"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

209 | febbraio 2024

97888948401

Il bosco feroce: Dioniso, Orfeo e Narciso

In dialogo con Franco Rella sull’interpretazione di Sonett an Orpheus III.II, “Spiegel noch nie hat man wissend beschrieben”

Massimo Stella

English abstract

Gesang ist Dasein… Wann aber sind wir?
Il canto è esserci… Ma quando siamo noi?
Rainer Maria Rilke, I sonetti a Orfeo I.III

1| Cima da Conegliano, Orfeo,Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Baladine Klossowska aveva regalato nel novembre 1921 a Rilke una riproduzione dell’Orfeo di Cima da Conegliano.
2 |La Dame à la licorne, La vue, 1500-1510, Musée de Cluny, Paris.

Sonett III.II

Spiegel noch nie hat man wissend beschrieben,
was ihr in euerem Wesen seid.
Ihr, wie mit lauter Löchern von Sieben
erfüllten Zwischenräume der Zeit.
Ihr, noch des leeren Saales Verschwender –,
wenn es dämmmert, wie Wälder weit…
Und der Lüster geht wie ein Sechzehn-Ender
durch eure Unbetretbarkeit.
Manchmal seid ihr voll Malerei.
Einige scheinen in euch gegangen –,
andere schicktet ihr scheu vorbei.
Aber die Schönste wird bleiben –, bis
drüben in ihre enthaltenen Wangen
eindrang der klare gelöste Narziß.

La traduzione di Franco Rella così rende:

Specchi: nessuno ancora ha mai descritto
sapendo l’esser vostro nella vostra essenza.
Voi, come un setaccio di buchi fitto
voi, del tempo spazi interstiziali.
Voi, ancor di vuoti saloni generosi –,
come foreste immensi nel crepuscolo…
E il lampadario, cervo dalle ramose corna,
muove attraverso il vostro impenetrabile.
A volte siete colmi di pitture.
Alcune sembrano in voi venute –,
altre remote respingeste timorosi.
Ma la più bella rimarrà –, finché
nelle sue gote altrove trattenute,
irrompa il chiaro Narciso liberato.

Nella lettura complessiva che Franco Rella dedica ai Sonetti a Orfeo rilkiani, il sonetto III del Zweiter Teil riveste un ruolo del tutto speciale.

Gli specchi aprono, con le loro immagini fugaci, quegli interstizi del tempo, quello spazio intermedio tra essere e non-essere in cui ogni possibile diventa realtà, come ha detto Hölderlin (Estetica, 96). Il ‘sapere’ degli specchi è dunque la ‘scienza’, o la ‘sapienza’ – l’esperienza – di questo spazio intermedio. E così il vuoto si popola di immagini, e attraverso queste immagini, che sono lì riflesse, anche Narciso può essere redento: sopravvivere nei tratti “della più bella”. Qui Rilke rovescia un mito secolare, e questo rovesciamento è esito di una rivoluzione nel pensiero. Narciso, il suo Narciso, sopravvive: l’unico Narciso redento dell’immaginario occidentale. È redento perché nella fugacità dell’immagine, nell’amore che lì si riflette, non è perdita, ma conquista dello spazio nostro della caducità: la felicità delle cose che cadono presso di noi, per noi sulla terra scura, come nell’immagine che chiude ED X [Elegie duinesi X] (miei i corsivi) (Rella 1991, 149).

Questo brano tratto dal commento al testo del Sonetto III.II contiene il punto fondamentale dell’interpretazione proposta da Franco Rella: l’idea, cioè, che il Narciso riflettentesi nello specchio di Orfeo-Dioniso risulti “redento”, salvato, sottratto alla Vergänglichkeit, alla caducità e all’illusorietà intrinseche della vita umana. La posizione di Rella va spiegata: agli occhi suoi, il Narciso rilkiano che precede quello dei Sonetti a Orfeo, ovvero quello dei due Narziß composti nel 1913 – dei quali riporto il testo in appendice –, rappresenta l’uomo e il poeta di fronte, per un verso, al lutto della propria natura effimera, e per l’altro alla vanità di ogni conoscenza – transitorietà dell’essere e del conoscere allegoricamente raffigurata dall’apparire, succedersi e dileguarsi delle immagini sulla superficie di uno specchio. Ma il Narciso e lo specchio dei Sonetti a Orfeo sarebbero altra e rinnovata cosa: lo specchio dei Sonetti è infatti metafora – secondo Rella – del mondo orfico-dionisiaco, ereditato da Hölderlin e da Nietzsche nonché dalla tradizione (tardo)antica, e divenuto, da luogo di morte, luogo di vita metafisica, di vita, cioè, vissuta non più nel tempo effimero dell’individuo, ma in quello cosmico della ciclica, incessante, generazione e distruzione: un Narciso redento, appunto, da Dioniso e Orfeo.

Orfeo è il cantore che piegava il selvaggio dentro la forma del canto. È il cantore che è stato smembrato dalle Menadi e che rinasce nel canto. Orfeo è la figura di Dioniso-Zagreus, il dio del mutamento e della metamorfosi, il dio smembrato e rinato, che “deve venire”, come aveva già detto Hölderlin e con lui tutto il primo romanticismo tedesco. Dioniso-Zagreus è una figura orfica. Dioniso danza con i Cureti, “ma i Titani si insinuano con astuzia: dopo averlo ingannato con giocattoli fanciulleschi, ed ecco che questi Titani lo sbranarono, sebbene fosse ancora un bambino, come dice il poeta dell’iniziazione, Orfeo il tracio: ‘La trottola, il giocattolo rotante e rombante, le bambole pieghevoli e le belle mele d’oro delle Esperidi dalla voce sonante’. E non è inutile menzionarvi come oggetto di biasimo i simboli inutili di questa iniziazione: l’astragalo, la palla, la trottola, le mele, il giocattolo rotante e rombante, lo specchio, il vello” (Colli, I, 4 [B 37]). Si veda anche, oltre questa testimonianza di Clemente Alessandrino, quella di Nonno in Colli, I, 4, [B 40e]: “Con spada orrenda i Titani violarono Dioniso che guardava fissamente l’immagine mendace dello specchio straniante”. Nei Sonetti a Orfeo si ritrovano tutti gli elementi della storia orfica di Dioniso: l’infanzia, la trottola, la mela e il frutto, lo specchio e il vello. Alcuni di questi elementi tornano anche nella costellazione, anch’essa orfica e rilkiana, di Narciso. Perché Rilke parla di Orfeo e non di Dioniso, staccandosi da una tradizione che egli ben conosceva, da Hölderlin, di cui aveva letto con ammirazione l’edizione Hellingrath […] e da Nietzsche, di cui aveva postillato la Nascita della tragedia? (Rella 1991, 9-10).

Non entro nel merito della ‘questione orfica’, nonché del legame tra (ciò che noi chiamiamo) Orfismo e Dionisismo, e soprattutto non intervengo sulla lettura e ricostruzione, tutta esperienziale-sapienziale (certo non neutra), che Giorgio Colli ne ha offerto: assumo semplicemente il dato di fatto che Rella elegge Colli e la sua prospettiva ad auctoritas. È senz’altro indubitabile, in ogni caso, che Rilke riceva dalla tradizione – e immediatamente da Hölderlin e da Nietzsche – la figura di Dioniso-Zagreus smembrato e divorato dai Titani, e che la proietti quindi sull’Orfeo dilacerato delle Baccanti, facendo dello sparagmos la situazione immaginaria ultimativa dell’intero ciclo dei Sonetti. Bisogna tuttavia intendere – o meglio, il lettore che io sono sente la necessità di intendere – tale scena e i suoi attori, Dioniso, Orfeo e Narciso, fuori dall’opacità del processo di mitologizzazione e di ri-mitologizzazione (già antichi e tardo-antichi), processo in cui lo stesso Rella si immerge quando evoca, ognora attraverso Colli, la rilettura plotiniana di Narciso e soprattutto il Papiro di Berlino 44 contenente la vicenda di Demetra, Kore e Dioniso (già narrata nell’Inno a Demetra) onde mostrare la strutturale appartenenza di Narciso alla costellazione orfica. Il teorico della ‘macchina mitologica’ Furio Jesi sosteneva, al proposito, che l’eventuale orfismo e dionisismo rilkiani – ammesso che si possa parlare di un orfismo e di un dionisismo rilkiani – sono essenzialmente una postura narrativa (Jesi, 1976). Ma ciò che più trovo opacizzante nella mitologizzazione non è tanto il gioco delle e con le immagini, quanto piuttosto l’esegesi allegorizzante che lo accompagna e insieme lo sostiene e moltiplica. E l’allegoria rischia di chiudere la pluralità del movimento di senso in direzione moralizzante, gnomica.

È fondamentale, allora, guardare al dispositivo affabulatorio e fático dei Sonetti. Si tratta di un gioco di cornici e di voci: una voce narrante esterna, indeterminata e tuttavia deittica, appartenente al tempo della Macchina e della Banca – il deserto del Presente – ci mostra la scena primeva e primaria, la Urszene, del Bosco (Sonetto I.I), immagine della Physis, in cui, per la prima e unica volta, nel tempo mitico, si è levata la voce di Orfeo, la quale rappresenta tout court la voce umana e costituisce una memoria tanto perduta quanto custodita nell’immemoriale, proprio perché originaria. Non c’è dunque gioco di identificazione tra la voce narrante e la voce di Orfeo: c’è piuttosto distanza. E proprio tale distanza è la cifra dei Sonette an Orpheus spiegandone anche il titolo-dedica “sonetti a/per Orfeo”: la voce narrante abbandona, se non consegna, Orfeo come vittima sacrificale alla Legge del Bosco, che è la Legge di Zagreus, ovvero la Caccia e il pasto selvaggi. È come se, in altri termini, la voce umana della poesia fosse lasciata in preda, sacrificata alla ferocia del bosco. Franco Rella ha sostenuto a più riprese che l’anonimo ‘giovane poeta’, il poeta triste e inconsolabile di fronte al destino effimero della Bellezza e del Mondo, protagonista della breve nota freudiana sulla Caducità (Vergänglichkeit, 1915), fosse Rainer Maria Rilke (l’ipotesi era già stata formulata da Herbert Lehman nel 1966, e Rella stesso la cita, cfr. Rella 1981, 77). Freud e Rilke si incontrarono nel 1913, l’anno della composizione dei due Narziß, attraverso Lou Andreas-Salomé. Quel ‘giovane poeta’ era – nella lettura freudiana – l’emblema della fissazione umana al lutto ovvero del rifiuto umano della mortalità. I Sonetti a Orfeo celebrano come un rituale – io credo – il patto con la mortalità sottoforma dell’assenso al sacrificio: si cede al Predatore, all’Altro – alla Natura, al Bosco, alla Morte, a Dioniso – una vittima, Orfeo, per resistere sopportabilmente in vita – il che, per un poeta, significa scampare alla mutezza. Ciò non implica, però, come spesso è stato scritto a proposito dei Sonetti, l’‘accettazione’ della mortalità. La pattuizione è infatti un compromesso: e i compromessi non liberano, non esorcizzano la paura. Piuttosto, legano. Il patto consente al poeta di parlare ancora, ovvero di trovare ancora una lingua che non sia superfluo parlare: ed è ben noto come il completamento delle Elegie e la rapidissima composizione dei Sonetti avvengano contemporaneamente e congiuntamente, dopo una crisi di parola decennale. Il compromesso è pieno di ombre e di disagio (Unbehagen): il Bosco è sempre là. Zagreus attende sempre il tributo di sangue che gli spetta. Nel paragrafo 4 della sua introduzione ai Sonetti, Franco Rella così scrive:

Attraverso Dioniso Nietzsche aveva messo in discussione tutta la metafisica occidentale, proponendo la visione tragica del mondo: la visione in cui ciò che appare non è destinato, come nella filosofia classica, a cadere per sempre per lasciare il posto a ciò che è e permane, all’idea. Attraverso Dioniso, Nietzsche aveva scoperto l’amore della profondità che si raggiunge soltanto con l’accettazione del mondo, con un inaudito sì alla vita, con il suo carico di dolore e di morte, che apre la via per giungere alla salvezza e anche alla felicità. L’Orfeo di Rilke eredita questi compiti. E’ anch’esso non solo cantore, ma sovrumano, celeste: un dio, anche se “un perduto dio”. Ma è un dio che sovrasta l’umano, senza però annientarlo nel suo “tremendo”, come il Dioniso di Nietzsche (derivato soprattutto dalle Baccanti di Euripide), o come, anche, gli angeli di Rilke nelle prime Duinesi. Orfeo è un Dioniso, inoltre, che ha ricevuto da Apollo la lira e che con essa può tracciare, per l’ascolto, figure che sono come le costellazioni celesti: un significato delle cose caduche che supera in sé la caducità (Rella 1991, 9-10).

Io penso che Rilke non elabori nei Sonetti una ‘metafisica dell’effimero’ così superando il ‘Tremendo’ o meglio l’Enorme (das Ungeheuere) del dionisiaco nietzschiano – ricorderemo tutti come l’Enorme sia il terrore di Malte nelle Aufzeichnungen, quel terrore che solo la Madre può occultare coprendolo con il suo corpo (è questo il ‘mistero eleusino’?). E penso piuttosto che nei Sonetti il poeta riesca, per un brevissimo lasso di tempo – i Sonetti furono, infatti, composti di getto – a sostenere l’illusione della (propria) sopravvivenza e della (propria) alienità al sacrificio sostitutivo: un autoinganno altrettanto caduco quanto la vita umana e la sua bellezza. E penso altresì che il Dioniso nietzschiano, che Rilke – ciò è senz’altro vero – ha sempre cercato di esorcizzare, come mostrano le sue annotazioni alla Nascita della tragedia, non risulti affatto esorcizzato nei Sonetti: il Predatore, il Cacciatore non sazia mai la sua sete di sangue, e si tratterà allora d’illudersi che cantare l’orrore abbia un qualche senso, se non altro e almeno un senso estetico. Non c’è dubbio che esteticamente la lingua dei Sonetti sia un traguardo straordinario, ma lo è nella misura in cui si tratta d’una parola che fluttua rapidamente sui vuoti, sulle sospensioni, sui buchi del compromesso, come se essa fosse appena appuntata sui lacerti sparsi d’una superficie che altro non fa se non sfuggire, glissare; e quella superficie scivolosa è lo spazio stesso della pattuizione, della sua finzione sacrificale – dico ‘finzione’ nel senso di scena e azione scenica (to drama), in quanto il sacrificio è, al contempo, una scena e un’azione scenica.

Che posto prende, allora, in questo quadro, la figura di Narciso? Il bosco è popolato di alberi e animali. La Natura – di cui il Bosco è metonimia – e le creature che vi abitano sono definite, nella loro essenza, da un’endiadi aggettivale che accoppia il nominale klar al participiale gelöst, mentre il movimento attribuito alle fiere è espresso dal verbo dringen/eindringen. Rella traduce così i vv. 5-6 del Sonetto I.I che apre l’intera raccolta:

Tiere aus Stille drangen aus dem klaren
gelösten Wald von Lager und Genist;

Animali di silenzio irruppero dal chiaro
bosco liberato, da tane e nascondigli.

È il momento in cui, per la prima volta, dal mondo si leva, e per il mondo si propaga, la voce di Orfeo: gli animali sbucano fuori dal folto del bosco (tane e cespugli) ad ascoltare attenti e incantati: sicché l’immagine iniziale dei Sonetti è quella del Bosco chiuso, intricato, buio che, improvvisamente, si apre, si slarga come in una radura – di qui gli aggettivi chiaro e liberato – ove balzando gli animali appaiono, anch’essi, chiari e liberati. D’altra parte, lo spazio aperto (das Offene) individua pressoché formularmente, nell’immaginario rilkiano, lo spazio e la dimensione in cui l’animale solo si muove, come, ad esempio, sanciscono i primi quattro versi dell’Ottava Elegia:

mit allen Augen sieht die Kreatur
das Offene. Nur unsre Augen sind
wie umgekehrt und ganz um sie gestellt
als Fallen, rings um ihren freien Ausgang

con tutti gli occhi vede la creatura
l’aperto. Soltanto i nostri occhi sono
come ritorti all’interno e intorno a lei [la creatura] disposti
come trappole, a circondare la sua uscita libera (miei la traduzione e i corsivi).

Rella rileva giustamente nella nota di commento al Sonetto I.I quanto segue:

II bosco “chiaro” e “liberato”. I termini tornano identici per un’altra grande figura orfica, Narciso (SO, II, III) (Rella 1991, 135).

Infatti, nel Sonetto III.II (di cui abbiamo riportato integralmente il testo all’inizio), la voce narrante così affabula:

Einige scheinen in euch gegangen –,
andere schicktet ihr scheu vorbei.
Aber die Schönste wird bleiben –, bis
drüben in ihre enthaltenen Wangen
eindrang der klare gelöste Narziß.

Alcune [le immagini] sembrano in voi [gli specchi] venute –,
altre remote respingeste timorosi.
Ma la più bella rimarrà –,
finché nelle sue gote altrove trattenute,
irrompa il chiaro Narciso liberato (c.vo mio).

Al di là del fatto che non riconosco come oggetto ‘la natura orfica di Narciso’, se non nella prospettiva di quella mitologizzazione e ri-mitologizzazione della quale parlavo poco sopra, viene qui senz’altro attribuita a Narciso l’endiadi formulare che definisce l’animale ‘chiaro e liberato’. Ma perché? Perché, credo, Narciso rappresenta l’animale umano tout court. Non la vittima sacrificale, che può essere solo l’animal vocale, l’animale consacrato dal cruento rito espiatorio, Orfeo, ma la preda comune che tutti siamo. Infatti, gli specchi dei vuoti saloni, d’un tratto e misteriosamente, diventano Bosco e riflettono il lampadario che s’è trasformato nel capo ramoso di un grande cervo (fantasma di Atteone che sarà sbranato dai cani?): torna l’immagine primaria della Caccia selvaggia. Narciso rimane intrappolato nel Bosco divoratore e va incontro alla sua sorte. Non c’è alcuna redenzione. In una lirica composta a Muzot i primi di giugno del 1923 (poco più di un anno dopo i Sonette an Orpheus), Rilke scrive: “Nur Götter sind, Durch ihre Spiegel ziehn / wir von dem Hintergrund von Tier und Pflanze”: “Solo gli dèi sono. Noi passiamo attraverso i loro specchi, / sullo sfondo di piante e animali” (traduzione di Giacomo Cacciapaglia, in Poesie sparse 2000, 509). Ma, in quello specchio c’è un’immagine che, pur sempre, dura, che resiste ed è al contempo die Schönste, “la più bella”. Che cosa è quell’immagine? E in che senso essa dura e resiste, rimane “finché, dall’altra parte / nelle sue guance richiuse / non irrompa il chiaro liberato Narciso?” (così ritraduco io i due versi finali del Sonetto). Credo che una possibile risposta venga offerta dal Sonetto IV.II che subito segue nella traduzione di Rella:

Sonett IV.II

O dieses ist das Tier, das es nicht giebt.
Sie wußtens nicht und habens jeden Falls
– sein Wandeln, seine Haltung, seinen Hals,
bis in des stillen Blickes Licht – geliebt.
Zwar war es nicht. Doch weil sie’s liebten, ward
ein reines Tier. Sie ließen immer Raum.
Und in dem Raume, klar und ausgespart,
erhob es leicht sein Haupt und brauchte kaum
zu sein. Sie nährten es mit keinem Korn,
nur immer mit der Möglichkeit, es sei.
Und die gab solche Stärke an das Tier,
daß es aus sich ein Stirnhorn trieb. Ein Horn.
Zu einer Jungfrau kam es weiß herbei – 
und war im Silber-Spiegel und in ihr.

Oh! questo è l’animale che non c’è.
Non lo conobbero, eppure l’hanno amato
– l’andatura, il portamento, il collo,
fino alla quieta luce del suo sguardo.
Certo non era. Ma poiché l’amarono divenne
un animale puro. Sempre a lui fu dato spazio.
E nello spazio, chiaro e dispiegato,
levò leggero il capo, quasi neanche dovesse
essere. Non lo nutrirono con grano,
sempre solo della possibilità che fosse.
E questa diede tanta forza all’animale,
che quello da sé trasse un corno. Un corno.
Bianco davanti a una vergine passò,
e fu nell’argento dello specchio, fu in lei.

Si tratta del sonetto dedicato all’Unicorno e alla sua Dama. È trasparente, qui, che lo specchio della Dama Vergine – identificata da una lunga tradizione, a partire dal Fisiologo, con la Vergine Maria, mentre l’Unicorno non sarebbe altro che il Cristo (Pastoureau, Taburet-Delahaye 2018, 21) – non incarna il luogo della caducità o la trappola feroce del Cacciatore, bensì lo spazio della permanenza. Perché specchio e corpo femminile-materno elevato a principio generatore universale si sovrappongono, e perché il principio generatore femminile-materno è l’unico sostegno alla possibilità e alla continuità dell’essere: i lettori di Rilke avranno certamente riconosciuto in questi versi del Sonett IV.II una citazione – un’auto-citazione – dalle Aufzeichnungen, là dove Malte celebra e descrive gli incantati arazzi della Dame à la licorne in cui si ravvisa non solo e non tanto un’allegoria dei cinque sensi accresciuti del “senso interno”, ovvero del sesto senso, quell’esprit de cœur esclusiva prerogativa femminile sintetizzata nel motto Mon seul désir, bensì un’immagine mitico-cosmologica, una rappresentazione della Creazione riunita intorno al suo perno, la Dea Natura-Signora degli animali (Stella 2017; 2019). Ma questa autocitazione è amara: nelle Aufzeichnungen la Dame à la licorne era una fede, qui, invece, è il ricordo di una fede. Perché qui, nello specchio femminile dell’“immagine più bella”, die Schönste, irrompe non l’Unicorno, l’animale puro immaginario, la creatura semplicemente noetica nutrita dal solo desiderio della donna (Mon seul désir), bensì l’animale umano, Narciso, l’uomo-figlio-amante destinato-a-morire che rompe l’incantesimo della permanenza. Sicché, dall’Eden della Dame à la licorne che assembra ai suoi piedi tutti gli animali, le erbe e le piante in un mondo di continuità e pace, ripiombiamo nel Bosco di Zagreus, dove la donna, anche lei, diventa feroce divoratrice. Lo sparagmos di Orfeo è evocato nel Sonett XXXVI.I che chiude la prima parte dell’opera. Perché è la donna che esegue il sacrificio dell’animal vocale, dell’eletto: è fondamentale notarlo! Continuo a chiedermi se il terribile Gesang der Frauen an der Dichter, il Canto delle donne al poeta (1907) dei Neue Gedichte, possa essere immaginato come l’allocuzione ultima delle Baccanti a Orfeo prima dello smembramento selvaggio. È una domanda aperta che avrei voluto porgere a Franco Rella.

Gesang der Frauen an der Dichter

Sieh, wie sich alles auftut: so sind wir;
denn wir sind nichts als solche Seligkeit.
Was Blut und Dunkel war in einem Tier,
das wuchs in uns zur Seele an und
schreit/ als Seele weiter. Und es schreit nach dir.
Du freilich nimmst es nur in dein Gesicht,
als sei es Landschaft: sanft und ohne Gier.
Und darum meinen wir, du bist es nicht,
nach dem es schreit. Und doch, bist du nicht der,
an den wir uns ganz ohne Rest verlören?
Und werden wir in irgendeinem mehr?
Mit uns geht das Unendliche vorbei.
Du aber sei, du Mund, daß wir es hören,
du aber, du Uns-Sagender: du sei

Canto delle donne al poeta

Vedi, come tutto ciò che si schiude: così siamo noi;
e nulla altro siamo se non tale beatitudine.
Ciò che sangue e buio era in una bestia,
crebbe in noi per farsi anima, e grida
come anima, ancora. Per te lo grida.
Tu, certo, lo ricevi nel tuo volto
come un paesaggio, soltanto: mite e senza desiderio.
Perciò, pensiamo noi che non sia tu
quello a cui si grida.
Eppure, non sei tu quello
incui perderci interamente?
quel qualche-uno in cui diventare di più?
Con noi trapassa l’infinito.
Sii tu, tu la bocca, che ce lo fa sentire
tu, Che-di-noi-dici: sii tu. (Traduzione mia).

Appendice

Riporto qui di seguito, soprattutto per servizio al lettore, le due composizioni liriche del 1913 dedicate da Rilke a Narciso, citate da Rella nel suo commento onde sottolinearne la distanza dal successivo Narciso dei Sonetti. La traduzione è quella di Giacomo Cacciapaglia.

Narziß (1913)

Narziss, verging. Von seiner Schönheit hob
sich unaufhörlich seines Wesens Nähe,
verdichtet wie der Duft vom Heliotrop.
Ihm aber war gesetzt, dass er sich sähe.

Er liebt, was ihm ausging, wieder ein
und war nicht mehr im offnen Wind enthalten
und schloss entzückt den Umkreis der Gestalten
und hob sich auf und konnte nicht mehr sein.

Svanì Narciso. Dalla sua bellezza
Senza tregua esalava la sostanza
Densa come un profumo d’elitropio.
Ma suo destino era che si vedesse.

Ciò che emanava riassorbiva in sé il suo amore
E più nulla di lui era nel vento aperto
E chiuse il cerchio delle forme estatico
E si abolì e non poté più essere.

Narziß (1913)

Dies also: dies geht von mir aus und löst
sich in der Luft und im Gefühl der Haine,
entweicht mir leicht und wird nicht mehr das Meine
und glänzt, weil es auf keine Feindschaft stößt.

Dies hebt sich unaufhörlich von mir fort,
ich will nicht weg, ich warte, ich verweile;
doch alle meine Grenzen haben Eile,
stürzen hinaus und sind schon dort.

Und selbst im Schlaf. Nichts bindet uns genug.
Nachgiebig Mitte in mir, Kern voll Schwäche,
der nicht sein Fruchtfleisch anhält. Flucht, o Flug
von allen Stellen meiner Oberfläche.

Was sich dort bildet und mir sicher gleicht
und aufwärts zittert in verweinten Zeichen,
das mochte so in einer Frau vielleicht
innnen entstehn; es war nicht zu erreichen,

wie ich danach auch drängend in sie rang.
Jetzt liegt es offen in dem teilnahmslosen
zerstreuten Wasser, und ich darf es lang
anstaunen unter meinem Kranz von Rosen.

Dort ist es nicht geliebt. Dort unten drin
ist nichts, als Gleichmut überstürzter Steine,
und ich kann sehen, wie ich traurig bin.
War dies mein Bild in ihrem Augenscheine?

Hob es sich so in ihrem Traum herbei
in süßer Frucht? Fast fühl ich schon die ihre.
Denn, wie ich mich in meinem Blick verliere:
ich könnte denken, dass ich tödlich sei.

Questo dunque da me emana e si scioglie
nell’aria e nell’effluvio dei boschi,
mi sfugge lieve e già non è più mio
e, non urtando in cosa ostile, splende.


S’alza da me senza tregua e s’esala;
io non voglio disperdermi, io aspetto, persisto,
ma hanno fretta tutti i miei confini,
si gettan fuori e già sono laggiù.


Nulla vale a legarci. Neanche in sonno.
Centro che cede in me, nocciolo debole
che non trattiene la sua polpa. O fuga,
o volo da ogni punto della mia superficie.


Ciò che laggiù si forma e certo mi somiglia,
e tremolando emerge con acquosi contorni,
forse si generò dentro una donna,
ma quanto più tentavo


di penetrarla, più era irraggiungibile.
Ora nell’acqua diffusa e impartecipe
giace aperta, e mi è dato di contemplarla attonito
a lungo sotto il mio serto di rose.


Là non è mai amata. In quel fondo non c’è
che una rovina di pietre impassibili,
e vedo chiaro quanto sono triste.
Questa era negli occhi di lei la mia immagine?


Si mutò nel suo sogno in una dolce paura?
Quasi sento la sua paura in me.
Poiché, come nel mio sguardo mi perdo,
potrei credere d’esser micidiale.


(traduzione di Giacomo Cacciapaglia, in R.M. Rilke, Poesie 1907-1926, a cura di A. Lavagetto, Torino 2000, 445-447).

Scritti di Franco Rella citati nel contributo
  • Rella 1981
    F. Rella, Il silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo della crisi, Milano 1981.
  • Rella 1991
    R.M. Rilke, I sonetti a Orfeo, a cura di F. Rella, Milano 1991.
Nota bibliografica

Le edizioni italiane con testo a fronte delle opere di R.M. Rilke citate nel saggio sono le seguenti: R.M. Rilke, Poesie I [1895-1908], a c. di G. Baioni, commento di A. Lavagetto, trad. di G. Cacciapaglia, A.M. Carpi, C. Lievi, Torino, Einaudi-Gallimard, 1994; Poesie II [1908-1926], a c. di G. Baioni, commento di A. Lavagetto, trad. di G. Cacciapaglia, R. Carifi, A.M. Carpi, A.L. Giavotto Künkler, A. Lavagetto, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995; R.M. Rilke, Poesie 1907-1926, a c. di A. Lavagetto, Torino, Einaudi, 2000; R.M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, intr., trad. e note di F. Jesi, Milano, Garzanti, 1974.

Il breve scritto freudiano Caducità (1915) in cui, sotto le spoglie anonime del ‘giovane poeta’, è molto verosimilmente adombrata la figura di R.M. Rilke si trova, nella traduzione di S. Daniele, in S. Freud, Opere, vol. 8, Torino, Bollati-Boringhieri, 1989, 173-176. Il primo a ravvisare R.M. Rilke nel ritratto freudiano del ‘giovane poeta’ fu Herbet Lehman: Conversation between Freud and Rilke, in “Psychoanalytic Quarterly”, 1966, 55, 423-427.

Per il Furio Jesi teorico della macchina mitologica e interprete della lirica rilkiana rimando rispettivamente a: La festa e la macchina mitologica, in Id. Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Torino, Einaudi, 1979 e Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke, Macerata, Quodlibet, 2000 [1976 1°ed.].

Per la simbologia mariana e cristica della coppia Dama-Unicorno, rimando a M. Pastoureau, E. Taburet-Delahaye, Les secrets de la licorne, Gallimard, Paris, 2018.

Per la lettura in chiave mitica e cosmologica degli arazzi della Dame à la licorne evocati e commentati da Rilke nel Malte rimando a due miei lavori: M. Stella, Madreparola. Risorgenze della Musa tra Modernismo e Antichità Classica, Milano, 2017; M. Stella, Lo specchio, il telaio, la dama e l’unicorno: R.M. Rilke e il lavoro della poesia tra crisi della presenza e tessitura della vita, in S.M. Barillari, M. Di Febo (a cura di), Attraverso lo specchio: l’immagine, il doppio il riflesso, Aircuzio, VirtuosaMente, 2019, 55-72.

English abstract

Franco Rella was a memorable interpreter of R. M. Rilke’s Sonnets to Orpheus. According to Franco Rella, Rilke’s Orpheus redeems both the melancholic transience of Narcissus and the devouring destructiveness of Nietzsche’s Dionysus. This essay is a critical re-examination of this interpretation.

keywords: Franco Rella, R.M. Rilke; Sonnets to Orpheus; Orpheus; Narcisus; Dionysos; Dame à la licorne; Nietzsche.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista