"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

209 | febbraio 2024

97888948401

L’arte visiva come fonte paritetica alla scrittura

Angela Vettese

English abstract

Albrecht Dürer, Autoritratto nudo, 1505, Weimar, Schlossmuseum.

“Le dottrine morali non sono mai riuscite a parlare del ‘singolo’, dell’individuo, dell’uomo reale” (Rella 1998, 9). Ci troveremo così, scrive Franco Rella ricordando la nona tesi di Filosofia della Storia di Walter Benjamin, “di faccia a un mondo di macerie, a una sterminata distesa di rifiuti, che stanno nelle periferie della repubblica platonica, o in quelle dello stato dello spirto assoluto di Hegel. Ovunque, sparsi intorno alle mostruose e terribili utopie che il pensiero è riuscito a produrre” (Rella 1998, 9). In tutta la sua produzione, l’estetologo si dedica con forza alla sua critica della metodologia dominante nella filosofia occidentale, quella che conduce a visioni del mondo sistematiche e che riflette questa attitudine nella tipologia di scrittura. Questa, per quanto dialogica (Platone) o simbolicamente autobiografica (Fenomenologia dello Spirito, Hegel), ha un andamento logico e a sua volta sistematico.

L’area cui attinge Rella è quella della filosofia etica che si esprime in maniera asistematica, aforismatica e frammentaria, dagli scettici antichi agli stoici per arrivare fino alla trattatistica ebraica di interpretazione della Torà, fino ad Agostino nelle sue Lettere e nelle sue Confessioni, fino a Montaigne, Rousseau, Nietzsche, Kierkegaard, Baudelaire, Bataille: autori che hanno creato un campo di ricerca in cui, pur nelle profonde differenze, si erge la comune urgenza di parlare non solamente del singolo, ma attraverso questo del pathos; quel pathos che, secondo Eschilo nel canto corale dell’Agamennone, è una forma del sapere, un tipo di conoscenza che penetra nel soggetto anche senza che questi lo voglia, per esempio nel sonno, senza l’aiuto della coscienza e della ragione.

Stiamo parlando di quel genere di sapere che l’Ulrich de L’uomo senza qualità di Musil esprime in metafore, quello che Marcel Proust, nel Tempo Ritrovato della Recherche, definisce come costruito da continue ricuciture tra pieni e vuoti, cioè tra memoria e oblio; in una trama tessuta con una cura che riesce a dare una forma all’io, altrimenti indicibile. Forse è dell’indicibile che i grandi filosofi sistematici hanno avuto paura, là dove invece il passo accorto dei sillogismi consente di non cadere nell’incertezza. Ma l’incertezza, l’indefinito, il pathos, sono parte sorgiva della nostra esistenza e per questo chi li accantoni è destinato a generare “mostruose e terribili utopie” (Rella 1998, 9).

Per descrivere l’io, e con esso la parte emozionale della vita, è necessario del resto non arenarsi di fronte a un altro elemento sostanzialmente assente dalla filosofia sistematica: il corpo. La sua vergogna, per usare un termine caro a Jean-Jacques Rousseau, e il suo scandalo, come lo ha definito Tertulliano, sono fonti ineludibili del vissuto. La vergogna e lo scandalo della nudità sono all’origine dello stato difensivo che Levinas attribuisce a qualsiasi incontro faccia a faccia, il quale fonda ogni relazione umana. Mentre Descartes, che pure ci ha raccontato di sé nella Stube, al caldo, inoltrandosi in una premessa al Discorso sul Metodo che individuava le precondizioni fisiche di questa sua impresa mentale, Descartes che altrove sostiene che il bambino è un coacervo di res cogitans e res extensa, si affretta ad abbandonare ogni ulteriore descrizione che includa la corporeità in quanto ritiene che, appunto, ci si possa dire veramente pensanti solo quando, da adulti, si espunga dai processi di pensiero ogni traccia di res extensa.

Ecco allora che l’autorappresentazione diventa la via maestra per parlare del sé in maniera non astratta né mendace, per quanto è possibile. L’autorappresentazione si esprime nelle grandi opere autobiografiche: come in parte già ricordato, ricorrono i nomi di Agostino, Montaigne, Pascal, Rousseau, Stendhal, Baudelaire, Bataille e dei romanzieri novecenteschi centrati sul flusso di coscienza.

Rella ci ha abituato a un procedere che non gerarchizza le fonti, non le dispone in senso cronologico, vi attinge liberamente come a un paniere di cose già pensate con la cui stoffa si può cucire un pensiero nuovo. A maggior ragione questo metodo viene usato nel libro Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo (Rella 1998), cui segue di soli due anni quell’ideale prosecuzione che è Ai confini del corpo (Rella 2000). In entrambi si fa ricorso non solo alla memoria dei testi letti, ma anche di numerosi disegni e quadri. Le opere di Albrecht Dürer, Rembrandt, Goya, Manet, Schiele, si associano alla letteratura di Valery, Canetti, Celine, come brani di un sapere indiviso in cui la verbalità e la razionalità non godono di alcuna supremazia. Né hanno bisogno giustificazioni speciali per essere inseriti nella catena che conduce da un pensiero all’altro. Poesia, pittura, musica, qualsiasi altro linguaggio contribuisce alla formazione del sapere.

Dal punto di vista di chi si occupi di arti visive, questa posizione è di incredibile originalità. I dibattiti secolari sul fatto che pittura e scultura meritassero di entrare nel novero delle arti liberali; la questione se il disegno sia davvero, come secondo Leonardo, una “cosa mentale”; le discussioni su come si debba intendere il concetto hegeliano di “morte dell’arte” e comunque la necessità di riconoscere che, in quel contesto, la filosofia risulta un mezzo più evoluto per la manifestazione dello spirito assoluto di qualsiasi espressione artistica; tutto questo è privato di consistenza. È significativo che venga invece pienamente accettato l’intersecarsi profondo di filosofia, incisione e mitologia classica quantomeno nel pensiero di Dürer come ricostruito da Panofsky, Klibansky e Saxl in Saturno e la melanconia (Einaudi 1997).

Riconosciuta pienamente nel suo portato di pensiero, l’arte visiva si dispiega in una serie di messaggi anche più diretti di quelli verbali. L’autoritratto nudo di Dürer (Weimar, Schlossmuseum, 1505) viene descritto come il primo “vero autoritratto”, dal momento che, all’opposto della statuaria classica, rappresenta la nudità di una persona specifica e non di un canone. Ed ecco che a questo esempio, nel discorso di Rella, si associano una serie di fonti diverse:

Che cosa vuole proporci o significare il pittore con il suo pene rilevato e tumido sulla cadente sacca dei testicoli? Cosa voleva dire Montaigne quando proclamava di volersi mostrare in una nudità che generalmente spaventa gli uomini, che mai vorrebbero offrirsi così allo sguardo altrui? Cosa spingeva Baudelaire a pensare che il suo cuore messo a nudo – la nuda ostensione di sé – sarebbe stata un’operazione esplosiva, addirittura insopportabile ai più? Che cosa si nasconde in questo eccesso di ostensione, nell’esibizione della miseria nelle Confessioni di Rousseau, o perfino nell’oscena cecità di Edipo? (Rella 1998, 10).

La figurazione aiuta tanto la ricerca dell’io quanto la spoliazione da qualsiasi ornamento, orpello, stilizzazione che possa diminuire il valore di testimonianza. Gli autoritratti di Rembrandt sono rappresentazioni della prossimità della morte, particolarmente quello del vecchio ridente (Colonia, Wallraf-Richartz Museum, 1665). In esso vediamo “il baratro in cui affonda ogni sorriso e qualsiasi alito di ogni possibile felicità” (Rella 1998, 63). L’autoritratto di Egon Schiele intitolato Masturbazione (Vienna, Albertina, 1911) è un altro documento dell’attrazione verso il nulla, e infatti: “La colata dello sperma non è il compimento di un atto di desiderio; non è il compimento di un atto erotico o autoerotico; è svuotamento. Quando anche questo sarà giunto al termine, in Egon non rimarrà più nulla. Ci troviamo appunto di fronte a un atto chenotico, a un atto mortale, al vuoto” (Rella 1998, 66). Il nulla rappresentato da Van Gogh non prende la forma di un autoritratto ma di un Campo di grano con corvi (1890, Amsterdam, Van Gogh Museum). Ma, si domanda Rella all’inizio di Negli occhi di Vincent, “Negli episodi delle peripezie dell’io, che mi accingo a presentare, non deve apparire anche il mio io?” (Rella 1998, 19). Certo, per assolvere pienamente il compito di “communicarsi altrui” (Giacomo Leopardi, Zibaldone) o almeno per capire cosa possa significare questo atto di ostensione senza reticenza, occorre che anche chi scrive esponga il suo io. Con il suo piglio sperimentale, Rella decide di farlo costruendo per il libro Negli Occhi di Vincent un ultimo capitolo narrativo e di ripercorrere in esso la sua relazione con il quadro di Van Gogh, dopo averlo confrontato con la visione che ne offre Akira Kurosawa in un suo film. In un dialogo con la compagna Elena, Rella discute di come debba essere vista l’opera: forse due Soli e gli occhi di Vincent che si chiudono verso la morte, una morte che aveva previsto in termini temporali con una buona precisione, in una lettera a Theo, e che dunque aveva già immaginato, visto, vissuto. Il dipinto sembrerebbe dunque rappresentare l’arrivo del nulla, desiderato eppure spaventoso.

Rella non teme di mettere questo quadro vicino al sé narrativo e, poche pagine dopo, vicino a un sé ancora più autobiografico, in cui racconta se stesso “seduto davanti al computer, e scrivo e mi scrivo, e lo schermo si riempie di righe argentate di parole, nello spazio aperto da queste righe lo schermo diventa uno specchio e in esso mi vedo” (Rella 1998, 169). L’autore non teme neppure di evocare lo specchio, strumento per eccellenza dei pittori che si ritraggono, esattamente alla fine del suo percorso. La piena dignità gnoseologica di un apprendere fondato (anche) sulla visualità è compiuta. Non è un procedimento usuale e un tale riconoscimento non va sottovalutato.

Scritti di Franco Rella citati nel contributo
  • Rella 1998
    F. Rella, Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo, Milano 1998.
  • Rella 2000
    F. Rella, Ai confini del corpo, Milano 2000.
English abstract

Along with philosophical texts, Franco Rella uses literary and pictorial sources with no hierarchies or chronologies, fully embracing the visual texts as sources for reliable knowledge. Focusing on the analysis of the self, Rella also asks for a fragmented discourse and for an asystematical way of thinking, in opposition to the main western philosophical systems. The act of digging into the self also leads Rella, within his book Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo (1998), to embrace a narrative experimental style, in which the main character is his own self.  

keywords | Franco Rella; Idea of Self; Concept of Fragment; Asystematical philosophy; Dürer’s Selfportrait; Van Gogh.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista