"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

“Firenze, dove si avverte la densità della storia”

Attorno alla mostra “Camere con vista. Aby Warburg, Firenze e il laboratorio delle immagini”, Firenze, Gallerie degli Uffizi, 19 settembre / 10 dicembre 2023

Marzia Faietti. Intervista a cura di Ada Naval, Giulia Zanon

English abstract

La mostra “Camere con vista. Aby Warburg, Firenze e il laboratorio delle immagini” è allestita alle Gallerie degli Uffizi dal 19 settembre al 10 dicembre, curata dalle Gallerie degli Uffizi e dal Kunsthistorisches Institut in Florenz – Max-Planck-Institut, in collaborazione con il Warburg Institute di Londra. “Camere con Vista” indaga il rapporto di Warburg con la città di Firenze, dal suo primo soggiorno nel 1888 fino all’ultimo viaggio in Italia. Presentiamo una breve intervista con Marzia Faietti, co-curatrice della mostra.

Parte dell’allestimento di “Camere con vista”. A sinistra: Giovanni di Francesco Toscani, Processione dei Palii, 1425 ca., Firenze, Museo Nazionale del Bargello; a destra: Mnemosyne Atlas, Tavola 48.

Ada Naval, Giulia Zanon | L’idea alla base di “Camere con vista” è stata quella di portare Warburg a Firenze, mettendo a dialogo le tavole fiorentine dell’Atlante con quelle opere di cui le tavole stesse ci parlano. La mostra ha inoltre costruito un’idea di ‘Warburg fiorentino’ che tiene conto non solo di Firenze come oggetto di studi di Warburg ma anche della temperie culturale della Firenze che lo studioso ha vissuto personalmente. Ci parli di come questi aspetti sono stati messi in dialettica.

Marzia Faietti | Vorrei fare innanzitutto una premessa: la mostra ha un ideatore che è Gerhard Wolf. Non è la prima volta che lo studioso riflette su Warburg, perciò aveva in mente qualcosa di abbastanza preciso quando, ormai tempo fa, parlò delle sue idee a Eike Schmidt. Sin dalla risoluzione di rivolgersi al Direttore delle Gallerie degli Uffizi si intravedeva un nodo concettuale del suo progetto di mostra: Wolf intendeva portare una mostra sull’Atlante Mnemosyne agli Uffizi perché era consapevole di come quel museo fosse a sua volta una sorta di Atlante. Questa consapevolezza ha costituito il nucleo originario del progetto. Eike Schimdt intuì il potenziale dell’idea e acconsentì ad accogliere l’esposizione negli spazi della Galleria delle Statue e delle Pitture, nonostante la futura “Camere con vista” si profilasse sin dall’inizio come un’impresa piuttosto sperimentale in quanto assai diversa dalle mostre precedenti ospitate agli Uffizi. Inoltre, la sua ipotizzata collocazione all’interno dell’itinerario della collezione permanente avrebbe potuto creare, da parte del visitatore alla ricerca del capolavoro assai noto, qualche perplessità se non addirittura delle aspettative deluse. Ciò nonostante Eike Schimdt ha deciso generosamente di procedere nella realizzazione del progetto. Nella sua forma finale “Camere con vista” è il frutto di un lavoro collettivo di un affiatato gruppo di curatori e collaboratori*

Una delle novità della mostra risiede nel fatto che la selezione delle tavole dell’Atlante è piuttosto circoscritta. Da una parte, è legata all’ambiente fiorentino, dall’altra, connessa a tematiche più generali (per esempio, nelle due tavole della sala ‘Laboratorio’ emergono gli interessi di Warburg verso la contemporaneità). Nell’insieme, queste scelte piuttosto calibrate si relazionano con la costellazione di opere conservate agli Uffizi e con quelle diffuse in città.

Pur attingendo alla ricostruzione filologica delle tavole dell’Atlante già proposta nelle recenti mostre aperte in musei di Berlino, Bonn e Amburgo – che hanno presentato una ricostruzione dell’ultima versione dell'Atlante Mnemosyne risalente al 1929 e basata sulle fotografie originali – l’esposizione fiorentina si è ripromessa obiettivi diversi e differenti approcci d’indagine. Non posso entrare qui nel dettaglio, mi limito perciò a sottolineare, ancora una volta, come gli Uffizi, con la loro collezione davvero unica di sculture greco-romane e di dipinti della prima età moderna, sono parsi il luogo più idoneo per commentare la ‘sopravvivenza’ e la trasformazione delle antiche Pathosformeln nel Rinascimento e oltre, indagate dallo studioso. Questo dialogo serrato con gli Uffizi ha peraltro affascinato anche i colleghi del Warburg Institute, Bill Sherman, direttore dell’istituto, e Claudia Wedepohl, direttrice dell’archivio, a loro volta coinvolti nella curatela della mostra e nella collaborazione del catalogo.

Uno dei rischi del taglio adottato per l’esposizione era quello di finire per considerare soltanto Firenze. Sebbene il microcosmo fiorentino contenesse già in nuce, grazie all’eterogeneità delle collezioni soprattutto medicee, molte traiettorie di viaggio, volevamo anche mostrare, attraverso la selezione di alcune opere, le aperture di Warburg verso altre aree geo-culturali (Arizona e New Mexico) e il suo approccio antropologico. Né intendevamo dimenticare che la Firenze visitata a più riprese e in momenti differenti dallo studioso era nel frattempo sottoposta a varie trasformazioni. Il ritorno in una città parzialmente mutata costituiva di per sé almeno in parte un nuovo viaggio. Non si trova mai la stessa Itaca che si è lasciati dietro di sé.

Nella prima sala (“Warburg e Firenze”), l’attenzione di Warburg per il volto e i fatti di cronaca della Firenze dei suoi soggiorni a cavallo tra Ottocento e Novecento si riflette nelle immagini rivolte a documentare le trasformazioni urbanistiche, la nuova edilizia e i moti sociali della città in contrappunto a documenti, fotografie e a un piccolo trittico a gouache di Mary Hertz che illustrano aspetti della vita privata di Warburg. Il passato e il presente, il pubblico e il privato convivono nella sala come presenze parallele piuttosto che polarità o antitesi. Antitesi sono talvolta proposte in altre sale (complessivamente esse ammontano a cinque, disposte lungo il percorso dell’antica Armeria medicea), come in una dialettica interrotta prima di arrivare alla sintesi finale e ciò nonostante sottoposta al visitatore quasi a richiederne la partecipazione attiva per decidere se, in primo luogo, sia possibile o utile cercare una sintesi o se, viceversa, sia preferibile arrestare il processo dialettico. Abbiamo talvolta mostrato opere che per i loro contenuti iconografici sarebbero state potenziali ospiti di pannelli dell’Atlante, soprattutto laddove, nella quarta sala, il disegno diventa espressione privilegiata della trasformazione delle antiche Pathosformeln dal Rinascimento fino ai nostri giorni. Qui si è anche suggerito la coesistenza di disegni di William Kentridge con fogli di Michelangelo, Raffaello, Leonardo e con un bulino di Dürer.

Per certi versi la mostra è impegnativa perché richiede al visitatore una partecipazione attiva. Del resto, le mostre in generale dovrebbero, tra gli altri obiettivi, prefiggersi quello di mantenere noi stessi e il pubblico sempre vigili e attenti a non cadere in una passiva ricezione delle immagini. 

“Camere con vista” è un’esposizione diffusa che, dalle cinque sale in cui si dispiega la grande maggioranza delle opere selezionate, si diffonde in altri punti strategici della Galleria per la presenza sia di tavole dell’Atlante, sia di opere o installazioni di artisti contemporanei. Molto diverse tra loro, queste ultime commentano in modi distinti la moltiplicazione multimediale cui era interessato ai suoi tempi anche Warburg. Insomma, alle persone che vanno agli Uffizi per vedere prevalentemente alcune opere iconiche della civiltà occidentale, si offre la possibilità di riflettere sulle immagini attraverso l’esperienza di Warburg.

AN, GZ | “Camere con Vista” usa l’Atlante per gettare luce sulle opere d’arte esposte alle Gallerie degli Uffizi ma è anche una mostra che vuole affrontare, a grandi temi, le ricerche e la metodologia di Aby Warburg. Quale è la lezione di Warburg che un non specialista può trarre dalla mostra? Cosa ci insegnano oggi Warburg e Mnemosyne?

MF | Senz’altro a guardare meglio le immagini. Scorrendo l’Atlante più e più volte, rimaniamo colpiti dall’intreccio di relazioni sollecitate dall’accostamento delle immagini; grazie al filo che collega tra loro quelle relazioni siamo in grado di ricostruire non una, ma tante storie, nonché di seguire, almeno in parte, le riflessioni di Warburg e di cogliere il suo retroterra culturale.

Questo processo conoscitivo fa scattare inevitabilmente un richiamo ai nostri giorni: ogni ricerca effettuata in internet può dar luogo, se questo è il nostro obiettivo, a storie più o meno complesse che possiamo ricostruire con l’aiuto di risorse digitali visive e scritte. Il lavoro da fare, per creare sequenze organiche e coerenti sia delle immagini che delle notizie, è tanto, ed è, senza dubbio, frutto di un impegno personale. Occorre sempre un filtro con cui selezionare le informazioni visive e scritte per ricavarne la nostra logica narrativa o per evitare di estrapolare dati di per sé insufficienti o pericolosamente accostati ad altri, solo in apparenza omogenei e consequenziali. Il ‘disordine’ delle informazioni, che a volte ci imbarazzano per la loro moltitudine, è altra cosa dallo stimolante filo sotterraneo più o meno esplicito che lega tra loro le immagini nell’Atlante. 

Nell’era del digitale la modernità di Warburg, rapportata ai suoi tempi, ci fornisce ancora un’importante indicazione metodologica: la necessità di selezionare le diverse tipologie di dati a nostra disposizione grazie a considerazioni, pensieri e conoscenze, queste ultime provenienti da una pluralità di fonti affidabili. Non esiste, vale la pena di ribadirlo, la neutralità dell’informazione digitale ed è vana la fiducia o la speranza di crearsi soltanto attraverso di essa un parere meno condizionato da ideologie; viceversa, possiamo contare sulla capacità di elaborare ed estrapolare i dati in base a un pensiero ‘forte’ nutrito da esperienze culturali multiple e differenziate.

C’è un’altra riflessione che stimola oggi l’esperienza di Warburg: riguarda la polarità o contrapposizione tra uso delle risorse digitali ed esigenza, sempre più avvertita, di approfondire la conoscenza della materialità degli oggetti. La contrapposizione potrebbe essere in parte apparente se pensiamo che certe tecniche di riproduzione, per esempio in 3D, restituiscono letture assai precise di mezzi tecnici, supporti, interventi, concorrendo a decodificare gli aspetti materiali del manufatto che riproducono. La domanda da porsi in questo caso è: in quale misura l’esperienza sul campo può essere sostituita da sofisticate immagini digitali? E ancora: cosa aggiunge la visione diretta dell’opera a una consultazione a distanza effettuata con il supporto delle moderne tecnologie di restituzione visiva degli oggetti? A prima vista, parrebbe molto poco, ma bisogna insistere su un dato di fatto, difficilmente oppugnabile: i manufatti elaborati nel passato (o anche quelli del presente che rispondono alle stesse modalità tecniche ed esecutive) erano destinati a essere veduti e toccati con mano e anche se la vista di un uomo è meno penetrante di quella di una macchina è pur sempre la stessa dell’artefice che realizzò a suo tempo l’opera. Ecco, dunque, il discrimine: per la comprensione delle caratteristiche culturali e il godimento delle qualità estetiche di un oggetto che proviene dal passato le condizioni ottimali di visibilità non sono sempre quelle potenziate dalle nuove tecnologie (preziose per altri scopi conoscitivi), ma quelle presenti nell’epoca in cui venne concepito ed eseguito il manufatto. La situazione si ribalta nel caso di opere realizzate nel mondo odierno con l’impiego di strumenti digitali. 

Mi rendo conto di aver sviluppato riflessioni che sembrano andar un poco oltre il vostro quesito iniziale. Ma anche queste a mio parere sono indotte dall’esperienza singolare di Warburg se puntiamo i riflettori sulla realtà dei nostri giorni, rinunciando solo per un momento a un’esclusiva contestualizzazione storica dello studioso.

AN, GZ | L’uso dell’immagine come dato scientifico è tema cruciale nella ricerca di Warburg…

MF | L’uso dell’immagine fotografica da parte di Warburg è certamente funzionale alla sua elaborazione scientifica di un’originale, vasta e complessa storia culturale. Tuttavia, Warburg non è stato il primo a usare le fotografie per i suoi studi. Ricordo il famoso articolo di Adolfo Venturi del 1887 (A. Venturi, Per la storia dell’arte, “Rivista storica italiana” IV (1887), 229-250) dove lo studioso affidava “il rigore del metodo” all’uso della fotografia e lo diceva appreso dalle scienze naturali; Warburg era forse all’inizio su questa linea, ma in seguito avrebbe trasformato profondamente il concetto venturiano di “reminiscenza” affidando alle immagini fotografiche dell’Atlante funzioni narrative radicate in sedimentate memorie storiche che riaffioravano alla coscienza tramite accostamenti e interrelazioni. Quelle narrazioni per immagini non apparivano tuttavia fluide e del tutto scorrevoli: èkphrasis alla rovescia, erano destinate a generare narrazioni anche scritte, che spesso procedevano con sincopi, cesure e frammentazioni. 

Vorrei aggiungere, a chiusura della nostra chiacchierata, un inciso su un secondo aspetto che mi ha colpito nell’articolo di Venturi: dopo aver lodato la funzione della fotografia nello studio della disciplina, lo studioso sottolineava la necessità di un dialogo tra “i ricercatori di documenti” e “gli studiosi delle opere d’arte”. Il panorama degli studi cui si riferiva era quello italiano, ma nondimeno viene spontaneo domandarci in quale di queste due grandi categorie Venturi avrebbe inserito il giovane Warburg, appena approdato a Firenze, la città della sua anima dove in ogni luogo era possibile avvertire la densità della Storia. Warburg, in realtà, trovò una terza via, non certo data dalla sintesi tra i due gruppi come ben sappiamo. In questo percorso la fotografia è stata per lui un mezzo, un tramite e qualche volta persino un fine per cogliere la migrazione di opere e manufatti attraverso la loro moltiplicazione multimediale. 

*La mostra è curata da Costanza Caraffa, Marzia Faietti, Eike D. Schmidt, Bill Sherman, Giovanna Targia, Claudia Wedepohl, Gerhard Wolf; il coordinamento scientifico è di Katia Mazzucco, con l’aiuto di Julia Biel; assistenza curatoriale: Lunarita Sterpetti; il catalogo della mostra è a cura di Marzia Faietti, Eike D. Schmidt, Giovanna Targia, Gerhard Wolf, con Bill Sherman, Katia Mazzucco, Lunarita Sterpetti, Claudia Wedepohl (Camere con vista. Aby Warburg, Firenze e il laboratorio delle immagini, Firenze 2023).

English abstract

The exhibition “Camere con vista. Aby Warburg, Firenze e il laboratorio delle immagini” takes place at the Uffizi Galleries from 19 September to 10 December, curated by the Gallerie degli Uffizi, Kunsthistorisches Institut in Florenz - Max-Planck-Institut, in collaboration with the Warburg Institute in London. “Camere con vista” investigates Warburg’s relationship with the city of Florence, from his first stay in 1888 to his last trip to Italy. We present a short interview with Marzia Faietti, co-curator of the exhibition.

keywords | Gallerie degli Uffizi; Kunsthistorisches Institut in Florenz; Camere con vista; Bilderatlas.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Faietti, intervista a cura di A. Naval, G. Zanon, “Firenze, dove si avverte la densità della storia”. Attorno alla mostra “Camere con vista. Aby Warburg, Firenze e il laboratorio delle immagini”, Firenze, Gallerie degli Uffizi, 19 settembre / 10 dicembre 2023, “La Rivista di Engramma” n. 206, ottobre/novembre 2023, pp. 219-224 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.206.0020