"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

208 | gennaio 2024

97888948401

“In piena luce, in piena ombra”

A dialogo con Franco Branciaroli

Franco Branciaroli, Piermario Vescovo

English abstract

Si pubblica qui la trascrizione dell’incontro con Franco Branciaroli, condotto da Piermario Vescovo, in occasione del centenario della nascita di Giovanni Testori, tenutosi presso il Teatro Nuovo di Verona, mercoledì 8 novembre 2023, con il titolo “In piena luce, in piena ombra. “Branciatrilogia” prima e seconda (1988-1993). La trascrizione che qui si offre, ovviamente, è un testo derivato, nei limiti del possibile, da un discorso e da una conversazione di natura essenzialmente orale: un video dell’incontro è visibile qui. Si ringraziano Enrico Pieruccini (Ufficio stampa Teatro Stabile di Verona-Fondazione Atlantide) per la realizzazione e Viola Sofia Neri per la trascrizione.

Piermario Vescovo | Quest’anno è il centenario della nascita di Giovanni Testori, e quindi approfittiamo della presenza di Franco Branciaroli al Teatro Nuovo di Verona, con Il Caso Kaufmann (che è andato in scena ieri e prosegue nei prossimi giorni), per fare con lui una breve conversazione, una chiacchierata su Testori. Lo ringraziamo dunque per la gentilezza con cui ha accolto la nostra richiesta. Abbiamo intitolato l’incontro Branciatrilogia prima e seconda, titolo che appare in una nota di mano dello stesso Testori, che continua così “che è stata scritta più che per, addosso a, quel grande e ricchissimo attore che è Franco Branciaroli”. Diversamente da altri testi (come quelli scritti per Franco Parenti), di cui non ci sono più gli interpreti che fanno parte del grande patrimonio della storia del teatro italiano del secondo Novecento e della scrittura per il teatro, cosa molto diversa dalla scrittura drammatica che si pratica comunemente, di questi testi possiamo dunque parlare con Branciaroli, in una conversazione che vorrei andasse oltre la semplice rievocazione o commemorazione da centenario. Il titolo di Branciatrilogia prima, come si rimprometteva Testori nel 1988, “testificava, in piena luce e in piena ombra”, il seguito in una Branciatrilogia seconda, e così è stato, rimodulazione dei titoli progettati a parte, per un arco complessivo che va dai secondi anni Ottanta fino al 1993. Le due trilogie si compongono di sei testi ma anche di altri progetti di testi, in un’articolazione ampia e di volta in volta diversa, testo per testo e occasione per occasione. Partiamo dunque senz’altro dal rapporto con Testori.

Franco Branciaroli | Sono quegli incontri strani della vita, perché Testori ovviamente andava a teatro sempre, e quindi mi aveva visto interpretare degli spettacoli. E mi ricordo che venne in camerino: la sua proposta fu di fare un testo di cui non mi ricordo adesso il titolo, ma poi non se ne fece niente. Poi il destino ci fece incontrare in un teatro a Milano, a Porta Romana. Io non so perché avevo scelto di fare “un anno sabbatico”, ovvero di andare un anno in un teatro, il teatro di Porta Romana, un teatro milanese diverso dal solito teatro, dove si facevano delle cose … e quando lui seppe che ero lì, mi disse: “Avrei un progetto di fare un testo che si chiamava Confiteor”, che era la storia di una mamma e un figlio, e io dico “Va bene” (ma io, parliamoci chiaro, non sapevo nemmeno chi fosse questo Testori) però dico “Va bene”, ed era in italiano quel testo, molto bello. L’abbiamo fatto, e capita questa cosa rarissima, che non capita quasi mai, che tra l’autore e un attore ci sia un rapporto che invogli l’autore a scrivere per quell’attore; Testori da questo Confiteor aveva capito che c’erano i mezzi perché lui potesse tentare un tipo di teatro che non aveva ancora tentato, non come Ambleto, Macbetto ecc… Perché i testi che ha scritto per me sono testi strani, quasi sempre in prosa. Non sono monologhi ma chiamiamoli monologhi per capirci, con temi religiosi fortissimi, comicità zero e soprattutto con la lingua spinta. “In exitu” ne è un esempio, proprio agli estremi quasi della comprensione per chi ascolta. Quindi lui probabilmente aveva visto che per poter fare questo salto ci voleva qualcuno con i mezzi giusti, sia vocali sia di provenienza geografica, e quindi, sempre con un mio distacco un po’ cretino, semisuperficiale, la cosa mi va bene. “Se lo vuol fare mi va bene, maestro, lo faccia” gli dicevo. Senonché un giorno mi fa: “Stasera ti porto a conoscere una persona eccezionale, un certo Don Giussani”. Andiamo in macchina e io conosco quest’altro essere mica da nulla, un prete con sigaro e whisky, e nasce questo trio strano (perché per far teatro ci vogliono i mezzi, anche economici ma non solo) e dunque nasce questa serie di testi. 

Dopo Confiteor appunto viene “In exitu”. Testori scrive un romanzo, “In exitu” appunto, e io leggendo questo romanzo capisco che si può recitare magnificamente. Vado, glielo collaudo, lui accetta e viene fuori questo spettacolo che è forse lo spettacolo di Testori, per così dire, “di culto”, perché mi ricordo ci furono serate dadaiste. La prima serata alla Pergola a Firenze successe l’ira di Dio, una roba pesantissima. Lui stava seduto lì, io qui, e c’era una processione di persone che gli sputavano addosso. Naturalmente lui era molto orgoglioso di questo, perché aveva sempre l’indole del martire, e io non mi potevo fermare, perché è un testo dove non ti puoi fermare come attore. E quindi nacque una serata … ma ne venne fuori un riconoscimento incredibile.

Io penso che il centro sia “In exitu”. Quando poi io diventai un po’ più serio cominciai a esaminare che cosa c’era in questi testi. La cosa che non mi convinceva era che tutti quelli che scrivevano su Testori (intendo sui testi miei, non sugli altri come la Trilogia degli Scarozzanti: quelli erano riscritture e questi no), tutti i saggi che leggevo non mi soddisfacevano: cercavo di capire e cominciai a esaminare cosa c’era in questi testi. E il fatto è che tutti i personaggi di questi testi sono dei morti, ovvero sono morti in scena. Anche Riboldi Gino, come il personaggio di Confiteor, è un morto che rivive, e mi ricordo le ultime parole di questo testo: “Mamma, sono qui nella bara che ondeggio sulla bara della nave che mi porta a casa”. Sono tutti morti. Allora è come se ci fosse una specie di resurrezione. Mi ricordavo sempre la frase che Testori aveva detto una volta quando spiegava cos’è secondo lui il teatro: “Il teatro – diceva – è una scatola che va riempita tutta di parole finché non ce ne sta più nemmeno una”. O anche: “Il teatro è il verbo che si fa carne e noi dobbiamo fare che la carne diventi verbo” – e questo è un bel programma.

E quindi c’è questa situazione: i personaggi di questi testi sono morti e rivivono sul palcoscenico come se risorgessero e rimorissero, continuamente, ogni sera. Questo è strano, è una cosa strana, e quindi ho cominciato a interessarmi a questa lingua e il segreto è il suono. Il miracolo testoriano – come credo anche il miracolo shakespeariano – è il suono: quei termini che portano, se vengono detti nel modo giusto, a una specie di musica (orrenda parola), a una espressività che va al di là del significato stesso, diretto, della parola, ma che porta un significato di rimemorazioni. Chiaro che se lo vai a mettere in scena a Firenze non tanto, ma se lo vai a mettere in scena, magari oggi non tanto, ma a quei tempi sì, in quelle zone lì [della Lombardia], il pubblico si commuove molto: io ho visto gente piangere e invece altri ci tiravano addosso la sedia. Io stesso ero imbarazzato, perché a me non piace dire le parolacce in scena, mi dà molto fastidio, e dovevo dirle e l’unica volta in cui mi sono rifiutato è quando lui pretendeva che io andassi da uno spettatore a dirgli: “Lei che è lì” e poi gli insulti. Gli ho detto: “Lo faccio se metti una comparsa, ma lo spettatore vero non ce la faccio, non ce la faccio!”. Per cui erano testi molto più imbarazzanti, ed erano profondamente cristiani in un modo che non andava bene alla Chiesa. Il motivo dell’isolamento di Testori era dovuto a questa condizione: non andava bene a nessuno. Alla sinistra non andava bene, ai cattolici non andava bene, agli omosessuali non andava bene perché reputava l’omosessualità un peccato. Quindi, voi immaginate, a chi andava bene? In camerino io non ho mai visto nessuno; gli unici che ho visto in camerino, diciamo nel segno di un’appartenenza politica, erano degli ex terroristi scarcerati (che non erano il massimo però), perché lui dava soldi alle carceri e a un istituto di disabili (questo l’ho visto io: fare un assegno mica da ridere, di cinquanta milioni, a un Istituto che c’era a Macuniaga di ragazzi disabili) e quindi era molto isolato. Vi faccio solo notare che si dice che noi “In exitu” lo abbiamo fatto alla Stazione Centrale di Milano, ma solo la prima, poi ce ne siamo dovuti andare, e l’abbiamo fatto all’Out Off, che era il teatro buco-del-culo di Milano, un teatrino grande così, ma nemmeno un teatrino, un magazzino. Cioè, Giovanni Testori il Piccolo di Milano “In exitu” non l’ha voluto, ed è finito all’Out Off a Milano, seduto per terra. E l’abbiamo fatto lì. Meno male che lui amava queste cose, cioè trasformare le situazioni, un po’ come gli sputi, però è stato rifiutato! Adesso appunto si stampa con distanza storica, ma quel libro che abbiamo qui, quando c’ero io non c’era, non era stampato niente, cioè tutta la roba stampata è un recupero post mortem. Mi ricordo che Bompiani pubblico il primo volume delle opere di Testori, poi per dieci anni non apparve il secondo perché non ne vendevi tre copie.

Quindi era una situazione anche bella, affascinante. Il Piccolo Teatro ci ospitò soltanto poche volte: di Testori Strehler fece solo un testo con Tino Carraro, Conversazione con la morte – ma perché Conversazione con la morte è all’acqua di rose: poi basta, più nulla. Siamo andati al Piccolo solo con Verbò perché una sera a una cena c’era Pilitteri, il sindaco di Milano, e prendendo il coraggio a due mani gli dissi, “Scusi ma le pare normale a lei che Giovanni Testori, non foss’altro perché è il critico d’arte del “Corriere della Sera”, non possa andare al Teatro della sua città?”. “Come?”. E così gli ho spiegato. Evidentemente allora lui ha telefonato perché è poi è arrivata una telefonata dal Piccolo per fare Verbò. Non si è visto nessuno: noi entravamo al Piccolo e non eravamo accolti da nessuno – mancava che ci dessero le chiavi, nel senso che – adesso per voi sarebbe incredibile immaginarlo – c’era una specie di muro verso di lui. Ecco, questa è la storia. Poi piano piano…  Grazie a Dio adesso è...

PV | Sì, un autore. Un autore, non so se è giusto dire “di culto”, ma comunque riconosciuto tra i massimi scrittori del secondo Novecento, e in particolare, penso si possa dire, il maggior drammaturgo italiano del secondo Novecento. In questi percorsi ci sono tante cose che sono state già richiamate, da una parte la milanesità di Testori, che è un dato molto forte, e molto forte in questa produzione, dall’altro poi la sua collocazione, che aveva sfruttato di più, quella della zona di Como …

FB | […] di Annone.

PV | Passando in treno per andare a Lugano, l’altro giorno, ho visto i nomi della segnaletica e sono tutti i luoghi delle ambientazioni testoriane, soprattutto della Trilogia degli Scarozzanti, fino ai Tre lai. Questa specifica appartenenza si colloca tuttavia in una ricerca espressiva che tocca non solo degli esiti molto forti, di potenza e di quanto d’altro abbiamo detto prima, ma anche di mescolanza di questi elementi con l’italiano – spesso un italiano aulico. Non so poi come sia stato costretto Testori a mettersi in gioco fisicamente, voglio dire come interprete, e questo mi sembra l’altro elemento forte di In exitu e di Verbò.

FB | Perché era un narcisista mostruoso, cioè qualunque attore recitasse, lui diceva [imitando la voce di Testori]: “Franco, sei il più grande attore…”. Poi faceva lo stesso con Adriana Innocenti: “Adriana sei la più grande”. Ma lui amava questa roba qua, andare in scena, lui amava farlo.

PV | Il primo dei testi per Branciaroli, Confiteor, assomiglia abbastanza, con temi completamente diversi e con una maturazione diversa, alla drammaturgia di Testori degli inizi, ed è un testo in italiano, per due attori. Poi l’utilizzo teatrale, come abbiamo ricordato di “In exitu”, che in partenza sarebbe stato un romanzo (o un romanzo in forma monologica) – testo tra l’altro che ebbe una lunghissima preparazione – che sta in qualche modo a sé nell’opera tutta di Testori. Io credo che l’ingresso e la valorizzazione di questo testo sia stato comprendere che va fatto così, ovvero con una lettura a voce, e per altro questo ha riattivato una funzione con cui Testori si nomina dentro al testo. Ora, il testo è la storia, come già abbiamo detto, di un drogato che muore, o che forse è già morto e rivive e racconta la sua morte, alla stazione “tutankamica” di Milano (dove poi è stato anche rappresentato). Ma in esso emerge – ovvero la evoca colui che parla, Riboldi Gino – la figura che viene detta lo Scrivano, che è colui che il personaggio immagina trascrivere il suo flusso di coscienza o di parola. E appunto Testori da scrivano – come colui che ha scritto un libro e che si è immedesimato o personificato nel personaggio – ha poi assunto dal vivo il ruolo di una seconda voce, prendendo la parola.

Prima dell’inizio di questa conversazione parlavamo di quando Testori vide Franco Parenti recitare nella Moschetta di Ruzante, e gli venne in mente che avrebbe potuto scrivere per lui, riattraversare Shakespeare in questa maniera. Ora, nella Moscheta ci sono due toni: c’è il pavano, il tono naturale dell’espressività forte, dialettale, del profondo, anche in quel caso, di una parola legata a un luogo di provenienza, forse l’inizio del procedimento, ma poi c’è il tono moscheto, che è quello di un finto italiano costruito dal parlante basso. Ora, dentro a “In exitu”, io trovo, riferito allo Scrivano, una sorta di moscheto, un italiano con costruzione artefatta, alla latina, con i verbi collocati alla fine. Questo è un contrasto bellissimo, che non è quello di due personaggi, come la madre e il figlio di Confiteor, ma un contrastato rapporto linguistico, tra una lingua che diventa qualcosa poi di deformato, di profondo, e l’altra lingua, che assomiglia anche a quel tipo di italiano che Testori, allievo di Roberto Longhi, impiegava come critico d’arte, che emerge e si differenzia in questo grumo di espressività, di lingua frantumata, di lingua balbettante, singhiozzante. “In exitu” mi sembra un punto d’arrivo in assoluto, anche per questi motivi e per la rappresentazione in una scansione a due voci. Poi in Verbò, dove ritorna questo rapporto tra voi due in scena, forse le cose tornano quasi più normali, nel senso che siamo in presenza di due personaggi. Verbò vuol dire ‘verbo’, ma contrae i nomi di Verlaine e Rimbaud, e si tratta di un testo, di nuovo, quasi italiano, con alcune intromissioni di francese.

FB | Per me i più belli sono “In exitu” e Confiteor.

PV | Assolutamente.

FB | Poi ci fu anche quella roba, sembra quasi una sciocchezza, di mettere la s.

PV | Ecco, la seconda trilogia comprende, con la s davanti, o prostetica, Sfaust, SdisOrè e Regredior. Sfaust comincia con il personaggio, l’attore, che mette una s davanti a ogni parola che pronuncia…

FB | Le parole le nega tutte.

PV | Tutti questi sono testi per voce sola, sono ormai monologici, ma dire monologo vuol dire anche poco: sono scritture concentrate su un solo interprete che è tutti allo stesso tempo. Ecco, però qui c’è un’altra cosa: Testori ricomincia a scrivere in versi, perché la parte finale di Sfaust e poi SdisOrè sono fatti di questi versi. È, come prima dicevi, la parola ‘musica’ che si può dire e non si può dire. Qui però andiamo su qualcosa che è – e ci sta benissimo anche il paragone con Shakespeare – in versi e prosa. È una delle cose che ci manca: quando ascoltiamo Shakespeare tradotto in italiano, nove volte su dieci, lo ascoltiamo in una riduzione prosastica. È interessante anche questo, il ritorno della scrittura in versi che ha una cantabilità, e in questo caso è un po’ comica rispetto ai testi precedenti – una funzione poetica.

FB | Sì, questa fa ridere, sì. Uno dei grandi crucci di Testori era che aveva un grande estimatore, che era Giovanni Raboni, il quale però non gli ha mai riconosciuto le stigmate di poeta, cioè come poeta non gli piaceva. Perché Testori ha scritto anche delle poesie, un volume di poesie, e Raboni questa non gliela ha mai concessa. Per cui, ecco, anche una specie di rivalsa…

PV | Poi nel tempo di Testori ci sono altre cose, altro plurilinguismo espressivo, anche in dimensione lombarda: ovviamente accostare Mistero Buffo di Dario Fo a Testori, può far accapponare la pelle, però...

FB | No, no! Ma poi, soprattutto, c’è, guardando bene i mezzi, c’è anche un signore che fa capolino, che è Céline: capolino o meglio capolone, perché lì si vede, ovvero chi ha letto Céline lo vede subito...

PV | Ecco, infatti, una cosa che tengo a dire. Il critico letterario che ha inventato la categoria di espressionismo, Gianfranco Contini, ha parlato del Testori giovane come “nipote” di Gadda. Contini, che ha smesso di scrivere in questi paraggi, credo non abbia valutato, proprio appunto per i grandi modelli della scrittura che egli chiamava espressionistica, che Testori è un Céline originale (lo dico visto che si è fatto il suo nome). Ora, è chiaro che imitare superficialmente Céline o Beckett è un affare che finisce là. Ma come, invece, un percorso di ricreazione, attraverso questo magma dialettale, questa appartenenza profonda, possa indicare una maniera in cui gli italiani possono fare questa cosa, posto che gli italiani possiedono non solo dei gerghi, non un argot, non delle forme convenzionali, ma possiedono delle tradizioni dialettali, di lingue parlate, tradizioni profonde. Questo fa la differenza. Mi ha fatto molto piacere l’evocazione di Céline, un altro maledetto, per cose ovviamente assai più terrificanti, che stanno nella sua biografia.

FB | Sì, io l’ho fatto, Céline, l’ho fatto con la regia Ronconi, Féerie. Pantomima per un’altra volta [1989] cioè, lui prende proprio il Céline, quella dei tre puntini portati all’eccesso, della Trilogia del Nord o di Rigodon – prende un Céline molto su quell’onda.

PV | Infatti anche “In exitu” ha tutte le parole troncate, no? Parole al limite della comprensibilità, continuamente smozzicate. Ora, è chiaro, che ciò caratterizza chi si immagina parlare, un drogato giunto all’ultima stazione; però non è solo un effetto... Ce l’hai detto prima, rifarai “In exitu” nei prossimi giorni a Milano, ma come una specie di riattraversamento memoriale.

FB | Non lo so, magari diventerà una lettura, non so … perché: come si fa a farlo? Io provo a farlo come se lui fosse seduto là, ma magari – non so – farò anche le prove, vedo … Una volta io l’ho letto, a Roma: ho fatto una lettura.

PV | Veniamo alla drammaturgia del secondo tempo, quella degli anni successivi, appunto, Sfaust, sdisOrè, Regredior, ti sembrano invece improponibili?

FB | Non è che sono improponibili, è che sono inferiori. Cioè, sono inferiori, sicuramente, perché quando entra la burla … quando entra la burla, allora devi essere più grande, secondo me, sennò …

PV | Ma i testi estremi, i Tre Lai, sono bellissimi – io trovo – e paragonabili a “In exitu”.

FB | C’è anche Cleopatràs. Eh, Cleopatras, riprende un po’ le cose come Ambleto, Macbetto… Perché è chiaro, no?, c’è un personaggio letterario, mitico, c’è Cleopatra …  Mentre questi testi no, sono scritti proprio sulla feccia, sulla feccia umana. È il problema di questi miti moderni, che poi riguarda anche un po’ Shakespeare, no? Infatti Shakespeare, quando fa Giulio Cesare, lo fa andare in scena dieci minuti. Perché se Giulio Cesare sta in scena più di dieci minuti, si comincia a vedere Branciaroli, non Giulio Cesare. Il mito è talmente grande, che, infatti, vengono meglio in musica. Don Giovanni viene meglio in musica che non in prosa. Anche Chisciotte viene meglio in musica che non in prosa. Perché sono miti che si fondano sul carattere, cioè sul personaggio. Mentre Medea non è un carattere, è una funzione, è un pensiero. Allora i miti greci li puoi recitare, li puoi fare. I miti moderni … non vengono. Cioè, i miti moderni se li fai in prosa non li reggi, perché sono dei caratteri. E allora, se tu fai Cleopatra, o la svacchi …

PV | Devi parodiarla.

FB | Devi parodiarla, esatto. E allora, se prendi la via della parodia, è anche rischioso, perché dipende cosa vuoi dire. Se tu vuoi fare un discorso cristiano e cattolico su una parodia, devi essere non-so-chi. Perché purtroppo, il problema dei miti è questo qua. Mentre, invece, Riboldi Gino è facilissimo, è bellissimo, perché Riboldi Gino è un disgraziato.

PV | Sì, e poi, dal punto di vista, così, dell’esperienza personale di Testori, ovviamente, la conversione è stata complicatissima.

FB | Sì, chiaro, c’è anche questo. Perché sono nati questi testi? Questi testi sono nati perché Testori, che era un cattolico, come tutti coloro nati in quel periodo, un cattolico così, ebbe una violenta, chiamiamola, riconversione. Quando ebbe lo shock della morte materna, gli venne questa … ‘furia di fede’, come dire, e quindi sentì probabilmente una insopportabilità del semplice divertimento. Aveva bisogno di affondare. Cos’è che imbarazzava dei conflitti di “In exitu”? Il pubblico non è che si arrabbiava per le parolacce, ci mancherebbe, si arrabbiava perché il salvato non eravate voi, il salvato era ’sto pezzo di schifo. E questo faceva arrabbiare. Perché la cosa meravigliosa fu che finalmente, la prima volta, “In exitu” non andò a predicare in convento, ma alla Pergola, sostituendo un Ambleto che dovevo fare io. Quindi l’abbonato, si aspettava un Ambleto… e gli arriva ’sta roba. E io finalmente si è visto il vero effetto teatrale, perché non vai a predicare in convento. E allora la signora di Firenze, non è che si scandalizzava per la figura, si scandalizzava perché diceva “Ma come? Il salvato non sono io? Ma è quello!” È questo lo scandalo che lui aveva scatenato. Non parliamo poi del clero …

Io piango, quando lo faccio non riesco a … mi frega sempre, piango. Il finale è mostruoso, è una roba brutta. Cioè, se non ci fosse una grandezza artistica, sarebbe da strangolare. Infatti lui è nel gabinetto della stazione, con la testa dentro al cesso. E qui ci sono dei lati pericolosissimi, perché c’è il rischio della gratuità, cioè a volte c’è del gratuito, del compiacimento – diciamo, dell’orrore. Allora – questo ha la testa nel cesso. Sta morendo. C’è – attenzione a questo! – una goccia di sperma sul muro. Con una cosa del genere rischi veramente grossissimo. Cosa succede? La goccia si apre, escono due mani. E sono le mani di Cristo. Tu dici: No, no, ragazzi, non è possibile. E invece, eccole lì, queste due mani. Ma lui lo racconta: “Mam, lu è il Crist, il Dio assassin che serv. I so man, i so brac”. E nel mentre lo tirano su. Ogni volta che lo faccio, piango. È pazzesco, ma anche quando lo leggo è così. Ecco, lì vedi, lì si è salvato – in corner. Perché, veramente eravamo al limite della blasfemia totale, si è salvato in corner.

PV | È, appunto, un misto di preghiere, di bestemmia, di osceno.

FB | Sì, ma proprio al limite. Perché il Cristo che esce da una goccia di sperma … – siamo al limite. Infatti, per la cronaca: a Trieste c’era il papà dell’inviata di Parigi, Poteri. Il papà dell’inviata Poteri era il boss di Trieste: era stato infatti direttore dello Stabile – un grosso personaggio, democristiano. È stato anche direttore della RAI di Trieste. Chiediamo di fare “In exitu” a Trieste. Cattolico, lui lo legge, e dice [imitando l’accento triestino]: “Se questa roba xe catolica, mi adesso la porto al vescovo e faccio esaminare el testo. Se questa roba xe catolica, mi me tajo le bale”. E non ce l’ha fatto fare: “No, qui non venite”. Allora c’era il manicomio a Trieste. Quello di Basaglia. Il direttore diceva, dopo la morte di Basaglia: “Lo faccio io: lo facciamo in tre piazze all’aperto. A Trieste.” Lo facciamo, riscuotiamo un grande successo (come sempre: ha sempre avuto successo) e quindi viene fuori questa cosa su un giornale, lo scazzo, perché il teatro no, ma il manicomio sì … Però io lo capivo, Poteri. Non me la sentivo di dargli contro, perché effettivamente, se ero imbarazzato io … E chiaramente uno che crede dice “No, non è possibile, questo è cattolico, il vescovo mi scortica”. Ma questo è anche divertente.

PV | La vita teatrale degli anni Settanta e Ottanta era più ricca di quella dei nostri tempi e consentiva anche questi giochi di contrasto …

FB | Erano tempi dove si poteva scatenare. L’ho detto, a Firenze si scatenò l’ira di Dio: mi sembrava una serata dadaista – una roba … Perché c’era, non la provocazione, c’era proprio lo scontro, lo scontro, politico, anzi proprio filosofico. Questo arrivava e diceva: “Per me, cristianesimo è questo”. Questo ci stava sotto, che il cristianesimo non è una religione, cioè Cristo non è una religione. Cristo è Cristo.

PV | Sì, è così, e c’è invece una rimozione della sacralità.

FB | Esatto. Allora tu capisci che viene con questa tesi qua contro tutti, tutti … 

PV | E d’altra parte questo è il nucleo …

FB | Certo, bisogna avere i mezzi artistici per poterselo permettere.

PV | Il fatto è che poi Testori ha scelto anche dei compagni di viaggio in grado di reggere la potenza della sua scrittura.

FB | Sì, quando si dice scrivere per l’attore – ma per forza! Perché se tu poi non trovi chi te lo interpreta … Per esempio, erano tutte prime mondiali, e per l’attore è un’emozione incredibile. L’attore cosa fa? Quasi sempre rifà cose già fatte, no? Queste tutte prime mondiali! Mai erano state fatte e io quando le facevo era la prima volta nella storia umana che tu fai una prima mondiale: era anche quella un’emozione.

Era come per l’arte, lui andava fuori di testa. Cioè, lui ha rinnegato tutta l’arte. Tu capisci che potevo diventare ricco, se io fossi stato meno cretino … Io con Giovanni Testori potevo diventare ricco, coi quadri. Io siccome non ho mai speso un euro per un quadro, non ci credevo, non avevo la forza di dare i soldi per prendere quei quadri, ma lui mi diceva sempre, ma prendili … E se gli avessi dato retta! Testori è un uomo che se avesse tenuto tutti i quadri che gli sono passati per le mani, avrebbe avuto una ricchezza come il PIL italiano. E invece lui li vendeva sempre, per mantenersi a quei livelli …  Testori quando si svegliava aveva bisogno di un milione – eh? un milione ogni mattina. E lui come faceva? Andava in tournée, io vedevo in tournée, non so, eravamo ad Arezzo, ad Arezzo alle sei, alle sette di mattina, quando arrivava la macchina a nolo, lui partiva, tornava la sera alle sei, e dal baule della macchina uscivano, non dico i quadri, ma uscivano anche le statuette sudamericane, le maschere africane … E io gli dicevo: “Ma dove le hai trovate?” “Ci ho miei canali”, lui mi fa, e aveva riconvertito i suoi quadri in questa roba, ma aveva un deposito grande così, e poi si è tenuto qualche Courbet, un Bacon – ma lui di Bacon ne aveva sette. Lui aveva una lettera di Bacon, una lettera di Bacon scritta a lui, ed è stato uno dei primi a scoprire Bacon. Poi però doveva venderli, quindi non si poteva permettere il lusso di tenerli. Anche questo è un aspetto interessante.

PV | Poi, come si diceva prima, dire critico d’arte è dire una cosa parziale, e ciò si interseca con altri interessi …

FB | Beh, la scoperta della cultura lombarda...

PV | Già, ecco, e questa è l’altra componente essenziale che poi si ritrova, e direi forse di più, nella produzione poetica. Ci sono per esempio delle poesie finali che sono dello stesso periodo della Seconda Branciatrilogia, Maddalena, che sono descrizioni – anzi lui le chiama didascalie – di dipinti, e come questa cosa poi entri anche dentro il teatro, è un altro aspetto molto forte, evocato attraverso la parola. Per esempio adesso Chiara Pianca (che è in sala) sta studiando una prima versione dell’Ambleto che è riemersa dalle carte di Testori, dove addirittura in un passaggio ci sono delle didascalie di scena, poi eliminate del tutto nel testo andato a stampa, scritte in questo pastiche linguistico. Quando mai si sono viste delle didascalie che non siano in italiano? E sono visioni di quello che si immaginava avvenire in scena, come sono le parole del monologo iniziale di Ambleto, che da fuori le quinte descrive come deve essere dipinta una scenografia, che non c’è e non si vede. Ecco, questa è un’altra traccia, tra le tante, traccia fondamentale di questo teatro espressivo, che è anche potenza di immagine.

Bene, grazie mille. È stato molto bello, siamo riusciti a tirar fuori una bella conversazione. Se qualcuno dei presenti in sala vuole intervenire...

Signora dal pubblico | Io ho solo una domanda. Tornando al discorso del copione, o meglio dell’adattamento dal romanzo “In exitu”, al copione per essere portato in scena, è una cosa che è avvenuta nello studio privato di Testori, o è un passaggio che è legato anche alla pratica in scena?

FB | No, no, l’ha fatto tutto lui, perché adesso tu mi vedi così, no? Un po’ … un po’ compìto, diciamo. Ma io non ero così – ero stupido. Io gli ho detto solo che sarebbe bello da recitare, ma ha fatto tutto da solo. Io gli ho detto: “Ricavane 30 pagine, non può durare più di un’ora, ovviamente, è un monologo, una cosa così”. Poi ha fatto tutto lui.

Anche adesso, il mestiere dell’attore, l’attore puro, è una cosa un po’ da vergognarsi … Nel senso: uno è abituato all’attore che poi si impegna, si interessa, no? No, io non sono mai stato così, cioè, io non so neanche perché faccio l’attore. Per me, fare l’attore è una specie di espressione erotica … Capisci cosa dico? Cioè, a me non interessa la tua regia, dove tu vuoi arrivare. Ma mi interessa se quel che tu mi fai dire mette in moto la mia macchina – non so se mi capisci … Quindi poi, invecchiando, fai finta di interessarti anche, però da giovane proprio no … per cui io ho capito che questo era una roba magnifica da recitare. È come per un cantante … tu sai che i tenori sono scemi, no? E il tenore, se ne frega, l’importante per il tenore è che capisca che può dare qualcosa. Ecco, è la stessa cosa. Io avevo capito che si poteva fare della grande recitazione, del grande teatro, ma poi le trenta pagine le ha scelte lui. Guarda che potrebbero essere queste trenta, ma anche altre trenta, nel senso che di tutto il romanzo puoi prendere anche altre trenta pagine, non cambierebbe molto, tanto la storia è sempre quella. Però ha fatto tutto lui, anche la regia. L’avete mai visto “In exitu”? No? Non sapete com’è? Hai presente quelle scrivanie delle scuole d’una volta, quel tavolo che avevano le maestre, che era verde sopra, marroncino, con le gambe. Ecco, quel tavolo veniva messo in piedi così, con le gambe di là, qui c’era la lastra della scrivania, e io ero appoggiato lì, appoggiato per terra. E lui era seduto là. L’unica luce era un riflettore da cinquemila messo in quinta, di tacco, così. Voi non dovete immaginare questo rapporto [con voce grossa] “C’è il Testori l’autore!” Ma no – era un: “Giovanni dove andiamo a mangiare?” “Dove andiamo a mangiare” – questa è la verità e c’era questo rapporto.

E basta, questo è lo spettacolo, noi non avevamo il camion, avevamo la macchina, tutto lo spettacolo era dentro un furgone. Quando siamo arrivati alla Pergola, noi avevamo programmato l’Ambleto, venti attori. Quindi Spadoni, il direttore della Pergola, aspettava l’Ambleto. Noi eravamo amici di De Biase, che era il presidente dell’ETI, ovvero Ente Teatrale Italiano, e il teatro della Pergola era sotto l’ETI. Allora gli telefoniamo, gli si dice: “Guardi, abbiamo questo spettacolo eccezionale, però abbiamo fatto ’sta cazzata: abbiamo la tournée dell’Ambleto, bisognerebbe cambiare da Ambleto a “In exitu”, però Spadoni non vuole”. Allora De Biase fa “Ci penso io”, chiama Spadoni e lo costringe a fare “In exitu” al posto di Ambleto di Shakespeare. Io mi ricorderò sempre l’arrivo nella via della Pergola, con Spadoni fuori: “Dove è il camion?”, lui si aspettava chissà cosa. “Quale camion? Non c’è il camion”. “E la roba?” “La roba è qui, vedi, in questo furgoncino Ape …” “Qui dentro c’è la roba?” “Cosa ti aspettavi? Sì, e poi devi togliere tutto ciò che c’è nel palcoscenico, spogliarlo tutto” , perché la Pergola è bello grande, ma deve sembrare la Stazione Centrale. “Cosa?!” “Devi togliere tutto”. “No!” e cominciava a bestemmiare. “In exitu” è nato così. Lui non l’ha visto. Spadoni si è rifiutato, si è rifiutato di assistere allo spettacolo, e ho detto tutto. Nasceva così. Ma io in tutto questo ero lì così: “Allora si fa?” Perché la vita è così, io in scena ci andavo perché mi piaceva ’sta roba. “Mameta, Mameta!” [urlando] perché mi piaceva questo. Poi dopo, invecchiando (ma è così la vita) … Gli attori sono così, non tutti, ma spesso il talento attoriale è al di là di te. Io ancora adesso non ho capito perché, però non credere mai all’attore che ‘te fa la risumada’, tanto per … Non credergli mai. Sono tutte balle. Un attore può essere assolutamente ignorante, non sapere neanche di cosa sta parlando, ed essere bravissimo. E questo io lo ho constatato, perché io da giovane ero scemo … ero così.

Dunque il copione è nato così [rivolto a Vescovo]: ce l’ho in albergo, domani te lo porto, te lo fotocopi, sono trenta fogli, scritti in grande ché non ci vedo più. E questo è. Poi purtroppo è morto, è morto giovane, aveva sessantanove anni, questo è grave, è morto giovane. Per un errore, credevano fosse un’ernia, lo aprono, c’erano dei linfonodi pazzeschi. E poi c’erano tutti questi nipoti, cinquanta, cento. Ma era un personaggio incredibile. Era una persona incredibile. Ci sarebbe un pettegolezzo: lui aveva questo amante, questo Ange, chiamato l’Ange, in francese l’Angelo, che poi era diventato come suo figlio. E lui aveva aperto una galleria a Milano – una roba! E il papà di questo Ange si era suicidato, per motivi suoi. Testori si è messo in testa, ma perché gli piaceva, si è messo in testa che si era suicidato perché lui aveva – figurati te! – traviato il figlio. E quindi lui si è inventato un senso di colpa – perché Testori viveva di sensi inventati da lui – si era inventato questo senso di colpa meraviglioso, per cui lui questo Ange l’aveva corrotto, quindi il padre si è suicidato.

E poi aveva il diabete, pure essendo ghiotto di dolci, infatti mi portava a mangiare in posti meravigliosi. A Lione fu un’orgia, mentre andava in cerca dei quadri: “Questo l’ho pagato dieci milioni, questo lo porto al mercante di Bergamo, me ne dà venti”. “E lui a quanto lo vende?” “A cinquanta”. Tutto così. E a Lione mi portava in certi posti che conosceva lui, fantastici, però non poteva sfogarsi, aveva il diabete, mi sfogavo io. E questo era il rapporto, il cosiddetto rapporto intellettuale … 

PV | Va bene. Grazie a Franco Branciaroli.

FB | Grazie.

English abstract

In the centenary year of Giovanni Testori’s birth, a conversation between Piermario Vescovo and Franco Branciaroli was held at the Teatro Nuovo in Verona on 8 November 2023. The public meeting, in the foyer of the theatre, was entitled “In piena luce, in piena ombra. Branciatrilogia prima e seconda” and the title was taken from a 1988 handwritten note by Testori himself. The meeting (the video of which is available at thin link) was an opportunity to reconstruct the relationship between Branciaroli and Testori, in particular for the creation of that extraordinary 'cult' text that is “In exitu”.

keywords | Giovanni Testori; Franco Branciaroli; “In exitu”.

Per citare questo articolo / To cite this article: F. Branciaroli, P. Vescovo, “In piena luce, in piena ombra”. A dialogo con Franco Branciaroli, “La Rivista di Engramma” n. 208, gennaio 2024, pp. 145-156 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.208.0008