiso di Tintoretto (1518-1594). Il “vuoto” degli interni italiani è dunque un vuoto arricchito dall’evocazione di esterni che, se negli edifici di maggiore importanza è completato da opere di pregio, trova anche nella comune domesticità delle case una sua declinazione geografica attraverso stampe, lunari, ricordi fotografici. D’altra parte è la geografia reale, nelle sue implicazioni climatiche a caratterizzare, in Italia, i paesaggi interiori nel senso di una loro variegata individualità. Locali come le Stübe[1] delle valli alpine, o le camere dello scirocco[2] siciliane, sono dispositivi di protezione climatica che attraverso la loro architettura offrono un benessere che fa loro acquisire un ruolo importante, nella casa, anche in termini di socialità diventando essi stessi piccoli paesaggi interni con il concorrere di materiali, immagini e forme. La varietà dei casi, il numero estremamente elevato dei termini che li indicano e degli artigiani – pittori, decoratori ebanisti ecc. – che partecipano a questa opera di diffusa “messa in scena” degli interni, domestici e non, sono una riprova di quanto una geografia variata fatta di confini porosi, e di condizioni differenziate, concorra all’attribuzione di una particolare modificabilità all’architettura e allo spazio. Una modificabilità che giunge ad attenuare l’importanza dell’aspetto complessivo degli edifici attribuendo ad alcune loro parti un carattere autonomo, che si tratti di una facciata, di un portico, di una torre o di una semplice stanza.

Presenza immateriale per eccellenza il vuoto degli interni italiani – e si potrebbe aggiungere anche degli esterni – assume una sua particolare attitudine evocativa anche in forza della sua natura estroversa, più che in ogni altro luogo al mondo negli interni italiani si percepisce ciò che scriveva riguardo al vuoto Pavel Florenskij (1882-1937)[3].

Non è soltanto un luogo omogeneo e senza struttura, né una semplice casella, ma è a sua volta una realtà particolare, interiormente organizzata, dovunque differenziata, sempre dotata di una struttura e di un ordine interiore[4].

Tra le sue particolarità vi è anche quella di trattenere, meglio che altrove, eventi storici o vite personali che entrano a far parte della sua stessa costruzione, un rapporto speciale con la memoria, come ben sapeva Giulio Camillo (1480-1544)[5] inventore del Teatro della memoria, che si somma a quello con la geografia e che estende all’immateriale ciò che in una casa si conserva come ricorda Gaston Bachelard (1884-1962).

In virtù della casa, si intende, un gran numero dei nostri ricordi trova un alloggio e se la casa si complica un po’, se ha cantina o soffitta, angoli e corridoi, i nostri ricordi hanno rifugi sempre meglio caratterizzati[6].

Memorie, luci, suoni, paesaggi, animano dunque anche i vuoti interni agli edifici di movimenti invisibili, e ciò è tanto più evidente in Italia grazie alla varietà dei modi dell’abitare e attribuisce una ricorrente straordinarietà anche alle espressioni più comuni di questi microcosmi, porzioni riparate e minime del mondo la cui estroflessione aggiunge senso e varietà all’architettura nel suo complesso come si può vedere in buona parte dell’architettura mediterranea o alpina.

Una particolarità, quella dell’autonomia del “vuoto”, che è stata presente, infine, anche nel dibattito architettonico contemporaneo; a partire dalle osservazioni di Luigi Moretti (1906-1973) che è stato tra gli ultimi architetti italiani a riflettere a fondo su questa componente essenziale dell’architettura.

Naturalmente se in un’architettura ogni lato espressivo, ogni aspetto della sua figura, è legato coordinatamente agli altri, ad esempio il tessuto del chiaroscuro all’organismo plastico o all’organismo apparente della costruzione, sembra lecito in sede di analisi critica di un’opera, assumere uno di questi aspetti in astrazione dagli altri, come indice dell’opera stessa e, in conseguenza, su esso condurre ragionamenti validi per l’intera realtà architettonica. Vi è però un aspetto espressivo che riassume con una latitudine così notevole il fatto architettonico che sembra potersi assumere, anche isolatamente, con maggior tranquillità degli altri: intendo accennare allo spazio interno e vuoto di un’architettura[7].

Moretti porterà fino alle estreme conseguenze la sua ricerca sullo spazio e la forma architettonica, che rimarrà sostanzialmente senza sviluppo in Italia. La sua lettura propende per una declinazione tendenzialmente astratta la cui origine, per quanto riguarda l’architettura, individua nelle deformazioni formali del barocco e di cui trova conferma, per quanto riguarda l’arte, nella ricerca delle avanguardie del Novecento. Ma l’interesse nei confronti della struttura “assoluta” dello spazio, anche in Moretti, non esclude l’importanza delle condizioni specifiche in cui si rivela. Nel primo numero della rivista “Spazio”, da lui fondata nel 1950, l’architetto romano in un testo dal titolo Eclettismo e unità di linguaggio, dopo aver preso in esame, nella storia, i momenti di rottura dei linguaggi universali e la genesi dell’ecclettismo contemporaneo, auspica l’avvento di una nuova condizione in cui forme di unità dei linguaggi possano rinascere. Non voglio qui tanto riprendere un auspicio sicuramente datato e le cui implicazioni potrebbero portarci, così come quelle sulla astrattezza dello spazio, in territori paludosi, se meccanicamente applicati all’architettura. In Moretti, però, previsioni discutibili sul piano generale ma fondamentali per comprendere il suo personale linguaggio espressivo, si intrecciano a intuizioni anticipatrici che ancora oggi possono costituire un terreno di riflessione. L’editoriale citato di “Spazio”, si chiude con una considerazione sul valore potenzialmente eccezionale del patrimonio europeo e italiano rispetto ad una rinascita dell’architettura che mi sembra interessante riprendere.

Ma l’irrequieto spirito europeo, non scisso dalla sua terra, rifiuta questa istanza [l’eclettismo]; nel suo insopprimibile umanesimo ha la necessità della conoscenza e dell’ordinamento di ogni espressione umana. L’Europa soltanto, crediamo, dovrebbe saper conferire nuova unità ai linguaggi; poiché in essa soltanto sono vive e potenti quelle forze contrastanti che hanno generato la crisi del mondo moderno e che nacquero dalla cruciale storia del suo pensiero, dalle sue varie tradizioni, dalla sua amplissima cultura dalle condizioni di lotta di fame e di guerre che la perseguitano, dalle ambizioni e dagli odi dei suoi uomini, dalla pietà e religione dei suoi antichi, dalla bellezza dei luoghi. Forze ed elementi che se ordinati e risolti potranno costituire quel nuovo linguaggio, anche di una sola arte, che avrebbe portentosi riflessi sull’intera struttura del mondo civile. Un europeo – solo un italiano? – può riflettere la costellazione delle pure relazioni accesa dal giovinetto Gaulois sul tremare delle foglie d’un melo, al vento della notte[8].

Il testo ci riporta all’importanza, per un architetto, di un punto di osservazione, di un retroterra culturale, storico e geografico che, come quello europeo e italiano, siano in grado di esprimere il loro potenziale innovativo in momenti diversi della storia e di fronte a esigenze diverse del mondo. Così, anche se può sembrare un paradosso, considerando la natura universale dell’architettura, si può parlare di uno “spazio italiano” non in quanto fenomeno esclusivamente locale ma come attitudine lentamente costruita attraverso le epoche e particolarmente atta ad intessere relazioni, potenzialmente replicabile per il suo grado di adattabilità ai luoghi come ad esempio ha dimostrato la fortuna internazionale del palladianesimo.

Per queste ragioni, anche per quanto riguarda il vuoto, esiste in Italia una specificità che ne fa, più che altrove, un “luogo” dinamico e vivo, in grado, pur nella sua “inconsistenza” fisica, di avere una capacità propria evocativa e rappresentativa, quando non addirittura costruttiva. Ciò non esclude, ma anzi rafforza e arricchisce, il dialogo con il “contenitore” che, anzi, rimane ininterrotto e che, iniziato con la fine del processo costruttivo, evolve di continuo nell’accoglienza di usi diversi, nel sedimentarsi di fatti pubblici e famigliari, di nascite e di morti, e non può dirsi esaurito sino alla decadenza completa dell’edificio e alla sparizione delle sue rovine. Spazi e vuoti italiani si connotano, per concludere con questo tema, come un amalgama di diverse componenti in continuo movimento, come dispositivi distributivi e rappresentativi al tempo stesso, in grado di fornire non solo riparo ma anche comfort e piacere. La loro capacità di creare rapporti non scontati e cangianti con un mondo esterno continuamente ricercato ed evocato tramite ricordi o souvenir appesi alle pareti, dipinti preziosi o povere riproduzioni, semplici finestre o logge principesche costituisce un’ennesima miniera di materiali per l’architetto in questo osservatorio privilegiato sul mondo che è l’Italia.

Note

[1] La Stübe è l’ambiente di soggiorno, riscaldata da stufe (che da qui derivano il loro nome) e generalmente esposta a sud e rivestita in legno decorato, che costituisce il centro sociale della casa in molte valli alpine.

[2] Le camere dello scirocco sono spazi prevalentemente ipogei ricavati per lo più in palazzi e ville signorili siciliane come riparo dalla calura estiva, in grado di intercettare l’aria fresca e l’umidità del suolo.

[3] Pavel Aleksandrovič Florenskij, tra i principali pensatori del Novecento, è stato un religioso, filosofo e matematico russo che influenzò anche la cultura artistica insegnando, tra il 1921 e il 1924, Teoria dello spazio al Vchutemas di Mosca culla del Costruttivismo russo e in cui insegnò, tra gli altri, anche l’architetto Ivan Il’ič Leonidov (1902-1959). Florenskij verrà fucilato in un gulag staliniano, nel quale era stato rinchiuso, alle isole Solovki, nel 1937.

[4] La frase riportata è tratta da La prospettiva rovesciata, frammento di un’opera più ampia sulla spazialità che costituì la base dell’insegnamento svolto al Vchutemas tradotta in italiano e pubblicata da Nicoletta Misler nel 1990 nella collana di Gangemi Editore diretta da Eugenio Battisti.

[5] Giulio Camillo, detto Delminio, fu un filosofo e letterato italiano che si dedicò per tutta la vita alla ideazione di un Teatro della memoria, inteso come opera costruita, ma di cui non fornì mai per iscritto una descrizione compiuta. La costruzione era pensata come una vera e propria macchina della memoria di cui venne costruito un modello in scala oggi perduto, che appariva come una sorta di teatro all’antica nella cui cavea una serie di cassetti contenevano l’intera conoscenza umana secondo una disposizione complessa che avrebbe permesso ad un osservatore sapiente di rammentare concetti e immagini.

[6] Testo tratto da La poétique de l’espace, Puf, Paris 1957, il libro è stato pubblicato e tradotto in italiano con il titolo La poetica dello spazio, da Dedalo nel 1975.

[7] La rivista “Spazio” venne fondata da Luigi Moretti, romano, uno degli architetti italiani più importanti del Novecento, autore, tra l’altro, dell’edificio in corso Italia a Milano (1947). Uscì con continuità dal 1950 al 1953 periodo in cui si concentrarono i numeri più famosi. Il testo riportato è tratto dall’articolo Strutture e sequenze di spazi, pubblicato sul n. 7 del 1952.

[8] Il testo di Luigi Moretti è tratto dall’articolo Eclettismo e unità di linguaggio, pubblicato sul n. 1 di “Spazio” nel 1950.

English abstract

“La Rivista di Engramma” presents a short extract from the book Architettura. La differenza italiana by Alberto Ferlenga, published by Donzelli Editore in 2023. The book investigates the reasons for a crisis in the social role of the Italian architect in the world, taking up themes that the author has already been dealt with in essays and appeared scattered in magazines, exhibition catalogues, conference proceedings, books on the discovery of other architects, and project reports, reconfiguring them in a new guise. In this new form, these essays, rewritten and examined in depth on purpose and accompanied by all the bibliographical references, resonate like a warning to awaken the consciences of today’s Italian architects so that they may come out of the “comfort zone” of a correct professionalism or an academicism that wearily repeats concepts that are no longer up-to-date from the point of view of critical elaboration.

keywords | Alberto Ferlenga; Architettura. La differenza italiana; Donzelli Editore.

Per citare questo articolo / To cite this article: Monica Centanni, Fernanda De Maio (a cura di), Architettura del pensiero vivente. Presentazione di: Alberto Ferlenga, Architettura. La differenza italiana, Donzelli Editore, Roma 2023, “La Rivista di Engramma” n. 207, dicembre 2023, pp. 123-129. | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.207.0019