"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

209 | febbraio 2024

97888948401

Il labirinto del mondo delle cose. Invito alla lettura di Metamorfosi. Immagini del pensiero

Giulia Zanon

English abstract

Siamo come fossili
che sussistono sconvolti nel mondo nuovo.
Gustave Flaubert, Correspondance

Giovanni Battista Piranesi, Via Appia antica, in Le antichità romane, Roma 1756.

Nel 1984 Franco Rella pubblica Metamorfosi, il cui sottotitolo Immagini del pensiero ben delinea il tentativo, sempre presente nella produzione del filosofo, di dimostrare la possibilità di un pensiero del visibile.

Punto di partenza è la presa di coscienza, lucida e dolorosa, del nostro essere presenti in un mondo abitato da cose. Rella scrive che viviamo su di “montagne di cose” e, partendo da una innocua metafora paesaggistica, ci fa precipitare senza alcuna cautela da un promontorio in un “mare di oggettività, in cui naufraga ogni amore e ogni tentativo di salvezza” (Rella 1984, 47). La cognizione di una realtà impregnata dalla presenza ineludibile delle cose, questo accumularsi incessante, nel quale ci troviamo immersi senza alcuna possibilità di fuga, trova una sua descrizione nella condizione che il filosofo, nella postfazione a La fine del classico di Peter Eisenmann, chiama “malattia del reale” ovvero la “paralizzante percezione della pluralità incontenibile, del brusìo, del brulichìo, che porta la ragione ad ammutolire” (Rella 2009, 167).

Come questo stato patologico sia, per Rella, condizione storicamente connotata nella fine del classico, o meglio ancora nella crisi del suo sistema (riprendendo il concetto di crisi, fondamentale per la filosofia italiana a partire dagli anni Settanta), si può leggere nel volume del 1978 Il mito dell’altro:

La crisi del sistema classico, la crisi dentro la quale oggi ci muoviamo, ha significato storicamente la fine dell’illusione di poter ricomporre la molteplicità dei linguaggi in un linguaggio complessivo, che potesse avere ragione della pluralità contraddittoria del reale (Rella 1978, 9).

Naufrago nel mare dell’oggettività, l’uomo si trova nella condizione di non riuscire più a sintetizzare la molteplicità dei linguaggi in un’unica forma e riconosce l’impossibilità di poter parlare in modo univoco della complessa contraddittorietà del reale. In altre parole, la crisi del sistema implica la consapevolezza storica di non poter raggiungere una prospettiva unificante.

Rella prosegue, mutuando la definizione di “percezione storica di una eccedenza” con la quale Remo Bodei chiama il carattere straboccante di questa esperienza. Entrambe le definizioni prese in esame si concentrano sul processo di presa di consapevolezza di questo stato. ‘Percezione’ è la parola centrale: per Bodei è la percezione di un’eccedenza, per Rella è la percezione di una pluralità incontenibile:

Siamo sempre nel mondo, mai siamo “nel nessun luogo senza negazioni: il puro”. Siamo sempre avvolti, come dice Rilke, in “una foresta di segni” (Rella 1984, 28).

La nostra esistenza è immersa in un costante fluire di figure, di simboli, di cose: la “foresta di segni” della metafora di Rilke. Drammatica conseguenza di questa consapevolezza è l’ammutolire della ragione, l’impossibilità stessa di dire questo stato o di poter usare il linguaggio per decrittare la “foresta di segni” nel quale siamo persi, ovvero:

la fine dell’illusione di poter ricomporre la molteplicità dei linguaggi in un linguaggio complessivo, che potesse avere ragione della pluralità contraddittoria del reale” (Rella 1978, 9).

La fallacità nell’esprimere il mondo eccedente, plurale e incontenibile “in una sola ragione e in un solo linguaggio” getterebbe chiunque in uno stato “paralizzante” (Rella 1978, 9). Così come nella Lettera di Lord Chandos di von Hofmannsthal vi è una “bancarotta della parola”, un tacere di fronte alla titanica impresa di dire il mondo, persi nella “penombra e nell’abbagliante deserto delle cento lingue, dei cento linguaggi della determinazione”, nelle benjaminiane “cento lingue dell’iperdenominazione e dell’iperdeterminazione in cui è sfiorita la lingua dei nomi”.

Nel quarto capitolo di Metamorfosi, intitolato La melanconia e il labirinto del mondo delle cose, Rella descrive un mondo di oggetti, una strabordante moltitudine di cose che, galleggiando nel disordine di questa crisi, offre a noi delle visioni.

Attraverso una serie di figure della letteratura, della poesia, e dell’arte – evocate dal canone personalissimo di un autore che è in primis lettore – Franco Rella accarezza la tragedia di questa aporia e ci spinge ad abbracciare la molteplicità delle immagini che popolano il nostro mondo, a esplorare le intersezioni e le ibridazioni che si manifestano tra di esse, per tracciare:

una ragione processuale, stratificata, impura, che contiene, accanto alle più astratte formalizzazioni, zone di opacità, frammenti del passato, reliquie, anticipazioni.

Perché è in questa ragione processuale, ben lontana da una sistematica univocità, che si agglutina il pensiero:

Perché è in queste zone di confine, che si producono forse le “immagini del pensiero” più alte, più significative, del sapere del moderno, del sapere del destino dell’uomo nella nostra epoca (Rella 1984, 28-31).

Il gioco invita a chinarsi su questa moltitudine di cose, raccoglierle e farle reagire. Come succede nel bambino che colleziona sassi, francobolli, farfalle e in un cosmo di cose apparentemente muto trova un ordine segreto, una costellazione di senso. Così insegna la fiaba:

Hans può trovare la strada nella foresta, seguendo le tracce dei sassolini che egli aveva accumulato nelle sue tasche […] Hans può prolungare la sua vita offrendo da tastare alla strega un ossicino di pollo (Rella 1984a, 43).

Eppure questo modello intepretativo, questo modo segreto di vedere il mondo, che crede che vi sia più o meno realtà in ciascun oggetto da cui è toccato, è per l’adulto inutilizzabile, in quanto invisibile, e può persino sembrare “inquietante, demoniaco e mostruoso” se studiato “con gli occhi della ragione astratta”. Cartesio reputa la sensibilità dell’infanzia un modello negativo da cui la ragione deve staccarsi per essere veramente ragione (“la prima e principale causa dei nostri errori sono i pregiudizi della nostra infanzia”, Cartesio, Opere filosofiche, III, 61). Nelle Risposte alle VI obiezioni Cartesio scrive di come lo spirito del bambino non sappia fare uso degli organi del corpo “ed essendovi troppo attaccato non pensava nulla senza di essi, così solo confusamente percepiva tutte le cose” (Opere filosofiche, II, 405) e nei Principi della filosofia di come “durante i nostri primi anni, la nostra anima o il nostro pensiero era sì fortemente offuscato dal corpo, da non conoscere nulla distintamente, benché percepisse molte cose assai chiaramente” (Cartesio, Opere filosofiche, III, 45).

Secondo Cartesio quindi il bambino “confusamente percepisce tutte le cose” e “percepisce molte cose assai chiaramente” (e si noti come, ancora una volta, il termine chiave sia ‘percezione’). Forse, continua Rella, la ferocia dell’attacco cartesiano alle immagini che abitano il mondo per il bambino non sarebbe comprensibile se non la si collocasse nell’epoca della rivoluzione scientifica, forse il più violento fendente inflitto agli statuti conoscitivi classici, l’epoca di “percezione acuta dell’impermanenza delle cose”. Come affrancarsi, dunque, dallo stato allucinatorio dell’infanzia, che trova in ciascun oggetto una intera realtà? Come può la ragione emergere di fronte alla “impermanenza delle cose”? “La ragione”, scrive Franco Rella, “si sviluppa attraverso l’elaborazione del lutto, trasformandolo in un nuovo e positivo rapporto con il mondo” (Rella 1984, 46).

È nel cuore stesso della metamorfosi che “si leva la parola che dice le cose che mutano, che aiuta le cose a mutare, strappandole dalla loro rigida immobilità cadaverica” (Rella 1984b, 130). Come leggiamo ne La Tempesta di Shakespeare:

Of his bones are coral made;
Those are pearls that were his eyes:
Nothing of him that doth fade
But doth suffer a sea-change
Into something rich and strange.
(W. Shakespeare, The Tempest, I, 2)

Ariel canta l’immagine di un cadavere che decomponendosi diventa gioiello e ci mostra in nuce un processo trasformativo, che Eliot accoglierà nella sua Terra desolata, riprendendo la figura per descrivere il marinaio fenicio annegato “those are pearls that were his eyes. Look!” (T.S. Eliot, The Wasteland, v. 48): è l’immagine del corpo putrescente che nel nuovo movimento del suo marcire trova il colore di una nuova vitalità, svela una rinnovata cangianza. Così come in Joyce:

A corpse rising saltwhite from the undertow, bobbing landward, a pace a pace a porpoise. There he is. Hook it quick. Sunk though he be beneath the watery floor. We have him. Easy now. Bag of corpsegas sopping in foul brine. A quiver of minnows, fat of a spongy titbit, flash through the slits of his buttoned trouserfly. God becomes man becomes fish becomes barnacle goose becomes featherbed mountain. Dead breaths I living breathe, tread dead dust, devour a urinous offal from all dead. Hauled stark over the gunwale he breathes upward the stench of his green grave, his leprous nosehole snoring to the sun. A seachange this, brown eyes saltblue (J. Joyce, Ulysses, Paris 1922, 49-50).

Questa continua oscillazione delle cose “fra l’essere e il nulla, che imprime al mondo e alla realtà quel suo ritmo vertiginoso, sempre sulla linea di confine fra apparenza e inapparenza” è però ostile a chi, come il bambino, “preferisce piuttosto congelare le cose in […] un gesto demoniaco” che le arresta “sulla sponda colorata della vita, l’occhio colmo di immensità e la lingua paralizzata” (Rella 1984, 46). È il melanconico che, dice Walter Benjamin, “abbraccia le cose morte nella propria contemplazione per salvarle”:

La fedeltà è invece del tutto adeguata solo nel rapporto fra l’uomo e le cose. Esse non conoscono una legge più alta, e la fedeltà non conosce alcun oggetto al quale appartenere in modo più esclusivo che al mondo delle cose. Questo la evoca sempre intorno a sé, e ogni premio alla fedeltà si circonda dei frammenti del mondo cosale come degli oggetti a essa più appropriati e conformi. Impacciata e senza motivo essa esprime a suo modo una verità per la quale naturalmente tradisce il mondo. La melanconia tradisce il mondo per amore della conoscenza. Ma il suo ostinato sprofondarsi solleva le cose morte nella sua contemplazione per salvarle (W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, in Opere complete, vol. 2, 194).

Come ci ricorda Franco Rella, Walter Benjamin è per Hanna Arendt “un pescatore di perle” che si cala in profondità per trovare qualcosa di “ricco e strano” nella oscurità abissale del mondo. Eppure:

il pescatore di perle non è felice. Il suo è un carattere saturnino, melanconico. I frammenti che egli strappa al corso del tempo, come i francobolli negli album dei bambini, non sono che un pulviscolo, la polvere che una perduta immagine lascia dietro di sé, unica e grigia testimonianza di una totalità irraggiungibile (Rella 1984b, 46).

Nel tentativo del malinconico di trarre in salvo dall’impermanenza quelle immagini “attraverso cui ama il mondo”, esse stesse diventano cose. Perché il gesto del collezionista sia realmente salvifico, bisognerebbe che egli potesse collezionare il mondo intero. Eppure la sua pratica, che è quella dell’avere, è costitutiva del mondo stesso, perché è l’oggetto a determinarsi “in base al fatto che esso deve essere posseduto, seppure in via trascendentale, nella coscienza” (W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, in Opere complete, vol. 2, 71).

Il segreto ordine della collezione di farfalle di un bambino (o della collezione di immagini del filosofo) è quindi azione mostruosa, pericolosa e spuria. “Tradisce il mondo” ma è necessaria: è il pericoloso processo della conoscenza.

Scritti di Franco Rella citati nel contributo
  • Rella 1978
    F. Rella, Il mito dell’altro, Milano 1978.
  • Rella 1984a
    F. Rella, Metamorfosi. Immagini del pensiero, Milano 1984.
  • Rella 1984b
    F. Rella, Il doloroso amore: nota su Umberto Saba, “Atti della Accademia Roveretana degli Agiati” (1984), 125-135.
  • Rella 2009
    F. Rella, Figure nel labirinto. La metamorfosi di una metafora, in P. Eisenmann, La fine del classico, Milano 2009.
English abstract

The present contribution explores the multi-layered significances that Franco Rella’s reflections on the visible, as often connected to the category of ‘metamorphoses’, assume with specific reference to his volume Immagini del pensiero (1984).

keywords | Franco Rella; Walter Benjamin; Remo Bodei; Descartes; Shakespeare; Immagini del pensiero.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista